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Cos’è il realismo depressivo?

di Gianluca Didino

C’è un aspetto che mi colpisce sempre quando mi imbatto nel tema del “realismo de-
pressivo” e che la metafora della pillola nera (qui ben discussa da Claudio Kulesko)
chiarisce perfettamente: l’idea che il pessimismo sia un modo più autentico di guarda-
re alla realtà, una prospettiva più “oggettiva” sul Reale. Il depresso vedrebbe il mon-
do per quello che è, senza illusioni. In questo senso il ricorso al meme di Matrix è si-
gnificativo: ingerire la pillola nera significherebbe “risvegliarsi” a una realtà più pro-
fonda — la consapevolezza, cioè, che il mondo è un luogo orrendo e che non possia-
mo fare nulla per renderlo migliore.
Questa idea è alla base della locuzione stessa di “realismo depressivo”, coniata nel
1979 da due psicologhe statunitensi, Lauren Alloy e Lyn Ivonne Abramson, per de-
scrivere la presunta capacità dei soggetti depressi di rapportarsi in maniera più reali-
stica nei confronti del mondo rispetto ai non-depressi. Da un lato infatti, aspettandosi
sempre il peggio, essi sarebbero meno portati a sottovalutare i rischi, mentre dall’altro
sarebbero capaci di rapportarsi alla realtà in maniera più “distaccata”, senza edulco-
rarla.
Infine, come scrive ancora Kulesko in un articolo dedicato al tema del realismo de-
pressivo e alle sue conseguenze filosofiche, il modello di Alloy e Abramson attribui-
rebbe alla depressione anche una dimensione etica, poiché
Ciò che […] il realismo depressivo è riuscito a mostrare è come il depresso, a diffe-
renza dei non-depressi, sia in grado di attribuirsi responsabilità laddove ne ha effetti-
vamente e come, all’inverso, sia in grado di individuare le situazioni poste fuori dal
proprio controllo o da quello di chiunque altro.
Per Alloy e Abramson il realismo depressivo era un’ipotesi di lavoro nel campo dei
disturbi dell’umore, ma se la locuzione ha incontrato tanta fortuna negli ultimi anni
ciò si deve al fatto che essa condivide un assunto con una corrente di pensiero tornata
prepotentemente in voga nell’ultimo decennio, quella del pessimismo filosofico. Rea-
lismo depressivo e pessimismo filosofico concordano su un punto: il fatto che la
realtà delle persone “sane” sarebbe illusoria, una finzione volta a nascondere la terri-
bile verità del mondo e che il depresso sarebbe in grado di “smascherare” riuscendo a
vedere la realtà per ciò che è. Come scrive Ben Jeffery nelle prime pagine del suo An-
ti-matter: Michel Houellebecq and Depressive Realism (Zero Books, 2011):
Ciò che tutte le varietà di pessimismo hanno in comune è il principio per cui la verità
sia poco desiderabile — che l’infelicità coincida con la perdita dell’illusione e che,
all’opposto, la felicità sia una forma di fantasia o di ignoranza.
O, nelle parole di William James, che Jeffery chiama in supporto:
Non c’è dubbio che la salute mentale sia una dottrina filosofica inadeguata, perché
gli orrori che si rifiuta di prendere in considerazione sono una porzione non trascu-
rabile della realtà; e potrebbero anche essere la chiave migliore per comprendere il
significato della vita, e forse gli unici strumenti per accedere a un livello più profon-
do della realtà.
L’argomento di James, che è un tipico approccio “blackpilled” alla vita ante-litteram
(il brano è tratto da Le varietà dell’esperienza religiosa del 1902), è stato ripreso re-
centemente in chiave evoluzionistica dallo psicologo cognitivo David Hoffmann, che
ne L’illusione della realtà (Bollati Boringhieri, 2020) si rifà proprio al meme di Ma-
trix per spiegare come le nostre percezioni non sono altro che un’illusione creata dal
cervello per garantire la sopravvivenza della specie: non percepiamo ciò che è “rea-
le”, ma ciò che ci aiuta maggiormente a sopravvivere nel mondo. Il corollario di que-
sta tesi, naturalmente, è che se vedessimo la realtà per quel che è non saremmo in gra-
do di “funzionare” correttamente: saremmo cioè allo stesso tempo più lucidi e depres-
si.
