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La mediazione familiare rappresenta una modalità di risoluzione delle controversie utilizzato nel contesto familiare, notoriamente caratterizzato da
rivendicazioni emotive e psicologiche, difficilmente gestibili con efficacia all'interno dei procedimenti di separazione ovvero divorzio.
Il tema della FAMIGLIA e delle tematiche connesse sono state ampiamente analizzate da Elena Falletti, Ricercatore confermato di
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Sommario:
Nozione
La disciplina normativa in materia di mediazione familiare
La mediazione familiare e l'affidamento condiviso dei figli
Panoramica giurisprudenziale
De jure condendo
Nozione
La mediazione familiare rappresenta una modalità di risoluzione delle controversie utilizzato nel contesto familiare, notoriamente caratterizzato da
rivendicazioni emotive e psicologiche, difficilmente gestibili con efficacia all'interno dei procedimenti di separazione ovvero divorzio. Infatti, in questi
contesti, il comportamento dei coniugi separandi e divorziandi è di ricondurre a "vittoria" o "sconfitta" qualsivoglia decisione inerisca la vicenda
terminale dell'unione coniugale, spesso coinvolgendo anche i figli minori come "armi" da utilizzare contro l'ex coniuge. Sotto questo profilo, è stato
acutamente notato che tale situazione equiparabile ad un campo di battaglia sia determinata non soltanto dalla presenza del giudice inteso come un
soggetto autoritario, ma anche dalle posizioni processuali assunte dagli avvocati difensori delle parti che tendono "ad addossare tutta la
responsabilità del fallimento matrimoniale sul coniuge del proprio assistito" [E. Moretti, La mediazione famigliare, cit.]. Paradossalmente viene
osservato che la medesima situazione si presenta anche nel caso di separazione consensuale, poiché "per vedersi riconoscere il diritto all'assegno di
mantenimento, i coniugi stessi si attribuiscano reciprocamente la colpa della fine del vincolo matrimoniale" [E. Moretti, op. cit.]. Siffatte
conflittualità, seppure mascherate, contribuiscono ad aggravare la situazione di crisi ed è in dette situazioni che si può inserire la mediazione come
procedura risolutiva che da un lato rappresenta uno strumento alternativo ed efficace al superamento dei dissidi tra i coniugi, e dall'altro raggiunge
la composizione transattiva delle rispettive posizioni.
Panoramica giurisprudenziale
La nuova formulazione normativa dell'art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 28 del 2010 non è incompatibile con un generale potere del giudice (art.
175 c.p.c.) di sollecitare un percorso volontario di mediazione mediante un invito: invito che, se seguito dalla adesione delle parti, ha il
vantaggio (per le parti stesse) di non comportare conseguenze in punto di procedibilità della domanda. Infatti, la mediazione demandata dal
giudice, altro non è se non una forma di mediazione volontaria, veicolata dal suggerimento del magistrato: l'espunzione dell'istituto della cd.
mediazione demandata dal giudice (a seguito del D.L. n. 69 del 2013), pertanto, non esclude e nemmeno limita la facoltà del giudicante di
sollecitare una riflessione nei litiganti, mediante invito a rivolgersi spontaneamente ad un organismo di mediazione. Si ricade nell'ambito dei
normali poteri di governance giudiziale (175 c.p.c.). Né più e né meno di quanto già avviene per il celebre "invito a coltivare trattative".
Pertanto, è sempre possibile - pur nella vigenza dell'attuale versione normativa del D.Lgs. n. 28 del 2010 - che il giudice inviti le parti ad
avviare il procedimento di mediazione, su scelta volontaria (Trib. Milano 15 luglio 2015).
La presenza del "diritto indisponibile" nel procedimento civile non esclude la co-presenza di diritti del tutto disponibili e, quindi, negoziabili.
