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La tutela minorile nella mediazione familiare

La mediazione familiare rappresenta una modalità di risoluzione delle controversie utilizzato nel contesto familiare, notoriamente caratterizzato da
rivendicazioni emotive e psicologiche, difficilmente gestibili con efficacia all'interno dei procedimenti di separazione ovvero divorzio.

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Di seguito pubblichiamo un estratto integrale dell'approfondimento.

Sommario:
Nozione
La disciplina normativa in materia di mediazione familiare
La mediazione familiare e l'affidamento condiviso dei figli
Panoramica giurisprudenziale
De jure condendo

Nozione
La mediazione familiare rappresenta una modalità di risoluzione delle controversie utilizzato nel contesto familiare, notoriamente caratterizzato da
rivendicazioni emotive e psicologiche, difficilmente gestibili con efficacia all'interno dei procedimenti di separazione ovvero divorzio. Infatti, in questi
contesti, il comportamento dei coniugi separandi e divorziandi è di ricondurre a "vittoria" o "sconfitta" qualsivoglia decisione inerisca la vicenda
terminale dell'unione coniugale, spesso coinvolgendo anche i figli minori come "armi" da utilizzare contro l'ex coniuge. Sotto questo profilo, è stato
acutamente notato che tale situazione equiparabile ad un campo di battaglia sia determinata non soltanto dalla presenza del giudice inteso come un
soggetto autoritario, ma anche dalle posizioni processuali assunte dagli avvocati difensori delle parti che tendono "ad addossare tutta la
responsabilità del fallimento matrimoniale sul coniuge del proprio assistito" [E. Moretti, La mediazione famigliare, cit.]. Paradossalmente viene
osservato che la medesima situazione si presenta anche nel caso di separazione consensuale, poiché "per vedersi riconoscere il diritto all'assegno di
mantenimento, i coniugi stessi si attribuiscano reciprocamente la colpa della fine del vincolo matrimoniale" [E. Moretti, op. cit.]. Siffatte
conflittualità, seppure mascherate, contribuiscono ad aggravare la situazione di crisi ed è in dette situazioni che si può inserire la mediazione come
procedura risolutiva che da un lato rappresenta uno strumento alternativo ed efficace al superamento dei dissidi tra i coniugi, e dall'altro raggiunge
la composizione transattiva delle rispettive posizioni.

La disciplina normativa in materia di mediazione familiare


Nel nostro ordinamento giuridico, con l'introduzione dell'art. 155 sexies c.c. ex lege 8 febbraio 2006, n. 54 (ora art. 337 octies c.c., dopo il
completamento della riforma della filiazione degli anni 2012 e 2013), recante le disposizioni in materia di separazione dei coniugi ed affidamento
condiviso dei figli, è stato previsto lo strumento della mediazione familiare quale tecnica utilizzabile dal giudice, qualora la ritenesse opportuna, nel
corso del procedimento per il componimento pattizio dei conflitti tramite esperti [F.R. Fantetti, op. cit.].
La norma prevede che l'accordo sia cercato sin dall'apertura del procedimento, analogamente all'espletamento del tentativo di conciliazione.
Tuttavia, tale richiesta presenta logiche e obiettivi distinti, ovvero la richiesta di un terzo esperto interveniente nel giudizio, affinché provveda a
trovare una intesa tra i coniugi sui contenuti dei rapporti residui che li legano, soprattutto nell'ottica della tutela della prole nata dall'unione.
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Il testo dell'art. 337 octies c.c., mutuato dal testo precedentemente in vigore dell'art. 155 sexies, comma 2, c.c. afferma che "(P)rima
dell'emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all'articolo 337 ter, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d'ufficio, mezzi
di prova. Il giudice dispone, inoltre, l'ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di
discernimento. Nei procedimenti in cui si omologa o si prende atto di un accordo dei genitori, relativo alle condizioni di affidamento dei figli, il
giudice non procede all'ascolto se in contrasto con l'interesse del minore o manifestamente superfluo. Qualora ne ravvisi l'opportunità, il giudice,
sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l'adozione dei provvedimenti di cui all'articolo 337 ter per consentire che i coniugi,
avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell'interesse morale e materiale
dei figli".
La dottrina osserva che si tratta "unicamente dell'introduzione di un nuovo potere discrezionale del giudice dato che questi può, alla luce della
menzionata disposizione di legge, rimettere le parti in causa dinanzi un collegio di esperti di modo che ivi possano nascere accordi tra i coniugi atti a
regolamentare il nuovo assetto familiare successivamente alla crisi coniugale" [F.R. Fantetti, op. cit.].
La valutazione sommaria del giudice di rimettere le parti di fronte al collegio di esperti è discrezionale e insindacabile. Esse devono essere sentite e
aver prestato il loro consenso. È plausibile che il giudice conceda siffatta possibilità qualora pensasse che essa possa essere avvalorata dal
successo dell'iniziativa. La citata dottrina [F.R. Fantetti, op. cit.] osserva che il giudice non deve valutare le probabilità di riuscita della
mediazione, piuttosto l'incidenza positiva del tentativo sul comportamento delle parti stesse. In questo caso "parte" è un termine che va inteso in
senso sostanziale, pertanto l'avvocato non potrà sostituire il suo assistito in siffatta attività. Qualora le parti raggiungano un accordo, il giudice lo
omologa, trasformando il rito contenzioso in un procedimento consensuale.
Nel processo di divorzio, se le parti raggiungono un accordo sulle condizioni inerenti la prole ed ai rapporti economici successivi allo scioglimento
del matrimonio, il giudice rimette la causa al Tribunale in camera di consiglio assoggettandola al tipo di rito previsto per l'ipotesi di divorzio su
domanda congiunta, così che l'accordo si traduce in contenuto della sentenza [F.R. Fantetti, op. cit.]. Sia nel procedimento di separazione che in
quello di divorzio, raggiunto dalle parti un accordo limitato alle misure relative all'affidamento dei figli ed al contributo per il loro mantenimento, il
Tribunale dovrà tenerne conto nei successivi provvedimenti [F.R. Fantetti, op. cit.].

