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ANGELO MARIA ARDOVINO

I LAGHI DEI BALCANI

In primo piano una baia greca, a metà un isolotto nordmacedone, sullo sfondo le coste albanesi. Questa sì
che è l'Europa, ragazzi!
1. Greci, Albanesi e Slavi nel XVI secolo

21 luglio

Un mio amico italoalbanese, Virgilio Avato, persona dotta quindi trilingue (gli italoalbanesi colti sanno an-
che il greco, la loro lingua liturgica), mi ha fatto conoscere questo straordinario documento. In questo post
per motivi pratici pubblico solo la foto dell’inizio, ma me ne sono procurato la versione integrale, di cui darò
notizie a chi me le chiederà. In esso i Chimarioti, cioè gli abitanti della costa dell’Albania meridionale, o
dell’Epiro settentrionale, se lo preferite, offrono al Papa Gregorio XIII (quello del calendario gregoriano, tanto
per capirci) di sottomettersi alla Chiesa cattolica. Non è una scelta religiosa, ma politica. Si faranno cattolici
se il Papa convincerà Filippo II, re di Spagna e di mezzo mondo, ma anche re di Napoli, sull’altra riva dello
Ionio, a un intervento armato contro i Turchi. Siamo nel 1581, sono passati dieci anni dalla battaglia di Le-
panto, e si aspettano che Filippo II, che aveva vinto per mare, venga a vincere anche per terra. In realtà il re
aveva ben altri pensieri, ma il documento è di eccezionale interesse storico.
Naturalmente è in greco, ed è redatto a Corfù da un letterato, Michail Argyros, nel dialetto colto dell’isola,
ma con un’ortografia medievale diversa da quella odierna (ad esempio i nominativi plurali in ες diventano
αις) che lo rende a prima vista di difficile lettura. I Chimarioti si dichiarano Greci e Albanesi, non hanno nes-
suna voglia di distinguersi, perché insieme devono resistere ai Turchi e perché sono abituati a convivere.
Insistono sull’unione dei popoli, anche perché così richiamano che nel regno di Napoli i Greci e gli Albanesi
convivono felicemente e usano la lingua greca per scrivere e per dire messa, così come vogliono fare anche
loro, pur aderendo al Cattolicesimo. In realtà in quegli anni nel Regno di Napoli c’è una forte repressione
della cultura greca, da cui scampano gli Albanesi, ma non i Romei, che scompaiono come popolo nella Puglia
settentrionale, in Basilicata e nel Cilento; ma i Chimarioti non lo sanno, e credono che a Napoli si sia realizzato
il modello in cui credono, e cioè che Greci ed Albanesi possano vivere insieme ed usare il greco come lingua
liturgica e per gli interscambi. Modello sviluppatosi un po’ alla volta nel medioevo e che durerà finché non
prevarrà nell’800 il nazionalismo, fonte di stragi, espulsioni e migrazioni.
Ma attenzione, nella partita non ci sono solo Albanesi e Greci. Nell’elenco dei paesi dei Chimarioti che
aderiscono alla supplica al papa oltre a tanti nomi albanesi e greci ci sono diversi nomi prettamente slavi. Gli
Slavi sottoscrivono lo stesso accordo che prevede la sottomissione al papa e l’uso del greco come prima lin-
gua. Ma non è tutto. Nel documento si nominano le regioni vicine che si solleverebbero in armi se Filippo
venisse a portare la guerra ai Turchi. Innanzitutto la Morea, oggi chiamata all’antica Peloponneso, dove dopo
la Peste Nera c’era stata una forte immigrazione albanese, e poi la Macedonia.
Per Macedonia non dobbiamo pensare alle dispute attuali sul nome. È evidente che in questo discorso si
parli dei territori a Nord dei Chimarioti. Kostandinos Sathas, famoso storico greco dell’800, che come tutti,
allora, scriveva in francese, lo spiega con “Albanie”, e certo il primo territorio che viene in mente è la fascia
da Valona a Durazzo e all’antica capitale Croia. Dunque per un grande storico greco dell’800 è pacifico che il
nome Macedonia designi i territori a Nord della penisola greca anche quando non sono popolati da Greci. Ma
esso non può comprendere solo Valona e dintorni. Non sappiamo fin dove arrivasse la Macedonia che il dotto
Argyros dice pronta a ribellarsi, ma è verosimile che la ritenesse parte di un’area più vasta, che dall’Adriatico
si estendeva verso Ochrida e Salonicco. Più o meno, il territorio a Nord della penisola greca, dai Monti Acro-
cerauni alla Valle di Tempe. Quindi, nel greco del XVI secolo Μακεδωνία indica un’area a Nord, indipenden-
temente da chi ci abiti. Data la superiorità culturale del greco sulle lingue vicine possiamo essere certi che
anche tra gli Albanesi, gli Slavi e i Valacchi ci fosse lo stesso uso.
Il concetto geografico di Macedonia era vivo all’inizio dell’età moderna, anche se non era collegato a nes-
suna realtà politica o nazionale (idea che del resto doveva ancora svilupparsi). Ci si poteva dire Macedoni
alludendo alla regione, senza che a nessuno venissero in mente le assurdità che si sono sentite da parte
slavomacedone, dove si sono cercate origini di un’improbabile nazione macedone prendendo a prestito le
origini altrui, e da parte greca, dove si è sostenuto con antistorica arroganza che gli Slavi della Macedonia
non si fossero mai chiamati Macedoni, se non dopo una certa riforma federale voluta dal Maresciallo Tito, e
dovessero cambiare nome. Assurdità ancora più grave, che per anni ha portato antipatia alla Grecia e che ha
dilatato per reazione le tesi opposte slave, fino all’inversione di tendenza che c’è stata qualche anno fa, che
ha permesso alle parti di iniziare a parlarsi, e permette adesso a un osservatore di proporre alcune riflessioni
sugli equivoci da chiarire e le fratellanze da ripristinare.
La mia prossima riflessione sarà sugli equivoci balcanici, cominciando da quelli slavi. Ma ce ne sarà per tutti.
2. A caccia di Re Perseo e di Marco Polo