E, in genere, a fronte di una azione che ricada su diritti disponibili è sussistente un interesse sostanziale della parte che (anche solo)
indirettamente mira al soddisfacimento di situazione giuridiche soggettive negoziabili. In un habitat processuale in cui convivano pretese a
giurisdizione necessaria e interessi suscettibili di transazione, deve trovare spazio il principio secondo il quale la mediazione civile è
suscettibile di trovare applicazione per quella "parte" di procedimento in cui imperano interessi disponibili e, perciò, negoziabili. L'eventuale
accordo sulla parte disponibile del processo può, infatti, avere poi ricadute sul procedimento in generale: infatti, la composizione del conflitto
"spegne" l'interesse delle parti per la procedura giudiziale che può, a questo punto, essere oggetto di atti dispositivi anche indiretti (negozi
processuali. Si pensi al caso della parte attrice che rinuncia alla domanda giudiziale avente ad oggetto diritti indisponibili) (Trib. Milano 15
luglio 2015).
Sono costituzionalmente illegittimi, per contrasto con l'art. 117, comma 3, Cost., gli artt. 1, commi 2, 3, e 6 della L.R. 24 dicembre 2008, n.
26, Lazio, recante norme per la tutela dei minori e la diffusione della cultura della mediazione familiare. Premesso che l'impianto
complessivo, lo scopo ed il contenuto precipuo delle disposizioni impugnate rendono palese che l'oggetto di esse deve essere ricondotto
propriamente alla materia concorrente delle "professioni"; e che, per costante giurisprudenza della Corte, la potestà legislativa regionale nella
materia concorrente delle "professioni" deve rispettare il principio secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e
titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di
quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale; la censurata normativa travalica gli ambiti di competenza
legislativa regionale in materia di professioni, in quanto, in assenza di una regolamentazione statale, dà una definizione della mediazione
familiare, disciplina le caratteristiche del mediatore familiare e stabilisce i requisiti per l'esercizio dell'attività, con la previsione di un apposito
elenco e delle condizioni per l'iscrizione in esso. Alla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni direttamente impugnate dal
Governo consegue, stante l'inscindibile connessione che le lega alle rimanenti, l'estensione degli effetti della decisione anche alle restanti
disposizioni contenute nella predetta legge regionale (artt. 1, comma 1, 2, 5, 7 e 8) (Corte cost., 15 aprile 2010, n. 131).
Dalla lettura della Relazione di accompagnamento del DDL in oggetto è evidente il tentativo di superare i risultati ottenuti dall’evoluzione legislativa
e giurisprudenziale relativa alla tutela del “best interest of the child”, traducibile come “tutela del preminente interesse del minore”. Essa è
prevista dalla Convenzione ONU del 1989 sui diritti del fanciullo, recepita nell’ordinamento italiano il 27 maggio 1991 con la legge n. 176 e dalla
giurisprudenza ormai costantemente da alcuni decenni.
Ci si potrebbe azzardare ad affermare che la ratio del ddl sia addirittura quella di superare i criteri della Riforma del diritto del 1975, dato che il
relatore del ddl non si esime da citare una nota metafora scritta settant’anni fa e cioè che “la famiglia è un’isola che il diritto può solo lambire” (A.
C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Ann. Sen. Giur. Università di Catania, 1948, III). Alla luce di ciò, si potrebbe affermare che “nessun uomo
(anche se chi scrive preferisce usare il termine “persona”) è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del
tutto” (J. Donne, Devotions Upon Emergent Occasions, 1624). Estendendo questi versi al nostro ambito, è possibile affermare che non solo il
diritto deve occuparsi della famiglia, ma che l’apparato giudiziario svolge un ruolo irrinunciabile nella protezione delle parti deboli presenti nella
famiglia, affinché non vengano “portate via dall’onda del mare”.
In questa sede si entra sommariamente nel merito del ddl S735 per confutare gli elementi più discutibili, per quanto compete a queste pagine, cioè
l’introduzione dell’obbligatorietà della mediazione in sede di scioglimento del vincolo coniugale. Innanzitutto, sorprende la logica con la quale l’art.
