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Il ruolo delle tecnologie nei processi di innovazione

di Giovanni Biondi
Quando si parla di tecnologie a scuola sembra che si affronti un tema nuovo, quasi inedito. La scuola
“tradizionale”, quella che conosciamo ed abbiamo frequentato, usa in realtà numerose tecnologie:
lavagne, libri, quaderni, laboratori spesso obsoleti etc. Si tratta di tecnologie funzionali alle attività
che si svolgono in aula e a casa, tutte derivate dalla lezione e centrate sul testo scritto. Tecnologie
che, a parte i laboratori, propongono un’unica strategia di apprendimento: imparare leggendo,
come scriveva Antinucci in un bel libro “la scuola si è rotta” (Laterza). Quindi la scuola usa le
“tecnologie”, le ha sempre usate: basti pensare alle “filmine” didattiche degli anni ’60, le diapositive
che si usavano ogni tanto durante le lezioni per “far vedere” quello che si cercava di spiegare a voce,
le tante “tecnologie” (si chiamavano una volta sussidi didattici) che nelle scuole Montessori si usano
ancora oggi. Solo che questi strumenti ormai non li percepiamo più come tecnologie mentre i
prodotti derivanti dal rapido sviluppo dell’elettronica ci appaiono come una presenza estranea
potenzialmente minacciosa per la scuola. Si tratta di una percezione in qualche modo vera: le nuove
tecnologie rappresentano una minaccia per il modello scolastico che conosciamo. Propongo di
considerarle come una sorta di “provocazione”, di elemento estraneo, di virus capace di rompere
l’equilibrio, oggi minacciato, su cui si fonda il modello scolastico col suo orario, le sue aule ed i suoi
arredi, le sue tecnologie, il suo succedersi di lezioni. Un “virus” che è stato capace di trasformare
tutti gli ambienti di lavoro, di creare nuove professioni e di cancellarne altre che sta cambiando la
nostra vita quotidiana proponendo sempre nuove opportunità. La velocità con cui tutto questo
avviene provoca disorientamento e spesso sgomento. Abbiamo la sensazione precisa di trovarsi
dentro un cambiamento epocale ma non ne comprendiamo la direzione perché è come se
dovessimo costruire il sentiero mentre camminiamo. Nascono così problematiche inedite legate
all’etica, alla privacy, applicazioni che alimentano timori verso l’intelligenza artificiale che in Cina
viene già utilizzata per il controllo della popolazione, per spiare la vita privata. Così nella scuola:
abbiamo studenti immersi nel virtuale, attaccati ai loro smartphone, sempre connessi e per questo
temiamo l’alienazione, il distacco dalla realtà e attribuiamo all’uso massiccio di queste tecnologie
anche i cattivi risultati scolastici dei nostri studenti. Sono usciti i risultati OCSE/PISA e puntualmente
riparte la ricerca del “colpevole”. Sarebbe forse il caso di far notare anche ad illustri opinionisti che
scrivono sulle testate nazionali, che anche negli altri paesi i ragazzi usano gli smartphone e che già
nella prima indagine OCSE/PISA, venti anni fa, l’Italia registrava pessimi risultati. E tutto questo
avveniva ben prima dell’invasione tecnologica. Ma è vero che queste tecnologie minacciano il
modello scolastico tradizionale. La prima minaccia viene proprio dagli studenti che sono abituati ad
usare una molteplicità di linguaggi, video, simulazioni, immagini, applicazioni interattive, e trovano
a scuola solo il linguaggio scritto e quello orale. Sono attratti dalla realtà aumentata, dai videogiochi,
dai colori e soprattutto dalla possibilità di interagire con quello che hanno davanti; a scuola si
trovano di fronte ad uno scenario del tutto diverso e per certi versi opposto. Il tema vero non è però
di contrapporre i “linguaggi” tra loro ma cercare di far fare a ciascuno quello che sa fare meglio. Per
comprendere il ruolo delle tecnologie nel processo di innovazione userò un esempio: la storia di
quanto è accaduto nel salto in alto. L’obiettivo di questa disciplina sportiva è sempre stato quello di
superare altezze sempre maggiori. Negli anni sessanta si cercava di superare l’asticella
scavalcandola ventralmente, con una sforbiciata prima e con un salto orizzontale, ventrale poi. Le
tecniche di allenamento erano tutte funzionali a migliorare questo tipo di movimento e le
“tecnologie” erano di conseguenza funzionali a questa tecnica (pedana di sabbia etc). Nel 1968 un
certo Fosbury, alle Olimpiadi del Messico, si presentò saltando di schiena. Tutto l’asset fu
necessariamente trasformato: le pedane di sabbia furono sostituite da grandi materassi, le tecniche
di allenamento furono rivoluzionate e le misure si alzarono in modo significativo. L’obiettivo del
salto in alto restava lo stesso ma tutto era trasformato. Credo che siamo di fronte in qualche modo
alla stessa situazione: l’obiettivo della scuola resta identico ma tutto il resto è destinato a cambiare.
Per questo le tecnologie sono una “minaccia” reale perché propongono una rivoluzione vera
dell’asset scolastico. Naturalmente tutto questo fa paura e c’è, come dice Baricco (Game, 2019), chi
propone il “manifesto per salvare il congiuntivo” o chi vorrebbe rimettere il predellino sotto la
cattedra pensando che questo basti a salvare l’autorevolezza dell’insegnante. Pensare alle
tecnologie in termini di contrapposizione, ad esempio, al libro, alla scrittura, al disegno, alla
manipolazione è un modo troppo semplicistico che nasconde piuttosto il tentativo di esorcizzare il
“nuovo”. E’ evidente che il libro è una modalità di rappresentare la conoscenza o di narrare,
interpretare che ha ed avrà sempre un ruolo insostituibile per lo “sviluppo del pensiero critico
individuale”, per la riflessione o semplicemente per l’approfondimento di concetti così come la
scrittura è un momento fondamentale per la riflessione e l’espressione. Ma questo non toglie niente
alle potenzialità delle “nuove tecnologie”. Il problema è che per sfruttare le opportunità dei
linguaggi digitali, delle nuove tecnologie dobbiamo cambiare il modello scolastico come dicevamo
nell’articolo del numero precedente di questa rivista. Le tecnologie cambiano i comportamenti degli
studenti ma anche il ruolo dei docenti, hanno una forte attrattività perché permettono allo studente
di essere protagonista, di interagire, costruire i contenuti e magari sviluppare competenze. Per fare
questo però tutto l’asset deve essere trasformato. In un contesto diverso le nuove tecnologie, che
ormai nuove non sono più se non forse a scuola, possono offrire una risposta concreta
all’abbandono scolastico, al tema della qualità degli apprendimenti. Abbiamo un gigantesco tema di
formazione degli insegnanti (800.000 circa) che anche per età (oltre 50 anni di media) vedono le
tecnologie come una minaccia alla qualità della scuola non essendo preparati a coglierne invece le
enormi potenzialità. Da pochi giorni il coding è entrato nella formazione iniziale e nell’anno di prova
degli insegnanti neo assunti con un voto unanime del Parlamento: forse qualcosa sta lentamente
cambiando.

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