22 luglio

Qualche amico greco ce l’ha con me perché ho criticato la pretesa di precludere agli Slavi il nome di Mace-
donia, ma a mia discolpa racconterò che quando lavoravo al Ministero per i Beni Culturali ho partecipato alla
repressione di un loro tentativo di appropriarsi di memorie greche, e più precisamente del re Perseo. È la
prima volta che ne parlo, perché ormai, a tanti anni dai fatti, e in una situazione politica del tutto mutata,
non ci sono più quelle ragioni di riservatezza di ufficio che prima mi vincolavano.
Perseo fu re della Macedonia, anche perché aveva fatto uccidere il fratello Demetrio. Fu l’ultimo re, ma
non morì in battaglia, come deve fare un re e come fece, ad esempio, Costantino XI nel 1453. Pianse davanti
al comandante romano, Emilio Paolo, e chiese salva la vita per sé e per i suoi figli. Fu accontentato, e relegato
ad Alba Fucens, nelle montagne a un centinaio di chilometri da Roma, dove c’era un luogo di confino desti-
nato ai pochi re sconfitti che i Romani non mettevano a morte. Il primo fu Siface re di Numidia, l’ultimo Bituito
re degli Alverni. Perseo vi passò i suoi ultimi anni e vi morì nel 166 a.C. Il figlio rimase a guadagnarsi di che
campare ad Alba Fucens. Personaggi da dimenticare.
Poco più sotto passava la via Tiburtina Valeria, lungo la quale molti anni dopo furono eretti alcuni mausolei.
Un po’ alla volta sorse la leggenda che uno di essi fosse la tomba di Perseo, malgrado che questi fosse molto
più antico e fosse stato sepolto come la gente comune e non certo come un re. Leggenda senza importanza,
finché un bel giorno del 2008 o giù di lì non arrivò alle orecchie di una TV di Skopje. Partì una troupe, filmò il
mausoleo, in realtà un rudere informe, vi fece mettere un cartello, strinse amicizie con i paesani ospitali e se
ne tornò a casa. Tempo dopo mi arrivò al ministero la richiesta di scavare la tomba di Perseo, recuperare le
ossa reali e – udite udite – traslarle a Skopje! Come se fosse possibile scavare un rudere come quello e trovarvi
pure uno scheletro da traslare! Partì l’ordine di rimuovere quel cartello. Alcuni giornalisti locali scrissero che
si erano intromesse le autorità greche, ma vi svelo un segreto. Non sono state loro, sono stato io!
Da Skopje non hanno più insistito e ciò mi fa pensare che l’iniziativa non fosse degli archeologi locali, a
quanto so rispettabilissimi, ma di qualche burocrate che voleva farsi bello, nel momento in cui partiva il folle
progetto di Skopje 2014, in cui un mausoleo con le spoglie di un re non ci sarebbe stato niente male. Il pro-
getto Skopje 2014 è stato una sciagura, la costosa monumentalizzazione di una città di provincia, e sarebbe
bene che i Greci lo conoscessero per capire quel che ha passato la Macedonia. Ne parlerò un’altra volta.
Adesso bisogna riflettere sull’appropriazione della memoria di Perseo. Capisco che in un programma monu-
mentale come Skopje 2014 tutto potesse servire, ma Perseo non è un personaggio glorioso come Filippo o
Alessandro. Era un usurpatore, fratricida, avido e vigliacco. Trattato con disprezzo in vita e in morte. Perché
rivendicarne le spoglie?
Perché in quella che io chiamo ottica balcanica non si deve buttare niente. Tutti i popoli dell’area sono stati
sballottati avanti e dietro e hanno un cattivo rapporto con la loro storia. La storia delle genti si confonde con
quella delle regioni. Pare una sciocchezza, e forse in termini di materialismo storico lo è, ma in queste condi-
zioni questi popoli avvertono il bisogno di rinforzare le loro radici, di dare argomenti alle maestre per spiegare
ai bambini che fanno parte di un popolo glorioso che ha una storia, ed avendo una storia ha ragione di esi-
stere. E quando queste radici non ti bastano, ne crei altre.
Intendiamoci, tutti si appropriano dei meriti altrui. Noi Italiani chiamiamo Luigi Negrelli quello che nel
mondo è conosciuto come Alois Moldelbe, o per esteso Alois Negrelli Ritter von Moldelbe, ingegnere proget-
tista di strade e ferrovie, e, in parte, del Canale di Suez, che fece di tutto per essere Austriaco e non Italiano,
e ci riuscì, ma nacque Luigi Negrelli: è sbagliato ma si può capire. L’appropriazione balcanica, invece, di norma
disprezza la storia: lo dimostra un piccolo episodio, in cui qualcuno in Croazia ha cercato di strapparci una
gloria nazionale come Marco Polo.
Marco Polo fu catturato dai Genovesi nella battaglia di Curzola nel 1298. Ne hanno dedotto che stesse lì
per difendere i suoi interessi, e che quindi fosse Curzolano. Logica zoppicante. Da Curzolano a Croato il passo
è breve, dato che Curzola oggi è Croazia. In realtà Curzola fu uno dei maggiori centri della resistenza italiana
alla penetrazione slava voluta dal governo Austroungarico nella seconda metà dell’800, e di Croati nel XIII
secolo non ce n’erano. Al massimo nella Dalmazia meridionale si erano affacciati i Serbi. Gli storici veri di
entrambi i paesi lo sanno, ma l’episodio dimostra come sia facile inventarsi antenati, soprattutto nei paesi
dalla storia difficile, come quelli della ex Jugoslavia. E nella repubblica slava di Macedonia, che neppure voleva
la fine della Jugoslavia e fu in un certo senso costretta all’indipendenza, la fabbricazione delle origini ha as-
sunto un aspetto parossistico, di cui il paese in realtà è stato vittima. So che alcuni amici greci sobbalzeranno
a queste ultime parole, ma, anche se il punto di vista dei loro vicini è sbagliato farebbero meglio a cercare di
comprenderlo. Almeno cercare di capire com’è nato.
3. Un’antica pugnalata alla schiena e altre mancanze di equilibrio