La mediazione familiare e l'affidamento condiviso dei figli


La mediazione familiare è stata inserita nell'ordinamento italiano contestualmente ad un altro istituto che ha rappresentato una rivoluzione
copernicana, almeno nelle intenzioni del legislatore, della gestione dei figli in caso del disfacimento del rapporto tra i genitori: l'affidamento
condiviso. Tuttavia, a questo proposito, la dottrina osserva che "l'affidamento condiviso non si sostanzia, al pari di quello congiunto, nell'esercizio
della potestà da parte dei genitori "a mani unite", essendo per contro previsto che il giudice ripartisca tra i genitori aree di esercizio esclusivo della
potestà in ordine alle scelte di carattere routinario" [M.N. Bugetti, Mediazione familiare, op. cit.]. Conseguentemente, seppure in presenza di un
conflitto molto acceso tra i coniugi, l'applicazione dell'affidamento condiviso non è preclusa, nel momento in cui i genitori siano in grado di
formulare un progetto educativo condiviso. A questo proposito si sottolinea che il legislatore abbia stabilito "a priori" [M.N. Bugetti, op. cit.] che
l'interesse del minore coincide con il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali deve poter
continuare a ricevere cura, educazione ed istruzione. A questo proposito, la Corte di cassazione ha affermato che il giudice può derogare
all'affidamento condiviso dei figli solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l'interesse del minore, di guisa che l'eventuale pronuncia di
affidamento esclusivo deve essere sorretta da una motivazione non più solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo
sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell'altro genitore (Cass. civ., sez. VI, ord., 7 dicembre 2010, n. 24841).
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A questo proposito è intervenuta la giurisprudenza di merito: il presidente di un Tribunale, riscontrata la confliggenza dell'accordo di separazione
con l'interesse del minore, ha rinviato l'udienza affinché le parti potessero rivolgersi al collegio di mediazione per "tentare di raggiungere
l'accordo, con particolare riferimento alla tutela dell'interesse morale e materiale dei figli " (Trib. Lamezia Terme 10 marzo 2010). Infatti, il
suddetto Tribunale ha affermato che l'obiettivo della mediazione è quello di una gestione sana ed equilibrata della separazione, affinché la stessa
non si risolva a detrimento dell'interesse morale e materiale della prole, non osta alla natura del procedimento di separazione consensuale che il
giudice, qualora ne ravvisi l'opportunità, sentite le parti ed ottenuto il loro consenso, rinvii ai sensi dell'art. 155 sexies, comma 2, c.c. l'assunzione
dei provvedimenti di cui all'art. 155 sull'affidamento dei figli per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per
raggiungere un accordo.