Non c’è dubbio che l’idea del realismo depressivo contenga una qualche verità pro-
fonda. Un buon esempio viene fornito da Francesco D’Isa, che nel saggio dedicato al-
la gestione della morte pubblicato in Trilogia della catastrofe (Effequ, 2020) dimostra
come sia proprio l’incapacità della nostra specie di fare i conti con l’inevitabile fine
di tutte le cose ad averci portato sull’orlo dell’estinzione: se per gestire la morte (indi-
viduale e della nostra specie) non avessimo bisogno di continuare a produrre, inquina-
re e riprodurci, oggi non ci troveremmo in un mondo al collasso e sovrappopolato, o
quantomeno avremmo gli strumenti psicologici per fare i conti con le conseguenze
delle nostre azioni — l’assunzione di responsabilità di cui parla Kulesko.
Quello di D’Isa è un corollario della teoria del realismo depressivo: una valutazione
più realistica del mondo, cioè una valutazione che ne includa i lati oscuri della morte
individuale e collettiva, sarebbe il miglior punto di partenza per affrontare una cata-
strofe che abbiamo provocato noi stessi e che sfugge in gran parte al nostro controllo.
Su questo punto concordo senza dubbio con D’Isa. Se dovessi firmare per un mondo
più depresso ma più cosciente delle proprie azioni non esiterei un attimo, quantomeno
perché sarebbe la scelta più responsabile per la collettività.
Nelle mani dei filosofi pessimisti, però, il discorso sul realismo depressivo fuoriesce
dai confini tracciati da Alloy e Abramson per cui la depressione sarebbe uno strumen-
to utile di rapportarsi al mondo per diventare una teoria generale dell’esistenza che fa
dell’orrore del Reale la verità ultima della condizione umana. L’aspetto interessante è
qui la sovrapposizione di scienza e istanze dal carattere mistico: il pessimismo filoso-
fico contemporaneo affonda le radici nel pensiero di Schopenhauer e nella sua lettura
della filosofia orientale (e specificamente Buddhista), ma si alimenta delle più recenti
scoperte delle neuroscienze, della psicologia cognitiva e dell’evoluzionismo.
In questo modo la “verità rivelata” dell’orrore del Reale assume carattere di “verità
oggettiva” scientificamente dimostrabile, come succede ad esempio proprio in Houel-
lebecq, maestro del realismo depressivo e autore di culto della cultura Incel nella qua-
le si è inizialmente diffuso il meme della pillola nera: nella visione ultra-materialista
e darwiniana dello scrittore francese, al cuore dell’esistenza non ci sarebbe altro che
una lotta per il predominio sessuale, lotta dalla quale gli emarginati (come l’autore)
sono esclusi, mentre tutto ciò che “edulcora” questa dolorosa verità non sarebbe altro
che una patetica illusione.
In Houellebecq come in altri pensatori pessimisti, insomma, la gnosi oscura offerta
dalla pillola nera, con il significato religioso che porta con sé, viene suffragata dalla
ragione scientifica: il pessimismo smette di essere un’ipotesi filosofica tra le tante per
trasformarsi nella verità ultima rivelata al filosofo che non teme di spingere la propria
lucidità fino alle estreme conseguenze.
Ho riflettuto per la prima volta su questo punto quando, cinque o sei anni fa, lessi La
cospirazione contro la razza umana di Thomas Ligotti, un libro che mi ha lasciato
sentimenti contrastanti.
Se ammiravo allora e continuo ad ammirare oggi l’opera di Ligotti, il cui valore lette-
rario è certamente paragonabile a quello di un Lovecraft o un Poe, qualcosa nell’ope-
razione di erigere il pessimismo filosofico a sistema mi insospettiva. Da un lato la
Cospirazione può essere letta come un breviario “letterario” di pensiero ultra-pessimi-
sta, ma dall’altro è anche un tentativo di sostenere la verità del punto di vista di Li-
gotti: la tradizione pessimista sarebbe una sorta di avanguardia del pensiero in posses-
so di un messaggio scomodo ma, se si ha il coraggio di guardarlo lucidamente, incon-
futabile (a sostegno della tesi vengono infatti portati argomenti che spaziano dalle
neuroscienze ai racconti delle esperienze di quasi-morte). La postura di Ligotti è quel-
la di chi, dal cuore nero dell’abisso, comunica al lettore una scioccante verità.
