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FRONTESPIZIO

1
COLOPHON

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INDICE

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6
LA MINIERA DI BRANCA
NOTE D’ARCHIVIO
Fabrizio Cece

La ricostruzione della storia della miniera di Branca è una di quelle ope-


razioni culturali di ampio respiro che devono essere ancora realizzate.
Non potendo consultare l’archivio di coloro – privati e società – che nel
tempo hanno posseduto o coltivato la miniera, è stato necessario pro-
cedere alla consultazione del materiale archivistico disponibile. Inoltre,
una felice circostanza, ho portato la Pro Loco di Branca ad acquisire un
interessante plico di documenti, soprattutto ottocenteschi, di cui mi sono
servito per la redazione del presente contributo1.
Precisato subito che sulla storia della miniera di Branca esistono solo un
paio di contributi2, nelle note d’archivio che prenderò in esame metterò in
risalto circostanze e fatti poco noti ma di indubbio interesse storico e sociale.

La fase pioneristica: l’esplorazione, la scoperta e l’attivazione della


miniera (1875-1910)

Tra il 1874 e il 1890 alcune parti del territorio eugubino furono oggetto di
numerose ricerche minerarie per l’individuazione di prodotti da estrarre, so-
prattutto combustibili. Lo testimonia la lunga serie di permessi di esplorazio-

1
Collezione Pro Loco Branca. Tutta la documentazione ottocentesca citata nel presente contributo,
qualora non diversamente specificato, si conserva tra questo materiale.
2
M.V. Ambrogi, G. Belardi, Gubbio. Storia delle risorse e delle industrie, L’Arte Grafica, Gubbio,
2001, pp. 38-39, 74-77, 111, 176-179, 181-182; B. Cattaneo, F. Cece, Branca. Il Paese, Gubbio,
2016, pp. 170-182. A questi contributi, qualora non diversamente indicato, si rimanda per la
precedente bibliografia.

7
ne mineraria per la ricerca di ligniti e scisti bituminosi nei territori di Gubbio
e di Costacciaro. In particolare è possibile seguire gran parte delle richieste
avanzate da Francesco Micheletti e da suo figlio Tommaso3, fino alla riven-
dicazione e al riconoscimento ufficiale della scoperta di un giacimento mi-
nerario di lignite in grado di essere coltivato e sfruttato a livello economico.
Alcuni affioramenti di lignite si conoscevano già da tempo, soprattutto quelli
ubicati nei pressi di Colmollaro e di Galvana, a nord e a sud della «Collina di
San Martino», dove si scavò proficuamente tra il 1883 e il 1885.

I primi decreti prefettizi di esplorazione furono concessi a Francesco Mi-


cheletti nel 18754 (Figg. 1, 2). La fase esplorativa, tra proroghe e difficol-
tà varie, dovute anche alla carenza di fondi e finanziamenti, si protrasse
fino al giugno-luglio 1887 quando Micheletti e il suo nuovo socio, Giu-
seppe Molo, si accordarono con la Società Terni.
Ed è proprio in quella circostanza che l’ing. Celso Capacci redasse una
relazione tecnica sulla miniera che contiene indicazioni sia di natura
geologica, sia tecnica. La velocità di avanzamento dello scavo in quel
momento era di 1,40 m ogni 24 ore. «Ciò è abbastanza notevole data
l’imperizia dei minatori ed il genere di lavoro tutto manuale. Questo
consisteva nel fare in alto ed ai lati delle tracce con appositi arnesi (detti
strappaccetti sul posto) ed abbattendo poi con polvere e cunei i blocchi
così isolati».
Le trivellazioni, anche a notevole profondità, furono eseguite con appa-
recchi mossi a mano, prodotti della Ditta Buonariva di Bologna.
La lignite, «provata in larga scala nei gassogeni della Acciaieria di Terni
dette assai buoni risultati sempre però inferiori a quelli ottenuti colla
lignite di San Giovanni Valdarno e di Spoleto»5.
L’interesse della Società Terni a rilevare e mettere in produzione la mi-
niera di Branca è testimoniata da tutta una serie di atti tecnici, copia dei
quali è pervenuta fortunatamente fino a noi.
Di particolare interesse risulta la planimetria allegata alla pratica nella
quale sono sintetizzati i luoghi di trivellazione esplorativa, la posizione

3
Tommaso Micheletti sarà poi affiancato a Giuseppe Molo.
4
Sezione di Archivio di Stato di Gubbio (SASG), Archivio storico comunale di Gubbio, Carteggio,
b. 225, tit. XI, art. 6; ibid., b. 245, tit. XI, art. 6.
5
Questo, lo preciso subito, fu uno dei limiti della ignite eugubina.

8
dei banchi di lignite conosciuti fino a quel momento, le alluvioni recenti
e, ovviamente, i confini del bacino di ricerca che aveva le gallerie e i pozzi
principali tra Colmollaro e Galvana (Figg. 3, 4).
Il 28 aprile 1888 la società «Alti forni, fonderie ed acciaierie di Terni»
ottenne il decreto ministeriale che riconosceva la scoperta della miniera.
Tommaso Micheletti e Giuseppe Molo si accordarono definitivamente
con la prestigiosa società.
Due anni e mezzo dopo, precisamente il 22 ottobre 1890, il Prefetto di
Perugia informò il sindaco di Gubbio che Micheletti e Molo avevano
avviato la pratica «per ottenere la concessione della miniera di lignite da
essi esplorata e con scoperta e concessibile nel territorio del Comune di
Gubbio e precisamente nella regione denominata Branca Galvana».
Dopo quindici anni di indagini e ricerca di finanziatori la cosa era fatta!
Da questo momento preciso cessarono le richieste di ulteriori esplorazio-
ni minerarie in altre zone del territorio di Gubbio. Tali richieste ripren-
deranno soltanto nel 19036.
Nel frattempo una spinta fondamentale a tutta la futuribili iniziativa
industriale fu data dall’apertura della Ferrovia dell’Appennino Centrale
(FAC) inaugurata il 15 agosto 1886.
Lo stesso Guido Bonarelli, in una sua nota pubblicazione, ricostruì la
storia di questi primi anni della miniera di Branca inserendo questa im-
portante considerazione:

Qui è bene notare che la Lignite di Gubbio è di qualità scadente spe-


cialmente perché, essendo costituita di graminacee e cannucce, non è
compatta. Questo fatto però non si verifica in tutto quanto il banco. Si è
invece constatato che più ci interniamo nel banco e più la lignite diventa
compatta e buona. Questa potrebbe anche servire per combustibile per
le locomotive della ferrovia Arezzo Fossato (...). In questo e in altri modi
potrebbe essere utilizzata la lignite di Galvana7.

Per mettere in produzione la miniera di Branca occorrevano però grandi


capitali. L’ing. Celso Capacci, della Scuola Nazionale Superiore delle Mi-

6
Archivio Storico del Comune di Gubbio (ASCG), Carteggio amministrativo, b. 127, tit. XI, art. 6.
7
G. Bonarelli, Il territorio di Gubbio. Notizie geologiche, II ed., Gubbio, Tip. Vispi & Angeletti, 1979,
pp. 46-47.

9
niere di Parigi, fu nominato da Micheletti e Molo loro intermediario per la
vendita o per la cessione della miniera. Tra il 1891 e il 1892 l’ing. Capacci
si diede molto da fare contattando, per esempio, il principe Torlonia8 e il
Credito Agrario di Foligno.
Nel frattempo, visti gli scarsi risultati conseguiti nel reperimento dei
ondi, il Ministero, con suo decreto del 22 giugno 1891, sospese la con-
cessione definitiva a Micheletti e Molo in quanto i due non erano stati in
grado di reperire le garanzie finanziarie per la coltivazione delle miniera
e per garantire i terzi da eventuali danni. Tale somma era stata stimata
inizialmente il £ 500.00, poi ridimensionata a £ 200.000.
Anche l’iniziale impegno della Società Terni venne meno per la “tremenda
crisi che grava tutte le industrie d’Europa e specialmente della nostra Ita-
lia”. Non si riusciva, insomma, a trovare capitali da investire. Per questa
ragione la Terni abbandonò l’iniziativa della miniera di Branca-Galvana
che ritornò in tal modo nel pieno possesso e gestione di Micheletti e Molo.
Trascorsero alcuni anni e la situazione si fece ancora più drammatica.
Il 28 maggio 1903 il Ministero dell’Agricoltura, Industrie e Commercio
dichiarò decaduti Micheletti e Molo «da ogni diritto di preferenza alla
concessione della miniera anzidetta».
Il 6 giugno 1903 fu pubblicato il manifesto che dichiarava concedibile la
miniera di Branca Galvana.
Nel 1907 la svolta. La ditta Luigi dell’Orso di Foligno rilevò la miniera
attraverso la società «Miniere Lignitifere Riunite» che aveva un capitale
di tre milioni di lire. Possedeva inoltre i mezzi e i requisiti necessari per
coltivare la miniera.
Con Regio Decreto 19 novembre 1907 la miniera, denominata Bran-
ca-Galvana, dell’estensione di 362 ettari – 3,62 kmq – fu concessa alla
ditta Luigi dell’Orso e C. di Foligno9 (Fig. 5).
Il 10 luglio 1910 la minierà fu ceduta alla Società Anonima Lignitifera
Umbra di Foligno che presentò al sindaco di Gubbio, Gatti, i dirigenti
responsabili della miniera di Branca. Sorvegliante dei lavori era Giuseppe
Brunetti di Gubbio10.

8
Con il quale, tra l’altro, era in corso una causa poi risolta dalla Commissione Miniere del Ministero
dell’Agricoltura. e Commercio.
9
ASCG, Carteggio amministrativo, b. 272, tit. XI, art. 6.
10
Il 22 agosto fu sostituito da Eugenio Poli.

10
La miniera fu ufficialmente inaugurata nell’ottobre11 1910 alla presen-
za, tra gli altri, del ministro Ciuffelli, degli onorevoli Fazi e Patrizi e del
prefetto di Perugia12.

La fase industriale tra alti e bassi (1910-1944)

Il primo dicembre 1912 la Società Anonima Lignitifera Umbra affidò


provvisoriamente la miniera alla ditta «Fineschi cav. Giuseppe, Feroci e
Gianni» domiciliata elettivamente in Gubbio ma con sede a San Giovan-
ni Val d’Arno13.
Nel novembre 1915 fu compilata una interessante statistica dei consumi
degli opifici eugubini.
In questa documentazione è possibile leggere: «Unica materia da sfrut-
tare nel territorio è la lignite della miniera di Branca. Questa miniera è
in stato di funzionamento e dà una abbondante produzione [15.000 t
annue] che viene quasi tutta smaltita fuori comune»14.

La Grande Guerra rappresentò senz’altra una buona occasione per au-


mentare al massimo la produzione italiana di lignite. Nel giugno 1917,
tra gli uomini rientrati dall’estero a causa della guerra, furono segnalati
ottantadue minatori disoccupati15. Dalla miniera di Gagliano di Barbe-
rino del Mugello ne richiesero una decina, ma il sindaco rispose che i
minatori eugubini non erano adatti alle miniere di lignite – a Gubbio
avrebbero potuto trovare facile impiego proprio a Branca –, ma avevano
«dichiarato che essi hanno lavorato sempre tanto in Prussia che in Ame-
rica in miniere in cui impiegasi l’esplosivo».
Una scheda informativa sulle miniere di Gubbio del 24 marzo 1919 ci
testimonia le attività allora esistenti, ben quattro, sicura conseguenza
della prima guerra mondiale16:

11
Il 23 o il 30.
12
“L’Ingino”, a. III (1910), n. 21, p. 3; ASCG, Carteggio amministrativo, b. 388, tit. XI, art. 6.
13
ASCG, Carteggio amministrativo, b. 590, tit. XI, art. 6.
14
Ibid., b. 590, tit. XI, art. 6.
15
Ibid., b. 658, tit. XI, art. 6.
16
Ibid., b. 713, tit. XI, art. 6.

11
1. Istituto Fondi Rustici (miniera di Colognola);
2. Fineschi e Feroci (miniera di Branca);
3. Dottor Vittorio Reggiani;
4. Angelo Buccolini (miniera di Ponte d’Assi – Sant’Apollinare, voc.
Panicale)
Neanche due anni dopo – 9 febbraio 1921 – le miniere scesero a tre17.
Tempo un paio di anni e rimase attiva solo quella di Branca.
L’otto aprile 1921, Nicola Vantaggio, sindaco di Gubbio, informò il pre-
sidente della Camera di Commercio di Foligno che nel periodo 1919-
1920 le tre miniere di lignite esistenti nel territorio di questo Comune
impiegarono complessivamente circa 800 operai qual numero, in causa
della grave crisi dell’industria lignitifera, è attualmente ridotto ad appe-
na duecento, con probabile ulteriore riduzione. Per tale fatto la disoc-
cupazione in questo Comune preoccupa seriamente le Amministrazioni
locali che non hanno modo di collocare sì gran numero di operai in
maggioranza minatori18.

La situazione precipitò ulteriormente tanto che nella sede della Pro Loco
di Branca si conserva ancora un manifesto datato 29 agosto 1921 con il
quale la «Camera Sindacale Italiana del Lavoro di Gubbio»19, per mano del
suo segretario, Tullio Bertolini, annunciava ai minatori e ai braccianti che
la direzione della miniera aveva disposto la riapertura della miniera stessa.
Il 23 settembre 1921alle tre miniere eugubine la Direzione Generale delle
Ferrovia, dopo «rinnovate premure» dispose la riduzione dal 200% al
100% dell’aumento delle tariffe per il trasporto di lignite20.
Nonostante queste ed altre difficoltà, la Società Lignitifera Umbra (Bran-
ca) e l’Istituto dei Fondi Rustici (Colognola) presentarono nel 1922 una
domanda al Ministero per ottenere il finanziamento occorrente alla co-
struzione ed esercizio «di un impianto termo elettrico colla potenza in-
stallata di 15.000 Kw (...) atto a trattare 130.000 t di lignite all’anno con
produzione annuale di trenta milioni di Kwh, 3.000 t di solfato ammoni-
co (per l’agricoltura), 2.500 t di catrame (per l’industria)».

17
Ibid., b. 771, tit. XI, art. 6.
18
Ibid., b. 771, tit. XI, art. 6.
19
Definita “nuova Istituzione”.
20
ASCG, Carteggio ammnistrativo, b. 771, tit. XI, art. 6.

12
Il progetto fu approvato ma il 30 maggio 1923 giaceva ancora presso
il Ministero del Tesoro in attesa della firma del decreto di concessione
e finanziamento, come era già stato fatto per le centrali di Pietrafitta e
Gualdo Cattaneo. Da quel momento non se ne seppe più nulla.
Un altro fronte che creava notevoli problemi al corretto funzionamento
della miniera era rappresentato dai trasporti, elemento chiave per la ge-
stione della vendita della lignite.
Il 19 settembre 1924 la società Fineschi & Feroci «dato il deplorevole ser-
vizio dei trasporti effettuato dalla Società della Ferrovia Appennino Cen-
trale, e che colpisce in modo sentito questa nostra industria, cui non viene
fornito il necessario numero di vagoni per il trasporto della propria lignite»
venne «nelle dolorosa determinazione di sospendere i lavori e licenziare
tutti gli operai col giorno 27 corrente»21. Fu, questo, uno dei tanti momenti
drammatici che spinsero la autorità locali – ma non solo – a tenere in mag-
giore considerazione quanto stava accadendo dalle parti di Branca.
Il 30 settembre, la società ci ripensò e, ottenuta la garanzia di miglior ser-
vizio della FAC, anche per il fattivo interessamento del sindaco di Gubbio,
annunciò la sospensione della decisione annunciata undici giorni prima.
Una situazione simile si ripeté nel novembre 1925 quando, ancora per colpa
dei disservizi della FAC, la società mineraria minacciò addirittura la serra-
ta totale dell’attività estrattiva. In quella circostanza il sindaco di Gubbio,
Lamberto Marchetti, si rivolse direttamente al Ministero dell’Interno coin-
volgendo nella questione anche il sindaco di Gualdo Tadino, Cajani22.
All’aprile 1925 risale una dettagliata «Relazione sulla miniera lignitifera
di Branca» firmata dal direttore Francesco Murroni23. Dall’ultimo capi-
tolo si evince che la Società Lignitifera, oltre all’impianto termo elettrico,
aveva ideato anche altri due progetti:
Un primo progetto per la realizzazione «di forni o storte per distillazione
di 60.000 tonnellate annue di lignite» onde ricavare gas combustibile,
carbon coke, catrame e solfato ammonico.
Un altro progetto, denominato «Impianto di forni per carbonizzazione
di lignite», avrebbe dovuto produrre annualmente 45.000 t di lignite da
combustibile e 15.000 t di carbone.

21
Ibid., b. 845, tit. XI, art. 6.
22
La vicenda si protrasse fino al febbraio 1926.
23
ASCG, Carteggio amministrativo, b. 1181, cat. XI, art. 2, sub. 3.

13
Da questa relazione si possono desumere anche questi dettagli:
–– produzione giornaliera di 100 t aumentabile fino a 400;
–– esistevano tre cantieri di lavoro: Colmollaro (q 353,75), Santa Bar-
bara (q 393,55) e Sant’Anna (q 353,05);
–– ogni cantiere era servito da un piano inclinato interno;
–– l’interno delle gallerie era aerato con elettro ventilatori soffianti e di
aspirazione; pozzetti di areazione e pompe per aspirare l’acqua del
fondo (70 m di prevalenza);
–– la profondità massima raggiunta fino a quel momento era di 40 m;
–– la lavorazione dei banchi di lignite veniva fatta per «scoscendimento
dal tetto del giacimento ... a mezzo di livelli discendenti»;
–– la produzione giornaliera era stimata in 4,5 t di lignite a minatore;
–– ogni vagone in partenza aveva costo base di 20 £ a t;
–– il prezzo di vendita a lignite secca era fatto per 45 £ a t.

Nel 1927 lavoravano a Branca centoventidue operai24.


Il 10 ottobre 1929 la miniera risultava essere «da vario tempo» qua-
si inattiva25. La crisi del ’29 non fece che aggravare la situazione. Alla
pessima congiuntura economica si aggiunsero le note difficoltà interne.
Al podestà Marchetti non rimase che contattare il capo di gabinetto del
Ministero dell’Interno per chiedere che la società Terni si servisse anche
della miniera di lignite di Branca per alimentare i suoi impianti siderur-
gici. La Terni, però, aveva deciso di impiegare la lignite della miniera di
Morgnano di Spoleto che, tra l’altro, era di sua proprietà.
Un questionario del podestà Marchetti, in risposta a quanto richiesto
dalla Commissione Combustibili del CNR (ministero dell’Educazione
Nazionale), ci fornisce alcune informazioni utili per ricostruire con pre-
cisione la storia della miniera26.
La crisi ebbe termine solo dopo il 1936 quando, in seguito alla guerra
d’Etiopia, si cominciò a pensare ad un potenziamento dell’attività estrat-
tiva dell’unica miniera rimasta in qualche modo attiva nel territorio di
Gubbio. In quell’anno la Società Anonima Ugo Colombo rilevò la minie-

24
Ibid., b. 926, tit. XI, art. 6. Nel cementificio “Portland” erano impiegati 140 operai. Nella
manifattura tabacchi Buccolini, invece, erano impiegate 123 persone di cui ben 115 donne.
25
ASCG, Carteggio amministrativo, b. 975, tit. XI, art. 6.
26
Ibid., b. 1021, cat. XI, art. 2, sub. 3.

14
ra di Branca dalla Società Anonima Lignitifera Umbra27. Furono scavate
nuove gallerie di passaggio sotto il torrente Setorna mentre la profondità
massima raggiunse i cinquanta metri. Era all’opera duecento operai.
Come è facile immaginare, durante i lavori di estrazione, non mancaro-
no gli incidenti.
Il 15 luglio 1938, in particolare, lo scoppio del famigerato grisou coin-
volse undici operai. Cinque di essi morirono entro pochi giorni, uno di
seguito all’altro. Li ricordiamo;
1. Alfredo Rossi, Gubbio (15 luglio);
2. Ugo Ragni, Padule-Palazzetta (16 luglio);
3. Ubaldo Pierotti, Torre (17 luglio);
4. Francesco Anastasi, Caprara di Gualdo Tadino (19 luglio);
5. Adolfo Pierini di Torre-Borgo (20 luglio).
Il capo del Governo, Benito Mussolini, inviò £ 5.000 ad ognuna delle
famiglie degli operai morti28.
Dalla fine del 1938 la situazione della miniera tornò a farsi allarmante.
Colombo avrebbe voluto vendere anche e affermò che la sospensione
della produzione, dopo alcuni anni di ripresa, era legato solo a fattori di
natura stagionali. Per riprendere le operazioni di estrazione si attendeva-
no «propizie condizioni stagionali».
Il podestà Marchetti interessò della cosa l’on. Nazareno Bonfatti – di
origini eugubine – paventando un declassamento della miniera di Branca
che sarebbe potuta finire nelle cosiddette «miniere di riserva».
L’anno seguente, addirittura, fu lo stesso Duce ad assicurare a Marchetti
il suo personale interessamento per la miniera eugubina29 (Fig. 6). Credo
che a tale fatto vada riferita la visita che il prefetto di Perugia compì a
Branca l’8 novembre 193930. La miniera aveva allora quattro gallerie
così denominate: Colmollaro, Sant’Anna, Sant’Ubaldo e San Martino,
vico il Chiascio.

27
Ibid., b. 1158, cat. XI, art. 2, sub. 3. Dopo il 1885 la miniera era stata coltivata anche dal principe
Torlonia, proprietario di molti terreni posti a Galvana. Nel 1907 fu pubblicato un opuscolo dall’on.
Fazi che era «interessato in questa impresa pubblica». Marchetti segnalò anche un giacimento di
scisti bituminosi ubicato a Lame di Montelovesco della consistenza di circa 10 milioni di tonnellate.
Tre fatti che meriterebbero un adeguato approfondimento.
28
ASCG, Carteggio amministrativo, b. 1222, cat. XI, art. 2, sub. 3.
29
Ibid., b. 1222, cat. XI, art. 2, sub. 3.
30
“Pro Gubbio” del 15 dicembre 1939, pp. 1-4.

15
Nel frattempo la Società Terni subentrò a Colombo nel possesso dell’im-
pianto. Come da prassi fu comunicato al podestà l’elenco dei dirigenti e
dei tecnici responsabili della miniera. Gli addetti alla sorveglianza erano:
Zeffirino Sebastiani, Alfonso Rossi, Attilio Maurizi, Luciano Castellani,
Giuseppe Castellani, Luigi Bartocci31.
Il 4 dicembre 1941, in occasione della festa di Santa Barbara, mons.
Beniamino Ubaldi, vescovo di Gubbio, pronunciò la seguente omelia:

A Voi dunque, prima di tutto, il mio saluto. Figlio del popolo, e di un au-
tentico operaio anch’io. ho avuto sempre un grande amore per gli operai
ed ho sempre desiderato per loro una maggiore giustizia e una maggiore
considerazione.
È dunque con sincero trasporto che io rivolgo il mio saluto agli operai;
tanto più a Voi, o lavoratori della miniera, che per essere, la maggior
parte di Voi miei diocesani e per essere il campo del vostro lavoro dentro
i confini della mia Diocesi, mi appartenete in modo speciale e avete mag-
giore diritto al mio affetto e al mio interessamento.
Ma poi chi è che non comprende che gli operai delle miniere compiono
uno dei più duri lavori e che per questo e per l’apporto del loro lavo-
ro alla economia della Nazione, specialmente nelle presenti circostanze,
meritano la riconoscenza, l’interessamento e la simpatia di tutti?
Per parte mia vi confesso che penso spesso ai minatori di Branca e quan-
do li incontro per via, che vanno e vengono per l’avvicendamento nei
turni di lavoro, mi si apre subito dinnanzi il quadro non lieto di quella
loro vita trascinata nelle viscere della terra, priva di sole, di luce, di aria
pura e di quei conforti che rendono meno penosa la fatica degli altri ope-
rai; e dico che necessariamente nella riorganizzazione dell’Europa che
seguirà alla pace che speriamo, se non vicina, certamente trionfale per
noi, si dovranno tenere nel massimo conto gli interessi di queste classi
operaie, se si vuole che costituiscano l’ossatura e, direi quasi, la colonna
vertebrale della economia nazionale.
Del resto il regime a questo tende coi suoi sistemi sindacali e corporativi;
ed io vorrei pregare i dirigenti di questa miniera a secondare sempre più
l’opera del regime, procurando a questi operai quei miglioramenti e quel-
le provvidenze che assicurino almeno la sufficienza nelle presenti, difficili

31
ASCG, Carteggio amministrativo, b. 1245, cat. XI, art. 2, sub. 3.

16
circostanze. E’ stato detto che la guerra attuale si combatte affinché le na-
zioni povere abbiano la loro parte di beni che Iddio ha creato per tutti, e il
cosiddetto spazio vitale che certamente Iddio non vuole negato ad alcuno.
Ebbene anche per l’operaio e per la sua famiglia ci dovrà essere la sua
parte di beni e il suo spazio vitale; è questione di giustizia, è un’assoluta
volontà di Dio, il quale non avrebbe detto gli uomini crescete e molti-
plicatevi, se non avessero potuto poi avere tutti il loro pezzo di pane
quotidiano, e la porzione di beni indispensabili alla vita32.

La fine: una lenta e drammatica agonia (1944-1951)

La seconda guerra mondiale rappresentò l’inizio della fine della miniera


di Branca.
I danneggiamenti subito dall’impianto, l’allagamento delle gallerie, la
mancanza di energia elettrica per attivare gli impianti di pompaggio,
la mancanza di mezzi di trasporto per la quasi certa dismissione della
ferrovia, la decisione della Terni di indirizzare il proprio interesse verso
altri impianti, non fecero altro che allungare il momento della chiusura
dell’impianto33.
Eppure, secondo stime riservate, le potenzialità del giacimento ammon-
tavano a circa 10.000.000 di tonnellate di lignite mentre la zona prepa-
rata e tracciata era di sole 500.000 tonnellate.
La Società Terni, solo per cercare di attutire l’enorme problema della
disoccupazione decise di mantenere in vita l’impianto di Branca la cui
economicità era andava inesorabilmente affievolendosi34.
Nel 1947 le cose precipitarono definitivamente innescando una perico-
losissima “guerra tra poveri” in quanto per ogni comune della zona –
principalmente per quelli di Gubbio e di Gualdo Tadino – le rispettive
Camere del Lavoro avrebbero dovuto comunicare alla Terni una quota
di operai da licenziare35. Le cose, come è facile immaginare, si fecero
esplosive perché non fu facile raggiungere un accordo. Alla Terni, pro-

32
Archivio Diocesano di Gubbio, Fondo della Curia, b. Mons. Ubaldi – Prediche n. 6.
33
ASCG, Carteggio amministrativo, b. 1323, cat. XI, art. 3, sub. 3. Nel 1944 era in attività anche
la miniera Buccolini, chiusa dopo il 1951.
34
Ibid., b. 1354, cat. XI, art. 2, sub. 3.
35
Ibid., b. 1372, cat. XI, art. 2, sub. 3.

17
babilmente, non parve il vero di cogliere la palla al balzo per iniziare la
dismissione totale dell’impianto. Il 30 giugno 1948 la società comunicò
al sindaco di Gubbio l’elenco degli operai eugubini licenziati nei giorni
25, 26, 29 e 31 maggio36: erano ben duecentoquarantasette! (Fig. 7)
Le proteste che seguirono furono del tutto inutili.
Il primo aprile 1949 la Società Terni chiese «il trasferimento della con-
cessione mineraria per lignite denominata ‘Branca-Galvana’»37. Il 6 lu-
glio seguente comunicò al sindaco che il giorno 18 un funzionario del
Ministero del Lavoro francese si sarebbe recato a Branca per ingaggiare
cinquanta minatori da destinare alle miniere di ferro della Mosella, nella
Francia nord-orientale.
Il 26 febbraio 1951 la Società Terni presentò al sindaco di Gubbio l’i-
stanza per rinunciare la concessione di lignite “Branca-Galvana”38: era
veramente la fine!