23 luglio

A prima vista questa riflessione sembra estranea alla questione macedone, ma non è così. Molti atteggia-
menti greci che a noi sembrano forzati, e che generano ritorsioni, nascono da alcune paure ataviche, della
catastrofe e dalla distruzione dell’identità. Ma chi sono i Greci, e che cos’è la Grecia? Che questo sia un pro-
blema è difficile da capire per noi Italiani: sappiamo che l’Italia è tale per i suoi confini naturali e che chi vi
arriva prima o poi diverrà Italiano. Più o meno ragiona così la maggior parte dei popoli dell’Europa occiden-
tale, tranne i Tedeschi, per i quali il vero confine non è il Reno o l’Oder, ma la lingua. È il tedesco che genera
la Germania. Mommsen non si sentiva parte di una minoranza danese, né credeva che suo genero Wilamo-
witz appartenesse a una minoranza polacca. Tutti e due pensavano, parlavano e scrivevano in tedesco, e
quindi erano Tedeschi, quali che fossero i loro avi. A noi viene da pensare che i Greci, i cui confini nei secoli
sono stati estremamente ballerini, vadano identificati dalla lingua come i Tedeschi, ma non è così semplice.
A livello popolare si preferiscono come elementi fondanti i confini, e persino la stirpe, malgrado la palese
assurdità scientifica. Anche noi e i Tedeschi una volta lo abbiamo fatto, per l’influsso di alcune note sovra-
strutture, ed abbiamo meritatamente preso una mazzata tale che ce n’è passata la voglia. I Greci, invece,
continuano a farlo. Spinti dalla paura della distruzione.
Tutto origina nei primi decenni dell’Ottocento. I Greci sono soggetti ai Turchi da Preveza a Trebisonda, a
parte l’Eptaneso (cioè le isole Ionie più Cerigo all’ingresso dell’Egeo) in mano agli Inglesi. Rimasti fuori dai
rivolgimenti napoleonici e dall’illuminismo, che avrebbe permesso di digerire meglio la novità, vengono in-
vestiti tutto in una volta da neoclassicismo e romanticismo, quando l’Europa scopre la Grecia come simbolo
di libertà e di bellezza in continuità tra l’antico e il moderno. È con la Grecia antica negli occhi e nel cuore che
i liberali di tutta Europa, da Byron a Santorre di Santarosa, vanno a combattere per liberare la Grecia mo-
derna, e spesso muoiono senza avere colto la differenza; ma i Greci, investiti da una miscela esplosiva di idee
estranee alla loro tradizione, iniziano ad identificarsi con i discendenti diretti di quegli Elleni che avevano
civilizzato il mondo, traendone anche la perversa conclusione che tutti i loro vicini fossero di stirpi meno
nobili, da cui era meglio restare separati.
In realtà i movimenti indipendentisti greci erano nati con tutt’altre premesse. Il loro obiettivo era uno stato
federale che radunasse tutti i popoli dell’area balcanica: obiettivo per cui era morto Rigas Fereos, il primo
patriota greco, in realtà di origine valacca; un altro dotto valacco, Daniil Moschopoleanu, grecamente Mo-
schopolitis, nel 1794 aveva pubblicato un dizionario in 4 lingue, greco, albanese, valacco e bulgaro, teoriz-
zando, lui non Greco, la superiorità della lingua greca e il suo uso per l’assimilazione pacifica tra tutti i popoli
dei Balcani. Immaginate se gli avessero dato retta: quanti massacri spariti di colpo dai libri di storia!
Invece l’Europa regala ai Greci l’idea dell’appartenenza alla nobile stirpe come loro ragione di essere. Tutti
i Romei, e soltanto loro, sono Elleni. Essa piace, ma c’è un brusco risveglio. Nel 1830 Jakob Fallmerayer scrive
la storia della Morea (che sta per tornare a chiamarsi Peloponneso). Sostiene che essa e le regioni limitrofe
(in pratica ciò che stava per diventare il Regno di Grecia) era stata abitata per secoli da una maggioranza di
Slavi (che in un primo tempo confonde con gli Albanesi, salvo a distinguere meglio sei anni dopo), che in parte
si erano ellenizzati e in parte ancora no. Anni prima questa ellenizzazione nascente sarebbe stata vista come
una tappa verso il sogno di Moschopolitis, ma ora che è nato il mito della stirpe degli Elleni la teoria, oltre
tutto inserita in certe polemiche politiche del suo tempo, pare una pugnalata alle spalle a tutto il popolo
greco. Ed è ancora intesa così, almeno dalla gente comune: ho trovato sul web la definizione: Ο μεγαλύτερος
ανθέλληνας όλων των εποχών (il più grande antigreco di tutti i tempi). In realtà Fallmerayer è ricordato come
il primo che ha il merito di studiare la Grecia senza il filtro dei classici, ma in Grecia lo si condanna, radicaliz-
zando la tesi dell’identità di stirpe con l’antichità, che pesa come una cappa nella cultura greca. Lo si vede
anche nelle piccole cose; faccio un esempio marginale, da archeologo. Un amico che partecipava a uno scavo
a Lemno notava la delusione della gente quando spiegava che le testimonianze trovate non si riferivano ai
Greci, ma ai Tyrrenoi, loro predecessori. Il fatto che questi poi fossero confluiti nel popolo greco arricchen-
dolo non importava: era una presenza non greca, dunque un disturbo.
In queste condizioni è arduo condividere un nome come Macedonia con gli Slavi, o con chiunque altro, e
qualsiasi cosa può essere letta come un’offesa. Però l’esaltazione della stirpe crea una mentalità aggressiva
che non piace ai vicini, soprattutto a quelli che hanno già i loro problemi di identità nel mondo balcanico.
Così anche loro deformano la loro identità, e spesso e volentieri la deformano in funzione antigreca. Una
reazione a catena che non si riesce a fermare.
Per inciso, il povero Fallmerayer era brisseno, di Bressanone, quindi abituato dall’infanzia all’idea della con-
vivenza delle lingue: il suo borgo natale si chiama Perara. Gli amici non Greci non devono pensare che l’acca-
nimento greco contro di lui sia una fissazione, e gli amici Greci non devono pensare che chi ne riesamina le
tesi sia un loro nemico. Bisogna uscire dall’ottica tipica di tutti i popoli dello scacchiere balcanico dove la
definizione dell’identità nazionale tende ad essere vista come una questione di vita o di morte; anche perché
ciò compromette il rapporto tra i diversi popoli, e complica gli equilibri con le minoranze. Abbiamo tutti visto
quanto sangue sia corso nel Kosovo, per una questione che era certo più risolvibile della separazione tra
Fiamminghi e Valloni in Belgio, dove, grazie a Dio, non ne scorre, ma altri Kosovo sono in agguato. I nervi
sono tesi e sul problema delle minoranze continua a non esserci chiarezza.
In realtà nell’area tutta i popoli sono quattro (una volta c’erano anche tanti Turchi, espulsi, e tanti Ebrei,
sterminati durante la seconda guerra mondiale): Greci, Slavi, Albanesi e Valacchi. Quindi c’è un complicato
gioco di maggioranze, minoranze e alloglossie, che deve essere esaminato, anche perché non è affatto detto
che porti alle conseguenze politiche tratte da Fallmerayer. Meglio partire dagli Albanesi, discorso che per gli
Italiani è più facile da seguire, dato che sono anche la più importante alloglossia italiana.
Per non essere frainteso, chiarisco con un esempio la differenza tra minoranza ed alloglossia: in Italia i
Südtiroler sono Tedeschi di cittadinanza italiana, i Tysch di Gressoney o i Cembri dei Monti Lessini sono Italiani
di lingua germanica. In Italia gli Albanesi sono un’alloglossia, in Macedonia settentrionale una minoranza, in
Grecia entrambe le cose. Per comodità delineerò insieme la storia degli Arberëshë italiani e degli Arvanites
greci, che hanno tantissimi tratti comuni.
Nel XIII secolo gli Albanesi, i Valacchi e alcuni Slavi, pastori e nomadi, scesero in massa in Tessaglia. Le città
greche erano quasi disabitate e i nuovi arrivati non erano interessati a soffocarle, si stabilì così un equilibrio.
Il ricordo di questa fase sta nei due capoluoghi più interni della regione, lungo un importante itinerario in-
terno, e cioè Karditza, dal nome slavo, e Trikkala, rimasta per secoli la citta dei Valacchi (il grande artista
rebetico Vassilis Tzitzanis per il semplice fatto di essere di Trikkala fu soprannominato Vlachos). Per i diplo-
matici veneziani la Tessaglia divenne la Blachia, anche se fonti greche, come Giovanni Cantacuzeno, dicono
chiaro e tondo che la maggioranza della popolazione era albanese. Ma la cosa evolve.
Nel secolo dopo infuriò la peste nera. Colpì più gli abitanti dei centri urbani che i pastori nomadi, meno
esposti al contagio. Da Saragozza Re Pedro di Aragona, che regnava anche sulla Morea e sull’Attica rimaste
spopolate, invitò a stabilirvisi gli Albanesi, che ormai chiamerò Arvaniti. Però nel XV secolo in Morea arriva-
rono i Turchi, e molti Arvaniti, che usavano il greco per scrivere e nella messa, vennero in Italia, dove incon-
trarono gli Albanesi sfuggiti ai Turchi, durante e dopo la vigorosa resistenza animata e guidata dal re Giorgio
Castriota Scanderbeg. Oggi in Italia ci sono alcuni centri con viva autocoscienza e due diocesi albanesi di rito
greco; si sentono Italiani con qualcosa in più. Ma spesso la lingua si è persa, c’è stata un’assimilazione totale,
e moltissimi, che per il loro cognome potrebbero essere detti Albanesi, non si sono curati della loro origine
(esempio: Antonio Gramsci); compresi i tantissimi che portano il cognome Greco, con il quale gli Italiani indi-
cavano gli Albanesi (i Greci invece erano detti Romeo o Sorace).
In Grecia è successo qualcosa di simile, anche se con modalità diverse; le comunità pastorali diventando
sedentarie si ellenizzarono, immigrazioni greche e una scolarizzazione totalmente greca attenuarono la per-
centuale degli Arvaniti. Sta di fatto che la quantità dei loro cognomi è impressionante, anche se le comunità
arvanite coscienti come gli Arberëshë italiani si notano meno. Ma ci sono, dato che poco fa hanno eletto un
sindaco a Saronikòs, a trenta chilometri dal centro di Atene. Si tratta, come in Italia, di gente che si reputa
greca con qualcosa in più. Gli assimilati totali sono molti di più, ma non si può distinguere i due gruppi in base
al cognome. Mi piace ricordare il grande mezzosoprano Agnès Baltsa, Αγνή Μπάλτσα, che nella sua carriera
ha dato prova di patriottismo greco, ma ha uno splendido nome e cognome da nobiltà albanese.
Però, a differenza dell’Italia, oltre all’alloglossia arvanita esiste la minoranza albanese. Si è visto che i Chi-
marioti erano Albanesi e Greci che vivevano insieme, e lo stesso accadeva all’interno, da Ioánnina alle porte
di Valona. Ciò non poteva essere accettato nel Novecento e la frontiera spezzò in due il territorio, anche con
inutili tragedie, come “il caso Tellini”. Ci fu povera gente costretta a spostarsi da uno stato all’altro, ma pa-
recchi riuscirono a rimanere a casa loro. E formano ancora oggi due diverse minoranze. Non due alloglossie.
4. Un risveglio all'insegna della storia