Uno degli aspetti che mi insospettivano era il fatto che la teoria di Ligotti, un maschio
occidentale bianco, fosse fondata sulle idee di maschi occidentali bianchi — Thomas
Metzinger, Peter Wessel Zappfe, Horace McCoy e ovviamente Arthur Schopenhauer.
È vero, come abbiamo visto, che il pessimismo paga un debito alla lettura schopen-
haueriana del Buddhismo, ma è anche vero che Schopenhauer fraintese in gran parte
l’insegnamento del Buddha, traducendone in Occidente una versione quantomeno
parziale (torneremo su questo punto più avanti). Ho letto cose meravigliose scritte
sulla Cospirazione ma tutte da maschi bianchi. E nel momento in cui un pensiero for-
mulato e appoggiato esclusivamente da maschi bianchi si pone come verità, bè, un
campanello d’allarme dovrebbe senza dubbio suonare.
Ho passato qualche mese a riflettere in background sulla sensazione contrastante co-
municatami dal libro di Ligotti, poi mi sono imbattuto nel lavoro di un filosofo che
proprio della Cospirazione aveva scritto l’introduzione alla prima edizione nel 2010:
Ray Brassier.
Nel suo lavoro più famoso, Nihil Unbound: Enlightenment and Extinction (McMil-
lian, 2007), Brassier, che è stato uno dei quattro fondatori del Realismo Speculativo
(un fondatore riluttante, proprio come una decina d’anni prima era stato un accelera-
zionista riluttante), sostiene una tesi che ancora oggi trovo affascinante: il nichilismo
di cui è pervasa la filosofia contemporanea sarebbe la conseguenza necessaria della
modernità del pensiero occidentale, quel movimento cominciato con l’Illuminismo e
al centro del quale si trova il potere “distruttivo” della ragione. Il nichilismo insomma
sarebbe il frutto del weberiano disincanto del mondo, e in quanto tale non andrebbe
rifuggito — tentando, dice Brassier, un improbabile “reincanto” del mondo — ma piut-
tosto spinto alle proprie estreme conseguenze per sfruttarne fino in fondo le possibi-
lità speculative.
Il nichilismo liberato dai freni ci porta a vedere ciò che siamo: esseri privi di signifi-
cato e destinati all’estinzione. Questa consapevolezza, abbacinante ma necessaria,
apre le porte a un nuovo sguardo sul mondo, uno sguardo non più antropocentrico, ra-
zionale e per così dire “esterno” rispetto all’umanità. Se lasciamo libera la ragione,
questa nostra facoltà sostanzialmente antiumana, possiamo vedere il vero volto del
Reale.
Uno degli aspetti interessanti della proposta di Brassier è quello di porre il problema
del nichilismo in chiave storica: nella lettura del filosofo britannico il nichilismo è la
necessaria conseguenza dell’Illuminismo, il suo frutto nero. Nel momento in cui il
pensiero occidentale viene a coincidere con il razionalismo, lasciandosi alle spalle le
tradizioni magico-esoteriche ancora fertili tra la fine del Cinquecento e l’inizio del
Seicento, nel momento in cui la ragione viene eletta a unico strumento degno dell’in-
dagine filosofica e la scienza comincia ad assumere il ruolo centrale che avrà nel cor-
so di tutta la modernità, relegando ai margini facoltà umane come i sensi, l’intuizione
o l’emozione, nel momento cioè in cui il compito della filosofia diventa quello di
frantumare e “disincantare”, è evidente come si siano già poste le basi per un percor-
so al cui termine non rimarranno che le ceneri, gli atomi e il nihil che li separa.