Si tornò a parlare della miniera di Branca negli articoli di giornale, in


occasione di convegni, studi o conferenze sullo sfruttamento delle ligniti
umbre. Ricordo Alberto Sebastiani che periodicamente trovò il modo di
pubblicare i suoi articoli sulla miniera di Branca nelle circostanze sopra
ricordate, specialmente tra il 1954 e il 195939. Nel concreto tutto rimase
come nel 1951 con l’inevitabile corollario della vendita dei terreni, del
trasferimento in altri luoghi dei materiali recuperabili e della lenta per-
dita della memoria.

Oggi che la memoria si è fatta storia, sembrano maturi i tempi per la co-
stituzione a Branca di un piccolo centro di documentazione sulla minie-
ra, anzi sulle miniere di Gubbio, che dal 1910 al 1951 videro impiegati
centinaia e centinaia di operai eugubini e dei territori vicini.
Sarebbe il modo giusto per ricordare seriamente il loro duro lavoro e un
bel pezzo della nostra storia recente.

36
Ibid., b. 1392, cat. XI, art. 2, sub. 3.
37
Ibid., b. 1412, cat. XI, art. 2, sub. 3.
38
Ibid., b. 1455, cat. XI, art. 2, sub. 3.
39
Molto di questo materiale è conservato presso la Biblioteca Comunale “Sperelliana” di Gubbio.

18
Fig. 1
1875 luglio 30, primo decreto prefettizio per la ricerca di lignite a Branca concesso a Francesco Mi-
cheletti, particolare; SASG, Archivio storico comunale di Gubbio, Carteggio, b. 225, tit. XI, art. 6.

19
Fig. 2
1875 dicembre 28, secondo decreto prefettizio per la ricerca di lignite a Branca concesso a Francesco
Micheletti, particolare; SASG, Archivio storico comunale di Gubbio, Carteggio, b. 225, tit. XI, art. 6.

20
Fig. 3
1887, mappa delle gallerie e dei pozzi della miniera di Branca Galvana; Collezione Pro Loco Branca;

Fig. 4
1887, mappa delle gallerie e dei pozzi della miniera di Branca Galvana, particolare; Collezione Pro
Loco Branca;

21
Fig. 5
1907 novembre 19, Regio decreto per la concessione della miniera di Branca, prima pagina; ASCG,
Carteggio amministrativo, b. 272, tit. XI, art. 6.

22
Fig. 6
1939 agosto 25; il podestà Marchetti riferisce all’ing. Malò dell’interessamento del Duce per la
miniera di Branca; ASCG, Carteggio amministrativo, b. 1222, cat. XI, art. 2, sub 3.

23
Fig. 7
1948 giugno 30, prima pagina dell’elenco dei duecentoquarantasette operai licenziati; ASCG, Car-
teggio amministrativo, b. 1392, cat. XI, art. 2, sub 3.

24
25
26
27
28
PADULE A LA SUA STORIA
DAI MONASTERI ALLA CULTURA
DEL NEBBIOLO
Fabrizio Cece

La storia del territorio che ora forma la frazione di Padule è lunga, bella
e complessa, più di quanto si possa immaginare. Sarebbe auspicabile,
in questo come nel caso di molte altre località del territorio eugubino,
proseguire sulla strada della ricerca archivistica e dello studio delle fonti,
magari con il coinvolgimento dei giovani abitanti delle frazioni stesse.
Sintetizzo fin da ora la ripartizione del testo che segue:
1. Evoluzione della frazione e della parrocchia di Padule;
2. Il monastero di San Donato di Pulpiano o di San Bartolo di Petrorio;
3. L’abbazia di Santa Maria d’Alfiolo e la cultura del nebbiolo.
La vastità degli argomenti trattati impedisce di entrare nel dettaglio delle
fonti archivistiche e bibliografiche utilizzate. Ne annoterò solo le principali.
Inoltre, per contenere al massimo la lunghezza del testo e per ricalcare
la relazione originale, si affronteranno gli argomenti affrontati in forma
breve, sintetica e succinta.

Evoluzione della frazione e della parrocchia di Padule

Nel medioevo ogni villa doveva eleggere tra i suoi abitanti tre ufficiali:
due gualdari e un sindaco.
Le funzioni del gualdaro sono definite dallo Statuto Vecchio del Comune
di Gubbio del 1338, alla rubrica XX, libro IV. Durava in carica un anno
ed aveva la funzione principale di sorvegliare il territorio della villa e di
denunciare al Podestà il cosiddetto danno dato, cioè i danni – assai fre-

29
quenti – che il bestiame, ma anche gli umani, producevano nei beni altrui.
L’attività del sindaco è regolata dalla rubrica XXII del Lib. I dello Statu-
to Vecchio. Durava in carica un anno, doveva avere almeno 25 anni di
età (maggiorenne), risiedere nella villa e non poteva ricoprire di nuovo la
medesima carica prima di due anni. Aveva la funzione importantissima
di denunciare al Podestà tutti i reati di natura penale.
Quest’ultima rubrica, tra l’altro, stabiliva che tutte le ville con meno dei
sette fuochi – ogni fuoco corrispondeva ad un nucleo familiare – doveva-
no essere unite alla villa più grande ad esse adiacenti. In questo modo si
ha indirettamente notizia che per costituire una villa, cioè l’agglomerato
abitativo più piccolo dal punto di vista amministrativo, il luogo doveva
avere almeno sette fuochi1.
La mappa del Giorgi degli anni settanta del XVI secolo evidenzia le ville
che poi, in toto o in parte, entrarono a far parte dell’attuale territo-
rio della frazione di Padule2: Barco, Padule, Santa Maria del Figliolo,
Sant’Erasmo e Colognola.
Soltanto nel 1701 il vescovo Sebastiano Pompilio Bonaventura eresse
la parrocchia di Santa Maria di Padule dopo aver soppresso quella dei
Santi Filippo e Giacomo di Colognola.
Al 1767 risale un bel cabreo, opera dell’agrimensore bolognese Giuseppe
Maria Ghelli, che illustra una delle tante proprietà dei Canonici Regolari
Lateranensi di San Secondo, quella di Padule3.
Per il 1820 possediamo l’elenco completo delle decime versate da tutti co-
loro che possedevano delle proprietà all’interno della parrocchia di Padule4.
Vi sono elencati i toponimi di cinquantadue poderi, il nome del rispettivo
proprietario, il nome del colono che conduceva ciascun podere e, natural-
mente, il peso del grano che andava corrisposto al parroco pro tempore.
Un altro elenco lo abbiamo per il 1837. In questo caso, però, si tratta della
ripartizione dell’imposta necessaria per restaurare la casa parrocchiale5.
Il 15 novembre 1911 gli abitanti di Padule presentarono all’amministra-

1
Per queste rubriche come per tutto quanto attiene allo Statuto Vecchio di Gubbio cfr. A.
Menichetti, Lo Statuto Vecchio del Comune di Gubbio, con le aggiunte del 1376, Città di Castello,
Petruzzi Editore, 2002.
2
Allora semplice villa, neanche sede parrocchiale.
3
Archivio di San Secondo (ASS), Cabreo del Ghelli, mappa 7.
4
Archivio Diocesano di Gubbio (ADG), b. 26/28.
5
Idem.

30
zione comunale una petizione per avere l’acquedotto6.
Il 23 ottobre 1957 il vescovo mons. Beniamino Ubaldi, alla presenza di
numeroso popolo, benedisse la nuova chiesa di Padule progettata dall’ing.
Franco Lolli di Roma, costata £ 18.700.00, somma proveniente dai fondi
del Ministero dei Lavori Pubblici. «Le spese per gli intonaci, le campane,
il pavimento, i mobili» furono sostenute dal parroco, don Quirico Rughi,
«dai parrocchiani, dai fedeli emigrati e da alcuni benefattori»7.
Uno schema composto da don Otello Marrani mostra l’evoluzione degli
abitanti della parrocchia di Padule tra il 1760 e il 1975.

FAMIGLIE ABITANTI
1760 426
1808 575
1815 578
1826 630
1828 643
1830 634
1837 612
1856 654
1861 715
1869 728
1872 711
1907 963
1911 1031
1912 962
1952 294 2850
1975 475 1664
Un’altra parte importante del territorio della parrocchia di Padule è co-

6
Archivio Storico del Comune di Gubbio (ASCG), Carteggio, b. 725, tit. IV, art. 4.
7
“Il Quotidiano”, a. XIV (1957), n. 253. l’articolo è accompagnato da una fotografia della nuova
chiesa.

31
stituita dall’ex villa di Colognola. Nel XV secolo qui ebbero vasti pos-
sedimenti i Pecci, poi nobilitati con il titolo di conte. A questa famiglia,
tra l’altro, appartenne mons. Giuseppe Pecci, ultimo eugubino ad essere
stato insignito della porpora cardinalizia.
A Colognola, durante gli anni dieci del XX secolo, fu coltivata una delle
quatto miniere di lignite esistenti tra Padule e Branca.

Il monastero di San Donato di Pulpiano o di San Bartolo di Petrorio

Altra villa medievale, oggi quasi del tutto unita a Padule, era quella di
Sant’Erasmo.
Secondo alcuni studiosi a Sant’Erasmo era ubicata l’antichissima abba-
zia benedettina di San Donato di Pulpiano sulla quale troppo a lungo
sarebbe necessario disquisire.
Basti dire che proprio dalla demolita chiesa di San Donato proviene una
mensa d’altare del 1134 oggi ubicata nella cappellina cimiteriale di San
Secondo, alle porte di Gubbio. Dei monaci irlandesi che attorno all’XI se-
colo bonificarono la zona di Padule si è occupato pure don Quirico Rughi.
A fare il punto della situazione ha pensato don Ubaldo Braccini in uno
studio dedicato ad una ritrovata mensa d’altare a Coccorano, datata
1157 in una bellissima epigrafe che la contorna, che per l’ennesima vol-
ta sembra avvalorare la presenza a Gubbio di una comunità di monaci
irlandesi nei secolo XI e XII8.
La canonica di San Secondo, a cui fu unito attraverso alcuni passaggi
di gestione9 il monastero di San Donati di Pulpiano, poi chiamato San
Bartolo di Petrorio, aveva nel XVIII secolo un vasto podere proprio a
Sant’Erasmo. Forse erano quelli i resti dei possedimenti benedettini ubi-
cati «in fondo paduli» (1149)10.

8
U.F. Braccini, L’enigma di Coccorano. Un’iscrizione d’altare del 1157, in “Bollettino della Deputazione
di storia patria per l’Umbria”, CIC (2012), fasc. I-II, pp. 523-532. A questo contributo si rimanda per
tutta la biografia precedente, compresa quella relativa alla presenza dei benedettini irlandesi a Padule
e alla mensa d’altare oggi nell’antico cimitero di San Secondo (di recente rastaurato).
9
La prima unione avvenne con il monastero di Sant’Ambrogio: una prima volta nel 1428, poi ancora
– definitivamente – nel 1445. Sant’Ambrogio, poi, si ritrovò unito alla canonica di San Secondo.
10
P. Cenci, Carte e Diplomi di Gubbio dall’anno 90 al 1200, Unione tipografica cooperativa, Perugia, 1915,
pp. 166-167.

32
L’abbazia di Santa Maria d’Alfiolo e la cultura del nebbiolo

Si tratta indubbiamente dell’edificio, con annessa vasta tenuta, che dal


XVI secolo ha dato lustro a tutta la zona di Padule.
Contrariamente a quanto ancora si tramanda, nessun documento coevo te-
stimonia la presenza in quella zona di un castello appartenuto ai fantomatici
conti d’Alfiolo che avrebbero, addirittura, partecipato alla prima Crociata11.
Lo Statuto Vecchio del Comune di Gubbio del 1338, invece, contiene
un’importantissima indicazione. La rubrica LXXI del libro I afferma in-
fatti che dovevano essere considerati guelfi coloro che erano stati banditi
al tempo in cui Uguccione della Faggiola si era impadronito di Gubbio
(1300) e che, per recuperare alla parte guelfa la città, avevano combattu-
to contro i ghibellini proprio nei pressi di Maria d’Alfiolo.
Nel 1452, al tempo dell’abate Antonio di Milano, fu (ri)costruita la torre
dell’abbazia. Dal contratto e dalla quietanza dei pagamenti conosciamo
il nome dei quattro capi mastri muratori: Piero di mastro Cristoforo,
Donato di Michele, Antonio di Martino e Giovanni Antonio da Como12.
Nel 1456 l’abbazia di Santa Maria d’Alfiolo fu ceduta definitivamente
da papa Callisto III al vescovo di Gubbio, Antonio Severi. Il fabbricato
e i poderi entrarono così a far parte dei beni della Mensa Vescovile e vi
rimasero fino a poco dopo l’Unità d’Italia.
Nel 1530 il cardinale Antonio Fregoso13, vescovo di Gubbio dal 1508 al
1541, iniziò una lunga serie di opere di trasformazione che diedero all’ex
abbazia la forma che ancora oggi conserva.
Un prezioso inventario del 1643 ricorda che nella chiesa dell’abbazia era con-
servato «un quadro dove è un Crocifisso di mosaico con cornice di marmo
intorno14 e l’adornamento di fuore di legno di noce et alquanto dorato»15.
Nel 1728 Lucantonio Faramelli stimò tutti i beni della Mensa Vescovile
elaborando anche una serie di grafici schematici che restituiscono, in sin-
tesi, l’aspetto di alcuni edificio, come quello dell’abbazia, allora fornita

11
È, questa, una delle tante leggende che incrostano la storia di Gubbio, forse originatesi dell’opera
del noto falsario mavanate Alfonso Ceccarelli.. Prima o poi si dovrà fare un attento lavoro di ricerca
per liberare la narrazione del nostro passato da superfetazioni che nulla hanno di storico.
12
P.L. Menichetti, Castelli, palazzi fortificati, fortilizi, torri di Gubbio dal secolo XI al XIV, Rubini
& Petruzzi, Città di Castello, 1979, p. 313.
13
Figlio di una figlia del duca Federico di Montefeltro.
14
Ancora esistente.
15
ADG, Fondo della Curia, II.A.15, fasc. g.

33
di ampi giardini e chiesa adiacente16.
Un’altra perizia fu predisposta dopo i rovinosi terremoti del 1781 e del
1786 per valutale le opere da realizzare e i relativi costi.
Per l’abbazia questa è la descrizione dello stato, sommaria ma significativa.

Segue ora la spesa occorrente per assicurare e stabilire la grandiosa fab-


brica detta dell’Abbadia d’Alfiolo, fuori di Porta Romana, doppo averla
esattamente osservata e considerata, l’ho trovata in un assai cattivo sta-
to, poco meno che in tutte le sue parti, ed in modo particolare le die fac-
ciate esteriori, una che guarda il levante e l’altra il ponente, non ostante
una quantità di chiavi in vari tempi ivi collocate, pure traspiomba in
tutta la loro altezza piede uno e messo. Facendomi dunque a riparare
secondo il mio parere e cognizione dalle suddette facciate con una fodera
ed ingrossamento di muro esteriore.

Con l’Unità d’Italia i beni di molti enti ecclesiastici furono demaniati e, a


partire della seconda metà degli anni sessanta del XIX secolo, parcellizzati
e venduti all’asta. La grande tenuta dell’abbazia d’Alfiolo, detta anche la
Badia, fu venduta nel 1869 a Giuseppe Bianchi e Narciso Degola di Geno-
va. I poderi, allora, si estendevano su circa 730 ettari di superficie.
La tenuta passò poi in proprietà del cav. Bartolomeo Degola e, alla fine
dell’Ottocento, a Giacomo Costa e alla famiglia Sciallero Carbone, an-
che loro genovesi.
Nel 1917 vi fu impiantato un distaccamento di prigionieri di guerra au-
stro-ungarici. Di questo fotto restano alcune testimonianze archivistiche17.
Al 1930, quando la tenuta era dell’Opera Nazionale Combattenti, risal-
gono «larghi ed importanti lavori di bonifica ... già iniziati e che impie-
gheranno, per tutta la stagione invernale, oltre sessanta braccianti»18.
Alcuni documenti contabili datati tra il 1945 e il 1959, conservati nell’ar-
chivio dell’azienda agricola19, ci fanno conoscere uno dei motivi per cui
la tenuta della Badia è stata ed è ancora ben viva nella memoria di tutti
gli abitanti di Padule e non solo: il vino nebbiolo20.

16
ADG, Manoscritti, 228.
17
ASCG, b. Carne consumo, fasc. Carne ai prigionieri di guerra.
18
“Il Risveglio Eugubino”, a. V (1930), n. 9, p. 4.
19
Tutt’ora in attività.
20
Oggi la tenuta dalla Badia è proprietà della Società Agricola Vannucci Sas di Marco Rossi e C.

34
Numerosi documenti d’archivio21 testimoniano che la tradizione vitivini-
cola eugubina era ben viva già nel X secolo. I vigneti migliori erano ubi-
cati nella quasi totalità lungo la fascia collinare che da Branca conduce a
Monteleto passando per i colli di Padule, di Torre Calzolari, di Semonte
e di Casamorcia.
I vini che la documentazione disponibile ci restituisce sono i seguenti: vermejo,
trebbiano, vernaccia, moscatello, vizaglio (forse un vino appassito), greco.
La produzione vinicola eugubina viene così sintetizzata dal prof. Giu-
seppe Nardelli.

I vitigni di cui viene segnalata la permanenza della cultura sino a tempi recenti,
sono piuttosto numerosi e rispecchiano la varietà delle possibili zone di
coltivazione. Sono il trebbiano, la vernaccia, il petrignone, che è adatto per i
terreni più bassi, per “i fondi” della pianura (segnalato nella frazione di Ponte
d’Assi), il dolciame dall’acino dorato carico e molto zuccherato, il verzicchio
(da non confondere con il verdicchio) con un caratteristico acino verde anche a
maturazione completa. (...)
Altre varietà di uve segnalate sono la duracina, il trebbianello, la canaiola
o canucola, il biancone, il garofalo bianco e garofalo rosso, la uva lugliola o
lugliatica, e il moscatello di cui si è detto, il tintarolo, l’uva corba dall’acino
grosso che conserva una tonalità rossiccia senza diventare nero, il mostaiolo
(bianco dolce con acino di media grandezza), la citata malvasia di Candia.
Infine il nebbiolo, vitigno ottimo introdotto alla metà del 1800, entrato in forte
competizione con gli altri per le caratteristiche organolettiche del vino prodotto,
oltre ad essere di colore rosso carico, di cui tuttora si segnala una produzione
ridotta ed a carattere praticamente familiare ed amatoriale.

Il vitigno del nebbiolo, in base agli ultimi studi, pare sia originario del
Piemonte e della Valtellina. Ancora oggi si coltiva in circa 5.000 ettari
sparsi tra Piemonte, Val d’Aosta, Valtellina, Franciacorta e Sardegna. I
primi documenti che ne attestano l’esistenza sono del 1268 (Rivoli) e del
1292, 1295 e 1302 (territorio di Alba). «Ne consegue che in un mondo
globalizzato il nebbiolo resta autoctono per eccellenza poiché fortemen-
te legato alle sue zone di origine».

21
Per la parte che segue mi sono largamente servito di una ricerca archivistica e bibliografica
sul nebbiolo appositamente realizzata nel 2013 e consultabile al sito: http://www.vinisemonte.
com/2015-03-17-Origini-Nebbiolo-Gubbio-Cece.pdf. A questo contributo rimando per la
bibliografia e per la posizione archivistica dei documenti qui citati.

35
La situazione vinicola nel territorio eugubino all’indomani dell’Unità
d’Italia ci è nota attraverso alcune testimonianze documentali, prime tra
tutte le periodiche relazioni sullo stato della campagna che il sindaco di
Gubbio – o chi per lui – era stato incaricato di compilare.
Nella prima disponibile, del 1862, si può leggere:

La vite ha dato molta uva, la critogama esterminatrice ha fatto gran danno e


contro il solito nelle colline. Malgrado la bella stagione serena, la vendemmia
fu fatta anzi tempo e ciò per le susistenze generali dei possidenti per liberarsi del
furto delle uve. Nell’Umbria segnatamente la vendemmia si opera contro ogni
regola enologica cogliendo le uve immature.

E’ proprio in quegli anni che nascono e si sviluppano diverse associazio-


ni agrarie, sia locali, sia circondariali. L’Associazione Agraria Eugubina
spinge l’amministrazione a creare un “Convitto Agrario” nell’orto dei
Cappuccini.
Un paio di lettere del 1868 mettono in evidenza un altro motivo per cui,
almeno in quel giro di anni, le uve delle vigne collinari eugubine veniva-
no vendemmiate anzitempo, prima di giungere a completa maturazione:
la malattia e il furto!
Nel 1868 Ubaldo Picciolini fu premiato all’esposizione di Parigi con me-
daglia di bronzo per vini scelti, bianchi e rossi.
In una relazione del 28 aprile 1871 sulla situazione dell’agricoltura eu-
gubina si può leggere:

Non saprebbesi segnalare alcun miglioramento rimarchevole nei vari rami


dell’industria rurale che disgraziatamente è assai scarsa sul nostro territorio.
Alcuni possidenti cominciano con amore ad occuparsi nel fare vini scelti e tutto
porta a credere che potranno col tempo riuscire assai bene; finora, però niuno, è
giunto a farne in quantità tale da poter esser messa in vendita fuori del territorio.
(...)
Fra i miglioramenti del suolo non sarà fuor di proposito avvertire che alcuni
terreni sono stati dissodati con molta intelligenza e ridotti in quest’ultimo anno a
vigna e per loro esposizione a mezzo giorno e per il sistema a ripiani introdottovi
si presentano ora assai bellamente.

Una serie di documenti e di citazioni bibliografiche, riepilogate in forma


schematica, permette di inquadrare bene l’epoca nella quale il vitigno del
nebbiolo giunse a Gubbio e il periodo in cui ebbe la sua massima diffusione.
Nel 1877, in risposta ad una richiesta della Prefettura, il Comune di

36
Gubbio riferì che “L’introduzione delle vigne a più vasta scala è opera
recente”. Le viti principali erano allora il trebbiano, il dolciame, il ver-
dicchio, il biancone, la malvasia, il pecorino, il moscatello bianco e nero
e “vari vitigni fatti ora venire dal Piemonte22”.
Ancora nel 1877 – vero anno di svolta – si cominciò a riparlare di scuo-
la di agraria. L’anno seguente l’istituzione ritornò a funzionare a pieno
regime sotto la direzione del “Professor Girolamo Giardini munito di
regolare diploma”.
Il 22 febbraio 1880 l’amministrazione eugubina inviava alla prefettura
perugina un elenco di persone che più si interessavano “del migliora-
mento dell’agricoltura locale” e dedicavano “la loro opera al vero pro-
gresso delle medesima”.
Tra le persone che avevano operato dei miglioramenti nel settore della
viticoltura sono elencati:
–– Angelico Fabbri, presidente della Congregazione di Carità, per il
“miglioramento della enologia escludendo dal vino il cotto”;
–– Girolamo Giardini;
–– Don Giovanni Barzocchini, Canonico Lateranense;
–– Cav. Bartolomeo Degola, proprietario della tenuta dell’Abbazia
d’Alfiolo, a Padule, per “impianto di vigne con viti scelte, migliora-
mento della enologia”;
–– Conte Orazio Fabiani Beni, per “fabbricazione e miglioramento dei vini”;
–– Gabriele Stirati, per il “miglioramento dell’enologia, specialmente
per vini di lusso”;
–– Marchese Bartolomeo Benveduti, come sopra.
È chiaro quindi che proprio negli anni settanta del XIX secolo va identifi-
cato il periodo in cui anche a Gubbio si tenta di sviluppare e potenziare la
tradizione vitivinicola locale con il miglioramento delle vigne, l’introduzione
di nuovi vitigni e l’impiego di nuovi sistemi per la produzione del vino.
Dobbiamo però attendere il 1881 per avere un quadro più preciso della
situazione vitivinicola eugubina, anche in riferimento ai nuovi tipi di
vitigno introdotti, nebbiolo compreso.
Va premesso che proprio nel 1881 fu pubblicato il notevole lavoro di
Giardini: Sulle condizioni dell’agricoltura e degli agricoltori nel territo-
rio di Gubbio.

22
Anticipo subito che uno dei vitigni piemontesi era proprio quello del nebbiolo.

37
Si tratta del testo basilare per chiunque voglia ricostruire la storia dell’a-
gricoltura a Gubbio. Purtroppo, però, in quel testo Giardini non fa i
“nomi” dei vitigni, anche se inserisce delle notizie estremamente impor-
tanti per far comprendere a che livello fosse la tradizione vitivinicola
eugubina dopo l’Unità d’Italia.
Alla fine di quello stesso anno 1881, però, Giardini ebbe l’opportunità
di entrare nel dettaglio dei nuovi vitigni che da qualche anno erano stati
introdotti a Gubbio.
Il 6 dicembre, infatti, l’ingegnere Francesco De Bosis, presidente del Co-
mitato Ampelografico, da Ancona si rivolge al sindaco di Gubbio per e
per porgli una serie di quesiti specifici inerenti l’eventuale coltivazione di
viti resistenti alla fillossera, l’esportazione di vini, la loro natura, il loro
prezzo. Fabbri, naturalmente, si rivolse a Giardini.

Come Le dissi finora qui fu quasi tutto vino bianco, ma da qualche anno si van
facendo piantamenti, e anche in proporzioni considerevoli, di viti ad uva nera,
specialmente di Nebbiolo, di Sangiovese, di Pinot ecc. e se ne ottengono vini
abbastanza pregevoli di cui qualche ettolitro fu questi ultimi anni spedito a
Genova e altrove con felicissimo risultato.

Quando nel 1877 si faceva riferimento a “vari vitigni fatti ora venire dal
Piemonte” si alludeva con tutta probabilità proprio al nebbiolo.
Nell’estate del 1892 si tenne l’esposizione agricola-industriale di Foligno.
Tra i partecipanti anche il cav. Luigi Bossola, proprietario della tenuta
di Torre Calzolari, che a Foligno inviò: “1 cassetta contenente N.° 12
bottiglie di Nebbiolo da pasto annata 1891” del valore di £ 7.80. L’anno
seguente, invece, fu organizzata una analoga iniziativa a Città di Castel-
lo. Anacleto Damiani partecipò inviando alla “”Esposizione Agricola e
di arte antica” tifernate “vino nebbiolo 1892 in N.° 6 bottiglie”.
Furono iniziative sporadiche, portate avanti solo dalla passione dei pro-
prietari, prive di qualsiasi aspirazione industriale o commerciale.
Ai primi del XX secolo il nebbiolo di Gubbio ottenne altri importanti
riconoscimenti.
Nella mostra agricola industriale locale, svoltasi tra il maggio e l’agosto
1908, partecipò la ditta dei sig.ri Feliziani e Giombini, amministratori
della tenuta dell’Abbazia d’Alfiolo.
Nel catalogo illustrativo così si ricorda l’azienda della Badia.

38
In frazione di Padule in una ridente collina presso la stazione ferroviaria sorge il
magnifico Castello d’Alfiolo, che è il centro di una vasta tenuta di poderi diretti
ed amministrati dai Sigg. Feliziani Pellegrino e Giombini Ilario. Nella nostra
Esposizione fu dato ammirare le rare qualità dei prodotti provenienti dalla tenuta
così detta dell’Abbadia. Il famoso nebbiolo, il vin bianco da pasto, il vino dolce,
il vin santo, il miele, i formaggi, tutti i generi squisiti confezionati a meraviglia.