24 luglio

Ieri alle 6 la luce entra nella mia cabina, guardo fuori e vedo le montagne albanesi e, sotto, la costa greca.
Abbiamo passato lo stretto che immette nella baia di Corfù e sulla terraferma si vedono i monti, che sono
attraversati da uno dei confini più assurdi di tutta Europa. Non un metro di costa all'Albania, ma le montagne
soprastanti sono sue. Uno stranissimo confine separa l'Albania dal mare, a protezione della baia di Corfù,
forse, e rende le rive parte della Grecia, ma con un confine che corre a circa un chilometro da queste. È una
follia che risale al 1923, quando una commissione internazionale, ma a guida italiana, tracciò i confini tra i
due stati, naturalmente senza la minima discrezionalità, ma secondo gli ordini ricevuti. La guidava il generale
Tellini, militare esperto di topografia, che fu ucciso da un attentato in territorio greco.
L'opinione pubblica internazionale giudicò che il colpevole non potesse essere che un estremista greco, che
non fu trovato; il governo greco provò a resistere dicendo che non c'erano prove, il governo italiano si incazzò
di brutto, mandò una squadra navale a occupare Corfù, ed ottenne tutte le scuse e riparazioni richieste.
All'epoca il Presidente del Consiglio era da pochi mesi Benito Mussolini. Ogni tanto qualcuno di sentimenti
filelleni (e numerosi Greci) dice che quella fu una prima prova di un'ostilità di Mussolini verso la Grecia, ma
non ha senso. Mussolini era a capo del Governo da pochi mesi, la dittatura non era ancora stata instaurata,
Matteotti stava al suo posto in Parlamento, i ministri tecnici, cioè i militari devoti alla Corona, Diaz e Thaon
de Revel, vigilavano. La reazione italiana seguì tutte le prassi internazionali allora usuali, Mussolini o no. In-
vece l'aggressione alla Grecia del 1940 fu un'idea, sciagurata, di Galeazzo Ciano, che ai tempi di Tellini era
ancora alle elementari, e il suo fallimento fu l'inizio della fine della sua carriera politica.
Mi è parso utile ricordate la cosa, perché ogni tanto riaffiora in alcuni discorsi patriottici greci o in certi
discorsi di mestiere sul fascismo, e perché ebbe uno strano sviluppo a Napoli. Là il consiglio comunale decise
di intitolare Via dei Greci al Generale Tellini. I bravi consiglieri, presumo di tutti i partiti, erano tanto indignati
contro i Greci che non si resero conto che abolivano una delle più remote memorie della toponomastica
napoletana, il quartiere dove si erano concentrati al termine del Medioevo i residui Greci di Napoli, che erano
stati per secoli la maggioranza della città. Ci ha pensato adesso un mio amico di Facebook, Iannis Korinthios,
a far ripristinare dal Comune di Napoli il vecchio nome della via (lasciandone però un pezzetto all'incolpevole
generale Tellini).
5. Mamma orsa e l'orsacchiotto

25 luglio

Piazza di Metsovo, Grecia, Epiro, sede del Parco del Monte Pindo.
Gruppo statuario in bronzo raffigurante mamma orsa e l'orsacchiotto.