L’horror filosofico di Ligotti allora è “filosofico” nel senso più pieno del termine, in
quanto incarna l’oscurità alla base del pensiero moderno occidentale: è proprio la sto-
ria secolare del razionalismo a giustificare lo shift dalla pillola nera come una delle
tante realtà possibili a la realtà oggettiva / il Reale. Il fatto che pensatori come Bras-
sier o Ligotti giungano alle conseguenze a cui giungono è una forma di coerenza: at-
traverso l’ultra-nichilismo e l’ultra-pessimismo vediamo il teschio ghignante che si
nasconde sotto l’apparenza luminosa e progressiva del progetto della modernità.
“Coerente” significa giungere a conclusioni che non contraddicono le premesse da
cui si è partiti ma, ovviamente, non è un giudizio su quelle premesse. Anzi, come di-
mostrano i paradossi della logica, la “coerenza” può portare a conclusioni del tutto as-
surde. Ad esempio se le premesse sono viziate da un bias di partenza i risultati del ra-
gionamento verranno invalidati.
Le premesse da cui parte il realismo depressivo sono un chiaro esempio di bias razio-
nalista: nell’idea di Alloy e Abramson per cui all’“assenza di emozioni” (o, in termini
più tecnici, al disinvestimento libidico) tipico della depressione corrisponderebbe una
maggiore “oggettività” è implicita l’idea che la ragione sia lo strumento migliore che
abbiamo per vedere il mondo “così com’è”. Ciò che questo discorso dà per scontato è
che la depressione sarebbe una sorta di punto zero della mente, cioè la mente “così
come sarebbe” se non fosse “alterata” dai processi chimici che provocano le emozioni
(una prospettiva condivisa da Ligotti, come vedremo).
Questo approccio è coerente con il paradigma cognitivista a cui fanno capo Alloy e
Abramson e che vede la mente come un “computer” da far funzionare nella maniera
più efficiente possibile, ma è arbitrario: si potrebbe facilmente sostenere, ad esempio,
che lungi dall’essere il risultato dell’assenza di emozioni la depressione è essa stessa
un’emozione, e dunque come uno stato a sua volta “alterato” della coscienza tanto
quanto, ad esempio, il rapimento estatico. Se così fosse, ovviamente, lo sguardo del
depresso non sarebbe affatto più “realistico” dello sguardo del non-depresso.
Ma anche ammettendo che la depressione comporti una qualche forma di maggiore
“lucidità”, perché uno sguardo più “lucido” dovrebbe essere preferibile rispetto a uno
sguardo meno “lucido”?
Semplicemente perché per Alloy e Abramson, che condividono le premesse del pen-
siero filosofico-scientifico razionalista, la “lucidità” è sempre preferibile alla sua as-
senza, poiché in questo quadro concettuale “lucidità” coincide con “conoscenza”. An-
che qui si tratta di un assunto arbitrario e in realtà largamente minoritario nella storia
del pensiero umano, nel corso del quale per millenni aspetti come le pratiche medita-
tive e corporali, i riti estatici, l’intuizione mistica e le pratiche magiche hanno giocato
un ruolo altrettanto se non più importante della ragione calcolatrice.
Allo stesso modo, il pensiero di Brassier e Ligotti può essere relativizzato sostenendo
che se il nichilismo è la “necessaria conseguenza” dell’Illuminismo allora le premes-
se dell’Illuminismo dovevano essere errate, o quantomeno molto parziali. D’altra par-
te lo stesso procedimento che porta a interpretare la depressione come un outcome po-
sitivo è paradossale: se come sostiene Hoffmann le emozioni hanno lo scopo di far
progredire la specie, è intuitivo immaginare che l’emergenza della depressione stia a
indicare che qualcosa non funziona, che essa sia cioè una sorta di indicazione volta a
farci cambiare rotta. Accelerare la ragione calcolatrice fino a farne una facoltà anti-
umana, come fa Brassier, è invece un’operazione che fuoriesce dal terreno dell’utile
per entrare in quello del misticismo: la ragione deve essere lasciata libera per compie-
re il suo telos anche se a farne le spese saremo noi umani.