Il premio, però, se lo aggiudicò “Alfonso Bossola di Gubbio per il vino neb-


biolo”. Bossola era proprietario dell’altra grande tenuta di Torre Calzolari.
Alla luce della documentazione rintracciata si può affermare con sicurez-
za che il vitigno del nebbiolo fu introdotto dal Piemonte a Gubbio negli
anni settanta del XIX secolo, forse nella prima metà, quando sulla spinta
delle innovazioni post Unitarie, anche il settore vitivinicolo iniziò a svi-
lupparsi e modernizzarsi. La coltivazione del nebbiolo è documentata in
Gubbio già nel 1881 assieme a quella del sangiovese e del pinot.
I vitigni, come detto, pervennero direttamente dal Piemonte per inizia-
tiva di qualche lungimirante fattore o di qualche appassionato proprie-
tario. Di certo un ruolo non secondario sembra averlo avuto Girolamo
Giardini, direttore della scuola agraria eugubina.
La documentazione attesta la coltivazione del nebbiolo da parte di alcu-
ni proprietari secondo lo schema seguente:
–– 1877 vitigni fatti venire dal Piemonte territorio eugubino
–– 1881 nebbiolo, sangiovese, pinot territorio eugubino
–– 1886 nebbiolo scuola di agraria
–– 1891 nebbiolo Luigi Bossola (Torre Calzolari)
–– 1892 nebbiolo Anacleto Damiani (Fassia?)
–– 1908 “famoso nebbiolo” Abbazia d’Alfiolo
–– 1908 nebbiolo Alfonso Bossola (Torre Calzolari)

39
Fig. 1
1728, L. Faramelli, stima dei beni della Mensa Vescovile; AVG, Manoscritti, n. 228.

Fig. 2
1760, G. Ghelli, l’abbazia di Santa Maria d’Alfiolo; SASG, Fondo Catasti, Catasti antichi, Ghelli,
mappa 26, part.

40
Fig. 3
1760, G. Ghelli, il borgo di Padule; SASG, Fondo Catasti, Catasti antichi, Ghelli, mappa 27, part.

41
Fig. 4
1767, G.M. Ghelli, poderi di Sant’Erasmo; ASS, Cabreo del Ghelli. mappa 7.

42
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UNA PICCOLA UTOPIA
L’ASILO INFANTILE BORLETTI
DI MARCO ZANUSO
Paolo Belardi

Mio nonno Pasquale Temperini era un semplice sarto, ma amava la bel-


lezza in tutte le sue espressioni: negli abiti, nella lirica e nell’architettura.
Un pomeriggio estivo dei primi anni Sessanta, mi ficcò in testa un ber-
retto per proteggermi dal sole e, insieme ai suoi amici più intimi (Adolfo
Fiorucci e Aldo Ceccarelli), mi portò a fare una passeggiata dalle parti di
Villa Fassia, dove un architetto di Milano aveva costruito un asilo che at-
tirava molti visitatori da Roma e da Firenze. L’asilo era chiuso, ma grazie
all’intercessione di un nostro parente (Remo Pauselli) che viveva da quel-
le parti, riuscimmo a entrare. Fu un’esperienza indimenticabile: varcata
la porta finestrata, rimasi ammaliato dalle alte coperture cuspidate e dal
piccolo cortile ottagonale. Negli anni ho provato più volte a disegnare
spazi altrettanto proporzionati, ma senza mai riuscirvi. Ciò nonostante,
sarò sempre grato a mio nonno e all’Asilio Infantile Borletti, perché quel
giorno, probabilmente, è nata quella passione per l’architettura (e per la
bellezza) che ha poi segnato tutta la mia vita.

A ben guardare anche l’Umbria, al pari del resto dell’Italia, è pun-


teggiata da edifici scolastici d’autore che, pur appalesando una sen-
sibilità ambientale spiccata e un impegno civile appassionato, sono
ormai presi in considerazione solo dal punto di vista dell’adeguamen-
to (antisismico, antincendio ecc.) o dell’efficientamento (energetico,
gestionale ecc.), ma sono lasciati completamente a se stessi dal punto
di vista della salvaguardia figurativa. Nonostante si tratti di manufat-
ti prossimi alla tutela ope legis. È il caso di molte scuole secondarie,

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quali l’Istituto Tecnico per Geometri di Vittorio De Feo a Terni e l’I-
stituto professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato di Franco
Antonelli a Foligno. Così come è il caso di molte scuole primarie,
quali l’asilo nido di Carlo Rusconi Clerici a San Sisto e la scuola
elementare di Paola Coppola d’Anna a Magione. Ma è anche e forse
soprattutto il caso dell’Asilo Infantile Borletti di Gubbio1: un picco-
lo edificio scolastico, realizzato nel 1958 nei pressi della frazione di
Ponte d’Assi, dove il destino della famiglia Borletti, una delle dinastie
industriali milanesi più note e affermate del Novecento, si è incrociato
con quello di Marco Zanuso e di Cini Boeri, due grandi protagonisti
dell’architettura italiana della ricostruzione.
La storia è una storia d’altri tempi, pregna di un illuminismo pater-
nalistico che, a ben guardare, evoca l’impegno sociale profuso negli
stessi anni da Adriano Olivetti a Ivrea. Ma forse è proprio per que-
sto che, in un’epoca segnata dalla propensione all’autoreferenzialità e
dall’indifferenza al valore della solidarietà, vale la pena ripercorrere
le tappe salienti della realizzazione di un’opera che, da molti punti di
vista, incarna una piccola utopia.
Tutto ha inizio nella primavera del 1942, quando Senatore Borletti
Junior (meglio noto negli ambienti del jet set come “Cicci”) e sua
moglie Nella Cosulich (discendente da una potente famiglia di arma-
tori triestini) stipulano l’atto notarile con cui acquistano dal principe
Mario Ruspoli l’azienda agricola di Fassia: una tenuta lussureggiante,
composta da ventiquattro poderi, che si estende per quasi 500 ettari
a ridosso dei rilievi collinari che perimetrano la conca eugubina in
direzione di Perugia e che comprende non soltanto molte case coloni-
che sparse, retaggio della precedente conduzione mezzadrile, ma an-
che una grande casa padronale, “riattata” nel 1937 da Nello Baroni e
circondata da un parco lussureggiante disegnato da Pietro Porcinai2. I

1
Cfr. Marco Zanuso, Un asilo a Gubbio, in “Domus”, 362 (1960), pp. 15-24; Marco Zanuso
Architetto, a cura di Manolo De Giorgi, Milano, Skira editore, 1999, pp. 244-247; Valentina
Pierini, Rilievo architettonico della “Scuola Materna Comunale Dr. Senatore Borletti” a Gubbio di
Marco Zanuso, tesi di laurea in Ingegneria civile, Università degli Studi di Perugia, relatore Paolo
Belardi, correlatore Simone Bori, a.a. 2005/2006; Paolo Belardi, La Scuola Materna Comunale “Dr.
Senatore Borletti” di Marco Zanuso a Gubbio, in NAU Novecento Architettura Umbria, a cura di
Paolo Belardi, Foligno, Il Formichiere, 2014, pp. 139-141; Paolo Belardi, The nursery school “Dr.
Senatore Borletti” by Marco Zanuso in Gubbio, in “Area”, 146 (2016), pp. 14-21.
2
Pietro Di Bianco, Villa Fassia. Progetto del Parco, in I giardini di Pietro Porcinai in Umbria, a

48
coniugi Borletti s’innamorano subito della climax romantica che aleg-
gia sulla tenuta e la eleggono a buen retiro, collezionando nel tempo
una lunga teoria di ospiti celebri alla ricerca di una sosta rigenerante
contro “il logorio della vita moderna”, nel cui elenco spiccano i nomi
di Arturo Toscanini e di Enrico Mattei. Ma non è tutto qui. Perché,
sentendosi parte di una comunità che sta riprogettando il proprio fu-
turo (tra il 1956 e il 1961, a Gubbio, l’amministrazione comunale
incarica Giovanni Astengo di redigere il suo primo piano regolatore
generale e viene fondata l’Associazione Nazionale Centri Storico Arti-
stici), i coniugi Borletti decidono di realizzare un asilo-modello, volto
ad assolvere anche il ruolo di centro sanitario pediatrico e di centro
di vita associata, nell’intento di alleviare il disagio sociale in cui versa
la popolazione di Ponte d’Assi, costituita in gran parte da nuclei fa-
miliari a basso reddito dediti all’agricoltura. E lo fanno non soltanto
affidando l’incarico a un architetto di fama internazionale come Mar-
co Zanuso (che è reduce dalla progettazione dell’asilo milanese del
Lorenteggio e che con la macchina da cucire “Superautomatica MOD.
1102”, disegnata proprio per la F.lli Borletti spa, ha appena vinto
il Compasso d’Oro), ma anche con tempi serrati oggi assolutamente
impensabili. Il progetto, infatti, viene presentato all’esame dell’ufficio
tecnico comunale di Gubbio il 4 marzo 1958, la commissione edilizia
esamina la pratica l’11 aprile, la licenza di costruzione viene rilasciata
il 15 aprile, i lavori iniziano il 16 aprile, il decreto con cui il Provvedi-
torato agli Studi di Perugia concede l’autorizzazione a svolgere attività
didattica per l’infanzia è del 19 dicembre 1958, mentre la cerimonia
inaugurale avviene il 19 febbraio 1959.
Tutto in meno di un anno. Eppure l’Asilo Infantile Borletti (questa la
prima intitolazione: quella attuale, scuola materna Dr. Senatore Bor-
letti, viene attribuita nel 1974, in seguito alla donazione dell’edificio
al Comune di Gubbio) è un vero e proprio gioiello architettonico: una
sorta di micro-paese immerso in una cornice naturalistica struggente,
sviluppato su un unico livello per garantire l’accessibilità e articolato
in cinque padiglioni a pianta quadrata (ma di diverse dimensioni) ag-
gregati in modo tale che tutti i locali possano affacciarsi all’esterno.
Peraltro, nonostante il ridotto programma dimensionale, il program-

cura di Marina Fresa, Giulia Giacchè, Luciano Giacchè, Perugia, Quattroemme, 2014, pp. 61-69.

49
ma gestionale e il programma funzionale sono oltremodo ambiziosi.
Il programma gestionale, infatti, prevede per ciascuno dei circa ses-
santa bambini accolti il trasferimento con un minibus dedicato, la
dotazione di un grembiule unisex oltre che di un paio di pantofole e
la fornitura del vitto in base a un’apposita tabella dietetica messa a
punto dal professore Antonio Berardi, docente di Pediatria nell’Uni-
versità degli Studi di Perugia. Mentre il programma funzionale non
si limita a prevedere tre aule (disimpegnate da un patio ottagonale e
attrezzate con spogliatoi oltre che con casellari per il deposito delle
calzature di ricambio), ma prevede anche numerosi locali accessori:
tanto usuali (i servizi igienici e il locale-direzione) quanto inusuali per
l’epoca (un gabinetto medico, una palestra, una sala mensa, una sala
per la musica, una sala per le proiezioni e l’abitazione dell’insegnan-
te). Ciò che ne risulta è un habitat gioioso, perfettamente integrato
con l’intorno collinare e capace d’incarnare il principio pizzigoniano
(ma anche montessoriano) della scuola per l’infanzia intesa come
ambiente vocato a rispettare la gradualità della crescita sensoriale
e motoria. Così come anticipato dalle nitide prospettive disegnate
in punta di matita da Cini Boeri. D’altronde «il fatto che i bambini
possano entrare subito nel cuore dell’asilo, al piccolo patio centrale,
senza attraversare atri o corridoi, che dalle loro aule possano diret-
tamente uscire sul prato intorno (prato aperto e verde su ogni lato
senza scale né limiti di passaggio), che le pareti verticali siano bas-
se, mentre le cupole – piramidali – alte rilevano la forma proiettiva
del tetto, e che le proporzioni dell’esterno siano sempre avvertibili
dall’interno, è espressione architettonica del criterio educativo che
regola questo asilo»3.
Così come lo sono la pratica boiserie (laddove «uno zoccolo conti-
nuo e sempre ad altezza – 50 cm – sia del bambino sia dell’insegnan-
te ingloba lavabi, ripiani, scaffali»4) e i divertenti arredi disegnati ad
hoc approfittando della maestria degli artigiani locali, ultimi eredi di
un’ars lignaria di matrice rinascimentale. D’altra parte, riprenden-
do un’acuta notazione di Marco Zanuso, in architettura non esiste il

3
Marco Zanuso Architetto, cit., p. 244.
4
Ivi, p. 246.

50
confine tra artigianato e design5. Anche e soprattutto in Umbria: così
come dimostra ancora oggi la piccola scuola eugubina, nonostante le in-
solenti offese arrecate da interventi manutentivi ignoranti ovvero ignari
del suo effettivo valore6.

Fig. 1
Gubbio, Asilo Infantile Borletti, veduta esterna (Marco Zanuso 1959).

5
«L’apporto sul piano creativo deriva da una serie di conoscenze e di capacità creative che si
avvalgono di tutti i sistemi che non hanno confine, né da parte dell’artigianato né dalla parte
dell’industria. Tutto quello di cui possiamo disporre deve essere utilizzato a difendere la
creatività». La notazione, tratta da un’intervista di Ugo Gregoretti a Marco Zanuso svoltasi
nell’ambito della trasmissione televisiva Lezioni di design, è pubblicata in Francesca Cigliano,
Marco Zanuso ed Adriano Olivetti. Industrializzazione e progetto, tesi di laurea magistrale in
Architettura, Politecnico di Milano, relatore Giulio Barazzetta, correlatore Marco Biraghi, a.a.
2009/2010, p. 87.
6
Nel 2018 l’Asilo Infantile Borletti è stato selezionato come “architettura d’eccellenza” nell’ambito
del Censimento delle architetture di rilevante interesse storico-artistico del secondo Novecento
nella regione Umbria, svolto dal Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università
degli Studi di Perugia su incarico della Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e
Periferie urbane del Ministero per i beni e le attività culturali.

51
Fig. 2
Gubbio, Asilo Infantile Borletti, veduta esterna (Marco Zanuso 1959).

Fig. 3
Gubbio, Asilo Infantile Borletti, veduta interna (Marco Zanuso 1959).

52
Fig. 4
Gubbio, Asilo Infantile Borletti, veduta interna (Marco Zanuso 1959).

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Fig. 5
Gubbio, Asilo Infantile Borletti, veduta interna (Marco Zanuso 1959).

54
Fig. 6
Marco Zanuso, progetto dell’Asilo Infantile Borletti, planimetria del giardino (1958).

Fig. 7
Marco Zanuso, progetto dell’Asilo Infantile Borletti, pianta (1958).

55
Fig. 8
Marco Zanuso, progetto dell’Asilo Infantile Borletti, particolare della facciata (1958).

Fig. 9
Marco Zanuso, progetto dell’Asilo Infantile Borletti, schizzo di studio (1958).

56
Fig. 10
Marco Zanuso, progetto dell’Asilo Infantile Borletti, sedia maestra (1958).

57
58
59
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IL POTERE LOCALE
NEL TERRITORIO DEL COMUNE
MEDIEVALE DI GUBBIO
Sandro Tiberini

La scelta dell’espressione “potere locale” per definire fin nel titolo le


origini e gli sviluppi del fenomeno della signoria rurale in area eugubina
non è casuale: al contrario, rimanda alla necessità di inserire l’oggetto
della presente trattazione nel quadro di quella che si deve ritenere la
causa remota del proliferare, non solo in Italia centro-settentrionale ma
nell’intera Europa occidentale, di una miriade di potentati il cui domi-
nio si basava sul possesso della terra e che era riuscita a creare una rete
fittissima di vincoli tali da avviluppare in modo più o meno stringen-
te la grande maggioranza delle popolazioni campagnole. Mi riferisco
alla dissoluzione dell’impero carolingio il quale, nato la notte di Natale
dell’anno 800, era riuscito a riunire sotto un’unica autorità un vasto
territorio che andava dall’Elba all’Ebro e che inglobava anche l’Italia
centro settentrionale. La decadenza dell’autorità regia, sempre più ac-
centuata e inarrestabile tra la fine del IX e l’inizio del X secolo, permise
ai grandi signori di impadronirsi delle grandi cariche pubbliche detenute
in un determinato territorio, in particolare quelle di conte e di marchese,
“privatizzandole” e dominando in proprio quei territori che precedente-
mente avevano governato come vassalli dell’imperatore.
E tuttavia tale processo di dissociazione politica e territoriale non si fer-
mò alle grandi circoscrizioni marchionali e comitali ma, a partire dall’i-
nizio del secolo X, andò ancora più oltre: infatti i vassalli, tramite i quali
i conti ed i marchesi amministravano i loro domini, a loro volta si rese-
ro di diritto e/o di fatto indipendenti, insieme ai grandi proprietari che
controllavano possessi fondiari vastissimi, esercitando nei loro territori

61
quei poteri che prima erano prerogativa dei loro signori: è il momento in
cui si arriva alla massima frammentazione del potere pubblico su scala
locale e che si esprime in quella che viene chiamata signoria rurale, la
quale conosce appunto la sua stagione di maggior sviluppo tra X e metà
del secolo XI. Cellula base di tale nuova creazione politica era il castel-
lo, con il territorio più o meno ampio che ogni singola fortificazione
riusciva a controllare1. Per quanto poi concerne in particolare l’Italia, a
rendere ancora più accentuato il vuoto di potere di cui sopra si è detto
si aggiunge il fatto che nelle città, le quali pure per tutto l’alto medioevo
non avevano abdicato alla loro funzione di punti di riferimento territo-
riale per le campagne circostanti, ancora l’esperienza comunale non era
nata o era solo agli inizi: ciò costituì un ulteriore incentivo per i grandi
enti ecclesiastici (vescovi, canoniche e monasteri), e per i più ricchi tra i
proprietari terrieri laici a ritagliarsi aree più o meno vaste in cui esercita-
re un potere sostanzialmente incontrastato.
Il processo di cui per sommi capi si sono descritte le linee evolutive dila-
gò, sia pure con diverse modalità e seguendo ritmi temporali non sempre
coincidenti, in tutto l’antico impero carolingio e si sarebbe poi esteso
anche al di là dei confini di esso. Anche il territorio eugubino dunque
dovette subirne le conseguenze, ma la scarsa documentazione superstite
non ci consente di cogliere nel concreto le modalità con cui tali trasfor-
mazioni agirono effettivamente. Per cui prenderemo le mosse in questo
discorso dal punto di arrivo di esse, vale a dire dall’assetto che il potere
signorile assunse quando raggiunse il vertice della sua parabola, cioè
nella seconda metà del secolo XII. A tale scopo verrà preso in considera-
zione un gruppo di documenti i quali ci consentiranno di cogliere i tratti
essenziali assunti dal dominio di coloro che erano riusciti ad imporre
la propria potestà su una frazione, di estensione imprecisata ma senza
dubbio notevole se non preponderante, dell’antico distretto diocesa-
no della città di Sant’Ubaldo. Mi riferisco ad alcuni diplomi rilasciati
dall’imperatore Federico I Barbarossa nel novembre 1163 a favore della

1
Per un’esauriente, aggiornata ed agile sintesi su questa fase della storia europea, si veda M.
Montanari, Storia medievale, Bari, Gius. Leterza e figli, 2002 (Manuali di base, 1), in particolare
alle pp. 106-115, con bibliografia. A questo proposito si precisa preliminarmente che il termine
“castello” (in latino castrum), in questa sede, sta ad indicare un centro abitato attrezzato a difesa
tramite mura, torri, fossati, palizzate e quant’altro potesse servire a tale scopo.

62
città di Gubbio e di alcuni importanti enti ecclesiastici2: si inizia con la
concessione imperiale di cui furono gratificati il vescovo, il priore della
canonica cattedrale di San Mariano, l’abate del monastero urbano di
San Pietro e, buoni ultimi, i consoli cittadini. In forza essa la parte eccle-
siastica si vedeva riconoscere la piena immunità e conseguente giurisdi-
zione su una lunga serie di importanti castelli, fatto salvo naturalmente il
dominio eminente dell’autorità imperiale. In tale enclave territoriale era
interdetto ai consoli di facere…iustitiam senza il consenso del signore
ecclesiastico e comunque, se tale assenso non fosse stato accordato, i
detti consoli dovevano rivolgersi al locale rappresentante dell’autorità
imperiale (nuncius noster) il quale solo poteva infrangere il divieto. A
tale diploma ne seguivano pochi giorni dopo due altri diretti al detto
monastero di San Pietro e a quello di San Donato di Pulpiano, i quali
venivano posti sotto la protezione imperiale, insieme ai loro possessi,
comprendenti terre, chiese e castelli.
A che cosa si deve tanta liberalità da parte del Barbarossa? Per compren-
derlo è necessario inquadrare tali eventi nella situazione politica che si
era venuta a creare in quegli anni: si ricordi infatti che un anno e mezzo
prima dei fatti sopra ricordati (aprile 1162) Milano, la grande nemica
dell’imperatore, si era arresa senza condizioni ed era stata trattata con
inflessibile durezza, subendo la distruzione della cinta muraria e delle
torri. La cosa fece grandissima impressione in tutta la penisola, e di que-
sto clima di generale sbigottimento approfittò il grande architetto della
diplomazia federiciana, Rinaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia e ar-
cicancelliere d’Italia. Egli nel marzo 1163 intraprese una missione diplo-
matica che ebbe inizio a Pisa ed interessò tra la primavera e l’estate varie
città dell’Italia centrale, allo scopo di rafforzare la posizione dell’impe-
ratore, soprattutto nei confronti di papa Alessandro III. E tale missione
dovette dare i suoi frutti, anche per quanto concerne le città dell’Umbria
settentrionale: infatti, quando Federico scese per la terza volta in Italia
nell’ottobre del 1163, trovò ad attenderlo a Lodi i rappresentanti delle
più grandi signorie ecclesiastiche di Città di Castello, Perugia e Gubbio,

2
Pubblicati in Monumenta Germaniae Historica, Diplomata regum et imperatorum Germaniae,
tomo X parte II (Friderici I diplomata inde ab a. MCLVIII ad a. MCLXVII), Hannover 1979, nn.
410 (1163 novembre 8), 411 (1163 novembre 9), 418 (1163 novembre 13), tutti consultabili on line
nel sito www.dmgh.de.

63
i quali ottennero da un imperatore speranzoso di guadagnarli alla sua
causa una ricca messe di privilegi, ad ulteriore rafforzamento della loro
ricchezza e del loro potere. Per quanto poi concerne Gubbio, la posi-
zione della città rispetto alla contesa tra papato e impero, anche se non
esplicitamente, pare essersi orientata a favore del secondo: già nel 1155
il futuro Sant’Ubaldo era riuscito a far desistere il Barbarossa, che aveva
posto sotto assedio la città, dal suo proposito; dopo la morte del santo
vescovo (1160) i suoi due successori Teobaldo e Bonatto figurano sem-
pre nelle carte come “eletti” ma non “consacrati”, vale a dire che il papa
aveva rifiutato loro l’ordinazione rituale, probabilmente in quanto desi-
gnati da soggetti a lui non graditi, in questo caso l’imperatore; lo stesso
diploma del 1163, come esplicitamente risulta dal documento, era stato
concesso dal sovrano in seguito ad una intesa tra le autorità cittadine e
il suo plenipotenziario Rinaldo di Dassel. Insomma la generosità cesarea
non dovette essere il frutto di una contingente operazione di captatio
benevolentiae messa in atto dalla città ingina, ma il naturale portato di
uno stabile rapporto di alleanza maturato nel tempo.
L’impronta di tale collegamento si percepisce chiaramente nella volontà
da parte dell’inviato imperiale di scegliere come interlocutori privilegiati
coloro che detenevano, in città e nel territorio, una quota probabilmente
maggioritaria del potere, vale a dire i signori ecclesiastici, con l’intento
neppure troppo celato di relegare in secondo piano il collegio consolare,
espressione del nascente comune urbano: come si è visto infatti esso,
oltre a vedere i propri rappresentanti relegati in fondo alla lista dei con-
traenti eugubini, doveva rassegnarsi a cedere il passo al potere clericale
nel controllo di tanta parte del suo territorio. Ciò non deve stupire se si
considera la politica pervicacemente seguita dal Barbarossa, tendente a
ricondurre ad ogni costo sotto le ali dell’aquila imperiale le città italiche
ribelli con le nuove istituzioni che andavano faticosamente elaborando.
E comunque, al di là di tali considerazioni politiche di carattere generale,
si era consapevoli che l’unico modo per poter controllare effettivamente,
non solo la città ma anche e soprattutto il comitato, era quello di veni-
re a patti col vescovo, con il capitolo cattedrale e con gli abati dei più
grandi monasteri, i quali tutti ne controllavano molti dei gangli vitali,
come si può constatare osservando la cartina allegata al presente saggio:
si trattava dei castelli che costituivano lo strumento fondamentale non
solo per la difesa del territorio, ma anche e soprattutto per il controllo
delle popolazioni che in esso vivevano.

64
E quanto fosse estesa e ramificata la rete castrense controllata dai vari
potentati ecclesiastici emerge chiaramente in primo luogo prendendo in
esame il patrimonio di quello di essi che può essere considerato il più ricco
e potente, vale a dire l’episcopato di Gubbio, al quale facevano capo ben
tredici castelli, con i rispettivi territori3: nel settore nordorientale del terri-
torio diocesano, costituito dalla fascia altocollinare preappenninica, erano
di sua pertinenza Scheggia, già proprietà del monastero di Fonte Avella-
na, Monte Santa Maria, Castellare Posserra, Arsena, distribuiti tuttavia
in modo non uniforme e con larghe soluzioni di continuità tra loro. Ad
essi si aggiungevano i due castelli di Carbonana e Sant’Angelo di Assino,
posti l’uno di fronte all’altro in posizione dominante in corrispondenza del
punto di intersezione tra la strada di fondovalle che costeggiava l’Assino
e l’antico tracciato viario che, passando per Pietralunga, consentiva di im-
mettersi sulla Flaminia all’altezza di Acqualagna. Vi era infine quello che
può essere considerato il cuore della signoria episcopale, vale a dire un’a-
rea incastellata che si collocava lungo il crinale dello spartiacque collinare
che separava e separa il bassopiano eugubino dalla valle del Tevere: Ana,
Agnano, Sasso, Fusciano, Colle Casale, Terzano e Montelovesco, ove il
presule eugubino possedeva un palatium in cui spesso si trasferiva.
Appena seconda rispetto all’episcopato era le canonica della cattedrale
di San Mariano con i suoi dieci castelli: a settentrione della città, sull’al-
ta valle del fiume Burano, vi era l’omonimo castrum Burani a cui faceva
capo un’area territoriale assai vasta che coincideva in larga misura con
la circoscrizione della locale pieve di San Paterniano di Valdicasole, an-
ch’essa di pertinenza canonicale e presso la quale sorgeva il castello so-
pra nominato. L’altro distretto castrense in cui si articolava il dominato
ecclesiastico si collocava lungo il crinale altocollinare a cavallo tra la
valle del Tevere e la piana di Gubbio, quindi in perfetta continuità con
quello episcopale: risalendo infatti dal tracciato fluviale della Saonda,
troviamo Monteluliano, Montanaldo, Agello eugubino e Castiglione Al-

3
Tale prospetto è stato costruito sulla base dei dati contenuti in S. Tiberini, Le signorie rurali
nell’Umbria settentrionale. Perugia e Gubbio, secc. XI-XIII, Roma, Ministero per i beni e le attività
culturali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1999 (Pubblicazioni degli Archivi, di Stato, saggi, n.
52). Per l’individuazione delle località in cui tali castelli sorgevano si veda la cartografia allegata a
P. L. Menichetti, Castelli, palazzi fortificati, fortilizi, torri di Gubbio dal secolo XI al XIV, Città di
Castello, Rubini & Petruzzi, 1979, e , più di recente, A. Barbi, Atlante geografico del territorio di
Gubbio nel ‘700, Gubbio, Comune di Gubbio-Tipografia G. Donati, 1997.