(Dedicato agli amici trentini, che con l'atteggiamento ostile agli orsi, del tutto unico in tutte le zone europee
in cui essi sono diffusi, stanno dissipando la fama di persone civili che si erano costruita in decenni e decenni).
6. Alla ricerca dei Valacchi perduti

25 luglio

Le carte linguistiche di inizio ‘900 segnavano con il colore riservato ai Greci solo le coste dell’Epiro e della
Tessaglia, e riempivano il territorio mediano con due vaste zone a tratteggio, di quelle che si usavano per
indicare la compresenza di più popoli. Però al centro c’era una fascia netta, da Metsovo a Trikkala fino alle
porte di Karditsa, con il colore riservato agli Aromei. A metà le Meteore di Kalabaka, che dunque facevano
religione e cultura greca in una regione in cui si parlava un’altra lingua.
Durante il Novecento, i confini della Grecia si spostarono sempre più a Nord, e ormai le stesse carte ripor-
terebbero solo il colore della lingua greca. Ci furono delle ellenizzazioni, delle espulsioni di Turchi e Slavi e
dei grandi arrivi di profughi dopo la catastrofe di Smirne che compensarono le partenze. Resiste con un colore
diverso solo Metsovo, la cittadina in cui mi trovo per fare due giorni di trekking montano, cui vecchi manuali
ed enciclopedie danno anche il nome di Aminciu.
Noi siamo abituati in Italia alle polemiche sui cartelli stradali altoatesini, alle bravate di ignorantoni che
aggiungono un nome dialettale a quello italiano ufficiale, e quindi mi perdonerete se sono rimasto un po’
perplesso quando arrivando non ho visto Aminciu aggiunto al nome greco. Ma è così: non c’è nessuna mani-
festazione pubblica di alloglossia. Ci sono pochissime tracce scritte, in alfabeto latino, come il nome di un
albergo, La Munte (Alla montagna), e la scritta di benvenuto sulla lavagna all’ingresso di un ristorante, Bini
ati venit. Un po’ di colore, e basta. Sulla carta topografica vedo in alfabeto greco toponimi come Βάλε ντι (Val
di), Φατζέτο (Faggeto), Λάργι (Largo). I paesani parlano tra loro in greco. Giovani e vecchi. Delusione totale.
Però…
È la festa di ΄Αγια Παρασκευἠ, AyaParaskevì, Santa Veneranda. In termini cattolici la festa patronale. Tutte
le signore del paese hanno indossato e fatto indossare alle figlie il costume tradizionale, e stanno sul prato
antistante la chiesa. Ballano lentamente, e cantano. Ecco finalmente la loro lingua! Attacco bottone, e vengo
a sapere che in paese la conoscono tutti quanti, e sono capaci di parlarla, anche se ritengono più pratico
parlare greco. Se ho ben capito, ai bambini si insegnano tutte e due. Un po’ di pazienza, e finalmente capto
uno scambio di parole nella lingua locale. È vero, sono bilingui, ma la politica e la cultura, a parte alcuni canti
tradizionali, sono soltanto in greco. Certo è insolito che una lingua sopravviva a questo modo, ma la contro-
prova me la dà la giornalaia, cui chiedo se ci sono pubblicazioni locali. Mi risponde: “μιλάμε βλάχικα, μα
γράφουμε ελληνικά” (Parliamo valacco, ma scriviamo in greco).
Ma come, μιλάμε βλάχικα? La signora ha detto “Valacco”, non” Aromeo”. Gli Aromei sono solo uno sfizio
classificatorio di cui i Valacchi di Metsovo non hanno mai saputo nulla. Probabilmente qualcuno in Grecia o
da qualche parte dei Balcani si è inventato questo strano nome per distinguere le minoranze valacche sulla
riva destra del Danubio dalla grande maggioranza sull’altra riva, che dà nome alla pianura di Bucarest. Pre-
cauzione per mascherare il rapporto linguistico con la Romania. Non si sa mai…
Ma chi sono i Valacchi? I loro nome è germanico, e indicava i Celti (Walch), poi anche i Romani: per gli
antichi Germani gli uni e gli altri erano uguali. Ne deriva Welschtiroler, che accomunava tutti i Latini del Tirolo
(con buona pace dei glottologi che distinguono i Ladini dai Trentini e da altri Italiani), il nome magiaro per
l’Italia, Olasz, e quello polacco, Wlochy, e soprattutto i Valacchi. I Valacchi sono le popolazioni balcaniche di
lingua neolatina, in gran parte poi emigrate oltre Danubio, dove diedero vita alla Romania. Il gruppo più
settentrionale era quello dei Morlacchi del Carnaro, che in gran parte confluirono nei Giuliano- Dalmati dopo
l’annessione jugoslava delle loro terre. Ma questa è un’altra storia.
Il Valacco è una lingua latina ma non romanza. Non partecipa cioè alla comunità grammaticale delle altre
lingue dal portoghese al ladino, non ha articoli anteposti e ha una grammatica a se stante. Partecipa invece
alla comunità balcanica, di cui riparlerò, insieme con il greco, l‘albanese, il romanì, il bulgaro e il nordmace-
done.
Per secoli e secoli i Valacchi sono stati pastori, vivendo in regime semimigratorio e con ampie transumanze.
Non hanno creato città, ma hanno formato una ricca aristocrazia, che proprio a Metsovo espresse due fami-
glie importantissime nella storia greca, imparentate tra loro, gli Averof e i Totsitsa. La loro perfetta integra-
zione nel mondo greco ha sicuramente favorito l’integrazione di Metsovo e delle altre comunità minori. Una
tranquillissima alloglossia.
In cauda venenum, devo ricordare che altri Valacchi greci, i Megleniti, hanno avuto una sorte diversa. Se
ne sono andati tutti in Dobrugia, la regione marittima della Romania, che ricordava la loro Macedonia meri
dionale, e con una parlata simile alla loro. Si pagarono il viaggio, e nessuno ne fece un caso politico. A quanto
pare non si adattavano alla convivenza come i cugini di Metsovo. Una brutta pagina di storia greca.

Dialoghi con i lettori


Pietro Cociancich Altri termini con la radice *walhaz: Wales (Galles, la terra dei celti britanni), welsh (abi-
tanti del del tutto vitale Galles), Welsh/Welch (cognome inglese), Cornwall (Cornovaglia, altra area celtica),
Wallasey (paese inglese), Walcheren (regione olandese), Wallonie (la terra dei belgi romanzi), Włochy (nome
polacco dell'Italia), walnut (la ''noce italiana''), welche (nome della parlata neolatina dell'Alsazia), Wallach
(cognome tedesco), De Waal (cognome olandese)... e tanti altri.
Angelo Ardovino Pietro, hai perfettamente ragione, però io, dato il contesto balcanico della mia ricerca, ho
omesso questa parte. Chiunque, come te, voglia integrare, è benvenuto, A me, comunque, interessa di più
capire come una lingua possa sopravvivere deculturalizzata.
Pietro Cociancich sì, certo, volevo aggiungere alcune cose io :-). Per quello che riguarda il povero valacco, si
tratta di un destino molto amaro... Io spero sinceramente che la Grecia possa guardare in modo più sereno
alle sue diversità culturali, uscendo dall'enorme complesso di inferiorità verso la Grecia classica e quella bi-
zantina. Ho l'impressione che per molti greci sia semplicemente inconcepibile che in Grecia si parli qualcos'al-
tro che non sia greco...
Angelo Ardovino Pietro, un certo tipo di scuola ha fatto sì che ci sia rifiuto di qualsiasi diversità. Facendo un
esempio non linguistico, ho letto saggi che cercano di dimostrare che El Greco fosse ortodosso, perché l'idea
che un Greco possa essere cattolico disturba un certo stereotipo imposto dalla scuola. Senza un migliora-
mento della scuola, ogni discorso sarà vano.
7. Il buon vicinato