1 subordina, sotto un profilo di importanza concettuale, il ruolo della Repubblica al riconoscimento della funzione sociale della mediazione familiare.
Infatti, la seconda parte dell’art. 1 è una frase densa di richiami ai primi articoli della Costituzione (in particolare l’art. 3). Essa è posta di seguito
alla previsione dell’istituzione dell’albo professionale dei mediatori familiari, nuova figura professionale, di stampo privatistico. Ne consegue che già
dalle prime righe del decreto, concettualmente si nota un ribaltamento dell’importanza gerarchica degli elementi giuridici. Infatti, il focus della prima
frase dell’art. 1 si concentra sulla costituzione dell’albo professionale dei mediatori familiari, evidenziando l’aspetto privatistico della riforma; solo
successivamente viene richiamata una possibile rilevanza costituzionale attraverso l’invocazione del ruolo della Repubblica nel riconoscimento della
funzione sociale di tale istituto.
Gli articoli seguenti riguardano la disciplina in senso stretto e si osservano alcuni aspetti non scevri da perplessità, tra cui la privatizzazione
pressoché totale di un ambito specifico regolato da norme imperative come il diritto di famiglia, la cui imposizione è garantita dal giudice, figura
imparziale e sottoposta solo alla legge. Si tratta di una deliberata e apertamente richiamata “de-giurisdizionalizzazione” (pag. 2 della relazione dal
disegno di legge), il cui riferimento culturale più prestigioso sembrerebbe essere il detto popolare “i panni sporchi si lavano in casa”.
Tale circostanza emerge dall’art. 2 del ddl sull’accordo di riservatezza secondo cui “Nessuno degli atti o documenti del procedimento di
mediazione familiare può essere prodotto dalle parti nei procedimenti giudiziali ad eccezione dell'accordo, solo se sottoscritto dal mediatore
familiare e controfirmato dalle parti e dai rispettivi legali, ovvero della proposta di accordo formulata dal mediatore”. Ci si può domandare cosa
accada alle notizie di reato che potrebbero emergere in sede di mediazione: il giudice in quanto pubblico ufficiale ha il dovere di trasmettere la
notizia di reato alla Procura della Repubblica, ma il mediatore? Secondo la ratio che emerge dalla disciplina in discussione, sembrerebbe di no.
L’art. 3 propone una rilevante deminutio dei diritti dei minori, nello specifico per quel che concerne il loro ascolto nei procedimenti che li
riguardino, quindi anche in quello di separazione e divorzio. Il primo comma di detto articolo stabilisce che “la partecipazione al procedimento di
mediazione di minori, purché di età superiore a dodici anni, può essere ammessa solo con il consenso di tutte le parti e, comunque, di entrambi i
genitori”. Il che significa da un lato, l’esclusione totale della possibilità del minore “capace di discernimento” di potersi manifestare, mentre il diritto
all’ascolto del minore ultradodicenne diventa materia disponibile dei genitori, i quali devono essere entrambi d’accordo sul punto. In questo modo
viene negata al minore adolescente, se non addirittura alla vigilia del compimento della maggiore età, di fruire di un diritto costantemente
riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla legge medesima all’art. 315 bis c.c.
Ulteriormente, l’art. 3 pare essere contraddittorio nel momento in cui stabilisce che l’esperimento della mediazione “è comunque condizione di
procedibilità secondo quanto previsto dalla legge qualora nel procedimento debbano essere assunte decisioni che coinvolgano direttamente o
indirettamente i diritti dei minori”. Tuttavia “la partecipazione al procedimento di mediazione familiare è volontariamente scelta dalle parti e può
essere interrotta in qualsiasi momento” con significativo aggravio di costi (non solamente economici e di tempo, ma soprattutto emotivi) per le parti
deboli del procedimento in questione.