Questa ambiguità argomentativa è abbastanza evidente proprio nei passi della Cospi-
razione dedicati al realismo depressivo. Per Ligotti l’assenza di significato delle no-
stre esistenze è la realtà che si nasconde sotto l’illusione, una realtà a cui si può acce-
dere attraverso la pillola nera della lucidità totale e che conduce per forza di cose
all’orrore. Ligotti fa coincidere l’illusione con l’apparato emotivo (inteso secondo il
modello medico dominante in Occidente come pura funzione chimica) e la verità che
si nasconde sotto di essa con l’atteggiamento del depresso, il cui investimento libidi-
co è stato ritirato dal mondo, che vedrebbe dunque “per quello che è”:
Questa è la grande lezione che impara il depresso: niente al mondo è intrinsecamente
irresistibile. Qualunque cosa ci sia davvero «là» non ha il potere di proiettarsi come
esperienza affettiva. È tutta una faccenda vacua dal prestigio unicamente chimico.
Niente è buono o cattivo, desiderabile o indesiderabile o chissà cos’altro, tranne ciò
che è reso tale dai laboratori interiori che producono le emozioni di cui ci nutriamo.
E nutrirsi di emozioni è vivere in maniera arbitraria, inaccurata: attribuire un signi-
ficato a ciò che non ne è provvisto.
E continua poco dopo:
Basta uno sguardo all’esistenza umana per avere la prova che la nostra specie non si
libererà mai dal giogo dell’emozionalismo che la tiene ancorata alle allucinazioni.
[…] Scegliere la depressione sarebbe scegliere di chiamarsi fuori dall’esistenza così
come siamo consapevoli di conoscerla.
Per concludere infine:
Una brutta depressione […] fa evaporare le emozioni e ti riduce a guscio di persona
abbandonata in un panorama brullo. Le emozioni sono il sostrato dell’illusione di es-
sere un qualcuno tra altri qualcuno, oltre che della sostanza che vediamo nel mondo,
o crediamo di vedere. Non conoscere questa verità-punto zero dell’esistenza umana è
l’equivalente del non conoscere nulla di nulla.
Qui Ligotti tocca due punti fondamentali, quello del desiderio e quello del senso. Af-
frontiamo prima il secondo. Il senso, dice Ligotti, viene attribuito al mondo dalle
emozioni, ma poiché le emozioni non sono portatrici di un valore “reale” ma sono
semplicemente illusioni generate chimicamente, il risultato della produzione di ormo-
ni operata dai neurotrasmettitori del nostro cervello, ciò che capita quando questi neu-
rotrasmettitori vanno in tilt e ci ritroviamo depressi è che diventiamo “lucidi”, capaci
di vedere il mondo “per quello che è”, cioè privo di senso.
Con questa argomentazione Ligotti sposa in pieno, e verrebbe da dire piuttosto acriti-
camente, il paradigma medico della psichiatria occidentale. In questo lo scrittore di
Detroit è coerente: poiché niente ha intrinsecamente senso, nemmeno la depressione
ne ha, ma è solo il risultato di uno squilibrio chimico nel cervello. Questo approccio
riduzionista, figlio del razionalismo e del materialismo occidentali per cui ciò che non
può essere dimostrato scientificamente non esiste, viene spinto da Ligotti alle proprie
estreme conseguenze: se per la scienza occidentale siamo “poco” (il prodotto di pro-
cessi chimico-fisiologici) per lo scrittore non siamo “niente”, un “niente” che però – e
qui sta l’orrore della nostra condizione – finge di essere “qualcosa”:
Ci muoviamo tra gli esseri viventi da marionette naturali con la testa vuota. […]
Quelle marionette, marionette umane, siamo noi. Siamo imitatori folli dell’aggirarsi
naturale in cerca di una pace che non avremo mai.
“Imitatori folli dell’aggirarsi naturale” — l’espressione è meravigliosa. Eppure è an-
che ambigua: se stiamo imitando qualcosa, cosa stiamo imitando, esattamente?