28 luglio

Tutti quelli di una certa età ricordano bene il cognome Παπαδόπουλος (Papadopoulos), e chi non ha dime-
stichezza con la Grecia lo associa al capo della giunta militare che prese il potere nel 1967 e lo tenne fino al
1974. Dittatura stupida e famigerata. Però Papadopoulos è un cognome talmente comune che è difficile che
chi sa un po’ di Grecia lo possa associare all’ex dittatore. Significa figlio del prete. Ma in un paese in cui i preti
ortodossi si devono sposare, un prete non ha nessuna difficoltà a dare il suo nome ai figli. Dunque Papado-
poulos significa altro: è un eufemismo, come i nostri Proietti, Esposito, Benenato, Innocenti, ed altri.
Naturalmente è portato con estrema dignità da ottima gente, tra cui sicuramente il titolare di una ditta di
non so cosa (ero in un autobus), alla periferia di Kastorià, che aveva un’insegna a caratteri cubitali
ΠΑΠΑΔΟΠΟΥΛΟΣ, che ha fatto ripetere in caratteri cirillici. Fa sorridere, perché per quella parola il cambia-
mento è minimo, e qualsiasi Slavo di passaggio l’avrebbe capita anche in greco, ma il marchio è il marchio.
Doveva essere nei due alfabeti, e così è stato. Papadopoulos rimane Papadopoulos.
Qualcuno mi dirà che questa è una normale cortesia frontaliera, e non ha particolari significati. Risponderò
che Kastorià è più vicina alla frontiera albanese che a quella macedone, ma al signor Papadopoulos non è
venuto in mente di scrivere il suo nome in caratteri latini per compiacere gli Albanesi. Ha in mente una clien-
tela ben precisa, che viene dalla Macedonia del Nord.
Kastorià è una città con una forte tradizione manifatturiera. Certo, non c’è più la concia delle pelli di ca-
storo, che le diedero il nome, e che vengono importate pronte per essere trasformate in prodotti finiti, ma
la mentalità industriale c‘è. La tranquillità alle frontiere che le teste calde delle due parti non sono riuscite a
rovinare è un’occasione da non perdere. E ancora più da non perdere è l’estensione della Comunità Europea
alla repubblica di Skopje. In questi anni un capitale tedesco vorace ed ignobile ha comperato aziende greche
e le ha delocalizzate oltre frontiera, trasferendovi i macchinari e licenziando gli operai greci. Ogni volta che
fate l’amore con il sapore ricordatevi che questa disinvoltura ha ridotto famiglie greche alla fame. Non siate
tra quelli che credono davvero che la Grecia possa campare solo di turismo. Finché la Grecia tiene fuori la
Macedonia del Nord dall’Europa, la mette in grado di ricevere altre attività manifatturiere greche. È di certo
un caso, ma il primo ministro greco che ha fama di aver tenuto l’atteggiamento più morbido con i delocaliz-
zatori, è tale Samaràs, che, quando era ministro degli esteri, montò la questione del nome della Macedonia
e del bando alla repubblica di Skopje.
Kastorià oggi è una città un po’ fanée, e i tanti palazzi in rovina di una borghesia che fu prospera assicurano
che la crisi è più antica di quella greca ufficiale. La normalizzazione economica con Il Nord potrebbe darle un
grosso aiuto. Altrimenti non resterà altra risorsa che la brezza di lago e la passeggiata in mezzo alle oche.
8. Gli antichi non si tirano da una parte o dall’altra.

La gente, si è visto, tende a dare antichità alla propria stirpe, citando antenati o appropriandosene. Nella
questione macedone i contendenti hanno esagerato, e se cerchi di richiamarli alla concretezza storica rischi
di essere accusato dagli uni e dagli altri di essere un nemico della patria. In più anche gli studiosi sono divisi,
c’è chi considera gli antichi Macedoni come Greci, e chi ne vuole ellenizzata solo la classe dirigente. Opinioni
legittime di studioso, ma che vengono usate come armi improprie nelle polemiche nazionaliste. Le ragioni
greche sono note, ma si può argomentare che chi nasce in terra macedone, che è sempre rimasta sé stessa,
è un antenato di tutti i popoli che vi si sono incontrati. Idea che è molto meno strana di quanto sembri a
prima vista, e sarebbe buona in una prospettiva di conciliazione, ma finora è stata usata dagli Slavi come
strumento di ostilità, e perciò rifiutata di Greci senza esame.
Sarà bene accennare al carattere greco della Macedonia antica; è un rischio, ma io sono del mestiere e
vedo che ci sono dei grossi equivoci culturali e non me la sento di passarli sotto silenzio. Il primo è che l’età
moderna ragiona per identità, e tutela l’autonoma dei popoli, quella antica per assimilazione, e li incoraggia
ad unirsi, a confondere il sangue (il DNA, se vi piace di più) e le culture in sistemi sempre più complessi. È
irrilevante stabilire quando i Macedoni siano diventati Greci o se lo siano stati da sempre. Importa che lo
siano dal momento in cui se ne sente parlare. Poi ci sono due incidenti fastidiosi nati dal fraintendimento
delle opinioni dei glottologi. Una è che i Macedoni, e gli Epiroti, siano Dori; purtroppo il termine ha assunto
sovrastrutture cretine che vanno dai capelli biondi al “saluto dorico”, fortunatamente oggi in ribasso. In realtà
i Dori sono quelli che parlano il dialetto dorico, ma appartengono a certe tribù gentilizie. I popoli che hanno
dialetti simili al dorico ma non hanno questo privilegio non sono Dori, e nessuno li avrebbe chiamati così. I
glottologi però dovevano pur chiamare in qualche modo quei dialetti, e li chiamarono dorico-settentrionali.
Una classificazione grammaticale ha creato un mito del tutto infondato.
Oltre tutto, i dialetti dorico-settentrionali sono poco noti, senza testi letterari e scarsa documentazione
epigrafica, tranne che a Delfi e nelle colonie achee della Magna Graecia, e ciò causa l’equivoco più grave. Nei
pochi nomi macedonici sono un bel po’ di b (ad esempio Berenice al posto di Ferenice); ciò ha fatto parlare
di dialetto greco molto originale o di greco bastardo con un forte sostrato illirico, cioè di gente che il greco lo
parlicchiava a stento. Opinioni di scienziati, e secondo me sbagliate, perché il campione di parole a disposi-
zione è troppo piccolo per poter sostenere una qualsiasi di queste tesi. Ma immaginate questa roba in mano
ai patrioti, l’un contro l’altro armati. È successo di tutto.
Qualcuno si sorprenderà, ma la chiave per affrontare il problema io la trovo in Epiro. Epiro e Macedonia
sono due regioni molte diverse. Una è scavata da valli impervie, con poche comunicazioni, che facilitano una
politica cantonale, con una transumanza costretta su itinerari obbligati, di tipo appenninico. L’altra è un sus-
seguirsi di montagne facilmente valicabili, colline e pianure, in cui far transitare senza costrizioni grandi quan-
tità di bestiame. Entrambe sono adatte al popolamento per piccoli gruppi, e infatti le città si sviluppano tardi,
soprattutto in Epiro. La mancanza delle città però impedisce di fare proprie tutte le idee e i costumi della
polis greca. Ad esempio dal VII sec. a.C. la cultura greca bandisce le armi dalle tombe, perché il cittadino è chi
parla nell’Agorà, dove non entra in armi. Ma in Epiro i corredi tombali maschili greci conservano le armi fino
al IV sec. a.C. Ma collegando ciò alla vista delle valli impervie dell’Epiro mi è venuta in mente una bellissima
leggenda raccontataci da Erodoto.
Gli Iperborei sono una popolazione settentrionale, a Nord delle Alpi. Ai tempi di Erodoto, alla metà del V
sec. a.C., inviavano dei doni ad Apollo, al santuario di Delo. I doni viaggiavano da soli di popolo in popolo, da
tutti rispettati e trasportati da un punto all’altro. Nelle culture della Micronesia gli antropologi hanno notato
pratiche simili, ma comunque è una bella storia di religione e fratellanza. Erodoto segue il viaggio dei doni da
quando arrivano tra i Greci: i primi Greci a riceverli sono quelli di Dodona, da dove poi scendono al Golfo
Maliaco per essere traghettati in Eubea; di città in città giungono infine a Delo. Dodona è sede di uno dei più
importanti santuari di Zeus, e non ci può essere porta migliore. Però è a Sud di Giannina. Se i primi Greci a
ricevere i doni sono quelli di Dodona, vuol dire che Erodoto non considerava Greci i popoli contermini, cioè
la maggior parte degli Epiroti.
In realtà noi sappiamo che aveva torto, e l’archeologia ci dice che nel V secolo gli Epiroti partecipano alla
cultura greca. Però a volte i Greci delle grandi città potevano essere estremamente schizzinosi verso i popoli
montanari più periferici. È comunque interessante che ci fossero dubbi sulla loro iniziale ellenicità. La stessa
cosa si può dire anche dei popoli di Macedonia. Quel celebre hemibarbaroi (stranieri a metà) che ogni tanto
veniva appioppato ai Macedoni pare davvero il ricordo di un vecchio pregiudizio. Se però per una qualsiasi
scoperta epigrafica o per altre ragioni risultasse che nelle due regioni in qualche luogo si parlava un’altra
lingua, come fanno oggi i Valacchi o gli Arvaniti, cosa ci sarebbe di sconvolgente? Indubbiamente la disper-
sione degli abitati facilitava il fenomeno, come anche poi nel medioevo e in età moderna, ma la Grecia antica
era piena di piccole minoranze che poi vennero fagocitate (per dirne una soltanto, i Driopi di Caristo in
Eubea). Chi non era Greco lo divenne. E questa breve lezione dovrebbe essere tenuta presente anche da
quelli che litigano sulla Macedonia antica.