65
dobrando, pomo della discordia tra Perugia e Gubbio; subito appresso,
Carestello e Montesalaiolo; più a sud, in prossimità della Valle del Teve-
re, Valmarcola e Galgata, alle sorgenti della Ventia, quest’ultimo tuttavia
in condominio con il cenobio di Santa Maria di Valdiponte; in prossi-
mità della strada che portava verso Perugia, il castello di Ghigiano, con
annesso l’ospizio di Monte Baroncello. Insomma la presenza signorile
ecclesiastica nella parte meridionale del comitato eugubino appare essere
nel suo complesso ampiamente e solidamente radicata e tale comunque
da condizionare pesantemente il controllo del territorio da parte del po-
tere laico. Anche nel settore settentrionale del distretto cittadino il vesco-
vo e il capitolo disponevano di solide basi di appoggio, pur se separate
da ampie soluzioni di continuità.
A chiudere il cerchio della preponderante presenza signorile ecclesiastica
nella parte meridionale del comitato eugubino si aggiungeva il monaste-
ro rurale di San Donato di Pulpiano, detto anche di San Bartolomeo di
Petroio, il quale doveva sorgere all’estremità meridionale della piana di
Gubbio, a sud di Padule. Il suo prestigio è testimoniato dal fatto che esso
insieme al cenobio di San Pietro fu destinatario, come si è visto, di un
diploma che lo poneva sotto la diretta protezione imperiale. E in effetti
il suo patrimonio castrense era di tutto rispetto e soprattutto ben collo-
cato dal punto di vista strategico, poiché in gran parte gravitante intor-
no allo snodo viario costituito dal corso del fiume Chiascio, importante
corridoio di comunicazione in direzione della valle del Tevere e della
Valle Umbra. Infatti, oltre ai castelli di Petroio, Torre Calzolari e Monte
Berto, siti in prossimità della sede monastica, vi erano le due fortezze di
Colpalombo e di Gabiano, che si fronteggiavano sulle due rive del Chia-
scio e potevano sbarrare il passo a chiunque intendesse transitare lungo
il percorso di fondovalle. Più a sud, sulla riva sinistra del fiume ma in
posizione più elevata e appartata, vi era il grande fortilizio di Giomici il
quale, con la sua altissima torre, assicurava il controllo visivo di un’area
assai vasta. Risultano inoltre far parte del dominato monastico i castelli
di Gagianum, di incerta localizzazione, e Glea, probabilmente da identi-
ficare con Ghea, tra Fossato di Vico e Sigillo; infine vengono menzionati
nelle fonti castrum Aioli e castrum Aiolitti, siti tuttavia in comitato fe-
retrano. E questo non è tutto: infatti la piazzaforte di Branca, distesa su
un elevato promontorio collinare che domina il punto in cui il Chiascio,
dopo aver ricevuto le acque della Saonda, si “ingrotta” per così dire nel-
lo stretto corridoio vallivo di cui sopra si è detto, era di pertinenza di un

66
altro monastero, cioè quello di Santa Maria di Alfiolo; anch’esso sorgeva
nei pressi di Padule di Gubbio, ove ancora oggi esiste un vetusto edificio
fortificato che conserva il nome dell’antico cenobio.
Per concludere questa rassegna per forza di cose schematica, è necessario
ora rivolgere l’attenzione al monastero benedettino di San Pietro di Gub-
bio, se non altro perché esso compare tra i pochi destinatari della liberalità
cesarea, e anche in quanto il suo abate Offredo risulta aver fatto parte del-
la “triade” con cui l’inviato del Barbarossa era sceso a patti per ottenere la
sottomissione della città ingina. Purtroppo però l’unico documento che ci
informa sui possedimenti del monastero, vale a dire il diploma imperiale
più volte citato, si limita genericamente ad indicare i territori in cui essi si
trovavano senza tuttavia specificarne la natura. Doveva comunque trat-
tarsi di un patrimonio ingente, se si considera che era distribuito in ben
quindici tra pivieri e curtes, probabilmente concentrati nelle aree più pros-
sime alla città, anche se non sempre non si riesce a individuarne la precisa
ubicazione. Resta infine da menzionare il monastero di San Benedetto di
Monte Pilleo, detto anche San Benedetto Vecchio, che sorgeva nella fascia
altocollinare a ridosso del confine con il comitato tifernate: esso possedeva
il castello, detto appunto di San Benedetto, che si ergeva al vertice dell’al-
tura sulle cui pendici si trovavano la chiesa e gli edifici monastici, oltre ad
un altro castello, quello di Somole, in comitato tifernate.
A fronte di questa poderosa presenza del dominato vescovile, canonicale
e monastico nel territorio, la signoria rurale laica, che pure annoverava
numerosi lignaggi e gruppi magnatizi4, appare largamente minoritaria e
subalterna. Nessuno di tali soggetti poteva infatti vantare il possesso di
un numero di castelli paragonabile a quello che invece abbiamo visto co-
stituiva il patrimonio dei più grandi enti ecclesiastici. Se infatti scorriamo
la lista dei signori laici che in area eugubina controllavano, in tutto e/o
in parte, insediamenti incastellati5, sono pochi quelli che ne possedevano
più di uno, e comunque in nessun caso si assiste alla creazione di estese
coordinazioni territoriali costituite dalla giustapposizione di più distretti
castrensi. Questa intrinseca debolezza trova la sua spiegazione nella na-

4
Si veda in proposito Tiberini, Le signorie rurali nell’Umbria settentrionale, in particolare alle pp. 65-
150, e Id. Repertorio delle famiglie e dei gruppi signorili nel Perugino e nell’ Eugubino, tra XI e XIII
secolo (con un saggio introduttivo), Perugia, Deputazione di storia patria per l’Umbria, 2006 (ed. in
e-book, www.dspu.it, pubblicazioni).
5
Tiberini, Repertorio delle famiglie e dei gruppi signorili, tabella a pp. 39-43.

67
tura degli enti ecclesiastici che facevano la parte del leone nella spartizione
del dominio sulle terre e sugli uomini del territorio eugubino: essi infatti
affondavano le loro radici assai indietro nel tempo, quanto meno negli
ultimi secoli dell’alto medioevo, quando incrementarono enormemente le
loro fortune lucrando sull’appoggio e sulla liberalità dei grandi poteri so-
vralocali, in primo luogo e in ugual misura il nascente impero carolingio e
il papato romano, oltre che sull’ininterrotto flusso dei lasciti pro anima dei
fedeli. Per cui quando, con la generale tendenza alla ripresa demografica ed
economica degli anni successivi al Mille, altri soggetti si fecero avanti alla
ricerca di una propria autoaffermazione, si scontrarono con una situazione
ormai radicata e consolidata nel tempo, e comunque tale da lasciare assai
poco spazio alle forze nuove che premevano. Si assiste cosi alla generale
tendenza, da parte di famiglie e gruppi magnatizi, a stringere rapporti di
tipo clientelare con vescovi, collegi canonicali e abati, in modo da ottenere
da loro terre, servi e castelli nella forma della concessione enfiteutica: in
questo modo i signori di Serra acquisirono Giomici dal monastero di San
Donato di Pulpiano, mentre i signori di Branca ebbero il castello da cui
presero il nome da Santa Maria di Alfiolo. In altri casi, come ad esempio in
quello dei Guelfoni, le massicce donazioni di terre e anche di castelli alla si-
gnoria clericale (nello specifico alla canonica di San Mariano) mostrano in
controluce la volontà di inserirsi stabilmente nell’entourage di un patronus
ricco e potente cui appoggiarsi nei momenti di difficoltà.
Per tutti questi motivi i grandi dominati ecclesiastici rimasero la colonna
portante di quello che potremmo definire il sistema del potere locale
nell’Eugubino, fino alla metà del secolo XIII. E tuttavia, a partire dalla
seconda metà del secolo XII si nota la tendenza da parte del comune di
Gubbio all’erosione di tale situazione di privilegio, che di fatto sottrae-
va una grossa fetta del comitato alla sua giurisdizione. Dei progressi in
tal senso dell’autorità cittadina è testimonianza il diploma di Enrico VI
concesso nel 1191 direttamente ai consoli eugubini, senza più la media-
zione del vescovo, del capitolo e dell’abate di San Pietro come era avve-
nuto nel 11636. Inoltre, e questo certamente è il dato più significativo, in

6
Si veda in proposito G. Casagrande, Il Comune di Gubbio nel secolo XII, in Nel segno del
Santo protettore: Ubaldo vescovo, taumaturgo, santo, atti del Convegno internazionale di studi
(Gubbio, 15-19 dicembre 1986), a cura di S. Brufani e E. Menestò, Firenze, Regione dellUmbria-
La Nuova Italia, 1990 (Quaderni del Centro per il collegamento degli Studi Medievali e Umanistici
nell’Università di Perugia, n. 22), particolarmente alle pp. 44-47.

68
tale diploma scompare la citata clausola in forza della quale ai consoli
era precluso di facere iustitiam nei territori di pertinenza ecclesiastica
senza il consenso del dominus. Ciononostante tuttavia accade che, nei
decenni successivi, vari castelli che nei diplomi imperiali venivano men-
zionati come sottoposti al comune, nei privilegi pontifici risultano in-
vece attribuiti al vescovo e alla canonica di Gubbio, destinatari della
concessione papale. È probabile che il persistere di questa situazione di
ambiguità fosse la spia di una tensione latente tra i due potentati, quello
laico e quello ecclesiastico, l’uno deciso a far piazza pulita di ogni tipo
di condizionamento che limitava la sua autonomia e l’altro altrettanto
determinato a non cedere di un passo sulle sue antiche prerogative. Tale
contrasto esplose in modo violento e plateale nel 1257, quando il comune
di Gubbio, in guerra con Perugia, sua storica rivale nel controllo delle vie
di comunicazione con l’Adriatico, occupò militarmente i castelli vescovili
di Montelovesco, Ana, Agnano, Sasso, Pluscanum, Sant’Angelo di As-
sino e Monte Santa Maria, per rappresaglia contro papa Alessandro IV
che sosteneva Perugia nel conflitto con il comune di Gubbio. Ciò diede
origine ad un contenzioso tra quest’ultimo e il vescovo che si protrasse
fino al 1282 quando, come era fatale, tra le due parti fu quella ecclesia-
stica a dover cedere: infatti il vescovo fu costretto a rinunciare ai suoi
diritti signorili sui detti castelli e sugli abitanti di essi, conservando solo
la facoltà di ricevere la rendita fondiaria che derivavano dalla proprietà
della terra7. Dunque, con la disfatta totale della più antica e potente tra
le signorie rurali crolla tutto l’edificio del potere locale, così come si era
venuto strutturando a partire dal secolo XI. L’ultimo atto di tale processo
si ha nel 1297, quando il comune di Gubbio ottenne, o meglio impose,
l’abolizione di tutti i pedaggi riscossi da soggetti privati nel territorio, an-
che se tali diritti di esazione vennero riscattati dal comune stesso tramite
pecunia. Dopodiché scompare dalle fonti ogni traccia di quella che era
stata la signoria rurale in territorio eugubino.

7
Su questo argomento cfr. S. Tiberini – S. Merli, Il castello eugubino di Carbonana e i suoi signori
(secc. XII-XVIII), Perugia, Deputazione di storia patria per l’Umbria, 2015 (Biblioteca della
Deputazione di storia patria per l’Umbria, n. 14), pp. 15-23.

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70
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L’EVOLUZIONE URBANISTICA
DEL QUARTIERE DI SAN MARTINO
DI GUBBIO
Paola Monacchia

Noto che quanti si sono via via occupati di Gubbio, hanno rilevato la pre-
senza di una città antica e poi di una città nuova, edificata a partire dal
XII secolo più in alto, sulle pendici montane, grazie alla spinta dello stesso
Ubaldo che fu vescovo tra il 1130c. e il 1160, e hanno identificato il futuro
quartiere duecentesco di San Martino come l’erede del ben più antico vicus
Ultra Aquam, ovvero un insediamento altomedievale che si ipotizza feudale,
sorto sul lato destro orografico del Camignano, oltre l’acqua dunque. Eb-
bene, tra gli esempi documentari che lo riguardano e che si possono citare
grazie anche al prezioso lavoro su: Carte e diplomi di Gubbio dall’anno 900
al 1200, ovvero il “codice diplomatico eugubino” curato e pubblicato nel
1915 dal canonico Pio Cenci, che raccolse, trascrivendoli con cura, oltre
400 documenti trovati negli archivi cittadini, ne sono stati qui scelti alcuni
tra i più significativi. Il primo data al 1122 ed è un contratto di permuta tra
il priore di Fonte Avellana e il priore della canonica di S. Mariano, ancora
Ubaldo, con cui alla canonica veniva concesso un mulino posto vicino al
ponte della foce del Camignano. Nel 1163 poi, sempre alla medesima ca-
nonica viene donato una parte di un altro mulino posto in foce Caminano
(doc. 270) e non si dimentichi che nel medesimo anno, l’otto di novembre,
si redige un documento politicamente ben più rilevante, ovvero il diploma
dell’imperatore Federico I Barbarossa che concede alla città vari riconosci-
menti di immunità, giurisdizioni territoriali ad altro ancora. Altro atto
ufficiale, datato al 1188, è invece quello con cui papa Clemente III concede
al vescovo Bentivoglio di poter trasferire le reliquie dei santi dalla città an-
tica a quella nuova che si costruisce sul monte, de novo (doc. 400). Nello

77
stesso periodo poi, ovvero tra il 1188 e il 1194 (doc. 401), ancora il vescovo
Bentivoglio conferma alla canonica di S. Mariano il possesso dei beni e cede
il terreno per la costruzione della nuova chiesa e canonica; e finalmente, nel
1191 (doc. 410) l’imperatore Enrico VI, figlio del Barbarossa, assolve gli
eugubini da un bando comminato per qualche subbuglio anti imperiale e
riconosce loro il permesso di edificare la nuova città sul monte e ai consoli
il pieno riconoscimento del facere iustitiam, senza condizionamenti da parte
vescovile, come era stato prima. Il comune eugubino è dunque ormai ma-
turo; nel 1192 Ubaldo verrà canonizzato diventando il defensor civitatis, e
nel 1199 arriverà anche la sottomissione di Cagli a sottolineare l’interesse di
Gubbio verso la più facile area marchigiana, schivando la parte opposta con
la potente e ingombrante Perugia. È bene puntualizzare che la storia civile
va sempre di pari passo con quella ecclesiastica e religiosa, e quindi per com-
prendere lo sviluppo urbano e territoriale di una città è fondamentale co-
noscere anche quello diocesano e degli edifici ecclesiastici e religiosi via via
fondati. Tornando al caso specifico del diploma imperiale, nel lungo elenco
di proprietà compaiono anche la pieve di S. Giovanni ubicata in suburbio
iusta murum civitatis e la chiesa di San Giuliano positam supra murum civi-
tatis, e questo fa dunque intravedere un disegno delle mura urbiche ancora
antico, molto diverso da quello del tardo medioevo quando le dette chiese
saranno saldamente posizionate all’interno della nuova cinta che, probabil-
mente, per la parte meridionale del quartiere di San Martino e il Mercatale,
verrà edificata per ultima, dopo quella del tratto da S. Agostino e il Ponte
Marmoreo, già terminata nella seconda metà del Duecento.
La vera espansione dell’abitato, verso il futuro quartiere di San Pietro1
avverrà infatti nel corso del XIII secolo dopo l’attestarsi in alto del polo
amministrativo-religioso, con la nuova cattedrale, la canonica e i primi
palazzi pubblici, oggi non più visibili perché il loro sito sarà occupato
poi dal palazzo ducale. Il definitivo radicarsi del potere comunale, su-
perata la metà del secolo, porterà ad un nuovo disegno anche ammini-
strativo-urbanistico ovvero si abbandonerà l’antica divisione in vici per
assumere quella in quartieri. In un documento datato 14 agosto 1263
e rintracciato nel Fondo Armanni della locale Sezione di Archivio di

1
A. Luongo, Gubbio nel Trecento : il comune popolare e la mutazione signorile (1300-1404),
Roma, Viella, 2016, p. 38.

78
Stato2, viene nominata durante la redazione dell’inventario delle reliquie
dei santi conservate in città, la cassa che le custodiva. Questa era chiusa
da 7 chiavi, ognuna delle quali era tenuta dai rappresentanti dei sette vici
cittadini tra cui il nostro vicus Ultra Aquam. Questi “guardiani” delle
chiavi giuravano di conservarle per conto del Comune eugubino e le sal-
vaguardavano da ogni rischio. L’unificazione dei vici che erano di norma
dotati di proprie autonome fortificazioni, portò con sé la necessità di rive-
dere la protezione del nuovo centro urbano e dunque, dalla metà circa del
Duecento, si dovette ripensare una diversa e allargata cinta muraria, con
eccezione magari del campus mercatalis che non risulta incluso nelle mura
ancora nel primo Trecento, mura che comunque dovettero essere molto
avanti nel 1338, sebbene i documenti, soprattutto le riformanze comunali,
oggi conservate presso la locale Sezione di Archivio di Stato, anche se mol-
to lacunose e inesistenti prima del 1326, ci testimoniano che molti furono
i lavori di rinforzo e di risarcimenti già a fine Trecento. La città dunque
si troverà divisa, e forse prima del 1283, stando almeno ad una fonte su
cui torneremo, in quattro parti, perché a differenza di oggi, il termine
quartiere significava veramente “quarta parte”, mentre, sempre citando il
Menichetti, un’ordinanza consolare ordinò ma solo nel 1340, di istituire,
all’interno di ognuno di questi, le contrade, sei per ogni quartiere3.
Molte lacune documentarie però non ci consentono di sapere tante altre
cose sull’istituzione dei quartieri, a cominciare dai loro confini ed oggi
un problema a lungo studiato da Paolo Micalizzi4, è stato proprio quello
di riuscire ad identificarli il più possibile. Si conoscono, in compenso, i
loro nomi: San Giuliano, Sant’Andrea San Pietro e San Martino, e pro-
prio quest’ultimo è riconosciuto come quello con l’impianto più antico,
quel vicus Ultra Aquam appunto, che avrebbe avuto nel Camignano una
naturale divisione dal resto del nuovo abitato a cui sarà collegato nel
punto più rappresentativo della propria viabilità, dal ponte di San Mar-
tino, cosi detto dall’omonima chiesa, su cui poi verrà edificata la ben più

2
Il documento in questione, insieme del resto a molti altri inediti, si ritrova citato nel ben noto lavoro
di P.L. Menichetti, Storia di Gubbio dalle origini all’Unità d’Italia, Città di Castello, Petruzzi, 1987.
3
Per San Martino si enunciano le contrade con vessillo Spate (al trivio di San Martino); Graticule
(vicino alla chiesa di San Lorenzo); Crucis (vicino alla chiesa di S. Croce del Mercato); Porte (vicino
alla porta del Borgo di S. Lucia); Fontis (vicino alla fonte di S. Verecondo); Turris (vicino a porta
Scattonis).
4
Profondo conoscitore della città, è autore, in particolare, del volume a questa dedicato: Gubbio,
storia dell’architettura e della città, [Gubbio], L’Arte Grafica, 2a ed. 2010.

79
vasta San Domenico e forse all’inizio, l’unico ponte in muratura insieme
al ponte Marmoreo. Sulla sponda opposta del ponte iniziava invece il
quartiere di San Giuliano, ma i confini, come già detto, non sono facili
da definire e probabilmente ci sono ancora oggi dei punti da meglio de-
finire, ammesso che vi si possa mai riuscire. Certo è comunque, che l’im-
portanza della loro delimitazione nel Medioevo era basilare per la fun-
zione politico-amministrativa che, in assenza di un sistema come quello
moderno, basato sull’anagrafe e numeri civici, fungeva anche come si-
curo riconoscimento per l’identificazione degli abitanti. Non a caso nel
1327 il Comune emanò una direttiva che imponeva ai notai di riportare
nei singoli atti da loro rogati: nome, patronimico, nome del nonno e
quartiere di residenza, per evitare in pratica, il pericolo di omonimie.
Tornando all’espansione del quartiere di San Martino, sempre Micaliz-
zi annota come il suo ampliamento più significativo avverrà solo con la
signoria feltresca e dei della Rovere, ovvero solo dopo il 1384. Prima,
invece, la forza espansionistica della città si sarebbe arenata a cominciare
dalla fine del XIII secolo ed essenzialmente per due motivi: il primo perché
a partire dal 1321 circa, ogni risorsa pubblica era stata veicolata nella co-
struzione del nuovo centro politico, poi perché, nella seconda metà dello
stesso secolo, a partire dalla peste nera del 1348, il sistema comunale era
ormai caduto in crisi, e la città si sarebbe dunque risollevata solo con la
sua dedizione ai Montefeltro. Non so bene se questo sia del tutto vero, ma
semmai lo è soprattutto per l’ampliamento privato. Per il quartiere di San
Martino questo significò per esempio, grazie alla revoca ducale dei bandi
contro i ghibellini, il loro ritorno in città e la conseguente costruzione di
nuovi palazzi come il palazzo Beni che si posiziona nel quartiere ma fuori
dell’antica “goccia” medievale che trovava prima San Domenico pratica-
mente al suo confine, allargandolo invece ora fino al campus mercatalis e
permettendo così al San Domenico, o meglio alla piazza di San Martino,
oggi Giordano Bruno, di diventarne il vero baricentro.
Ma ancora Micalizzi riconosce che per il quartiere di San Martino, alcu-
ne prime, consistenti trasformazioni, e questa volta da leggersi in chiave
antighibellina, erano già state registrate agli inizi del Trecento, quando,
proprio per tenere sotto controllo l’antico vicus feudale, il Comune avreb-
be costruito il palazzo del capitano del popolo e quello, oltre i confini
dello stesso quartiere, del Bargello. E sempre nel periodo tra 1315 - anno
della compilazione degli elenchi dei ghibellini - e la metà del secolo, situa
la probabile edificazione di altri palazzi ma di famiglie di provata fede

80
guelfa come i Panfili, due dei quali, Puccio e Pietro Panfili nel 1342, ven-
nero anche eletti a sovrintendere i corpi di guardia dello stesso quartiere
istituiti per la difesa dalle aggressioni ghibelline. Poi però tutto ristagnerà
fino all’arrivo dei Montefeltro quando torneranno i ghibellini a edificare i
loro palazzi e i Beni costruiranno il proprio davanti a quello dei Panfili, ac-
corpando intorno a chiostri e cortili, molte antiche fabbriche preesistenti.
Per quello che ci riguarda difficilmente potranno esaurirsi del tutto i
dubbi e le incertezze sui confini del nostro quartiere con quello di San
Giuliano, ingenerati, come sappiamo bene, soprattutto dalla famosa de-
libera del 1321 che prevedeva la costruzione del nuovo polo comunale
tangente tutti e quattro i quartieri, ma che poi andava a scontrarsi con
l’altra documentazione relativa all’individuazione, scritta nelle rifor-
manze, delle porte tra 1349 e 1350, ma non escluderei altri passi avanti
con una ulteriore e mirata indagine attraverso le fonti, alcune delle quali
già rintracciate, possono servire a meglio comprendere la situazione.
Il primo documento già accennato, risale al 1283, quando i quartieri
sono ormai istituiti sì, ma da non molti anni, forse da dopo il 1279,
anno in cui, secondo le cronache, un grande terremoto distrusse, il 30
di aprile, molte città tra le attuali Marche e Umbria, compresa Cagli
e Fabriano. Il documento parla di un tal Mantia Bartoli che, malato
e forse in punto di morte, fa testamento e lascia, fra l’altro, 20 soldi a
tal Cambiuccio Iacopelli de quarterio Sancti Martini, vel Sancti Petri5,
dunque l’incertezza sulla residenza fa capire che era al confine dei due
quartieri che evidentemente si toccavano. Il documento peraltro ci dice
chiaramente che, a questa data - 1283 - esisteva già un quartiere di San
Martino, nonostante che l’omonima chiesa verrà riconsacrata solo quat-
tro anni dopo, nel 12876. E poi c’è anche da annotare che, se pure non si
parla ancora di quartiere, tuttavia è attestato un borgo di San Martino
almeno nel 1221. Lo sappiamo per certo sempre grazie a un documen-
to d’archivio, per l’esattezza una pergamena dell’archivio vescovile che
parla della donazione di una casa appartenente alla mensa vescovile,

5
P. Monacchia, Le pergamene del convento di San Francesco di Gubbio: inventario-regesto, Santa
Maria degli Angeli-Assisi, Porziuncola, 2007, p. 69.
6
Micalizzi invece crede che il quartiere sia sorto per ultimo dopo la consacrazione dell’omonima
chiesa che però, forse diruta per eventi bellici, o naturali e quindi risarcita nel 1287, esisteva già da
molti anni.

81
situata per l’appunto nel borgo di San Martino7, fatta appunto nel 1221
dall’allora vescovo Villano al capitolo della cattedrale.
Il secondo è del 1424, in periodo ormai signorile, e di per sé non è certo
straordinario, una donazione ai frati di San Francesco di alcuni pezzi di
terra. L’atto però ci interessa perché viene rogato nel quartiere di San
Martino, presso la cappella della confraternita di Santa Maria Mercati
laycorum posita iuxta flumine Camignani. Stesso discorso per un atto
comunque più tardo, del 1507, quando un abitante del quartiere di San
Martino, Renzo detto de Ceccarullo, dona terre e case ai francescani per
la cappella di San Sebastiano nella loro chiesa e l’atto, è chiaramente
espresso, viene rogato in quarterio S. Martini in ecclesia Sancti Franci-
sci8.
Dunque, il quartiere di San Martino, si estendeva fino a quello di San
Pietro, inglobando peraltro importanti luoghi come la confraternita di
S. Maria dei Laici e la chiesa e convento di San Francesco e credo che
tale disegno, tutto ultra aquam, fino al campus mercatalis, gli fosse sem-
pre appartenuto, fin dal suo sorgere nel XIII secolo.
E poi, per meglio entrare dentro il quartiere, c’è un’altra fonte documen-
taria che per cronologia e importanza può aiutarci. Se infatti nel 1321
venne decisa la costruzione del complesso monumentale rappresentato
dal Palazzo del Popolo (dei Consoli), dal Palazzo del Podestà e della
Piazza Pensile, nel 1338, anno dell’inaugurazione del Palazzo dei Conso-
li, veniva pubblicato lo Statuto del Comune.

Lo Statuto del 1338 e il quartiere

Vediamo dunque di ritrovare il quartiere di San Martino nello statuto vecchio


del 1338. Nel vi libro, tra le norme relative alle cose straordinarie, si incontra-
no quattro rubriche riguardanti lavori da farsi nei quartieri cittadini espressa-
mente citati e su quattro, tre riguardano San Martino ovvero, le rubriche n.
43, 46 e 51 che rispettivamente ordinano la costruzione di una cloaca in una
parte del quartiere evidentemente ancora sprovvista di spurghi; il “restauro”

7
P. Monacchia, Il beato Villano vescovo di Gubbio (1206-1238), in Gubbio città francescana,
Perugia, Deputazione di storia patria per l’Umbria, 2015, p. 45.
8
Monacchia, Le pergamene, pp.100, 110.

82
o meglio il ripristino della parte dell’acquedotto comunale presso San Vere-
condo, richiudendo tutte le finestre abusivamente aperte nel muro e infine,
l’ordine del completamento della fonte, cisterna, lavatoio e acquedotto della
fonte del quartiere, presso le case dei nobili Baroncellis. In prossimità di que-
sto gruppetto di rubriche, vi è anche la n. 48 che riguarda molto da vicino il
nostro quartiere e per lavori molto importanti ancora oggi ben visibili, ovvero
il permesso del pubblico magistrato di inserire con i dovuti lavori, i luoghi di
San Domenico e San Giacomo, con i loro terreni circostanti, ancora al di fuori
della cinta urbica, all’interno delle mura, ovviamente con un ampliamento del-
le stesse, e ben sappiamo che la fabbrica di San Domenico, già di San Martino,
è oggi, quasi al centro del quartiere.
La rubrica n. 20 parla poi della manutenzione del muro costruito in
flumine Camignani dal ponte di Sant’Anna al ponte di San Martino che,
se dovesse essere distrutto per colpa dei privati ivi residenti, è ordinato
che questi avrebbero dovuto risarcirlo a loro spese. Va citata poi anche
la rubrica n. 14 sulle elemosine ai luoghi pii, che parla dell’ospedale
di Sant’Anna de fauce Camignani, ovvero dell’antico ospedale e ponte
all’estremo lembo della città verso S. Croce della Foce9.
Ma nello stesso libro dello statuto (rub. 39) si parla anche del divieto
di non insozzare con letame e altro, il tratto di strada che costeggia le
mura da porta S. Dominici usque ad portam Burgi Plusciani (o Pisciani);
porta Scattonis è invece ricordata nel terzo libro (rub. 83) a proposito
delle pene previste per chi danneggiava le mura, magari aprendovi fine-
stre o porte, e specialmente a partire dalla casa di Filippo Simplici usque
ad portam Scattonis10. Nel trivio di San Martino, oltre che in quello
Morlupi e della fonte di San Giuliano (rub. 1 del terzo libro del penale)
era ubicato uno dei luoghi pubblici dove bandire i decreti comunali ecc.
Se parliamo delle attività del quartiere e dei luoghi fisici ad esse deputati,
sotto vari aspetti, dall’esercizio di un’arte al mutuo soccorso ospedaliero,
ai luoghi di adunanze degli iscritti e così via, allora si impone uno spazio

9
La chiesa detta di Sant’Anna della Foce dei frati armeni, già ubicata sulla strada che porta al
Bottaccione all’altezza del Primo Mulino, fu costruita dai frati armeni all’inizio del 1300 e fu
abbandonata perché cadente, solo nei primissimi anni del 1800.
10
Per inciso va ricordato che la famiglia Semplici o Ghirelli è stata ultimamente studiata da
Alberto Luongo (Gubbio nel Trecento, pp.302-308) che ci informa come a partire dal figlio di
Filippo, Andreolo alias Ghirello, del q. S. M., furono un importante nucleo di operatori finanziari,
prestavano denaro a numerosi cittadini ma senza mai essere tacciati di usura e anzi, imparentandosi
con i nobili locali.