Seguiamo il ragionamento:
Noi crediamo di essere persone, ma in realtà siamo solo marionette, zombie mossi dal
nostro apparato chimico, privi di un Io stabile, un’illusione generata dalle nostre sina-
psi cerebrali. Il senso che attribuiamo alle cose è anch’esso prodotto di quegli stessi
processi chimici (le emozioni), senza i quali vedremmo il niente al centro del nostro
essere. Privati delle emozioni possiamo vedere come le marionette sembrino soltanto
persone, le imitino senza veramente esserlo. E qui l’argomentazione di Ligotti entra
in una nuova dimensione.
Perché se ciò che crediamo essere una persona è in realtà una marionetta, cos’è allora
una persona? Cos’è questa cosiddetta “persona” che imitiamo senza riuscire mai a es-
sere veramente? Perché, soprattutto, non essere “persone”, quest’entità così poco defi-
nita da essere inafferrabile, dovrebbe essere un problema?
Immaginiamo di essere, effettivamente, marionette: che il nostro mondo sia fatto di
marionette, che i nostri affetti siano gli affetti di marionette, che il senso che diamo
alle cose sia il senso attribuito da marionette. Siccome siamo marionette e non potre-
mo mai essere nient’altro che questo, perché lamentare la nostra condizione di mario-
nette? In fondo tutta la storia della filosofia, tutta la letteratura, tutta la civiltà è stata
costruita da marionette per marionette e ha un significato per le marionette che siamo.
L’horror filosofico di Ligotti, com’è noto, si gioca tutto su una sorta di “terremoto on-
tologico” — la eeriness che proviamo nel comprendere di essere niente quando crede-
vamo di essere qualcosa. Ma in che senso non essere persone ma marionette dovrebbe
costituire una caduta ontologica, visto che non c’è stata una vera caduta, perché que-
sto siamo e questo sempre saremo?
Mettiamola così: se chiamassimo “persone” ciò che Ligotti chiama “marionette” non
avremmo semplicemente una descrizione accurata del mondo di tutti i giorni, una de-
scrizione che non ha niente di perturbante, niente dell’orrore del Reale?
Se l’orrore del Reale è provocato da questo sguardo sulla nostra condizione che viene
dall’esterno, se l’orrore è il lampo di consapevolezza di una “persona” che osserva il
suo essere “marionetta”, chi è la “persona” che osserva la “marionetta”?
Di chi è questo sguardo radicalmente Altro?
Se la condizione di essere marionette deriva dall’intrinseco non-senso della vita osser-
vata “per quello che è”, e le marionette sono quindi quegli esseri intrinsecamente pri-
vi di senso, se ne deduce che le persone che imitano devono possedere un senso in-
trinseco.
Chi sono dunque questi esseri soprannaturali che osservano le marionette da una di-
mensione intrinsecamente dotata di senso? Se chiamassimo “persone” ciò che Ligotti
chiama “marionette”, allora non dovremmo chiamare “Dio” ciò che Ligotti chiama
“persona”?
Il problema mi sembra tutto qui, in fondo: l’intrinseca assenza di senso del mondo
non è un problema filosofico se non in quanto manifestazione di una caduta ontologi-
ca da una dimensione intrinsecamente dotata di senso; e l’unico essere in grado di for-
nire un senso intrinseco al mondo, di giustificare il mondo, è ovviamente Dio . In que-
sto senso è ancora evidente come i nichilisti siano figli di Nietzsche, ma soprattutto è
evidente come i nichilisti e i pessimisti siano figli della religione – come nel pessimi-
smo filosofico la dimensione religiosa sia ancora centrale nonostante oggi venga am-
mantata della presunta “oggettività” delle scienze.
Possiamo osservare questa dinamica in ogni forma di pessimismo filosofico: in Love-
craft che inventa divinità invertite per riempire il vuoto lasciato dagli dei in un mondo
sempre più materialista, in Leopardi che prega il demiurgo Arimane di togliergli la vi-
ta prima dei trentacinque anni, in Brassier che pone il telos della ragione prima della
sopravvivenza della specie, divinizzandola. Possiamo vederlo in Houellebecq, nei cui
romanzi, come dimostra Ben Jeffery, l’unica illusione che resiste è l’amore, un amore
che nei suoi libri viene rappresentato con i toni svenevoli e ingenui di un romanzetto
rosa: tutte le donne di Houellebecq sono puttane tranne quelle che lo amano, che è
una versione nemmeno molto raffinata di dire che tutte le donne sono puttane tranne
la mamma. Siamo sempre in un paradigma della caduta dal senso al non-senso, in un
paradigma della morte di Dio. Evidentemente la fiamma della religione brucia ancora
sotto le ceneri di questo pianeta.