Santuario
di Dodona
9. Un tuffo nel passato

1° agosto
Qui lo KTEL
mi ha la-
sciato a
terra a
1063 m
s.l.m.

Frequento la Grecia da mezzo secolo, e ricordo viaggi avventurosi con degli autobus decorati a gusto del
conducente, galline a bordo, mezzi che passavano sulla spiaggia per mancanza di strada (mi capitò tra Nau-
patto e Ithea), corse saltate e cambi imprevisti. Ma erano gli anni avventurosi del dopo giunta, e si sperava
nel meglio. Ho scoperto che nelle montagne della Macedonia il tempo si è fermato, e soprattutto ci si fa beffe
delle comunicazioni via Internet, e della correttezza con gli utenti del trasporto pubblico.
A Kozani prendo l’autobus per Kastorià. Al momento di salire a bordo vengo a sapere che ci sarebbe stato
un trasbordo a metà strada. Passi. A Kastorià però mi dicono che l’autobus del giorno dopo per Amideo, di
cui avevo trovato notizie in rete e che mi serviva per proseguire per Edessa, non c’era. L’impiegata sa solo
suggerirmi di tornare il giorno dopo a Kozani (sì, magari con un altro trasbordo!) e chiedere lì. Ma perché a
Kozani? Perché c’è l’agenzia territoriale di gestione degli autobus (KTEL) più grossa. Nell’era dei computer la
signora non è tenuta a conoscere gli orari degli altri KTEL, né è in grado di farti una ricerca elementare su
Internet, ma ad ogni buon conto ti sbologna a Kozani. A me però Kozani pare proprio fuori itinerario; mi
lamento con il portiere dell’albergo, che mi trova gli orari degli autobus per Veria, da cui passa il treno per
Edessa. Così faccio, ed arrivo a destinazione.
Il giorno dopo da Edessa dovrei proseguire per Florina, ma prima vado alle poste (dove ho fatto 20 minuti
di fila per spedire una cartolina, 80 centesimi). Mi accorgo che a pochi metri c’è lo KTEL e vado a chiedere gli
orari. L’impiegato mi dice che da lì non partono autobus per Florina, ma ce ne sono alcuni che fermano poco
più in là. Sul posto manco l’ombra di un cartello indicatore; la gente sa che gli autobus esistono, ma non ne
sa gli orari. Decido che ne ho abbastanza, quelli del treno li ho letti arrivando perché le ferrovie greche espon-
gono gli orari come in tutto il resto del mondo, e vado in stazione. I treni locali greci sono commoventi. Per-
sonale eroico riesce a far viaggiare, con la sua inventiva in materia di manutenzione, delle automotrici che
qui sarebbero già state radiate. In più la stazione di Edessa è un posto bellissimo per gli amanti della "belle
époque". Costruita da Tedeschi nel 1894, credo che sia l’unica stazione greca dotata di un ristorante con
giardino. Funzionante. I platani piantati allora sono adesso delle piante secolari splendide, fanno ombra dap-
pertutto e rendono piacevole l’attesa. E poi, chi si aspetta in Grecia una stazione svizzera?
A Florina mi confermano che c’è l’autobus del mercoledì per Psarades, il solo paese greco in riva ai laghi di
Prespa. Su internet non solo lo davano per certo, ma ne davano addirittura il prezzo, 7 euro. Però c’è un
problema: arriva solo a Lemòs, una dozzina di chilometri prima. Pazienza. Faccio il biglietto e mi presento la
mattina dopo alla partenza, alle 7. Dopo 10 minuti si materializza un bus, e la gente inizia a caricare i bagagli.
Domando a un viaggiatore se è il mio autobus, ma mi accorgo che sa il greco meno di me. Però capisco
“telonìo”, dogana. L’autista mi conferma che l’autobus è quello che devo prendere, ma devo scendere ad
Antartikò, dove c’è un’ennesima coincidenza. Strada facendo, bellissimo percorso di montagna, capisco che
non è vero che c’è un autobus alla settimana da Florina per Prespa, ce n’è uno per la frontiera albanese di
Kristallopygi, per i pochi Albanesi di Florina. Per i laghi di Prespa non ne sono previsti. Come non è previsto
uno sviluppo turistico della zona, malgrado tutte le chiacchiere sugli itinerari naturalistici che mi hanno spinto
da queste parti. Tutto ciò dal sito Internet non si coglieva. Arriviamo ad Antartikò, o meglio a un caffè lungo
la strada; un canadese di origine greca in cerca di parenti ed io scendiamo, l’autista ci scarica i bagagli e ci dà
la notizia avuta per telefono che l’autobus che doveva portarci a Lemòs è soppresso. Noi possiamo aspettare
lì lo stesso autobus che al ritorno ci riporterà a Florina, gratis. La mia gita a Prespa è rovinata, ma tre quarti
d’ora dopo si ferma al caffè un frontaliero albanese. Due parole e ci carica per Lemòs. Gratis. Fine dell’inci-
dente. Ma non è bello alla mia età trovarsi a fare autostop come i ragazzini.
Post scriptum: a Psarades l’agenzia naturalistica ha messo tabelloni con le indicazioni di flora e fauna. Bene,
io sono lì per questo. Mi ritrovo in un bosco di ginepri giganti, per me insolito ed interessante; ma i ginepri
giganti sono associati a cespugli o alberelli di tasso. Pianta con i frutti velenosi. Ma non potevano scriverlo?
Comunque Psarades è un posto bellissimo, se amate la natura. Guardatevi il porto, con i moli pieni di uccelli
d'acqua e nessun altro, e cercate le differenze con Mykonos.