83
ben definito da ritagliare per l’arte del cuoio, peraltro già studiata da Co-
stanza Maria Del Giudice in un suo pregevole saggio11. Anche a Gubbio
dunque, l’arte del cuoio, insieme a quella della lana, aveva una notevole
preminenza, non tanto per ricchezza, quanto per il grande numero degli
iscritti. Al suo interno erano compresi anche i ciabattini e i conciatori di
pelli. Già la rubrica n. 158 dello statuto comunale del 1338 dall’eloquente
titolo: De pena proicentis aquam scotanatam in flumine Camignani, sta-
bilisce il divieto di sporcare il fiume per alcune ore al giorno con i residui
delle foglie di scòtano che erano servite per la concia di pelli. Questo ci
aiuta anche a capire che l’attività aveva bisogno di acqua, di molta acqua
e il Camignano poteva egregiamente sopperire a tal fabbisogno favorendo,
di conseguenza, insediamenti lavorativi lungo le sue sponde.

La domus dell’Arte

La memoria cittadina tramanda l’esistenza secolare nel quartiere di San


Martino della struttura edilizia denominata «Casa dei Calzolari», che
era situata in prossimità del Camignano . de extra et prope portam Sca-
toni12, l’odierna porta Metauro consueto varco di transito in direzione
delle Marche. La domus era contigua alla chiesa di Santa Croce13, luogo
religioso fortemente radicato nel tessuto urbano tanto da connotare con
il proprio nome la limitrofa porta cittadina e la stessa zona della Foce.

11
C.M. Del Giudice, L’arte del cuoio a Gubbio nel XIV secolo, in «Bollettino della Deputazione
di storia patria per l’Umbria», LXXXVII (1990), pp. 131-153 e poi ripreso in parte dalla stessa
autrice, ma non solo, nel volume del 2012 dedicato, con ampia introduzione anche storica, alla
trascrizione del breve dell’arte stesso (Breve dell’arte dei calzolai di Gubbio : 1341-1611 , a cura di
C. Cutini, Gubbio, s.n., 2012).
12
La citazione risale all’anno 1508 (Archivio dell’Università dei Calzolari di Gubbio [d’ora in poi AUCG],
4, c. 103r.
13
Della contiguità tra le due strutture si parla in una delibera consiliare del 1755, con la quale si
disponeva l’esecuzione di lavori nella «stanza del formaggio posta vicino alla stanza che conduce alla
chiesa di Santa Croce»; la prossimità rilevata si conferma ancora nel 1779, in occasione di danni prodotti
al «ponte di Santa Croce annesso» alla casa dei calzolai (AUCG, 9, cc. 119v-120r; ivi, 8, c. 93v). La
chiesa di Santa Croce della Foce apparteneva alla confraternita laicale omonima, aggregata all’ordine
di San Domenico nel 1274 (O. Lucarelli, Memorie e guida storica di Gubbio, Città di Castello, S. Lapi,
1888, pp. 607-608); tuttora sede di confraternita, costituisce un importante punto di riferimento per
l’abituale processione del Venerdì Santo. Nelle decorazioni del soffitto ligneo della chiesa è presente
l’emblema dell’Arte dei Calzolai, elemento che rinvia a una specifica committenza e a un coinvolgimento
devozionale favorito dalla frequentazione degli stessi spazi.

84
Il nome della chiesa con l’appellativo: Alla foce è dovuto al fatto che
si trova alla sinistra idrografica del Bottaccione che prima della chiesa
scorre tra ripide pareti di roccia e poco dopo la chiesa si apre nella vallata.
La Chiesa sorgeva presso le antiche mura della Gubbio umbra (ikuvium),
non lontano dalla porta Trebulana, che nel secolo xiv si chiamò Porta S.
Anna, ora non più esistente.
Il breve dell’arte si apre con il giuramento reso nel 1348 da due calzolai pro-
prio in una casa del quartiere di San Martino, allora di proprietà del capitano
in carica Mellus Accurroli sive Vaccarelli14, personaggio che sarà più tardi au-
tore del trasferimento all’Arte di appartenenza della titolarità della casa stessa.
La situazione emerge da testimonianze prodotte in un contenzioso giudi-
ziario del 1410, che menzionano l’evento dell’acquisizione della suddet-
ta struttura identificandola come sede dell’Arte e, nel contempo, come:
hospitale de Fauce Camignani seu hospitale calçolariorum. Ancora leg-
gibile nell’attuale assetto urbanistico, la domus era confinata tra la via
pubblica e la Foce del Camignano.
Al pari dell’area della Foce del Camignano, la zona urbana del mercato
prospiciente la chiesa di San Francesco si poneva quale altro polo di ag-
gregazione per le esigenze di commercio della categoria; il refettorio del
convento accoglierà saltuarie riunioni e nel 1406 i frati Minori riceveran-
no in consegna il bossolo delle elezioni degli ufficiali. Il legame di fiducia e
di devozione instaurato dai maestri calzolai con la comunità francescana
tornerà a manifestarsi alla fine del secolo xvi con la testimonianza artistica
della cappella, fatta erigere dall’Arte all’interno della chiesa.
Molto meno studiato della domus dei calzolai ma comunque citato a più ri-
prese, a proposito e a sproposito, è poi sempre nel quartiere di San Martino,
all’ombra della torre detta dei Gabrielli, un altro palazzo con grandi arcate
oggi tamponate e con alcune pietre scolpite, tra cui l’agnus dei, ovvero l’em-
blema dell’arte della lana e almeno due simboli di fondaco di fine Trecento.
Il luogo, identificato dunque come sede dell’arte della lana, indubbiamente
un altro mestiere a cui l’acqua serviva molto, stando all’iscrizione che ac-
compagna il simbolo di fondaco dovette ospitare quello di Bettino di Pone
Amatucci, poi trasferitosi o “fuggito” a Venezia dove sarebbe stato il capo

14
Gubbio, Sezione di Archivio di Stato, Archivio storico del comune di Gubbio, Brevi delle arti, 11, p. 59;
il nominativo si completa con l’appellativo Vaccarelli nella matricola del quartiere di San Martino del 1349
(ivi, p. 65).

85
della fiorente colonia eugubina e che ebbe un nipote, Antonio Bartolelli atte-
stato nel 1395 proprio come commerciante di lana.

Chiese, confraternite, ospedali e devotio popolare

Utile introdurre alcuni brevi riferimenti alle maggiori emergenze religiose


e confraternali, prendendo spunto da un paio di documenti che attestano
la devozione degli eugubini alle loro espressioni della fede. Un documento,
ancora conservato nell’archivio di San Francesco, ma interessante anche
per noi, è il testamento datato al 1363 di Giovanni domini Lelli Suppoli-
ni (perg. 29), un eloquente testimonianza di devotio che coinvolge molti
luoghi religiosi anche del quartiere a cominciare dal convento di San Fran-
cesco a cui destina 20 lire subito e metà di tutti i suoi beni alla morte della
figlia, erede universale; lascia altre 15 libre alla fabbrica di San Domenico
e alcuni terreni alla chiesa della confraternita di S. Maria del Mercato. E
ancor più cospicui, sebbene molto più tardi, i lasciti voluti da una donna,
Piera vedova di Baldo de Gura del nostro quartiere di San Martino, che
lascia nel 1485-86 una notevole sfilza di beni ad altrettanti luoghi religiosi
(perg. 59). Il suo, peraltro, è un classico esempio di devozione rionale,
ovvero di quel tipo di pietà legata anche all’appartenenza geo-politica ad
un quartiere che porta il testatore a privilegiare se non in modo esclusivo,
i loca religiosa insiti nel suo distretto di residenza. Piera vive in San Mar-
tino e lascia due fiorini al monte di Pietà comunale istituito nel 1463 e
altri legati alle sorores di Santo Spirito, ma poi lega altri dieci fiorini a San
Gerolamo fuori le mura, alle fraternite dei Bianchi di S. Maria del Mercato
e a quella di S. Croce della Foce, ma soprattutto lega ben 100 fiorini alla
chiesa e convento S. Dominici et S. Martini, e nomina erede universale
lo stesso convento e capitolo dei Predicatori. Ancora, l’anno successivo,
1486 rivede il testamento e aggiunge un codicillo con cui lascia terre, orti e
case, compresa la sua abitazione in San Martino alle terziarie domenicane
di cui, ipotizzo, era socia. Aggiungo che saranno testimoni del suo testa-
mento, fra gli altri, due rappresentanti della famiglia Beni.
Di S. Croce della Foce si è già detto parlando del’arte dei calzolai, ma
vediamo anche altri importanti monumenti del quartiere:

San Domenico
Grazie anche a una cronaca settecentesca conservata presso l’Ordine ge-
nerale, si sa che l’arrivo dei primi Domenicani a Gubbio venne propiziato

86
nella seconda metà del Duecento da Angelo Tignosi, vicario dei Domenica-
ni che avrebbe benedetto la prima pietra del loro oratorio nel 1287 dopo
la risoluzione del contenzioso che contrappose il primitivo nucleo di frati
Predicatori al vescovo, Benvenuto da Orvieto, a causa del luogo scelto
per stabilirvisi, fuori le mura e troppo vicino alle clarisse di S. Maria del
Pellagio. Ai primi del Trecento i frati ottennero di trasferirsi in un luogo
più idoneo e grande del primitivo oratorio di San Domenico, e venne loro
concessa una chiesa all’interno della città, la chiesa di San Martino, allora
retta dal chierico di Camera apostolica, Pietro Accorimboni di Gubbio. La
chiesa era sorta probabilmente prima del 1150 e era stata riconsacrata for-
se dopo un rifacimento, nel 1287 dal medesimo vescovo Benvenuto. Anche
l’ingresso dentro le mura dei Domenicani fu travagliato e incontrò l’ostilità
dell’allora vescovo, ma l’intercessione pontificia ancora una volta risolse il
problema e nel 1304 l’Ordine prese possesso della chiesa e delle sue per-
tinenze, ovvero orti, casamenti, cimitero. Come sappiamo dallo statuto,
nel 1338 i frati ottennero dal Comune il permesso di inserire i loro terreni
ancora al difuori della cinta muraria, al suo interno, ovviamente con lavori
a loro spese. La cronaca sostiene che vollero addirittura abbattere un pezzo
di cinta per inglobare il primitivo oratorio rimasto fuori e che già nel 1337
il Comune aveva in parte sovvenzionato la fabbrica della chiesa. Purtroppo
la perdita dell’archivio conventuale non ci consente approfondimenti.

San Francesco
E’ stato detto che «l’XI e il XII sono i secoli delle canoniche – in grado
anche di attivare ospedali- e dei monasteri, il XIII è il secolo degli ordini
Mendicanti»15. A Gubbio in particolare, la presenza attiva dei Minori,
inseritisi in città dopo il 1240, prende le mosse dallo stesso passaggio di
Francesco che, aldilà della ‘leggenda’ conferma il forte legame instauratosi
tra il santo e la città, legame che si vuol ricondurre ai buoni uffici del
vescovo Villano ritenuto ufficialmente suo amico e che avrebbe favorito
il primitivo insediamento con la concessione della Vittorina, la chiesetta
poco lontano dall’abitato e allora appartenente al monastero di San Pietro
intorno al 1213. Il complesso di San Francesco in Gubbio, è ben noto, fu
costruito a ridosso di una casa e fondaco attribuito alla famiglia Spada-

15
G. Casagrande, Gubbio nel Duecento in Santità femminile nel Duecento. Sperandia patrona di
Cingoli, Ancona, Edizioni di Studia Picena, 2001, pp. 124-125.

87
longa amica dello stesso Francesco che lo aveva accolto nell’inverno del
1207 quando era uscito da Assisi senza più niente, e risale appunto alla
metà del Duecento ma nel 1291 non era ancora finito del tutto, visto che
esistono documenti pontifici che elargiscono indulgenze a quei fedeli che
aiuteranno con elemosine, il completamento della fabbrica conventuale.

S. Maria dei Laici detta dei Bianchi


Sancta Maria Mercati laycorum posita iuxta flumine Camignani, ovvero la
confraternita di S. Maria del Mercato che risulta essere, a Gubbio, quella più
anticamente documentata. Si parla di lei già nel 1270 quanto era nominata
della Santa Trinità ma già nel 1295 appare intitolata alla Vergine e particolar-
mente dedita al canto delle laudi e, sebbene si praticasse anche la disciplina,
non si crede che fu una confraternita disciplinata. Importante è una solenne
lettera di indulgenza del vescovo di Gubbio, Francesco Gabrielli16 del 1313
che ci informa che venne fondata per volontà di numerosi magnates, nobiles,
iudices, notarii, mercatores et alii cives Eugubini, e sappiamo dalle matricole
che a quest’epoca gli aderenti, numerosissimi, erano provenienti da tutti i
quartieri. Sappiamo anche che era dedita soprattutto alla carità e a sovvenire
gli infermi, i poveri e in particolare i poveri vergognosi e che era mista, ovvero
composta di uomini e donne. Tra gli uomini è documentata la presenza, a
partire da Cante, di molti rappresentanti della famiglia Gabrielli che ebbero
un vero patrocinio sulla stessa compagnia. Sempre nei primi anni del Trecento
costruì il proprio ospedale e poi, forse al momento del passaggio signorile di
Gubbio, subì forse un periodo di crisi per cui, alla venuta dei Bianchi in città,
nel 1399, ebbe l’occasione di un forte rilancio con l’ospedale che ebbe sempre
la massima attenzione e che poi, nel 1505 fu affidato all’autorità comunale
sotto il controllo dei duchi d’Urbino, creando di fatto l’Ospedale Grande.

Famiglie importanti nel quartiere e loro palazzi

Bentivogli-Ondedei (Palazzo Toschi-Mosca)


In realtà oggi di tale famiglia non resta un palazzo a ricordarne la potenza,
o meglio, non si chiama più così, ma il bel palazzo Toschi-Mosca, sede di

16
L’archivio confraternale è conservato in più sedi ma questi documenti sono presso quello vescovile
e furono studiati nel 1997 per una tesi di laurea da Filippo Fiorucci.

88
una dimora per anziani, appartenne nel Seicento ai conti Ondedei che lo
avevano a loro volta ereditato dai Bentivogli. Si tratta, nel Trecento, di un
ceppo mercantile, studiato dal Luongo che cita un Baldo, iscritto all’arte
del cuoio nel 1360 fino a tutto il secolo. I suoi rappresentanti però non si
occupavano solo di fare gli artigiani del cuoio, ma anche di mercanteggia-
re con i generi necessari all’arte, tipo allume, scòtano, pelli lavorate, ecc…
Questa duplice figura di artigiano-commerciante anche di prodotti non
propri, porterà forse nel tempo gli Ondedei a fare fortuna e a permettersi,
nel Seicento, di essere annoverati tra i nobili e unirsi per matrimonio con
i Bentivogli. Nonostante la mancanza di fonti documentarie dirette impe-
disca una precisa collocazione cronologica della costruzione del palazzo,
la presenza della famiglia Bentivoglio a Gubbio già alla fine del Trecento
ci permette di collocare sullo scorcio del XIV secolo l’edificazione della
dimora della casata ghibellina, rientrata in città al tempo del governo del
conte Antonio da Montefeltro. La disomogeneità dei paramenti murari
che caratterizza l’intera via conferma che il palazzo venne costruito inglo-
bando precedenti strutture medievali.

Pamphili  (o Pamfili).
Nobile famiglia romana, oggi estinta, fu in realtà originaria di Gubbio,
ove (1461) ottenne con Iacopo e Francesco il titolo comitale del Sacro
Romano Impero e si trasferì a Roma con Antonio, protetto da Sisto IV.
Divenuto papa (1644) il nipote di Antonio, Giovan Battista, col nome
di Innocenzo X, i Panfili acquistarono nella nobiltà romana posto pre-
minente, contribuendo con la loro grande ricchezza al fasto della Roma
seicentesca. Il Cenci pubblica una pergamena del giugno del 1049 in cui
Guido di Panfilio conferma alla canonica di San Mariano un castello (ca-
strum Vallis) già donato dai suoi antenati, Pietro e Mantia Panfili e ancor
prima dal padre di Panfilio, Iohannes Amantie. Ma c’è da dire che lo
stesso Cenci si accorse che il documento era stato sfacciatamente falsifi-
cato con intenti araldici pro-Panfili, e fa il nome del noto falsario umbro
Ceccarelli poi giustiziato nel 1583 a Roma. Nel 1087 c’è poi un altro
documento con cui Alberto del fu Guido Panfili dona alla canonica di
San Mariano il castrum Montis Pescli (Monte Pesce) e altre terre. Que-
sta volta il documento è dato per vero dal Cenci che però non avendo i
moderni mezzi in aiuto, come la lampada di Wood, non si poté accorgere
che si trattava ancora di un altro falso dove il donatore del castello, Al-

89
bertus quondam Guidi…lii, era diventato Albertus quondam Guidi Pan-
filii. In realtà cosa era successo, si era voluto corroborare, falsificando
veri documenti molto antichi, dell’ XI secolo, la discendenza del vescovo
eugubino, il beato Lodolfo, ritenuto il fondatore di Fonte Avellana, dalla
casata dei conti Panfili, da cui nel 1644 uscirà il pontefice Innocenzo X,
al secolo Giovanni Battista Pamphilj.

Beni
Nel quartiere di San Martino, agli inizi del Trecento, conosciamo parte del-
la storia di una famiglia che vi risiedeva, grazie, ancora una volta agli archi-
vi di conventi e monasteri, spesso serbatoi della memoria anche civile della
città. In questo caso, siamo tra l’ottobre del 1314 e il marzo del 1315, si
tratta della richiesta, accolta favorevolmente dal giudice del podestà Fran-
cesco Ciarfagli di Orvieto, di donna Giovanna vedova di Puccio di Filippo
Bene, del quartiere di San Martino, di avere la tutela sul nipote Andrea,
rimasto orfano del padre Falcuccio, tutela rinunciata invece dalla madre
del ragazzo, Tomassa Paolucci. La nonna tutrice inizia subito a difendere i
beni del nipote da varie cause intentate forse da creditori del padre morto,
e così, tra l’altro, il 30 novembre fa redigere l’inventario dei beni spettanti
al suo pupillo e consistenti in masserizie, mobili, pezze di stoffa e sacchi
di filati lavorati e case poste tra la piazza comunale e il Camignano. Ma
quello che ancora di più ci può interessare è che si sta parlando di una delle
più antiche famiglie nobili eugubine che vantano un palazzo nel quartiere,
ovvero i conti Beni. E lo stesso figlio del pupillo Andrea, un nuovo Puccio,
sarà ricordato per aver fatto testamento nel 1399 lasciando ben 25 fiorini
d’oro per lavori nella chiesa di San Francesco.

90
Fig. 1
Veduta del paese di Colpalombo

Fig. 3
Particolare dei resti del muro perimetrale sud ovest

91
Fig. 3
Resti della torre minore a destra del muro perimetrale

Fig. 4
Chiesetta del Trebbio

92
Fig. 5
Affresco custodito all’interno della chiesetta del Trebbio attribuito a Matteo da Gualdo raffigurante la Madonna
con Bambino e i santi Ubaldo e Sebastiano (anche se su quest’ultimo santo l’individuazione è ancora discussa)

Fig. 6
Particolare delle gambe di San Sebastiano sotto una delle quali sembra sia stata ritrovata la moneta
con l’iscrizione FEDERICUS CON nel momento del distacco dell’affresco

93
Fig. 7
22 agosto 1377 - Il capitano di Colpalombo Jacobo domini Ubaldi riceve il salario di XI fiorini e
XXVI bolognini (ASG. Fondo Com. Camerl. Reg. 1, c. 2r.)

Fig. 3
25 agosto 1411 - Suppolino Masci viene pagato dopo esser arrivato a Colpalombo per fortificare il
cassero (ASG. Fondo Com. Camerl. Reg. 9, c. 29r.

94
95
96
97
98
I PALAZZI PUBBLICI
E IL PALAZZO DI FEDERICO
DA MONTEFELTRO A GUBBIO
F. P. Fiore

Dopo la dedizione di Gubbio al conte Antonio da Montefeltro nel marzo


1384 che segnò l’avvio del passaggio dei poteri alla nuova autorità si-
gnorile, le istituzioni comunali persero lentamente le loro prerogative ma
i capitoli sottoscritti nel 1444 da Federico da Montefeltro con il comune1
avrebbero ricalcato in sostanza quelli presentati dagli eugubini al conte
Antonio nel 1403. L’analisi del trapasso di competenze e attribuzioni,
recentemente ed efficacemente condotta da Alberto Luongo che parla di
discrezione del potere montefeltresco2, può trovare un’eco nelle vicende
che interessarono gli edifici pubblici di Gubbio. Le discuterò in sintesi3
cercando di mettere in evidenza alcuni aspetti della loro vicenda.
Partiamo dalla delibera comunale del 1321 a favore della costruzione
del palazzo del Popolo – detto anche dei Consoli - e del palazzo del Po-
destà, affacciati sulla grande piazza aperta all’incrocio dei quartieri di
San Martino, San Giuliano, Sant’Andrea e San Pietro. Il monumentale
complesso sostituì il più antico edificio Comunale, dove erano insediati

1
A. Modigliani, Il consenso interno nello stato di Federico. I capitoli del 1444 con Urbino e Gubbio,
in Francesco di Giorgio alla corte di Federico da Montefeltro, a cura di F. P. Fiore, 2 voll., Firenze,
Olschki, 2004, I, pp. 49-79.
2
A. Luongo, Gubbio nel Trecento. Il comune popolare e la mutazione signorile (1300-1404),
Roma, Viella, 2016, p. 573.
3
Per gli aspetti non discussi qui e una più completa bibliografia si rimanda a F. P. Fiore, Il complesso
trecentesco della piazza e dei palazzi pubblici di Gubbio, in “Quaderni dell’Istituto di Storia
dell’architettura”, Saggi in onore di Renato Bonelli, n.s., fasc. 15-20 (1990-1992), I, pp. 195-210.

99
i consoli e il podestà, poi della Guardia. Quest’ultimo sarebbe stato for-
malmente donato nel 1480 a Federico da Montefeltro, che in quegli anni
lo stava trasformando nella sua residenza. Federico non fece mutare l’af-
faccio del palazzo medievale verso la città mentre le trasformazioni più
consistenti furono realizzate a monte e quasi invisibili dal basso. Gran
parte dell’antica piazza comunale fu compresa nel nuovo cortile, gli edi-
fici della cosiddetta Corte vecchia furono annessi al palazzo e il Cassero
sulle mura venne aggiornato a sua difesa del nuovo complesso signorile.
Fu così che, a circa cento anni dalla dedizione al conte Antonio, i Mon-
tefeltro si insediarono con apparente ma significativa discrezione nella
parte alta della città di fronte al duomo occupando l’antico palazzo co-
munale. Contemporaneamente, e sembrerebbe un risarcimento sebbene
non vi siano prove documentarie in tal senso, Federico promosse il com-
pletamento della grande piazza aperta fra i palazzi comunali del Popolo
e del Podestà a valle. Dal 1475 al 1481 furono costruiti i grandi arconi
che ancor oggi ne sostengono l’affaccio su via Baldassini e la piazza pub-
blica, già ammattonata per la prima parte nel 1452, poté raggiungere la
grande dimensione originariamente prevista.
Affrontiamo l’esame dei palazzi pubblici trecenteschi. Il palazzo del Po-
polo, o dei Consoli, è giustamente annoverato fra le più straordinarie
architetture del Trecento italiano e anche perciò l’attribuzione del suo
progetto ha suscitato tante ipotesi e polemiche. Il cantiere è avviato nel
1332 e nel 1337 il nome di Angelo da Orvieto è inscritto nell’epigrafe
inserita sul portale del palazzo. Il suo nome viene inoltre menzionato con
la qualifica di magister nel luglio dello stesso 1337 in un documento nel
quale il notaio Nicola Truffarelli giura di eseguire il suo incarico quale
garante dei lavori secondo la delibera “de officio dicti Magistri Ange-
li”4. Si tratta di Angelo da Orvieto, l’architetto del palazzo del Popolo
di Città di Castello, e l’iscrizione del suo nome sul portale del palazzo
del Popolo ci sembra tanto eccezionale da rendere improbabile che si
tratti dell’esecutore del solo portale. Luongo, che propende invece per
quest’ultima ipotesi, a lungo discusa in passato, ricorda che dal 1334 un
ruolo simile a quello evidenziato nel documento del 1337 era stato rico-

4
P.L. Menichetti, Storia di Gubbio: dalle origini all’Unità d’Italia, 2 voll., Città di Castello, Tip.
Rubini & Petruzzi 1987, I, pp. 424-425 (ASG [Archivio di Stato di Gubbio], Fondo Comunale,
Riformanze, 2, c. 79v).

100
perto dagli eugubini Baldello Nelli e Angelo Lucoli come membri di una
commissione comunale e che questa, come le altre commissioni, poteva
valersi di persone diverse per la costruzione del complesso dei palazzi,
proponendo infine di liberarci dai problemi attributivi5. Tuttavia anco-
ra nel maggio dello stesso 1337 l’incarico di soprastanti ai lavori per i
nuovi palazzi pubblici veniva rinnovato al Nelli e al Lucoli6, impegnati
a controllare la spesa ma probabilmente non in grado di ideare o fare
eseguire sulla base di precise indicazioni costruttive i due palazzi. Biso-
gnerebbe ammettere che i due venissero sostituiti a brevissima distanza
di tempo se volessimo attribuire lo stesso ruolo, e non quello più specifi-
co della progettazione e direzione dei lavori ad Angelo da Orvieto, detto
magister nel documento del luglio.
Un progetto architettonico del complesso, e quindi un vero e proprio
architetto con ottime conoscenze geometriche e statiche, devono essere
stati del resto presenti sin dalla fondazione del grande complesso pub-
blico trecentesco. Se esaminiamo infatti le piante del livello terreno del
palazzo del Popolo e del palazzo del Podestà, possiamo notare la stessa
configurazione, molto singolare e perciò ben riconoscibile in entrambe,
sia per le dimensioni che per la forma pressoché quadrata che per il
sistema statico, costituito dalle murature perimetrali e da un forte e arti-
colato setto centrale sul quale si impostano gli archi e le volte del piano
basamentale. Il quale si presenta con lo stesso prospetto sia per il palazzo
del Popolo che per quello del Podestà. Anche i setti murari trasversali
che ritmano regolarmente lo spazio fra i due edifici e sono allineati sulla
via Baldassini fanno verosimilmente parte di quel disegno unitario. De-
stinati a sostenere la parte pensile della piazza e a contenere abitazioni,
furono completati solamente per le prime quattro campate mentre delle
rimanenti otto, irrealizzate e comprese a due a due sotto gli arconi eretti
a completamento della piazza dal 1475, si vedono chiaramente le am-
morsature delle murature di spina e delle volte trecentesche sulle pareti
interne. È l’insieme di queste parti che costituisce il saldo presidio statico
posto a fondamento dei due palazzi e delle piazza e a contenimento delle
spinte del terreno a monte.
Sulla base del comune impianto, le strutture superiori dei palazzi intro-

5
Luongo, Gubbio nel Trecento, pp. 53-55.
6
Menichetti, Storia di Gubbio, I, p. 424 (ASG, Fondo Comunale, Riformanze, 2, cc. 42r-43r, 45r).