Panoramica giurisprudenziale
La nuova formulazione normativa dell'art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 28 del 2010 non è incompatibile con un generale potere del giudice (art.
175 c.p.c.) di sollecitare un percorso volontario di mediazione mediante un invito: invito che, se seguito dalla adesione delle parti, ha il
vantaggio (per le parti stesse) di non comportare conseguenze in punto di procedibilità della domanda. Infatti, la mediazione demandata dal
giudice, altro non è se non una forma di mediazione volontaria, veicolata dal suggerimento del magistrato: l'espunzione dell'istituto della cd.
mediazione demandata dal giudice (a seguito del D.L. n. 69 del 2013), pertanto, non esclude e nemmeno limita la facoltà del giudicante di
sollecitare una riflessione nei litiganti, mediante invito a rivolgersi spontaneamente ad un organismo di mediazione. Si ricade nell'ambito dei
normali poteri di governance giudiziale (175 c.p.c.). Né più e né meno di quanto già avviene per il celebre "invito a coltivare trattative".
Pertanto, è sempre possibile - pur nella vigenza dell'attuale versione normativa del D.Lgs. n. 28 del 2010 - che il giudice inviti le parti ad
avviare il procedimento di mediazione, su scelta volontaria (Trib. Milano 15 luglio 2015).
La presenza del "diritto indisponibile" nel procedimento civile non esclude la co-presenza di diritti del tutto disponibili e, quindi, negoziabili.
E, in genere, a fronte di una azione che ricada su diritti disponibili è sussistente un interesse sostanziale della parte che (anche solo)
indirettamente mira al soddisfacimento di situazione giuridiche soggettive negoziabili. In un habitat processuale in cui convivano pretese a
giurisdizione necessaria e interessi suscettibili di transazione, deve trovare spazio il principio secondo il quale la mediazione civile è
suscettibile di trovare applicazione per quella "parte" di procedimento in cui imperano interessi disponibili e, perciò, negoziabili. L'eventuale
accordo sulla parte disponibile del processo può, infatti, avere poi ricadute sul procedimento in generale: infatti, la composizione del conflitto
"spegne" l'interesse delle parti per la procedura giudiziale che può, a questo punto, essere oggetto di atti dispositivi anche indiretti (negozi
processuali. Si pensi al caso della parte attrice che rinuncia alla domanda giudiziale avente ad oggetto diritti indisponibili) (Trib. Milano 15
luglio 2015).
Sono costituzionalmente illegittimi, per contrasto con l'art. 117, comma 3, Cost., gli artt. 1, commi 2, 3, e 6 della L.R. 24 dicembre 2008, n.
26, Lazio, recante norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare. Premesso che l'impianto
complessivo, lo scopo ed il contenuto precipuo delle disposizioni impugnate rendono palese che l'oggetto di esse deve essere ricondotto
propriamente alla materia concorrente delle "professioni"; e che, per costante giurisprudenza della Corte, la potestà legislativa regionale nella
materia concorrente delle "professioni" deve rispettare il principio secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e
titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di
quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale; la censurata normativa travalica gli ambiti di competenza
legislativa regionale in materia di professioni, in quanto, in assenza di una regolamentazione statale, dà una definizione della mediazione
familiare, disciplina le caratteristiche del mediatore familiare e stabilisce i requisiti per l'esercizio dell'attività, con la previsione di un apposito
elenco e delle condizioni per l'iscrizione in esso. Alla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni direttamente impugnate dal
Governo consegue, stante l'inscindibile connessione che le lega alle rimanenti, l'estensione degli effetti della decisione anche alle restanti
disposizioni contenute nella predetta legge regionale (artt. 1, comma 1, 2, 5, 7 e 8) (Corte cost., 15 aprile 2010, n. 131).

De jure condendo:il DDL S735 rubricato: “Norme in materia di


affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di
bigenitorialità” (e conosciuto come “DDL Pillon”)
Uno dei disegni di legge più discussi depositati nei primi mesi di lavoro della XVIII legislatura si propone di riformare in modo radicale diversi
istituti del diritto di famiglia. Esso è stato steso in adempimento a quello che è conosciuto come “contratto di governo”, stipulato in sede di trattative
per la formazione dell’Esecutivo sostenuto dalla maggioranza parlamentare sostenuta dalla Lega Nord e dal Movimento Cinquestelle. Seppure non
sia oggetto di queste pagine, non si può non rilevare l’irritualità di un accordo di impianto privatistico, come è un contratto, che ha vincolato i due
gruppi politici secondo modalità non previste dalla Carta costituzionale.

Dalla lettura della Relazione di accompagnamento del DDL in oggetto è evidente il tentativo di superare i risultati ottenuti dall’evoluzione legislativa
e giurisprudenziale relativa alla tutela del “best interest of the child”, traducibile come “tutela del preminente interesse del minore”. Essa è
prevista dalla Convenzione ONU del 1989 sui diritti del fanciullo, recepita nell’ordinamento italiano il 27 maggio 1991 con la legge n. 176 e dalla
giurisprudenza ormai costantemente da alcuni decenni.