Il comma 4, stabilisce che “il procedimento di mediazione familiare ha una durata non superiore a sei mesi, decorrenti dal primo incontro cui hanno
partecipato entrambe le parti”, con il rischio dell’allungamento del procedimento nel suo complesso, appesantendosi rispetto al principio di
ragionevole durata del processo ex art. 6.1 della CEDU.
Il comma 5 del medesimo articolo pare presentare dubbi di costituzionalità, poiché il mediatore familiare, su accordo delle parti, può chiedere agli
avvocati di non partecipare agli incontri successivi al primo, ma ciò è in contrasto con l’art. 24 della Costituzione poiché una disponibilità così
ampia delle garanzie della parte debole lascerebbe questa in balia della possibile prevaricazione della parte più forte, cristallizzatasi negli anni di vita
familiare spesso litigiosa o violenta, per porre termine alla quale i membri della famiglia sono giunti allo scioglimento del loro nucleo familiare. In
questo senso, viene evidenziata ancora una volta come tale ddl e lo strumento della mediazione vengano utilizzati in modo non neutro, cioè non a
porre fine a scelte di vita sbagliate o sfortunate, ma al mantenimento della parvenza di una famiglia “ideale”, indipendentemente dalle esigenze di
vita dei suoi membri.
Ulteriormente, la figura dell’avvocato ne verrebbe sminuita perché non le si consentirebbe di svolgere il suo ruolo di difesa del cittadino
nell’applicazione della legge, nonostante sia prevista la sua presenza “a pena di nullità e di inutilizzabilità, alla stipulazione dell'eventuale accordo,
ove raggiunto”. La domanda che ci si pone è: che senso ha impedire la presenza del legale di fiducia nel momento più rilevante della stesura
dell’accordo, cioè durante le “trattative” per la formazione del medesimo, ma prevederla con sanzioni così dure (seppure pertinenti al diritto
processuale e non sostanziale) al solo momento della firma dell’accordo stesso?
La risposta è semplice: si tratterebbe di una partecipazione del difensore meramente formale. A questo proposito ci si collega con il comma 8 del
medesimo art. 3, il quale stabilisce che: “L'efficacia esecutiva dell'accordo raggiunto a seguito del procedimento di mediazione familiare deve in
ogni caso essere omologata dal tribunale competente per territorio ai sensi del codice di procedura civile”. Ma che succede se l’accordo raggiunto
non è omologato? Il ruolo del Tribunale è solo quello di “timbracarte”? Secondo la ratio generale del ddl parrebbe di si, ma non è pensabile ridurre
un potere dello Stato in tal senso, tuttavia il DDL tace sul punto.
Infine, per quel che concerne la corresponsione di “spese e compensi per il mediatore familiare”, l’art. 4 stabilisce la gratuità del primo
incontro della mediazione. Altresì afferma che “gli avvocati e gli altri professionisti che operano in funzione di mediatori familiari devono applicare le
tariffe professionali relative a tale ultima funzione”, ma nulla stabilisce in merito alla possibile fruibilità del gratuito patrocinio. Anche se solo in fase
di discussione parlamentare, precisamente in Commissione giustizia, si tratta di una occasione mancata per colmare l’iniquità attuale della mancata
previsione del gratuito patrocinio nel diritto di famiglia. Tuttavia, ciò è molto logico alla privatizzazione di un servizio della giustizia pubblica come il
procedimento di separazione e divorzio, con conseguente aggravio di costi a carico delle parti indipendentemente dalla loro forza, ovvero
debolezza, economica, specie per chi, dopo la fine di una fase della vita deve reinventarsi daccapo. Anche questa circostanza risulta evidente la
ratio dell’introduzione di tale riforma: una visione ideologica e didattica del diritto di famiglia, invece che uno strumento di prevenzione di protezione
delle parti più deboli, soprattutto economicamente, in particolare le persone che si sono dedicate al lavoro casalingo e i minori.