101
ducono soluzioni che appaiono come varianti di quel primo progetto. Il
volume principale del palazzo del Popolo si arretra rispetto al filo della
strada inferiore e si sviluppa su una pianta rettangolare. Lo spazio che
lo separa dal filo stradale è colmato da un corpo innalzato su pilastri e
archi acuti e concluso da una loggia in sommità. Quest’ultimo volume,
trattato come un corpo aggiunto a quello principale e dalle murature
relativamente più sottili, non si può considerare meramente accessorio.
Non solo per il raccordo delle cornici esterne, sia pure lievemente sfalsa-
te, ma perché risolve l’affaccio a valle del palazzo laddove la grande sala
interna è resa cieca dalla presenza di una scala che lo occupa per tutta
la sua estensione. Il portale che reca inscritta la data del 1337 e il nome
di Angelo da Orvieto è a sua volta evidentemente parte del disegno della
facciata del corpo principale sulla piazza che introduce assialmente, né
devono essere intervenute da allora significative varianti, perché pochi
anni dopo il palazzo è in gran parte completato, visto che nel 1341 il
gonfaloniere e i consoli si riuniscono nella sala sopra la sala grande e si
stipula un atto nella loggia.
Può essere significativo della unità e continuità dell’opera anche il fatto
che al palazzo del Podestà si iniziasse a lavorare nel 1338, e quindi subi-
to dopo la data inscritta sul portale del palazzo del Popolo. A differenza
di quest’ultimo, quello del Podestà presenta un corpo principale che si
innalza direttamente sul filo della via Baldassini, le sue murature sono re-
lativamente più leggere e anche il suo sistema costruttivo è diverso. Sulla
pianta pressoché quadrata del piano basamentale, che si è detta uguale
a quella del palazzo del Popolo, sono sovrapposti tre livelli di volte a
crociera sostenute dai muri perimetrali e da un unico pilastro centrale.
Pilastro che non sembra previsto sin dall’inizio, perché non poggia sulla
verticale del pilastro basamentale ma in falso, sulle reni dell’arco che
da quello si protende verso l’interno. Il sistema strutturale del pilastro
centrale con crociere era diffuso nell’Umbria trecentesca, dal palazzo
Papale di Orvieto a quelli dei Consoli a Bevagna, dei Baglioni a Spello,
Comunale a Terni, del Capitano a Todi, dei Priori a Perugia e a Narni.
Tutti precedenti dei sistemi similmente realizzati nel palazzo Comunale
di Città di Castello, opera di Angelo da Orvieto, e nel palazzo del Pode-
stà di Gubbio, che è il più elegante e ardito per la sovrapposizione di tre
sistemi voltati sul pilastro centrale.
Non sappiamo come il palazzo del Podestà si sarebbe affacciato sulla
piazza. Il suo sviluppo in quella direzione fu infatti interrotto, come in-

102
dicano le ammorsature laterali lasciate ai lati e le due porte archiacute
in basso a destra e in alto a sinistra dell’attuale facciata, alle quali cor-
rispondono scale interne destinate a connettersi con quanto si sarebbe
voluto costruire. Nel 1349 la peste infieriva già sulla città e il consi-
glio comunale, di fronte alla lentezza con la quale procedevano i lavori,
deliberò nel mese di giugno di semplificare il progetto originario e nel
settembre di rinunciare la costruzione della scala esterna, delle volte e
delle finestre7 di quello che si può supporre essere il corpo loggiato che
si sarebbe rivolto verso la piazza, dove risulta sopravvivere il basamento
di almeno un pilastro sotto l’attuale ammattonato8. Nello stesso anno
fu deliberata la costruzione di un ponte ligneo di collegamento con la
retrostante casa di Giovanni di Cantuccio Gabrielli, il primo passo del
futuro corpo posteriore.
Entrambi i palazzi sembrano essere dunque il frutto di un primo proget-
to unitario realizzato a livello del basamento e di due importanti e diver-
se varianti successive. Non possiamo che rimpiangere l’assenza dei registri
delle Riformanze dal 1328 al 1336 che ci priva della principale fonte di
conoscenza a riguardo. L’iscrizione sul portale e il documento del 1337,
che attribuisce ad Angelo da Orvieto il titolo di magister trattando della
costruzione di entrambi i palazzi pubblici e gli stessi tempi di esecuzione
fanno tuttavia propendere per attribuire a lui almeno la seconda fase di co-
struzione del complesso. Vale a dire dell’elevato del palazzo del Popolo e del
palazzo del Podestà, mentre rimane maggiormente in dubbio l’attribuzione
del progetto che ne regola il piano basamentale. Gli avvenimenti seguenti la
presa di Gubbio da parte di Giovanni di Cantuccio Gabrielli nel 1350 e le
crisi che seguirono furono infine responsabili della mancata esecuzione del
prospetto del palazzo del Podestà sulla piazza. Quando, dopo i danni della
peste e anni di conflitto, il conte Antonio da Montefeltro prese Gubbio sotto
la propria protezione nel 1384, si riservò, come appare dai capitoli fra
il comune e il signore, la nomina del podestà. E forse anche per questo
il palazzo non fu completato né da comune né dal nuovo signore, che

7
F. Ranghiasci Brancaleoni, Dei palazzi municipale e pretorio di Gubbio, in “Archivio storico
italiano”, ser. 3, 6 (1867), 2, p. 21; Luongo, Gubbio nel Trecento, p. 59 (ASG, Fondo Comunale,
Riformanze, 4, cc. 102r-106r, 108v-109v, 188v, 189v).
8
Ringrazio Paolo Ghirelli per la segnalazione e per avermi gentilmente messo a disposizione la sua
ricerca universitaria sul palazzo del Podestà con il suo rilievo del palazzo. Ranghiasci, Dei palazzi
municipale e pretorio di Gubbio, ricorda la presenza di due basamenti.

103
non volle probabilmente imporre la sua presenza sulla piazza pubblica.
Similmente si sarebbe comportato Federico da Montefeltro, il quale non
aveva esitato a nominare il podestà di Gubbio ancor prima di sottoscri-
vere a sua volta i capitoli con il comune.
Quanto non avvenne nel palazzo del Podestà fu invece ritenuto pos-
sibile nel palazzo della Guardia, tramutato nel nuovo palazzo Ducale.
Nel 1477 Francesco di Giorgio, l’architetto di Federico da Montefeltro,
diede il disegno per la decorazione di una stanza, forse ma non certa-
mente lo studiolo, collocato nella stretta ala aggiunta per chiudere lo
spazio retrostante fra il duomo e la Corte Vecchia e farne il cortile del
palazzo. Anche in questo caso non abbiamo dunque certezze documen-
tarie sul nome dell’architetto ma la cronologia, le forme molto vicine a
quelle impiegate nel palazzo Ducale di Urbino e soprattutto le soluzioni
del cortile parlano, insieme al documento che ne testimonia la presenza,
dell’intervento di Francesco di Giorgio9. Sul lato interno del palazzo me-
dievale, che conservò la sua impostazione e le sue murature sul dislivello
di fondazione, fu infatti accostato un cortile porticato a volte e archi su
colonne e pilastri angolari simili, anche per i capitelli e le cornici, a quelli
del palazzo urbinate. Ma la forma trapezia della piazza tramutata in cor-
tile del palazzo e la limitatezza dello spazio a disposizione permisero lo
sviluppo del loggiato solamente su tre lati, mentre il muro di separazione
dalla Corte Vecchia, dove fu realizzata una cisterna, divenne il quarto lato
del cortile. Per dare al cortile un aspetto unitario, le soprallogge dei tre lati
colonnati proseguirono su quel lato sostenute da mensole dal raffinato
profilo imitante la cornice di una trabeazione antica e, come sugli altri lati,
furono ritmate dalla successione di paraste e finestre inquadrate da edicole
trabeate. La forma e le decorazioni nei fregi di queste ultime basterebbero
a differenziarle da quelle delle soprallogge del palazzo di Urbino anche se
è in quel palazzo che nasce quel tipo di finestra trabeata. Ma è soprattutto
nelle soluzioni angolari del cortile che si può verificare l’originalità dell’ar-
chitettura del cortile e riconoscervi la probabile invenzione di Francesco di
Giorgio. Nei pilastri angolari del cortile del palazzo di Urbino, le semico-
lonne del portico ad archi sono accostate alle paraste d’ordine maggiore
che lo inquadrano con la trabeazione superiore e quasi si toccano fra loro

9
F. P. Fiore, Il palazzo Ducale di Gubbio. 1476 ca. e sgg., in Francesco di Giorgio architetto, a cura
di F. P. Fiore e M. Tafuri, Milano, Electa, 1993, pp. 180-185 e bibl.

104
disponendosi simmetricamente ad angolo retto. È una soluzione tante vol-
te esaltata nella storiografia artistica e distintiva di quel cortile. A Gubbio
vediamo invece i pilastri piegarsi quasi fossero cerniere per adattarsi alla
geometria del cortile e in un caso mostrare addirittura le paraste dell’or-
dine maggiore di diversa larghezza, a sottolineare l’effetto visivo dell’in-
clinazione del pilastro. Al piano delle soprallogge la soluzione dell’ordine
superiore di Urbino, formato da paraste e controparaste – o mezze paraste
– in angolo, viene inoltre semplificato e a Gubbio troviamo semplici para-
ste affrontate sulla verticale di quelle angolari dell’ordine inferiore.
Elemento molto interessante e non meno noto del palazzo è lo studiolo
di Federico, rivestito da tarsie lignee prospettiche, simili per concezione
a quello dello studiolo nel palazzo Ducale di Urbino e attribuibili alla
bottega di Giuliano da Maiano. Venduto nel 1874, è ora conservato nel
Metropolitan Museum di New York, che ha provveduto a un recente
restauro delle tarsie e del soffitto ligneo e a lacunari dipinti10.
Vorrei sottolineare, per concludere, che nel 1480 fu aggiornato anche il
Cassero, fortificazione a cavallo delle mura medievali immediatamente
sopra il palazzo Ducale, che ne divenne così la difesa e costituì la possi-
bile via di fuga dalla città per i Montefeltro. Anche in questo caso si può
pensare a un intervento progettuale di Francesco di Giorgio, che avreb-
be interpretato per Federico il consiglio di Leon Battista Alberti di non
munire la residenza del signore come una fortezza, ma di separare le due
funzioni: “Ma poiché la reggia per propria natura differisce dalla rocca
in quasi tutte le caratteristiche e soprattutto negli elementi fondamentali,
bisognerà costruire la reggia annessa alla rocca, sicché il re possa servirsi
della rocca nei momenti d’imprevista necessità, e il tiranno della reggia
quando vuole divagarsi” (De re aed., libro V, cap. III)11. Sarebbe auspi-
cabile che, per restituire la leggibilità della trasformazione della parte
alta di Gubbio avvenuta al tempo di Federico da Montefeltro e del figlio
Guidobaldo, l’intero complesso del palazzo Ducale, del Cassero e dello
spazio verde intermedio fossero resi unitariamente visitabili e compren-
sibili anche oggi.

10
O. Raggio, Il palazzo Ducale di Gubbio e il restauro del suo studiolo, ed. it. a cura di G. Benazzi,
Federico Motta Ed. 2007 ( I ed. New York 1999).
11
L. B. Alberti, L’architettura, testo latino e traduzione a cura di G. Orlandi, introduzione e note di
P. Portoghesi, 2 voll., Milano, Edizioni Il Polifilo, 1966, I, p. 346.

105
Fig. 1
Gubbio, palazzo del Popolo

106
Fig. 2
Gubbio, palazzo del Podestà

Fig. 3
Gubbio, interno di un ambiente sotto i voltoni
che sostengono la piazza

107
Fig. 4
Piante e sezioni del complesso dei palazzi pubblici trecenteschi (rilievo di M. Fioravanti, M. Grilli, E.
Massimi)

108
Fig. 5
Sezione del palazzo del Podestà (rilievo di P. Ghirelli)

109
Fig. 6
Gubbio, il palazzo Ducale verso la città

Fig. 9
Lo studiolo di Gubbio conservato nel Metropolitan Museum di New York (da Raggio 2007)

110
Fig. 7
Gubbio, palazzo Ducale, incontro del lato loggiato con il lato a mensole del cortile

111
Fig. 8
Gubbio, palazzo Ducale, particolare di un pilastro angolare fra due lati loggiati del cortile

112
113
114
115
116
I MULINI AD ACQUA IN UMBRIA
E NEL TERRITORIO EUGUBINO.
ASPETTI STORICO-GEOGRAFICI
Fabio Fatichenti

I mulini mossi dall’energia idraulica hanno rappresentato per secoli un


elemento di primo piano nel paesaggio, sia nelle aree rurali che nei cen-
tri urbani. L’attività molitoria costituisce peraltro uno dei più rilevan-
ti capitoli della storia della cultura materiale, capace di restituirne uno
spaccato fatto di tecniche di lavoro, modi di vita, abitudini, tradizioni...,
che consentono di delineare un intreccio di protagonisti: in primo luogo
gli edifici, con il relativo corredo di attrezzature; quindi i mugnai con le
proprie famiglie e il loro bagaglio di saperi; a sua volta, ciascuna unità
produttiva rimanda a un ambiente più vasto: il corso d’acqua che for-
nisce energia, le campagne da cui provengono i cereali, fino al contesto
rurale in cui avviene il consumo dei prodotti macinati. Da ciò deriva una
molteplicità di situazioni attestanti un tema complesso, interdisciplinare
e mirato allo studio del mulino quale testimonianza storica meritevole di
essere tutelata. Per queste ragioni, alcuni anni fa si è inteso realizzare, con
il sostegno della Regione dell’Umbria, una ricerca mirata a delineare, per
l’intera regione, un quadro storico-geografico sui mulini ad acqua, con la
consapevolezza della necessità di contestualizzare l’attività di tali opifici
in seno alla varietà geografico-fisica del territorio umbro, alle diversità
della rete idrografica, così come a quelle dell’uso del suolo e delle produ-
zioni agricole, ai canoni dell’architettura rurale e delle forme insediative,
alle caratteristiche tecniche degli impianti di lavorazione, nonché agli usi
e alle tradizioni connessi a questi opifici. In questa sede ripercorriamo in

117
sintesi i principali risultati della ricerca in questione (dalla quale è deri-
vato il volume L’Umbria dei mulini ad acqua, a cura di A. Melelli e F.
Fatichenti, Perugia 2013, con testi di Giovanni Cangi, Fabio Fatichenti,
Rosa Goracci, Alberto Melelli, Remo Rossi e Bernardino Sperandio), con
particolare riferimento a quanto emerso per il territorio eugubino.

Diffusione e declino del mulino ad acqua

Il mulino ad acqua è giustamente ritenuto dagli studiosi (in particolare,


fra tutti, andrà ricordato lo storico Marc Bloch) “il signore del Medioe-
vo”, poiché fu in effetti nei secoli XI-XII che dopo guerre, invasioni, epi-
demie e il calo demografico dei secoli precedenti si assistette a una rapida
e massiccia diffusione di mulini idraulici. I signori feudali, forti del loro
potere, cominciarono a farsi valere sui mulini con il banno: i contadini
erano obbligati a servirsi del mulino del signore, ovvero era loro vietato
sia possedere mulini propri, sia portare cereali presso altri mulini. In
seguito, con la trasformazione della struttura fondiaria e l’affermarsi del
sistema produttivo mezzadrile, i mulini divennero sempre più di perti-
nenza delle fattorie sorte con il costituirsi delle principali proprietà fon-
diarie. Nel secolo XVI praticamente ogni villaggio finirà per possedere
un mulino (la toponomastica ne comprova la capillare diffusione).
Solo tuttavia con la Rivoluzione industriale in Italia e in Europa si re-
gistrò una notevole diffusione del mulino ad acqua; e ciò, proprio men-
tre nel contempo una nuova fonte di azionamento andava via via sop-
piantando gli opifici mossi dalla forza idraulica. Infatti, a partire dalla
seconda metà del XVIII secolo, con motrici a vapore e poi turbine si
cominciarono a costruire grandi mulini industriali in cui centralizzare
operazioni fino ad allora svolte in una moltitudine di piccoli opifici spar-
si per la campagna. Da un lato, dunque, nasceva e si sviluppava il mulino
elettrico industriale; dall’altro, ancora agli inizi del secolo XX permane-
vano tradizionali impianti di macinazione a forza idraulica là dove essi
costituivano una fase fondamentale del ciclo produttivo di numerose mi-
crostrutture economiche volte all’autoconsumo e alla mera sussistenza.
Un colpo letale fu inferto al mulino idraulico dalla legge del 7 luglio
1868 e successivi provvedimenti. A più riprese infatti le tasse sul ma-
cinato, colpendo un’attività già poco produttiva nel suo complesso,
contribuirono a generare i presupposti che, in aggiunta ad altri fattori,
avrebbero poi consentito all’alta macinazione industriale di dominare la

118
produzione e il consumo in modo incontrastato. Nel periodo di applica-
zione della tassa suddetta, dal 1869 al 1884 diminuì in Italia il numero
complessivo dei mulini (da 69.980 nel 1869 a 58.536 nel 1882); calaro-
no, nello specifico, quelli idraulici e a forza animale, mentre aumentaro-
no sensibilmente quelli a vapore. Intorno al 1880 la produzione di farina
di diversa qualità e l’esigenza di effettuare scambi internazionali portò
alla graduale scomparsa del sistema della bassa macinazione dei mulini
a palmenti e all’introduzione del sistema di alta macinazione dei lami-
natoi a cilindri (con il nuovo sistema il grano era triturato fra cilindri di
ghisa). Della diffusione di tale attività industriale si hanno notizie anche
per l’Umbria, regione che nel secondo decennio del secolo XX conta
ancora numerosissimi mulini, sparsi soprattutto per la campagna, ma in
cui hanno avuto diffusione anche i mulini a cilindri per la produzione di
farina e semolini, nonché i pastifici (a Ponte San Giovanni, Trevi, Gualdo
Tadino, Tavernelle, Foligno, Spoleto, Amelia).
Dopo la seconda guerra mondiale a segnare la fine dei mulini idraulici
saranno vari fattori, fra cui l’emigrazione massiccia dalle campagne ini-
ziata a metà degli anni Cinquanta. A rappresentare ulteriori difficoltà
nel prosieguo dell’attività molitoria furono poi quelle ordinanze, via via
sempre più diffuse, che anche alla metà del secolo XX impedivano ai
mulini di operare con continuità (se per i secoli XVII-XVIII la motiva-
zione sottesa ai provvedimenti era di ordine essenzialmente idraulico,
ovvero mirata a contenere i pericoli di allagamento dei campi, poi diver-
rà di tipo igienico-sanitario, ovvero doveva essere garantito il regolare
deflusso dei corsi d’acqua per assicurarne la costante pulizia).
La fase che condurrà alla definitiva scomparsa degli impianti idraulici
rimonta al trentennio compreso fra il 1950 e il 1980, quando cessarono
l’attività anche le strutture più efficienti. Pochi sono ormai gli opifici
scampati al degrado e pochissimi quelli ancora in funzione o riattivabili,
poiché nella maggioranza dei casi ristrutturati e rifunzionalizzati soprat-
tutto per scopi lontani dall’attività molitoria.

Il mulino ad acqua: struttura e funzionamento

Il mulino idraulico al quale qui ci si riferisce è del tipo a palmenti con


ruota orizzontale, caratterizzato da un modesto rendimento spiegabile
con un numero dei giri della macina uguale a quello dell’albero, nonché
con la dispersione di molta parte dell’energia potenziale a causa dell’at-

119
trito con l’acqua. Tuttavia, notevole diffusione esso conobbe in Umbria
(come del resto in tutta l’Italia centrale e meridionale) in ordine a due
fattori: uno idrogeologico – tale sistema era il più adatto lungo corsi
d’acqua rapidi e con portata modesta –, l’altro economico, poiché pre-
sentava costi di impianto e di manutenzione relativamente bassi. Il re-
gime torrentizio dei corsi d’acqua può così spiegare l’elevato numero
degli impianti molitori in aree anche molto ristrette: dato che la scarsa
portata, soprattutto d’estate, limitava l’attività produttiva, una possibile
soluzione consisteva nel costruire un altro mulino – detto di ripresa – a
valle di quello a monte.
Quasi sempre il mulino, che di norma a un primo sguardo non appare
diverso da una comune casa rurale, era munito di un’abitazione. I mate-
riali da costruzione dell’edificio erano in genere pietra calcarea o arena-
ria, cui si univano sassi e brecce raccolti dall’alveo fluviale. La presa (o
chiusa), realizzata per prelevare da un fiume o da un torrente l’acqua ne-
cessaria, comportava la costruzione di un argine (per lo più fatto di sassi
e legname) che attraversava parzialmente o totalmente il corso d’acqua,
disponendosi obliquamente ad esso; da lì prendeva inizio il canale di ad-
duzione (reglia, detta anche forma, o gora) scavato nel terreno che por-
tava l’acqua al mulino. In prossimità dell’opificio la reglia si allargava a
imbuto formando una sorta di invaso minore, il bottaccio (detto anche
colta, accolta, o più semplicemente vasca), spesso costruito in muratura,
talora semplicemente scavato nel terreno; si realizzava così un bacino di
carico da dove, attraverso la doccia, l’acqua era condotta con violenza,
mediante un certo dislivello, contro le pale del ritrecine, procurando così
la necessaria energia motrice. Il bottaccio era provvisto anche di una
o più paratoie (o serrande mobili), ortogonali al flusso o laterali, che
davano il via all’acqua o la bloccavano regolando il livello dell’accolta
(soprattutto quando il mulino non era attivo). Da questo bacino la fa-
miglia del contadino-mugnaio traeva diversi vantaggi: l’acqua in eccesso
era impiegata per annaffiare gli ortaggi; quando, di solito in giugno, il
bacinetto veniva ripulito, vi si catturava abbondante pesce (anguille, la-
sche, carpe); inoltre poteva servire per macerare la canapa, per bagnare
le pecore prima della tosatura, per lavare e infine per fare il bagno.
La macinazione era compiuta da due mole orizzontali in pietra poste una
sull’altra: l’inferiore fissa (detta anche dormiente), l’altra mobile (corren-
te). La prima presentava un largo foro attraverso il quale passava, senza
toccarla, l’albero che faceva invece girare quella superiore. Chi osservas-

120
se un mulino in funzione, non vedrebbe le macine, poiché rivestite dalla
cassa (o ‘cappotto’), la cui funzione era di evitare che la farina fuoriu-
scisse durante il funzionamento fra i bordi delle mole. I cereali finivano
nello spazio lasciato fra le due mole in pietra: dalla loro macinazione per
pressione e sfregamento si otteneva la farina, poi raccolta nel cassone di
legno collocato sul davanti. L’impianto motore del mulino era collocato
sotto il pavimento, nella cosiddetta fuja o margone, un vano seminter-
rato solitamente a volta. Qui, su un basamento era collocata la ruota
orizzontale detta ritrecine (o roteggio), con innestate una serie di pale a
forma di cucchiaio, sulla quale era fissato l’albero di trasmissione. Al di
sopra, ovvero al pianoterra, erano poste le macine (grossi dischi di pietra
dallo spessore di circa 20-30 cm e con un diametro variabile tra i 120 e i
130 cm), che dovevano possedere specifiche qualità come durezza, tena-
cia e fibrosità; pietre particolarmente apprezzate per la realizzazione di
tali manufatti erano la bresciana e l’anconese, estratte rispettivamente in
Val Camonica (Brescia) e a Cantiano (Pesaro), e soprattutto la francese,
proveniente dalle cave di La Ferté-sous-Jourasses, località non lontana
da Parigi. Le pietre potevano consistere in un unico blocco oppure essere
composte da vari spicchi raccolti, tramite un cerchio in ferro, intorno a
un blocco centrale di forma circolare; se intere, risultavano di difficile
trasportabilità (un problema a volte superato ricorrendo a materiale di
più facile reperimento, per esempio il travertino, estratto da cave nei
pressi del mulino). Sulla superficie delle macine era necessario eseguire
scannellature a raggiera per consentire l’afflusso di aria tra i cereali e la
superficie lavorante, allo scopo di diminuire il riscaldamento e di age-
volare la fuoriuscita della farina. Il numero di coppie di macine non era
sempre uguale: una nei mulini più piccoli, fino a tre nei maggiori. Si ri-
usciva a produrre circa un quintale di farina all’ora con una sola coppia
di mole, dalle quali, se nuove o “aguzzate” di recente, si poteva ottenere
un’uguale quantità anche in tre quarti d’ora. La produzione giornaliera
era comunque in relazione al numero di ore di macinazione e alla capa-
cità dell’accolta: d’inverno, con accolta sempre piena, si arrivavano a
produrre 15-20 quintali di farina al giorno.

Le fonti per la ricerca sui mulini ad acqua in Umbria

Ai fini della ricerca in questione è risultata preziosa la cartografia topo-


grafica dell’Istituto Geografico Militare Italiano (IGMI): la lettura delle

121
carte in scala 1:25.000 (le cosiddette “tavolette”) ha consentito infatti
una significativa ricognizione relativamente a una fase storica in cui mol-
ti opifici avevano già cessato l’attività o erano in procinto di farlo. Va
tuttavia osservato che le carte sono state sì edite negli anni Cinquanta del
secolo scorso, ma i rilevamenti su cui si basa la loro costruzione rimonta-
no spesso agli anni Quaranta, talora persino a prima (in non pochi casi
alla fine del secolo XIX). È ragionevole supporre che i simboli relativi
agli opifici idraulici non venissero cancellati nelle edizioni successive,
così che le tavolette riportano senz’altro un numero di opifici superiore
a quelli effettivamente ancora esistenti negli anni Cinquanta. L’indagine,
pazientemente condotta su 97 tavolette, ha permesso di individuare nella
loro esatta ubicazione i mulini, indicati mediante un simbolo a forma di
piccolo cerchio dentato. Peraltro, l’IGMI adopera il simbolo del cerchio
dentato per tutti gli opifici idraulici (comprese gualchiere, ferriere ecc.),
così che in assenza di toponimo non si può essere certi di trovarsi effet-
tivamente in presenza di un mulino e tanto meno si può distinguere se
trattasi di mulino da cereali o da olio. Sono i toponimi stessi a offrire,
inoltre, un aiuto preziosissimo per l’individuazione di antichi mulini non
direttamente segnati sulla carta: le voci molinetto, molinaccio, molinella
e simili, presenti in prossimità di corsi d’acqua, consentono di localizza-
re opifici scomparsi o di cui restano esigue tracce. In totale, dalla fonte
cartografica sono risultati 418 mulini (342 nella Provincia di Perugia,
76 in quella di Terni), testimonianza comunque del sensibile declino co-
nosciuto da queste strutture nella prima metà del Novecento. I catasti
si sono rivelati oltremodo utili per il secolo XIX, in particolare quello
Gregoriano (1816-35); a questo si è fatto ricorso per l’attuale Provincia
di Terni, fatta eccezione per il territorio Orvietano per il quale ci si è av-
valsi del Cessato Catasto Urbano del 1876. A questi andranno aggiunti
i catasti Ghelliano e Chiesa per i territori di Gubbio e di Perugia, dai
quali si possono derivare entità e localizzazione degli impianti molitori a
conclusione del secolo XVIII.
Il documento rivelatosi comunque di maggiore utilità ai fini della ricerca
è la Carta Idrografica d’Italia (in scala 1:100.000) edita dal Ministero
di Agricoltura, Industria e Commercio nel 1889. Dal 1863 era stato av-
viato uno studio generale sul sistema idraulico-agrario d’Italia dal quale,
dopo qualche anno, per ogni provincia si ottenne una carta idrografica,
formata in base ai fogli in scala 1:100.000 pubblicati dall’IGMI. All’in-
terno delle Memorie illustrative della Carta Idrografica è contenuto

122
l’esplicativo Elenco degli opifici e corsi d’acqua industriali della Pro-
vincia di Perugia (1893) che, a livello comunale, riporta dati preziosi
per delineare il quadro della situazione sul finire del secolo XIX. Nell’a-
rea umbro-marchigiana risultava un numero di impianti notevole (oltre
2.000), soprattutto se messo in relazione alla limitata estensione territo-
riale e all’ampia diffusione dei mulini da cereali (869 nella sola Umbria).