Ci si potrebbe azzardare ad affermare che la ratio del ddl sia addirittura quella di superare i criteri della Riforma del diritto del 1975, dato che il
relatore del ddl non si esime da citare una nota metafora scritta settant’anni fa e cioè che “la famiglia è un’isola che il diritto può solo lambire” (A.
C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Ann. Sen. Giur. Università di Catania, 1948, III). Alla luce di ciò, si potrebbe affermare che “nessun uomo
(anche se chi scrive preferisce usare il termine “persona”) è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del
tutto” (J. Donne, Devotions Upon Emergent Occasions, 1624). Estendendo questi versi al nostro ambito, è possibile affermare che non solo il
diritto deve occuparsi della famiglia, ma che l’apparato giudiziario svolge un ruolo irrinunciabile nella protezione delle parti deboli presenti nella
famiglia, affinché non vengano “portate via dall’onda del mare”.

In questa sede si entra sommariamente nel merito del ddl S735 per confutare gli elementi più discutibili, per quanto compete a queste pagine, cioè
l’introduzione dell’obbligatorietà della mediazione in sede di scioglimento del vincolo coniugale. Innanzitutto, sorprende la logica con la quale l’art.
1 subordina, sotto un profilo di importanza concettuale, il ruolo della Repubblica al riconoscimento della funzione sociale della mediazione familiare.
Infatti, la seconda parte dell’art. 1 è una frase densa di richiami ai primi articoli della Costituzione (in particolare l’art. 3). Essa è posta di seguito
alla previsione dell’istituzione dell’albo professionale dei mediatori familiari, nuova figura professionale, di stampo privatistico. Ne consegue che già
dalle prime righe del decreto, concettualmente si nota un ribaltamento dell’importanza gerarchica degli elementi giuridici. Infatti, il focus della prima
frase dell’art. 1 si concentra sulla costituzione dell’albo professionale dei mediatori familiari, evidenziando l’aspetto privatistico della riforma; solo
successivamente viene richiamata una possibile rilevanza costituzionale attraverso l’invocazione del ruolo della Repubblica nel riconoscimento della
funzione sociale di tale istituto.

Gli articoli seguenti riguardano la disciplina in senso stretto e si osservano alcuni aspetti non scevri da perplessità, tra cui la privatizzazione
pressoché totale di un ambito specifico regolato da norme imperative come il diritto di famiglia, la cui imposizione è garantita dal giudice, figura
imparziale e sottoposta solo alla legge. Si tratta di una deliberata e apertamente richiamata “de-giurisdizionalizzazione” (pag. 2 della relazione dal
disegno di legge), il cui riferimento culturale più prestigioso sembrerebbe essere il detto popolare “i panni sporchi si lavano in casa”.