Questo è l’aspetto in cui il pessimismo filosofico palesa maggiormente i suoi debiti
nei confronti del pensiero orientale, ma anche quello in cui si marca maggiormente la
distanza di un secolare fraintendimento: l’insegnamento Buddhista, che nella tradu-
zione di Schopenhauer forma le basi del moderno pessimismo filosofico, si confronta
da millenni con l’assenza intrinseca di senso senza per questo trasformarsi in una filo-
sofia pessimista; eppure è proprio su questo punto (nello specifico sull’interpretazio-
ne delle prime due Nobili Verità Buddhiste) che Schopenhauer fondò la sua visione
ultra-pessimista del mondo.
Il discorso è ancora attuale oggi. Sempre Kulesko, nel suo articolo sul movimento In-
cel, cita la definizione di “black pill” fornita dall’Urban Dictionary, alla fine della
quale leggiamo questa riga: “Notoriamente, Buddha è un individuo che ha assunto la
pillola nera”.
Fino a che punto possiamo dire veramente che “Buddha è un individuo che ha assun-
to la pillola nera”?
Altrove ho provato a tracciare, molto sommariamente, i rapporti che legano pessimi-
smo occidentale e Buddhismo; il tema del “dark Buddhism” richiederebbe ben altre
investigazioni (al momento per quel che so il termine è applicato soltanto al lavoro di
Morgan Rosenberg, che tenta una complessa ibridazione tra lo Zen e l’Oggettivismo
di Ayn Rand) ma un punto fermo può essere sicuramente messo: se è vero che Sidd-
harta Gautama assume la pillola nera al momento della sua illuminazione, altrettanto
indubbio è questo “dark enlightenment” rappresenta soltanto il primo passo del suo
insegnamento, la prima — e parzialmente la seconda — delle quattro Nobili Verità che
costituiscono il fondamento del suo pensiero. Portandone il pensiero in Occidente,
Schopenhauer si è soffermato sull’aspetto pessimistico del Buddhismo ignorandone il
percorso soteriologico.
In realtà, è altrettanto assurdo negare la radice “oscura” dell’illuminazione del Budd-
ha (come vuole la vulgata New Age per cui il Buddhismo sarebbe una filosofia incon-
dizionatamente life-affirming) quanto vedere il Buddhismo come un antenato dell’ul-
tra-pessimismo moderno. Molto chiaramente il Buddhismo si propone come una “via
di mezzo” tra gli estremi dell’affermazione e del rifiuto della vita. Ciò che propone è
il non-attaccamento, non l’autodistruzione.
Traducendo in Occidente un pensiero il cui framework concettuale era profondamen-
te diverso, perché privo di una figura divina centrale che giustificasse l’esistenza del
mondo, Schopenhauer ha visto una caduta ontologica nel Buddhismo laddove non
c’era o, meglio, laddove la caduta ontologica (raffigurata nell’uscita di Siddharta dal
palazzo e dal suo incontro con il dolore) era solo uno step in un percorso che sarebbe
andato ben oltre l’orrore del Reale.
Il fraintendimento Schopenhaueriano e la derivazione Buddhista spiegano anche co-
me mai nel discorso del realismo depressivo sia così marcato il sospetto nei confronti
del desiderio, che sulla scorta delle moderne neuroscienze viene interpretato come un
processo chimico in grado di generare l’“illusione” del senso.