I mulini ad acqua nel territorio Eugubino

Secondo la Carta Idrografica del 1889 risultavano nell’ambito territoria-


le Eugubino-Gualdese 73 mulini (68 da cereali, 2 da cereali e olio, 3 da
cereali e altro), ubicati quasi tutti in prossimità di corsi d’acqua minori
o di sorgenti. Il Comune di Gubbio merita alcune considerazioni specifi-
che, in considerazione della sua estensione – è il più vasto dell’Umbria e
settimo in Italia con i suoi 525,08
kmq – e dell’elevato numero di impianti molitori in esso operanti e sto-
ricamente documentati sin dal secolo XI. Come ricorda Rosa Goracci
(autrice nel 2001 di un corposo saggio sui mulini idraulici del territorio
eugubino, nonché nel 2013 delle schede relative agli opifici citati in que-
sta sede contenute nel volume L’Umbria dei mulini ad acqua), la prima
attestazione della presenza di un mulino ad acqua risale al 1047, allor-
ché in una donazione viene citata la porzione di un “molino posto a Col-
le Alto” situato lungo l’Assino (mancano tuttavia elementi per una sua
esatta localizzazione). Altri documenti (risalenti agli anni 1156, 1163,
1164, 1168) riferiscono che presso corsi d’acqua come l’Assino e il Sa-
onda operavano comunque importanti opifici idraulici. Pertanto Gubbio
si può senz’altro ritenere uno dei pochi territori in Italia allora all’avan-
guardia nell’utilizzazione protoindustriale della forza motrice idraulica.
Da metà secolo XI al 1350 circa nell’Eugubino si affermarono libertà, si-
curezza e un crescente benessere materiale. In questo contesto va inserito
l’elevato numero di impianti molitori ad acqua che, come si desume dalle
ricerche dello storico Piero Luigi Menichetti, risultavano circa una set-
tantina nel secolo XIV. I due secoli successivi rappresentano invece per
Gubbio un periodo di decadenza e per i documenti relativi ai mulini un
arco temporale praticamente privo di informazioni di un certo rilievo.
La situazione muta con il Catasto redatto dal Ghelli nel 1768, dal quale
si ricava che a quella data nel territorio di Gubbio erano attivi 42 mulini.
Dal Catasto Gregoriano, nel 1857 risulteranno 37 opifici.

123
La Carta Idrografica del 1889 prospetta una situazione analoga (35 mu-
lini), fatta eccezione per il mulino di Caivilla, attivato nel 1872. Dunque,
a cavallo tra i secoli XVIII e XIX si constata un decremento di impianti
abbastanza significativo, mentre nel resto del secolo XIX la situazione si
mantiene stabile. Si accusa purtroppo un vuoto documentario per l’arco
di tempo compreso tra il 1889 e il 1927. A quest’ultima data gli opifici
attivi erano 28, dopodiché si produrrà, come in ogni altra parte della
regione, una costante diminuzione fino all’attuale scomparsa.
Fra i mulini idraulici meritevoli di essere ricordati vi sono in primo luogo
quelli della Gola del Bottaccione, situati alle porte della città in un’area
di notevole pregio storico e naturalistico incisa dal torrente Camigna-
no. Questi mulini rappresentano un’unità inscindibile, un “sistema” nel
quale ciascun opificio aveva un ruolo complementare rispetto agli altri.
Sotto questo aspetto, come sottolinea Rosa Goracci, basterà ricordare
che, trattandosi di mulini in ripresa (cioè in successione), quando Titto
dell’Albina (mugnaio del III mulino e a guardia delle chiuse) ancora po-
chi decenni or sono apriva la bocchetta del Bottaccione, l’operazione as-
sumeva un’importanza tale che accorrevano in suo aiuto Baldaccio (mu-
gnaio del II mulino) e Cesarino del Castrico (conduttore del I mulino).
Salendo da Porta Metauro si incontrava, sulla destra, il primo Mulino,
che ora corrisponde alla dimora contrassegnata dal numero civico 2; sul-
la sinistra era il secondo Mulino, detto dei Sette Camini; infine, sempre
sulla sinistra, era il terzo Mulino, condotto dai Bianchi, che oggi ospita
un ristorante. Purtroppo di quei mulini nulla è rimasto fuorché, davanti
alla dimora dove era il primo, una macina di pietra ora impiegata come
tavolino all’aperto. Il primo mulino del Bottaccione è stato in esercizio
fino agli anni Sessanta e il genero di Cesarino – Angelo Menichetti del-
la famiglia dei Belancini, chiamato da tutti Angelino – ha proseguito
l’attività del suocero. Cessata da tempo l’originaria funzione, uno degli
opifici (I Mulino) è dunque destinato ad abitazione; un altro (III Mulino)
a ristorante (Osteria del Bottaccione); infine, dopo un’attenta opera di
recupero e restauro conclusa da pochi anni sotto la direzione degli ar-
chitetti Caldarelli e Menichetti, il II Mulino rappresenta attualmente un
luogo idoneo per attività didattiche e laboratoriali, sia per gli ampi spazi
a disposizione, sia per quanto in esso permane (fig. 1). Infatti, tutta la par-
te un tempo ospitante l’opificio molitorio – richiamata all’esterno da una
coppia di macine posizionate verticalmente – è stata ripristinata com’era
nel passato. L’elemento di maggior pregio – prosegue la Goracci –, tale

124
da rendere questo mulino un caso unico in Umbria, è l’esistenza di una
vasca di carico interna. In effetti, sulla parete in cui termina il bottaccio
esterno sono visibili i conci di un’ampia apertura (circa 2 metri) dalla
quale l’acqua entrava copiosa all’interno dell’edificio stesso e riempiva
una stanza dalla pianta circolare.
Un altro singolare mulino del territorio eugubino e, nel contempo, un
classico esempio tra questi edifici in Italia, è il Mulino di Morinicchia.
La sua notorietà è legata sia al fatto che “macinéa ’l grano de la luna
de marzo” (secondo la credenza popolare, il grano che si macinava in
marzo nel giorno di luna piena sarebbe rimasto buono per tutta l’estate),
sia alla capacità evocativa del luogo in cui è inserito; inoltre le sue carat-
teristiche complessive – nonostante le condizioni di semiabbandono in
cui tutta l’area versa ormai da qualche anno (fig. 2) – lo rendono a buon
diritto paradigma e modello dell’architettura popolare in Italia. Si deve
alla famiglia Martinelli il merito di aver assicurato per quasi due secoli
la trasmissione del sapere molitorio da una generazione all’altra (non a
caso questo opificio è stato fra gli ultimi a cessare l’operatività nel Comu-
ne). Di tale unità produttiva, ancora vitale a metà degli anni Ottanta del
secolo scorso, Giovanna Chiuini così riferiva: “Un insediamento come
quello del mulino di Morinicchia, affogato nella stretta gola del torrente
Certano […], ci offre gli elementi per considerare molto da vicino cosa
significhi […] padroneggiare le risorse di un ambito certamente non ric-
co né favorevole”. Venendo al mulino, la ricerca storico-archivistica ha
condotto al reperimento di un primo documento utile alla ricostruzione
dell’evoluzione dell’impianto, databile al 1770: si tratta della carta del
Bartoli, nella quale, alla confluenza tra il fosso Gileone e il fiume di Mo-
rena, si legge il toponimo “Pod. Il Molinaccio”. La stessa carta riporta
– però più a sud e col toponimo “Pod. Morinicchia” – un terreno, di pro-
prietà di Vincenzo Martinelli, che di lì a poco ospiterà il mulino in que-
stione. Il Sommarione del Catasto Gregoriano (prima decade dell’Otto-
cento), al toponimo “Pod. Morinicchia”, riporta un edificio di proprietà
ancora di Martinelli Vincenzo descritto come “casa colonica ad uso di
fienile”. La stesura posteriore dello stesso Catasto, registra, invece, allo
stesso numero di particella, un “Molino da grano a due ruote ad acqua”
disposto su un vano a pianoterra e su un altro al primo piano. È questo,
almeno da un punto di vista archivistico, il certificato di nascita del mu-
lino di Morinicchia. Derivando le acque dal torrente omonimo con una
diga in legno e un breve canale di derivazione (km 0,138) per soli 0,6 m

125
di dislivello dal punto di presa, il mulino sfruttava una caduta di ben 6,6
metri. Ivo Martinelli, che presenta la domanda per la licenza di macina-
zione a partire dal 1927, dichiara nel 1941 che l’impianto è dotato di tre
macine: una da grano, una da granoturco e una fuori uso. Sei anni dopo
il mulino risulta “inattivo per mancanza d’acqua”, e perciò il 29 gennaio
dello stesso anno Ivo chiede l’autorizzazione per installare un motore a
scoppio. L’impianto avrebbe dovuto essere spostato più a sud rispetto a
quello idraulico, precisamente al vocabolo Morenaccia – meglio servito
dalla strada – in un fabbricato rustico, trasferendo solamente i due pal-
menti in pietra. Dal momento però che la domanda viene respinta dalle
autorità competenti, il mulino continuerà a lavorare per molti altri anni
azionato solamente dalla forza idraulica.
In ragione dello spazio disponibile, l’ultimo opificio al quale si può ac-
cennare è il Mulino di Sant’Angelo d’Assino. Al riguardo, si è detto che
la storia dei mulini ad acqua nel territorio di Gubbio comincia dal 1047,
anno cui si riferisce il primo documento attestante la presenza di tali
opifici. Nel novembre di detto anno, infatti, “Giovanni del fu Benedet-
to” dona alla canonica ed episcopio di S. Mariano un modio di terra e la
porzione del suo mulino posto a Colle Alto. Nel localizzare l’oggetto di
tale donazione viene citato, tra i diversi confini, “fluvio Asino”: dunque,
il primo mulino di cui ci è dato sapere – pur non avendo elementi per po-
terlo localizzare con esattezza – è situato nei pressi di un corso d’acqua
(l’Assino) che, considerato nel suo percorso entro i confini comunali, da
allora in poi sarà destinato ad animare almeno una dozzina di impianti
molitori idraulici. Uno di questi, il Mulino di Sant’Angelo d’Assino, a
palmenti e da cereali, situato appunto sulla sponda destra del torrente
omonimo – tra i maggiori affluenti di sinistra del Tevere –, godeva di
una favorevole ubicazione, trovandosi in una zona pianeggiante lungo
l’attuale S.S. 219: un asse viario, questo, al cui ammodernamento già il
Governo Pontificio prestava molta attenzione. Si è detto che la struttura
architettonica esterna di un mulino non presenta particolari caratteristi-
che: ma non è questo il caso. Dell’impianto originario nulla si conosce;
per una prima descrizione generale si deve ricorrere al Catasto Gregoria-
no, in cui viene descritto con quattro vani, tutti a piano terra, parte dei
quali sormontati da una casa colonica. L’edificio risulta costituito da un
unico vano per la macinazione sopra il quale si erge una torre quadran-
golare in pietra, in ottimo stato di conservazione (fig. 3); quest’ultima,
percorsa su tutti e quattro i lati da un ballatoio, presenta sul lato occi-

126
dentale un ampio portone con architrave in legno: si tratta dell’ingresso
al vano macchine, con volte a botte, dove oggi sono accatastate due
tramogge, due casse e due cassoni per la farina. Dallo stesso vano, attra-
verso una botola, è possibile vedere uno dei due ritrecini, dotato ormai
di soli quattro cucchiai. La torre che ospitava il mulino, oggi adibita a
cantina-ripostiglio, è affiancata da un corpo di fabbrica a L a uso abitati-
vo. Notizie tecniche sono contenute nell’Allegato (1893) alla Carta Idro-
grafica: la diga in muratura era posta su un canale di derivazione lungo
km 0,38, con un dislivello di 1,2 m dal punto di presa e una caduta di
4,9 metri. L’attuale proprietario ha ben conservato la reglia, il bottaccio
e le macine: dalla prima ricava l’acqua che alimenta un laghetto artificia-
le per la pesca sportiva; l’acqua del bottaccio, invece, anziché condotta
attraverso le docce e il canale di scolo, è deviata grazie a una cascatella e
ricondotta all’Assino; le quattro macine, infine, vengono utilizzate come
tavolini all’aperto. Secondo documenti reperiti presso l’Archivio Storico
della Camera di Commercio di Perugia, dal 1927 al 1957 proprietario
del mulino fu Gilardo Terradura, che nella richiesta di rinnovo della
licenza di esercizio per il 1934 dichiarava una produzione oraria di 1,5
q. Nel 1954 erano elencati: tre macine – per grano, granoturco e biade –
con diametro di 30 cm ciascuna, un buratto, un aspiratore, un trabatto,
uno svecciatore e un battitore. A produrre la domanda di licenza per il
1958 è stato Annibale Terradura, l’ultimo a essersi occupato attivamente
di questo mulino. Dopo il terremoto del 1984 cessa, de facto, l’attività,
anche se il rinnovo della licenza presso la Camera di Commercio non
risulta più dal 1988.

Indice delle opere citate

Bloch M., Avvento e conquiste del mulino ad acqua, in Bloch M., Lavoro e tecnica nel Medioevo,
Bari 1959, pp. 48-87.
Chiuini G., Umbria, coll. “L’architettura popolare in Italia”, Roma-Bari 1986.
Goracci R., I mulini ad acqua nel territorio di Gubbio, in “Quaderni dell’Istituto Policattedra di
Geografia”, Università degli Studi di Perugia, 20, 2001, pp. 217-271.
Melelli A., Fatichenti F. (a cura di), L’Umbria dei mulini ad acqua, Perugia 2013.
Menichetti P.L., Storia di Gubbio dalle origini all’Unità d’Italia, I-II, Città di Castello 1987.

127
Fig. 1
Il Mulino Sette Camini (oggi Agriturismo Molino Sette Camini).

Fig. 2
Il Mulino di Morinicchia.

128
Fig. 3
Il Mulino di Sant’Angelo d’Assino.

129
130
131
132
IL QUARTIERE DI SAN PIETRO
NEL QUADRO DELLO SVILUPPO
URBANISTICO DI GUBBIO TRA
ANTICHITÀ E MEDIOEVO

Donatella Scortecci

Parlare della storia del quartiere di San Pietro significa necessariamente


affrontare la storia della città e delle sue trasformazioni nel tempo. La
città è città di pietra e città viva, con i suoi spazi funzionali alla civitas. La
città è uno spazio che si trasforma con processi programmatici determinati
dalla volontà umana delle élites, ma anche frutto di casualità e contin-
genza. Tutto questo si riverbera anche nella composizione della Gubbio
medievale1. L’area del quartiere di San Pietro, è ormai certo, occupò da
sempre spazi marginali, sia rispetto all’abitato romano che si estendeva a
destra del Carmignano2, sia rispetto al primo nucleo della città medievale,
disposto in altura. Diversamente, studi recenti, hanno evidenziato la cen-
tralità di quest’area durante l’alto medioevo, strategica nelle dinamiche di
passaggio dalla città romana di pianura al nuovo centro d’altura3.

Fino alla fine del 1200 Gubbio era divisa in vici. Solamente dopo il 1260
vengono creati i quartieri, ciascuno riferito a una chiesa parrocchiale:
San Martino, San Giuliano, Sant’Andrea e San Pietro (fig.1). Nella parte

1
Micalizzi 1988.
2
Torelli 2013; Manconi 2008.
3
Soprattutto Costantini 1970 e Sisani 2001.

133
alta della città il quartiere di Sant’Andrea raggruppava gli antichi vici di
Sant’Andrea e il Vicus Curiae mentre nella parte bassa il quartiere di San
Giuliano comprendeva l’antico vicus Platee dove si trovava la prima cat-
tedrale e la chiesa di San Giovanni con l’espansione verso la piazza del
mercato; il quartiere di San Pietro comprendeva la “Colonia”, il vicus
Thiani e il vicus Griconiae; il quartiere di San Martino inglobava il vicus
ultra acquam. La situazione fotografata alla metà del 1300 costituisce
il punto di arrivo di un processo di formazione verso una nuova realtà
urbana che fonda le sue radici nelle fasi di destrutturazione della città
romana e, ancor prima, nella fase di cristianizzazione della società, che
a Gubbio avvenne molto precocemente rispetto ad altre realtà umbre.
In genere tutte le città medievali presentano due aspetti specifici rispetto
alle città romane: la presenza di spazi adibiti al culto cristiano e alle élites
ecclesiastiche che diventano il fulcro della “nuova città medievale” e la
militarizzazione dello spazio urbano con la costruzione-ricostruzione di
mura e di infrastrutture difensive. Nella maggior parte dei casi italiani si
tratta di città in continuità di vita rispetto alle fasi più antiche. Si pone
pertanto il problema del rapporto tra urbanistica medievale e preesi-
stenze. Per esempio, nel caso della vicina Perugia, il circuito murario
etrusco-romano ancora oggi perfettamente conservato e vivo nel tessuto
della città, indica precisamente lo spazio della città antica. Viceversa,
in altri casi, come Trevi, tanto per rimanere in Umbria, la città romana
di Trebiae, ubicata lungo il percorso pianeggiante della via Flaminia in
località Pietrarossa, nel corso dell’alto medioevo viene abbandonata per
dar luogo ad un nuovo centro collinare sul quale si andò coagulando il
nuovo abitato di Trevi, quello ancora oggi esistente4. In altri casi, come a
Gubbio, la mancanza di un circuito murario romano, riconosciuto solo
per labili tratti, genera molte incertezze sul riconoscimento del sito preci-
so della città romana e, di conseguenza, sul suo rapporto con la città me-
dievale. Infatti le teorie correnti sono due e contrapposte, chi sostiene la
parziale sovrapposizione dei due insediamenti e chi distingue nettamente
la Gubbio romana, in pianura, da quella medievale, in altura (fig.2)5.

Quanto alla fase altomedievale della città, le fonti archeologiche, ma so-

4
Scortecci 2018.
5
Torelli 2013 e Sisani 2001.

134
prattutto quelle documentarie, sono scarse e sporadiche, ciò nonostante
emerge l’immagine di una città importante anche dal punto di vista della
sua comunità cristiana, sin da epoca molto antica. Infatti la celeberrima
lettera decretale, datata 416, di papa Innocenzo I al vescovo di Gubbio
Decenzio6, testimonia la presenza di una comunità religiosa cospicua e
organizzata in diocesi, il cui capo, Decenzio, rappresentava un interlo-
cutore privilegiato addirittura per la chiesa romana. All’età paleocristia-
na si riferisce infatti un’iscrizione che menziona una chiesa intitolata ai
Santi Apostoli (San Pietro?), un culto che si trova diffusamente in tutto
il mondo cristiano delle origini, e che viene importato direttamente da
Roma, culla del cristianesimo occidentale. Forte fu anche il legame con
la Chiesa ravennate di matrice bizantina, come si evince da alcuni do-
cumenti contenuti nel Codice Bavaro, i quali fanno espressa menzione
dei possedimenti della chiesa ravennate in terra eugubina, tra cui una
chiesa intitolata al culto ravennate di Sant’Apollinare7. Come vedremo
oltre proprio nella tessitura muraria della facciata della chiesa di San
Pietro sono conservati straordinarie colonne con capitelli in stile bizanti-
no, databili al VI-VII secolo. A una fase cronologica posteriore, VIII-IX
secolo, va invece riferita la necropoli cristiana e l’annessa basilichetta,
rinvenute all’inizio del secolo scorso presso la Porta degli Ortacci8. In
area suburbana sono ancora oggi testimoniati i cimiteri paleocristiani
della Vittorina e di San Felicissimo9.
Altrettanto scarse e sporadiche sono le testimonianze materiali di strut-
ture e infrastrutture realizzate in età altomedievale, come si accennava,
riferibili al quel nebuloso periodo che va dalla fine dell’impero romano
alla “costruzione” della nuova città basso medievale. Tra i pochi dati
certi relativi all’esistenza di strutture difensive altomedievali rientra a
pieno titolo la riconversione d’uso del teatro romano eugubino, il più
antico edificio ludico dell’Umbria conservato, risalente agli ultimi anni
della Repubblica, ubicato nel quartiere della Guastuglia. Gli scavi sette-
centeschi del Ranghiasci confermarono quanto già la tradizione locale
sosteneva da tempo circa una riconversione del teatro in fortezza “nei

6
Monachino 1965.
7
Campana 1965, pp.299-302.
8
Stefani 1942; Braconi, Manconi 1982-1983; Scortecci 1995.
9
Binazzi 2005, Paciotti 2013.

135
bassi tempi”, dando così credito anche all’onomastica postclassica della
struttura, nota nelle fonti medievali anche come Perilasio/Perolasio, Pa-
latium, Rocca. Studi recentissimi hanno riconsiderato tutti i dati e con-
fermato all’età della guerra greco-gotica la trasformazione funzionale e
strutturale del teatro10.
Altra problematica importante nello studio delle dinamiche urbanistiche
di Gubbio medievale riguarda l’ubicazione della cattedrale paleocristia-
na, ovvero il riconoscimento della sede della prima chiesa episcopale eu-
gubina, notoriamente diversa da quella della cattedrale bassomedievale
di San Mariano e Sant’Ubaldo.
In un documento del 921 si fa espressa menzione di un episcopio di San
Mariano dentro le mura della citta. Quale mura? Le mura superstiti della
città romana o le nuove mura della città medievale? Tre documenti della
fine del XI secolo (1085, 1092, 1096)11 specificano meglio la sua configu-
razione topografica: “in civitate antiqua”, presso il fiume, con annesso ho-
spitale. Sembrerebbe dunque si trovasse nella città antica, che alcuni iden-
tificano con l’insediamento altomedievale sorto “dalle ceneri della Gubbio
piana”, ovvero Gubbio romana12. L’ipotesi più condivisa è che si trovasse
nell’area della chiesa di San Giovanni (intitolazione residuale dell’ipotetico
annesso battistero alla cattedrale!)13. Questa, in un documento del 1188,
viene indicata in suburbio e presso le mura cittadine. In questo periodo la
sua ubicazione suburbicaria farebbe riferimento non al nuovo spazio della
città medievale, bensì all’antica città romana che si sviluppava a destra
del Carmignano14. Infatti solo più tardi, tra XII e XIII secolo, l’edificio
venne inglobato entro il circuito basso medievale, sancendo così definiti-
vamente la sua appartenenza alla città. Dunque, le mura a cui si riferisce
il testo di fine duecento sono molto probabilmente quelle romane di cui
si è trovata traccia nella porta urbica rinvenuta sotto la loggia dei Tiratoi
(nell’area del vecchio ospedale)15. L’area della “vecchia cattedrale” era sta-

10
Marcattili 2007.
11
Cenci 1915, pp.200-201, 208-209, 212.
12
Si veda Micalizzi 1988, nota 13, p.61; p.52.
13
Ibid.
14
Si veda a questo proposito la proposta ricostruttiva di Sisani 2001, sul limite sacrale dell’antica
città romana rappresentato dall’alveo del fiume Carmignano anche in base al rinvenimento in situ di
un cippo confinario, al di sotto della Loggia dei Tiratori in prossimità della sponda del Carmigliano.
Vedi anche Manconi 2008; Torelli 2013.
15
Torelli 2013, p.6

136
ta da sempre molto vitale. Fonti del XII secolo menzionano l’esistenza di
mulini di proprietà vescovile presso il ponte marmoreo e la chiesa di San
Giovanni. L’incendio del 1127 non sembra declassare l’area che rimarrà
sempre attrattiva per il ceto commerciale e artigiano, anche dopo la realiz-
zazione della “città nuova”, con lo spostamento dell’abitato verso l’altura.
Il trasferimento della cattedrale nella “città nuova” durante l’episcopato
di Ubaldo (1130-1160), coincide, di fatto, con la nascita del nuovo polo
urbano sul luogo di un probabile preesistente castrum, un insediamento
inizialmente esclusivamente vocato alla difesa dell’abitato sottostante16(-
fig.3). Nel 1188 papa Clemente autorizza il vescovo Bentivoglio al trasfe-
rimento delle reliquie dei santi dalla città antica alla città nuova. La co-
struzione della cattedrale di San Mariano e Sant’Ubaldo completò, anche
sul piano urbanistico, l’icnografia del nuovo centro medievale incentrato,
come si conveniva nelle città bassomedievali, sull’insula episcopalis e sulla
platea comunis, sede del potere laico, qui, prima consolare e poi, dal XIV
sec., ducale. Di fatto si volle annullare, anche sul piano topografico, il dua-
lismo conflittuale tra i guelfi rappresentati dall’antica sede vescovile e i ghi-
bellini che avevano fondato il loro potere sul castrum. Scavi archeologici
hanno rimesso in luce le strutture del castrum, databili tra l’altomedioevo
e il XII secolo: una strada, una porta, un locale di guardia e numeroso ma-
teriale che hanno permesso di confermare l’esistenza di un insediamento
altomedievale nell’area del Palazzo dei Consoli17. Il processo di attrazione
dell’antica insula episcopalis verso il castrum rappresenta un fenomeno
noto anche in altre realtà. Per rimanere in Umbria basti richiamare Assisi
con lo spostamento dell’antica sede vescovile paleocristiana da Santa Ma-
ria maggiore, presso la Porta romana di Moiano, verso il nuovo polo di
San Rufino, sorto strategicamente in età altomedievale in corrispondenza
della parte sommitale dell’abitato antico.

Questa lunga premessa per comprendere meglio le ragioni che portarono


alla formazione dei quartieri più antichi dell’abitato medievale eugubi-
no, tutti emblematicamente sorti a margine dell’abitato romano (noto),
presso il fiume Carmigliano. Il quartiere di San Giuliano che accorpa l’a-

16
Un ulteriore sistema di difesa di età bizantina è stato scoperto nella c.d. Rocca anteriore, già
esistente dall’età preistorica. Si veda in proposito Whitehouse 1977.
17
Manconi, Venturini 1991.

137
rea dell’antica cattedrale paleocristiana di cui si è già parlato. Il quartiere
di San Pietro, che come si vedrà, occupava un’importante area del subur-
bio romano e, infine, l’area della Guastuglia che ben testimonia, con i
suoi importanti rinvenimenti romani, anche l’esistenza di un abitato alto
medievale. Prima di entrare nello specifico delle fasi insediative del quar-
tiere di San Pietro, va innanzi tutto premessa la sostanziale discordanza
di opinioni tra coloro che sostengono un’origine pienamente medievale
del quartiere, come il Micalizzi18, che ritiene addirittura sia stato l’ultimo
in ordine cronologico dei quartieri medievali con la sua “Colonia”, il
Vicus Thiani” e il “Vicus Griconiae” (fig.4), e chi, come Simone Sisani,
ipotizza che quest’area appartenesse alla città romana sin dal II sec.a.C.
(fig.5)e che fosse attraversata da un tratto del primo circuito murario di
epoca tardo-repubblicana, in uso fino all’alto medioevo, che ricostruisce
anche sulla base della tradizione erudita e di alcuni documenti di XI se-
colo, il quale doveva correre a valle, lungo l’attuale via Campo di Marte
e il corso del Cavarello19. Purtroppo fonti certe, materiali e documenta-
rie, relative alla fase più antica del quartiere sono scarsissime e incerte,
come il riconoscimento di blocchi appartenenti a questa prima cinta nei
conci reimpiegati sulla fronte e lungo il fianco settentrionale della chiesa
di San Pietro20 (fig.6), come anche la generica notizia del rinvenimento
nel XVII secolo “di steli funerarie e altri antichi monumenti “21. Alcuni
di questi reperti sono rimasti nel monastero di San Pietro fino a che non
sono confluiti nella raccolta comunale: un cippo e una stele funeraria
romane, un sarcofago di III-IV secolo d.C.22 (fig.7), due sarcofagi altome-
dievali23. Degni di particolare attenzione sono gli elementi architettonici,
- fusti e capitelli – databili all’età bizantina (VI secolo. d.C.) che venne-
ro impiegati in un portico, poi tamponato nel XIII secolo, ma ancora
perfettamente visibile nella facciata della chiesa di San Pietro (fig.6). La
struttura indica l’esistenza di un edificio più antico, precedente alla co-
struzione della chiesa benedettina24. Che si tratti della basilica dedicata

18
Micalizzi 1988, p.83.
19
Sisani 2001, pp.100-102; 118.
20
Ivi, p.106.
21
Cenci 1915,, p.6.
22
Matteini Chiari 1995.
23
Spaziani 1966.
24
Lucarelli 1988, p.621; Cenci 1904, pp4-7; Moretti-Stopani 1973, p.49.