Tale circostanza emerge dall’art. 2 del ddl sull’accordo di riservatezza secondo cui “Nessuno degli atti o documenti del procedimento di
mediazione familiare può essere prodotto dalle parti nei procedimenti giudiziali ad eccezione dell'accordo, solo se sottoscritto dal mediatore
familiare e controfirmato dalle parti e dai rispettivi legali, ovvero della proposta di accordo formulata dal mediatore”. Ci si può domandare cosa
accada alle notizie di reato che potrebbero emergere in sede di mediazione: il giudice in quanto pubblico ufficiale ha il dovere di trasmettere la
notizia di reato alla Procura della Repubblica, ma il mediatore? Secondo la ratio che emerge dalla disciplina in discussione, sembrerebbe di no.
L’art. 3 propone una rilevante deminutio dei diritti dei minori, nello specifico per quel che concerne il loro ascolto nei procedimenti che li
riguardino, quindi anche in quello di separazione e divorzio. Il primo comma di detto articolo stabilisce che “la partecipazione al procedimento di
mediazione di minori, purché di età superiore a dodici anni, può essere ammessa solo con il consenso di tutte le parti e, comunque, di entrambi i
genitori”. Il che significa da un lato, l’esclusione totale della possibilità del minore “capace di discernimento” di potersi manifestare, mentre il diritto
all’ascolto del minore ultradodicenne diventa materia disponibile dei genitori, i quali devono essere entrambi d’accordo sul punto. In questo modo
viene negata al minore adolescente, se non addirittura alla vigilia del compimento della maggiore età, di fruire di un diritto costantemente
riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla legge medesima all’art. 315 bis c.c.
Ulteriormente, l’art. 3 pare essere contraddittorio nel momento in cui stabilisce che l’esperimento della mediazione “è comunque condizione di
procedibilità secondo quanto previsto dalla legge qualora nel procedimento debbano essere assunte decisioni che coinvolgano direttamente o
indirettamente i diritti dei minori”. Tuttavia “la partecipazione al procedimento di mediazione familiare è volontariamente scelta dalle parti e può
essere interrotta in qualsiasi momento” con significativo aggravio di costi (non solamente economici e di tempo, ma soprattutto emotivi) per le parti
deboli del procedimento in questione.
Il comma 4, stabilisce che “il procedimento di mediazione familiare ha una durata non superiore a sei mesi, decorrenti dal primo incontro cui hanno
partecipato entrambe le parti”, con il rischio dell’allungamento del procedimento nel suo complesso, appesantendosi rispetto al principio di
ragionevole durata del processo ex art. 6.1 della CEDU.
Il comma 5 del medesimo articolo pare presentare dubbi di costituzionalità, poiché il mediatore familiare, su accordo delle parti, può chiedere agli
avvocati di non partecipare agli incontri successivi al primo, ma ciò è in contrasto con l’art. 24 della Costituzione poiché una disponibilità così
ampia delle garanzie della parte debole lascerebbe questa in balia della possibile prevaricazione della parte più forte, cristallizzatasi negli anni di vita
familiare spesso litigiosa o violenta, per porre termine alla quale i membri della famiglia sono giunti allo scioglimento del loro nucleo familiare. In
questo senso, viene evidenziata ancora una volta come tale ddl e lo strumento della mediazione vengano utilizzati in modo non neutro, cioè non a
porre fine a scelte di vita sbagliate o sfortunate, ma al mantenimento della parvenza di una famiglia “ideale”, indipendentemente dalle esigenze di
vita dei suoi membri.
Ulteriormente, la figura dell’avvocato ne verrebbe sminuita perché non le si consentirebbe di svolgere il suo ruolo di difesa del cittadino
nell’applicazione della legge, nonostante sia prevista la sua presenza “a pena di nullità e di inutilizzabilità, alla stipulazione dell'eventuale accordo,
ove raggiunto”. La domanda che ci si pone è: che senso ha impedire la presenza del legale di fiducia nel momento più rilevante della stesura
dell’accordo, cioè durante le “trattative” per la formazione del medesimo, ma prevederla con sanzioni così dure (seppure pertinenti al diritto
processuale e non sostanziale) al solo momento della firma dell’accordo stesso?
La risposta è semplice: si tratterebbe di una partecipazione del difensore meramente formale. A questo proposito ci si collega con il comma 8 del
medesimo art. 3, il quale stabilisce che: “L'efficacia esecutiva dell'accordo raggiunto a seguito del procedimento di mediazione familiare deve in
ogni caso essere omologata dal tribunale competente per territorio ai sensi del codice di procedura civile”. Ma che succede se l’accordo raggiunto
non è omologato? Il ruolo del Tribunale è solo quello di “timbracarte”? Secondo la ratio generale del ddl parrebbe di si, ma non è pensabile ridurre
un potere dello Stato in tal senso, tuttavia il DDL tace sul punto.

Infine, per quel che concerne la corresponsione di “spese e compensi per il mediatore familiare”, l’art. 4 stabilisce la gratuità del primo
incontro della mediazione. Altresì afferma che “gli avvocati e gli altri professionisti che operano in funzione di mediatori familiari devono applicare le
tariffe professionali relative a tale ultima funzione”, ma nulla stabilisce in merito alla possibile fruibilità del gratuito patrocinio. Anche se solo in fase
di discussione parlamentare, precisamente in Commissione giustizia, si tratta di una occasione mancata per colmare l’iniquità attuale della mancata
previsione del gratuito patrocinio nel diritto di famiglia. Tuttavia, ciò è molto logico alla privatizzazione di un servizio della giustizia pubblica come il
procedimento di separazione e divorzio, con conseguente aggravio di costi a carico delle parti indipendentemente dalla loro forza, ovvero
debolezza, economica, specie per chi, dopo la fine di una fase della vita deve reinventarsi daccapo. Anche questa circostanza risulta evidente la
ratio dell’introduzione di tale riforma: una visione ideologica e didattica del diritto di famiglia, invece che uno strumento di prevenzione di protezione
delle parti più deboli, soprattutto economicamente, in particolare le persone che si sono dedicate al lavoro casalingo e i minori.

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(Altalex, 1° ottobre 2018)

(C) Altalex / Wolters Kluwer

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