Se questa è una traduzione scientifico-materialistica della Wille schopenhaueriana, è
impossibile non dedurne che nel rifiuto del desiderio (chimicamente ma anche social-
mente e culturalmente prodotto: pensiamo qui al discorso di Houellebecq sulla promi-
scuità sessuale occidentale e al suo rapporto con la mercificazione del corpo generata
dalla rivoluzione culturale degli anni Sessanta) vi sia una spinta mistica, cioè ancora
una volta religiosa: ma poiché Schopenhauer proveniva da una tradizione in cui il mi-
sticismo era quello cristiano della mortificazione della carne, il non-attaccamento
Buddhista si trasforma in Occidente in una vera e propria negazione del desiderio. In
questo senso potremmo perfino dire che il realismo depressivo è una risposta diame-
tralmente opposta, ma speculare, all’accelerazionismo: laddove il primo si sottrae al
desiderio, l’altro lo spinge fino al parossismo e al punto di rottura. Il problema rimane
però sempre lo stesso: trovare una via d’uscita al dolore provocato dall’attaccamento
alle cose del mondo.
Poiché nel Buddhismo non c’è caduta ontologica, non ci sono angeli che si trasforma-
no in demoni e un Eden perduto, quello Buddhista è un pensiero privo di una verità
ultima: lungi dall’essere una dimensione definitiva e stabile, la realtà mostrata a Sidd-
harta dall’assunzione della pillola nera non è che uno stadio di una mente in continua
evoluzione. Il Buddhismo è, nella sua essenza, la constatazione che niente è perma-
nente, nemmeno l’illuminazione del Buddha. Anzi, se si vuole raggiungere la pace
(una condizione a sua volta niente affatto data una volta per tutte) è necessario mette-
re in discussione anche il maestro stesso e la sua verità. Come recita un famoso detto
Zen: if you see the Buddha, kill the Buddha.
In questo modo l’orrore del Reale non è il punto di arrivo, ma il punto di partenza del
pensiero Buddhista. Come nel Bhavacakra, la ruota dell’esistenza nella quale si passa
incessantemente da uno stato all’altro, da un’allucinazione all’altra, nel Buddhismo la
constatazione che tutto è dukka, dolore e attaccamento, è solo uno stadio nella com-
prensione del mondo. Al centro di questa comprensione non c’è l’orrore, ma il niente:
al cuore del pensiero Buddhista si trova la constatazione che non siamo essenza ma
soltanto mutazione, una configurazione psichico-cellulare che si dà per un’istante e
poi si disperde perché nuove forme possano essere create.
Così, de-assolutizzando l’orrore (da dimensione ultima a dimensione inerente alla vi-
ta), questa prospettiva può permettersi un approccio decisamente più radicale rispetto
all’apparentemente radicalismo dell’ultra-pessimismo: di fatto l’orrore del mondo ri-
velato dalla pillola nera non è che uno stadio del percorso di “svelamento” del Reale
operato dall’illuminazione del Buddha. Il Buddhismo, per certi versi, è ciò che si tro-
va al di là dell’orrore del Reale, nel punto in cui anche l’orrore del Reale è stato inte-
riorizzato e superato. Il Nirvana è il raggiungimento del niente che non contiene nem-
meno il niente — la famosa preghiera di Hemingway (“nada nostro che sei nel nada”)
senza un Dio da pregare, nemmeno un Dio assente o rovesciato.
Mi pare significativo che nella Cospirazione Ligotti dedichi così poco spazio al
Buddhismo, soprattutto considerato quanti punti di contatto ci sono tra l’ultra-pessi-
mismo e il pensiero del Buddha (dall’essere non-persone, quasi un calco letterale del-
la dottrina dell’Anatta, al rapporto Illuminismo/illuminazione passando ovviamente
per Schopenhauer e per l’“estinzione” rappresentata dal Nirvana). Un silenzio che mi
sembra mostrare chiaramente quanto disagio ci sia da parte del pensiero occidentale
nel confrontarsi con le proprie origini orientali e con l’humus spirituale dal quale è
sorto.
Significativo, ma non strano. Mi tornano in mente le parole di Nagarjuna, il grande fi-
losofo Mahayana vissuto nel secondo secolo avanti Cristo, che una volta disse: “La
vacuità — han detto i Vittoriosi — è l’eliminazione di tutte le opinioni. Coloro poi per
cui anche la vacuità è un’opinione questi li han detti inguaribili”.

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