138
ai Santi Apostoli, di cui parla la lapide del diacono Eliano (IV-V secolo
d.C.)? . La fondazione del monastero benedettino di San Pietro si fa
risalire all’VIII secolo25, sebbene il primo documento di cui si ha notizia
dell’edificio risale al 1058 e si riferisce alla sua consacrazione ad opera
del vescovo di Cagli, già abate di San Pietro. Pertanto la chiesa, a questa
data, già esisteva. Fonti storiografiche riportano che Landolfo, fondato-
re dell’eremo di Fonte Avellana, nel 1009 aveva rivestito la carica di aba-
te di San Pietro26. Nella chiesa si riconoscono almeno tre fasi costruttive:
la prima risalente al IX-X secolo nelle forme di un edificio a croce latina
a tre navate. Nel XIII secolo venne poi trasformata secondo il gusto
gotico, con navata unica, maggiore rispetto alla fabbrica precedente. L’
abside fu arretrata e sul luogo del primitivo presbiterio venne realizzata
una crociera con due cappelle laterali. Infine, tra XVI-XVII secolo, subì
importanti interventi prevalentemente all’interno, con la costruzione di
numerosi altari e di una volta su trabeazione. Fu a seguito di questi la-
vori che si perse la facies medievale e, contestualmente, la decorazione
pittorica realizzata da Ottaviano Nelli nel 143827. Come si accennava,
la facciata presenta elementi di grande interesse, soprattutto nell’otti-
ca del riconoscimento di preesistenze, bizantine, ma anche più antiche.
Infatti il basamento della chiesa utilizza materiale lapideo di spoglio di
età romana che, tempi addietro, ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare
l’esistenza di un tempio romano sul quale sarebbe stato poi costruito
l’edificio cristiano. L’intitolazione a San Pietro, probabilmente residuale
di una più antica devozione ai santi Apostoli, fa pensare a un uso fu-
neraria della chiesa e della sua area già a partire dall’età paleocristiana
(sul modello archetipale del santuario petrino a Roma), destinazione più
che legittima per un’area extra urbana come quella del quartiere di San
Pietro, almeno in età romana. Con il tempo il monastero acquisì grande
importanza e potere. I documenti attestano numerosissimi suoi possedi-
menti tra beni e chiese, come quella eugubina di San Felicissimo. Nel XV
secolo passò all’ordine cistercense ma, nel 1505, fu ceduta agli Olivetani
che provvidero alla ricostruzione totale dell’abbazia, ampliata rispetto
alla fabbrica precedente, dove rimasero fino al 1831. Con l’unità d’Italia

25
Cenci 1904; Lucarelli 1988.
26
Meloni 1966.
27
Spaziani 1966.

139
il complesso monastico fu soppresso.
La presenza ingombrante del monastero di San Pietro, con le sue clau-
sure, appezzamenti di terreno recintati, occupati da vigne e albereti, finì
per influire e limitare lo sviluppo urbanistico del quartiere omonimo
ma, certamente, concorse a quello economico, vista la vocazione spic-
catamente commerciale di quest’area della città medievale. Tra X e XII
secolo l’area doveva apparteneva a quel nucleo urbano ecclesiastico-po-
polare che faceva riferimento al vescovo e all’abate di San Pietro e che
si attestava lungo il Carmignano, contrapposto all’altro polo, aristocra-
tico-feudale, che in quest’epoca doveva occupare la parte superiore del
quartiere di San Martino28. Il quartiere doveva essere già attraversato da
un’importante arteria che collegava il vicus Platea, antistante la piazza di
San Giovanni, al vicus Griconie e all’area dell’abbazia di San Pietro, che
si ritiene fosse scarsamente urbanizzata almeno fino alla metà del XIII se-
colo, quando si intraprese un programmatico intervento di pianificazio-
ne urbanistica che, secondo Paolo Micalizzi, comportò la realizzazione
di quel caratteristico impianto regolare “ispirato a criteri di ortogonalità
e simmetria”, che emblematicamente ispirò la denominazione di “Colo-
nia” all’area29(fig.8).Di opinione diversa Simone Sisani che riconduce la
regolarità dell’impianto di San Pietro alla prima fase romana della città
(fine II sec.a.C.), quando il superamento del limite sacro della città um-
bra, che lo stesso studioso aveva individuato nel Carmignano, “si spiega
solo ammattendo che l’abitato fosse ormai impossibilitato ad espandersi
ulteriormente al suo interno” 30. Viceversa per il Micalizzi l’intervento
medievale sarebbe stato mirato sia a una più ordinata espansione dell’a-
bitato urbano, sia a una più organica comunicazione tra città e contado.
Le attuali via Cairoli e via Garibaldi, rappresentavano gli assi principali
del quartiere e stabilivano precise relazioni topografiche, sia rispetto al
monte -via Cairoli è allineata alla chiesa di Sant’Ubaldo - sia rispetto alle
nuove mura urbiche con le quali la stessa via stabiliva “rapporti a di-
stanza” e alle quali era legata da un rapporto di progettualità organica31.
Infatti, molto probabilmente, il primo ampliamento della cinta muraria

28
Micalizzi 1988, p.47.
29
Micalizzi 1988, p.82.
30
Sisani 2001, p.54.
31
Micalizzi 1988, p.93-92.

140
verso il piano – che Il Micalizzi identifica nel tratto tra porta S.Agostino
e la porta Marmorea – coincise con la nuova pianificazione urbana che
si concluse nella seconda metà del Duecento. Il quartiere di San Pietro
poté vantare ben due porte urbiche, a testimonianza della sua vitalità
economico-sociale. In questo stesso periodo l’antico impianto della città
per “vici” venne sostituito con quello per quartieri, ciascuno riferito alla
chiesa parrocchiale. Nel corso del XVI secolo il quartiere fu interessato
da importanti opere di ristrutturazione, soprattutto riguardanti le fasce
perimetrali. Oltre alla ristrutturazione della chiesa e del monastero di
San Pietro, si intervenne su edifici religiosi e assistenziali quali l’Ospedale
di Santo Spirito, il Convento di Santa Elisabetta e la chiesa di Santa Ma-
ria dei Servi. Ma anche prestigiose opere edilizie a carattere privato, son-
tuosi palazzi nobiliari che accorparono le più antiche strutture medievali
e che si aprivano sugli assi viari principali, ora via Cairoli e via Cavour.

141
Fig.1
I quartieri da I.Cassetta, 1663)

Fig.2
Gubbio romana (da Torelli 2013)

142
Fig.3
Gubbio medievale (da Micalizzi 1988)

Fig.4
L’insediamento altomedievale (da Micalizzi 1988)

143
Fig.5
Gubbio romana secondo la proposta di S.Sisani.

Fig.6
San Pietro, esterno. Reimpieghi romani e bizantini.

144
Fig.7
Sarcofago romano da San Pietro

Fig.8
Quartiere di San Pietro. Schema planimetrico (da Micalizzi 1988)

145
146
LA PIEVE DI S. STEFANO DI LORETO
E L’ORIGINE DELLE PARROCCHIE
RURALI NELLA DIOCESI DI GUBBIO
(IV-VIII SECOLO)
Gianfranco Binazzi

Prima di argomentare sulle origini della Pieve di S. Stefano di Loreto e di


altre antiche pievi della diocesi di Gubbio, è opportuno che mi soffermi
su alcune considerazioni di carattere storico.
Nel corso del IV secolo, in seguito alla libertà di culto concessa ai Cristiani
con il c.d.Editto di Milano (313), il Cristianesimo si diffuse rapidamente
nelle città, soprattutto nelle più grandi e popolose (Roma, Alessandria d’E-
gitto, Antiochia, Milano). In altre parole, il Cristianesimo delle origini fu un
fenomeno essenzialmente urbano, che si giovò degli interscambi culturali
dovuti alla presenza nelle grandi città di numerosi stranieri, liberi o schiavi
che fossero, dediti alle più svariate attività, in particolare a quelle commer-
ciali ed artigianali. In tale humus crebbero le più antiche comunità dei Cri-
stiani, che fecero ben presto proseliti in vasti strati della popolazione.
Ben diversa fu invece la situazione delle campagne, nel IV e V secolo, soprat-
tutto in Occidente, dove i culti tradizionali – collegati ai cicli stagionali delle at-
tività agricole – sopravvissero a lungo, poiché assai radicati fra la popolazione.
Nel corso della seconda metà del IV secolo, le gerarchie ecclesiastiche
intrapresero l’evangelizzazione delle zone rurali e, in tale contesto, si col-
loca l’origine delle ecclesiae baptismales, cioè delle chiese di campagna,
dotate di un impianto per l’amministrazione del battesimo e frequente-
mente anche di un’area cimiteriale. Le pievi vennero quindi ad esercitare
un ruolo fondamentale ai fini della cristianizzazione e della cura anima-
rum della popolazione del territorio ad esse circostante, dedita perlopiù
all’agricoltura e alla pastorizia.

147
In tale momento storico, caratterizzato da grandi e radicali mutamenti, le dio-
cesi, con la loro organizzazione gerarchica, svolsero un ruolo di grande rilievo.
Particolarmente attiva fu, in tale frangente, la diocesi di Gubbio, come atte-
sta una lettera inviata, nel 416, da papa Innocenzo I al vescovo eugubino De-
cenzio, per rispondere ad alcuni quesiti che gli erano stati da lui sottoposti.
Nella lettera in questione, il pontefice romano fa esplicito riferimento ai
predecessori di Decenzio, il che colloca le origini della diocesi di Gubbio
nell’ambito del IV secolo. Dalle parole di Innocenzo I si apprende, inol-
tre, che nel territorio diocesano esistevano, già da allora, alcune paroe-
ciae, cioè parrocchie rurali, distanti dalla sede episcopale.
Partendo da tali premesse, non posso fare a meno di menzionare una ricerca
da me condotta, alcuni anni orsono, la quale ha avuto l’obiettivo di rintrac-
ciare quelle paroeciae, menzionate da papa Innocenzo I, nella lettera suddetta.
Per onestà intellettuale devo tuttavia ammettere che tale compito non
è stato facile, a causa della scarsità e della frammentarietà delle fonti
letterarie e della totale mancanza di scavi archeologici, finalizzati a rin-
tracciare, al di sotto delle numerose pievi medievali del territorio, fasi
architettoniche riferibili alla Tarda Antichità (Fig. 1).
Dopo aver vagliato attentamente le scarse fonti letterarie esistenti, ef-
fettuai numerose ricognizioni nell’ambito del territorio eugubino, che
hanno invece prodotto risultati degni di nota. Alcune chiese, infatti, la
cui funzione di plebes è attestata dalle fonti medievali, hanno palesato,
all’interno delle loro struttSemonte, menzionata per la prima volta
nel 1084 ed attualmente trasformata in abitazione privata. Nelle
immediate vicinanze di essa sono venuti alla luce resti di epoca
romana (tessere musive, frammenti ceramici, materiale edilizio),
da mettere in relazione con la presenza di un vicus, menzionato
da una fonte medievale. A breve distanza dalla pieve, inoltre, sono
state rinvenute tre sepolture tardoromane.
Durante i lavori di ristrutturazione dell’edificio, al di sotto del suo pa-
vimento, si è rinvenuto casualmente un frammento di lastra in calcare,
decorato da motivi vegetali, databile al IX secolo, già pertinente ad un
pluteo, cioè ad una recinzione interna di un edificio di culto (Fig. 2). La
presenza in loco di tale manufatto e l’ubicazione della pieve lungo una
strada romana ed in prossimità di un vicus, lasciano supporre che la
chiesa abbia avuto una fase architettonica precedente a quella romanica,
riferibile al IX secolo o forse ad epoca precedente.
Lungo la stessa strada, già praticata in epoca romana, sorge a circa 7,5

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Km da Gubbio, verso Ovest, la pieve di S. Stefano di Loreto (Fig. 3). Sul-
le pendici di Monte Loreto, che sovrasta, a Nord, la pieve di S. Stefano,
è stato localizzato un villaggio del primo millennio a.C.; a Monteleto,
nelle vicinanze della frazione di Loreto, sono ben visibili i ruderi in opera
quadrata di un tempio della tarda età repubblicana.
La pieve di S. Stefano di Loreto è menzionata, per la prima volta, soltan-
to nel 1235 in un documento dell’archivio Armanni. La sua intitolazione
originaria a S. Stefano, il cui culto si diffuse ampiamente in tutta la Cri-
stianità fin dal V secolo, sembra suggerire un’origine molto antica dell’
edificio, che, che molto rimaneggiato nel corso dei secoli, appare data-
bile fra l’XI ed il XII secolo. Nel XVI secolo, la dedica al protomartire
Stefano venne sostituita con quella a S. Giovanni Battista.
Di particolare rilievo è la cripta – coperta da una volta che poggia su
arcate impostate su tre sostegni perimetrali, sporgenti dalla muratura,
per i quali vennero riutilizzati frammenti di colonne romane (Fig. 4) – la
quale è stata variamente datata fra la prima metà dell’XI ed il XII secolo
inoltrato. All’interno della chiesa, un fusto di colonna d’epoca romana
funge da sostegno ad un’acquasantiera; un frammento di ara sacrificale,
anch’essa d’epoca romana, è inserito invece nella parte inferiore della
facciata. Notevole interesse riveste un frammento di pluteo in pietra cal-
carea (Fig. 5), murato nella parete a sinistra della scala, che scende nella
cripta. La sua superficie è decorata da nastri di vimini che compongono
maglie intrecciate e disposte a rete, le quali contengono al loro interno
delle rosette. Tale motivo, frequente nella scultura di IX secolo, trova
numerosi riscontri soprattutto in ambito romano.
E’ possibile quindi concludere che alcuni elementi e precisamente l’ubi-
cazione della pieve di S. Stefano, lungo una strada d’epoca romana, la
presenza del pluteo poc’anzi menzionato ed infine la dedica a S. Stefano
suggeriscono che, in quello stesso luogo, un edificio di culto altomedie-
vale preesistesse alla pieve romanica tuttora esistente.
Lungo la Strada Statale di Gubbio e del Pian d’Assino – che ricalca un
percorso viario d’epoca romana, che metteva in comunicazione Gubbio
con il corso del Tevere – si trova la pieve di S. Maria d’Agnano. La pieve
di S. Maria, menzionata per la prima volta in un documento del 1137,
è identificata dal toponimo Agnano, che è di origine prediale, derivando
dal gentilizio latino Annius.
L’edificio, recentemente ristrutturato per essere adibito a residenza priva-
ta, presenta un’unica navata priva di abside. Dalle sue murature, riferibili

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cronologicamente alla fine del XII o all’inizio del XIII secolo, provengono
due frammenti marmorei decorati a bassorilievo (Fig. 6), attualmente con-
servati a Perugia nei magazzini della Soprintendenza per i Beni Archeolo-
gici dell’Umbria. I frammenti in questione, appartenuti in origine a due
diversi sarcofagi d’epoca romana, sono databili, in base ad elementi stili-
stici, al IV secolo. All’interno della pieve, riadoperata come mensa d’altare
nel XII secolo, si trovava una lastra - che costituiva, in origine, la fronte di
un sarcofago - decorata da motivi geometrici e vegetali, caratteristici della
scultura di IX secolo (Fig. 7). Alcuni anni orsono, al di sotto del pavimen-
to della pieve, vennero casualmente alla luce alcuni avanzi di muri, quasi
certamente anteriori al XII secolo, che non è stato possibile ispezionare,
poiché celati attualmente dal nuovo pavimento dell’edificio, recentemente
trasformato in residenza privata.
In conclusione alcuni elementi poc’anzi menzionati, in primis i materiali
scultorei provenienti dal’edificio di culto e riferibili ad un arco cronologico
compreso fra il IV ed il IX secolo, gli avanzi di muri quasi certamente ante-
riori al XII secolo, nonché il prediale Agnano, unito all’intitolazione della
pieve, suggeriscono l’esistenza in loco di un edificio di culto tardoantico o
altomedievale, che precedette quello di XII secolo ancora esistente.
Un’altra chiesa molto antica è quella di S. Felicissimo a circa 1 Km da
Gubbio (Fig. 8), lungo una strada di probabile origine romana, che si
dirigeva verso est. L’antichità del tracciato viario è testimoniata dal ritro-
vamento di tombe d’epoca romana lungo il suo percorso e dal fatto che
esso viene chiamato via vetus in un documento del 1491. Nelle vicinanze
della chiesa sono venute casualmente alla luce alcune tombe tardoroma-
ne e resti di un insediamento agricolo d’epoca romana. Sono tarde invece
le fonti letterarie riferite alla chiesa, menzionata per la prima volta nel
1160 in un documento, dal quale si evince che essa esisteva probabil-
mente già nell’XI secolo. L’edificio ad una sola navata, provvisto di tran-
setto si presenta molto rimaneggiato nel corso dei secoli ed in precarie
condizioni statiche. Nelle sue murature, tanto esterne quanto interne,
sono inseriti numerosi frammenti lapidei riferibili all’Altomedioevo. Si
tratta, infatti, di frammenti - già pertinenti a recinzioni interne di un
edificio di culto e a sarcofagi - i quali sono decorati con caratteristici
motivi geometrici e vegetali, riconducibili cronologicamente al IX secolo
(Figg. 9,10 e 11).
Si può pertanto avanzare l’ipotesi che sul sito, oggi occupato dalla chiesa
medievale di S. Felicissimo, sorgesse precedentemente un edificio di culto

150
del IX secolo. Tale ipotesi è suffragata da alcuni elementi: dall’ubicazione
della chiesa lungo una strada d’epoca romana, dalla presenza in loco di
tombe tardoromane e di un insediamento rustico romano e soprattutto
dai numerosi frammenti lapidei decorati di IX secolo, inseriti nelle sue
murature. Si può inoltre ipotizzare, anche se le fonti tacciono al riguardo,
che la chiesa, nella sua fase più antica, abbia svolto la funzione di plebs in
relazione alla popolazione del territorio situato ad est di Gubbio.
Si potrebbe disquisire di molte altre pievi sparse nel territorio, ma ciò
richiederebbe molto più del tempo a mia disposizione. Per concludere,
tuttavia, questa mia breve esposizione, intendo ribadire che, nel territo-
rio eugubino, numerose pievi, rimaneggiate e ristrutturate nel corso dei
secoli, vantano origini molto antiche, risalenti alla Tarda Antichità o
all’Altomedioevo, le quali meriterebbero di essere indagate per mezzo di
scavi archeologici.

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Fig.1
Planimetria della diocesi di Gubbio (da P. Sella, Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV.
Umbria, Città del Vaticano 1952, II. In appendice).

Fig.2
Semonte (Gubbio), Pieve di S. Venanzio. Frammento di pluteo (foto dell’Autore).

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Fig.3
Loreto (Gubbio). Pieve di S. Stefano.

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Fig.4
Loreto (Gubbio), Pieve di S. Stefano. Colonna marmorea d’epoca romana riutilizzata in uno dei
sostegni perimetrali della cripta (foto dell’Autore).

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Fig.5 Loreto (Gubbio), Pieve di S. Stefano. Frammento di lastra di pluteo (foto dell’Autore).

Fig.6
Perugia, Magazzini della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria. Frammenti di sarco-
fagi provenienti dalla Pieve di S. Maria d’Agnano (foto della Soprintendenza per i Beni Archeologici
dell’Umbria).

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Fig.7
Gubbio, Museo Diocesano. Lastra di sarcofago proveniente dalla Pieve di S. Maria d’Agnano (foto
dell’Autore).

Fig.8
Gubbio, Chiesa di S. Felicissimo (foto dell’Autore).

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Fig.9
Gubbio, Chiesa di S. Felicissimo. Frammento di pluteo murato nella parte sinistra della facciata
(foto della Soprintendenza B.A.P.P.S.A.E. dell’Umbria).

Fig.10
Gubbio, Chiesa di S. Felicissimo. Frammento di pilastrino murato a sinistra della finestra (foto della
Soprintendenza B.A.P.P.S.A.E. dell’Umbria).

157
Fig.11
Gubbio, Chiesa di S Felicissimo. Frammento di coperchio di sarcofago murato in una parete interna
(foto della Soprintendenza B.A.P.P.A.E. dell’Umbria).

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I TOPONIMI DI TORRE
Augusto Ancillotti

La linguistica non è molto popolare, non offre immagini, ma solo regole


ostiche. Lo scavo nella parola conduce a contatto con le “idee” del passa-
to e non con le “cose”, che solo l’archeologia mette a nostra disposizione.
Ma in questa limitazione (idee e non cose) sta anche il merito della lin-
guistica, che sola permette di conoscere aspetti del “pensiero” di genti
del passato, pur in assenza di testi specifici, magari basandosi solo su
poche parole sopravvissute.
Ogni lingua è caratterizzata da un proprio DNA (per così dire), costituito
dall’insieme delle sue corrispondenze costanti con il modello di riferimento.
Perché è importante l’analisi linguistica delle parole che noi stessi usiamo?
Perché oltre a quello scritto, esiste un altro canale di trasmissione lingui-
stica dal passato al presente: il canale orale.
La lingua si trasmette da una generazione all’altra attraverso la parola,
non attraverso lo scritto. E in alcune parole che usiamo ancora oggi si
riconoscono le tracce di una lingua precedente, a volte addirittura prece-
denti l’età della scrittura ...
La toponomastica riflette sempre il modo con cui “la gente del posto”
chiama i luoghi nella pratica quotidiana.
La “resistenza” di una denominazione di luogo è molto diversa a secon-
da della classe onomastica.
Un parlante (anche bilingue) non mescolerebbe mai i morfemi di una
lingua con le basi di un’altra, salvo il caso in cui tali morfemi siano stati
integrati nella grammatica della lingua.
Solo se si recupera la “parola” nella sua pienezza di segno linguistico,
costituito da significante + significato, potremo sperare di aver proposto
un’etimologia ad un toponimo.

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toponimi moderni

La Ritirata: il luogo dove ci si ritira, cioè la ‘latrina’, termine da tempo


in uso come forma di decenza; così il lat. secessus è diventato l’ital. cesso.
Il Pasaccio: cioè ‘il passo’, con suff. -accio, è un punto che si trova lungo
un sentiero al transito per quella che nel Seicento era detta la “contea di
Baccaresca” (Contea di Francesco Maria Gabrielli).

toponimi di età medievale

Mandrale: derivato in -ale dal sost. lat. mandra ‘recinzione per il bestia-
me’, greco mandra ‘idem’ < indeur. *mand- ‘graticcio di verghe intrec-
ciate’ (IEW 699). In ital.ant. si usava mandriale come agg. di mandria
‘quella della recinzione, la mandria’ e sostantivato con il valore di ‘man-
driano’ (DuCange).
La Cappa: dal lat. mediev. capa ‘rivulus, sulcus ad emittendas aquas’,
cioè canaletto di scolo (Du Cange, Glossarium Mediae et Infimae Lati-
nitatis. pubblicato nel 1678).

toponimi di età tardo-antica

Dondana, palazzo D.: prediale di età tardo-antica basato sul gentilizio


Dondus , di cui si hanno antiche attestazioni, tra cui un Dondus in una
Charta venditionis dell’anno 725 a Treviso. All’origine del toponimo
Dondana c’è un sintagma del tipo di Villa Dondana o Domus Dondana,
cioè proprietà di un Dondus (più di 1000 persone oggi in Italia hanno il
cognome Dondi).
Farneto: ‘bosco di farnie’. La farnia è la quercia comune, la quercus
robur; (da non confondere con la rovere, la quercus petraea). La voce
farnus esiste solo nel lat. tardo con il valore di frassino e il suo aggetivo
era farnea.
Meiaiolo, fosso: dal lat. mēiere ‘orinare’, col suff. tardo latino -aiolo,
come dire ‘il pisciarello’.
Le Mòglie, podere: ‘le polle’, < latino mollia ‘polla d’acqua sorgiva che
inzuppa il terreno’.
Pagino: del latino parlato *opacivum, da opācus ‘ombroso’ (con aferesi,
come in obscurus > scuro), finito nella classe in -ino. Sopravvive come

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voce dialettale “... quale divario climatico esista tra terreni di pianura e
quelli elevati di quota e tra quelli a “pagino” (volti a Nord) e quelli a
“caldese” (volti a Sud)”.
Vignòli: dal tardo latino vineoli, ‘piccole vigne’, cit. in DuCange ... man-
sus unus cum vineolis, oppure mansa duo cum vineolis cioè podere, fon-
do, con piccole vigne.
L’Acera ‘gli aceri’: è il nt. plur. del lat. acer aceris, nt. L’acero campestre
(anche detto oppio) era l’albero preferito a cui maritare la vite. Tra i sei
tipi di allevamento della vite descritti da Plinio e Columella, ci interes-
sano l’Alberata (arbustum italicum), in cui i tralci di vite poggiavano
su olmi o pioppi, e la Vite maritata (arbustum gallicum), in cui i tralci
venivano fatti inerpicare lungo il tronco di alberi poco frondosi, di solito
aceri o salici.

toponimi di età latina

Il Lozzo, strada dei Lòzzi: è l’esito italiano del lat. lŭteus ‘fangoso’. Nel
punto detto ‘il lòzzo’ risulta ancora presente la traccia di una sorgente,
che sembra sia stata poi canalizzata.
Salsa (fonte della Salsa): continua il lat. salsus ‘acidulo, salato’, un ag-
gettivo riferito all’acqua, quando è minerale e contiene dei sali, come
quando è acidula o ferrosa.
Lame (Col dei lami, Col di lame): una lama è una zona a scorrimento
superficiale di materiali argillosi friabili. È voce indeuropea, che rap-
presenta l’esito della base *loma- ‘cedimento, frantumazione’ attestata
dal russo lom ‘frantumazione, frattura’ e corradicale del lituano lemti
‘cedere sotto un peso, frantumarsi’, dell’antico slavo lomiti ‘frantumare’.
ecc. La verifica personale ha mostrato la natura friabile del terreno in
quella zona, che è piena di calanchi. La presenza dell’ idronimo Lamone
(Toscana) formato sulla stessa base indirizza al periodo “paleoumbro”.

toponimi di età pre-latina

Maggia (La Maggia): è in relazione con maggio ‘pianta della rinascita’,


che nella tradizione rurale indica la ‘ginestra’, e talora l’ontano (che è
cespuglioso e di rapida crescita). Continua l’indeur. *magh-jo- ‘fiorente,
pubescente’ che, attraverso l’esito safino mahjos, si sviluppa nell’agg. lat.

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maius, ‘fiorente, rigoglioso’, detto di piante e animali: questo, in quanto
aggettivo, è anche stato sostantivato come nome della dea Maia e del
mese Maius.
Saturna, fosso: evidente falsa etimologia (basata sul nome di Saturno)
che invece rimanda ad un agg. paleoumbro *setur-no- ‘irsuto, setoloso,
spinoso’ (IEW 891), al nt.plur. ‘setolosità, ginepraio’. A livello di mo-
dello generale si confrontano le voci latine saeta ‘setola’ ed equi-saetum
‘equiseto, pianta setolosa’.
Saonda: poiché la forma più anticamente attestata è Sabunda o Sabun-
dia (leggi: Savonda), è assai probabile che l’idronimo continui un pal.
um. saßanta da indeur. *sowo-nt- ‘scolante’ (IEW 912), con un inter-
vento paretimologico latino volg. teso a motivare il nome attraverso il
lat. unda. In base agli esiti fonetici dal “modello indeuropeo” alla forma
attestata, si tratta di una voce di età “paleoumbra”. Nelle TI è sahata <
savanta, come in lat. lātrina < laatrina < *lavatrina.

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