Mia risposta ad alcune domande: Certe cose da giovane borsista in Grecia con voglia di studiare ma pure di
scherzare le tolleravo. Ritrovare dopo mezzo secolo la stessa mancanza di cultura del lavoro è intollerabile.
Proprio perché amiamo la Grecia. Secondo voi quando alla stazione di Naussa il ferroviere annaffiava un car-
rello dell'automotrice per raffreddarlo mi veniva da ridere o da piangere? È un problema serio. Il personale
delle aziende bus ha sbagliato tutto lo sbagliabile. Una zona di grande potenzialità abbandonata. La gente
mandata su un percorso con gli alberi velenosi che un profano può confondere con quelli cui è dedicato il
percorso, mettendosi in bocca un frutto di tasso pensando sia ginepro con conseguente diarrea, e, dulcis in
fundo, i ferrovieri che ad ogni stazione raffreddano con un getto d'acqua la boccola di un carrello.
Postilla. Quando ho postato il mio testo e la fotografia con il molo, non sapevo ancora che lì davanti erano
stati firmati gli accordi Zaev Tsipras, το αίσχος των Πρεσπών, la vergogna di Prespa, se preferite. Sto all'al-
bergo di fronte e me lo ha raccontato la padrona. Non c'entra nulla con il post, ma la precisazione va fatta, a
scanso equivoci
A richiesta, aggiungo per chi vuole andare in macchina che la strada è in ottime condizioni, per una delle
tante contraddizioni della Grecia. un po' di tornanti, ma non impegnativi. Io non guido.
10. Stavolta copio

Questo articolo del 30 settembre 2018 di Elena Zacchetti e Luca Misculin (Come è fatta Skopje, una delle
capitali più kitsch del mondo, in https://www.ilpost.it › 2018/09/30 › skopje-macedonia-kitsch-referendum)
introduce la mia visita a Skopje. Le mie osservazioni tra qualche giorno.

In mezzo alla principale piazza di Skopje, la capitale della Macedonia, c’è un’enorme statua alta 22 metri
che raffigura un guerriero a cavallo. Tutti sanno che il guerriero è Alessandro Magno, considerato uno dei più
grandi condottieri e strateghi militari di sempre, ma ufficialmente nessuno lo può dire. Alessandro Magno è
infatti la figura più contesa tra Grecia e Macedonia, due paesi che da quasi trent’anni litigano sull’identità
culturale e storica lasciata dal grande regno macedone del quarto secolo a.C. La controversia finora ha avuto
conseguenze soprattutto per i macedoni, che per l’opposizione dei greci sono rimasti fuori dall’Unione Euro-
pea e dalla NATO e che oggi stanno votando in un referendum per cambiare il nome del loro stato in “Repub-
blica della Macedonia settentrionale” e mettere fine alla decennale disputa con la Grecia.
La statua, che ufficialmente si chiama “Guerriero a cavallo”, non è solo una storia bizzarra da raccontare ai
turisti – pochi, per la verità – che decidono di visitare Skopje: è anche il simbolo un enorme e invasivo pro-
getto di rinnovamento urbano realizzato negli ultimi otto anni e che ha trasformato Skopje in una città per
certi versi sorprendente e diversa da qualsiasi altra in Europa, e che l’ha resa «una delle capitali più kitsch del
pianeta».
Tutto è iniziato nel 2010, quando l’allora governo di centrodestra guidato dal Partito Democratico per
l’unità nazionale (Vmro-Dpmne) annunciò il progetto “Skopje 2014”. Il progetto prevedeva l’investimento di
circa 80 milioni di euro per la costruzione di una quarantina di nuovi monumenti, sculture, facciate ed edifici.
Si chiamava “Skopje 2014” perché l’idea era di finirlo entro il 2014, quando la città avrebbe avuto una faccia
completamente diversa dal precedente aspetto modernista, dovuto per lo più all’architetto giapponese
Kenzo Tange. L’obiettivo non era solo provare a rendere il centro più attraente per i turisti, ma anche riven-
dicare pezzi di cultura e storia parte dell’identità nazionale macedone, valorizzando alcuni dei personaggi
nazionali più noti e popolari. Per esempio la figura di Madre Teresa di Calcutta, nata proprio a Skopje e oggi
presente sulle targhe commemorative alle entrate degli edifici di recente costruzione – tra cui il ministero
degli Esteri, per dirne uno – e in diverse zone del centro storico. Ma soprattutto Alessandro Magno, perso-
naggio al centro della disputa tra Macedonia e Grecia e che i greci rivendicano come parte della loro cultura,
dato che l’antico regno macedone comprendeva territori che oggi si trovano nella Grecia settentrionale.
Il problema è che col tempo il progetto “Skopje 2014” è sfuggito di mano, diciamo così, e ha trasformato la
città in una specie di Las Vegas d’Europa, come la definiscono oggi diversi suoi abitanti.
Un improbabile stile barocco-neoclassico ha piano piano colonizzato la zona del centro, quella lungo le rive
del fiume Vardar e a sud dello storico ponte di pietra – uno dei monumenti storici più importanti della città,
costruito nel Quindicesimo secolo sotto la dominazione ottomana e oggi interamente pedonale. Centinaia di
statue sono comparse ovunque, una a fianco all’altra (si stima che siano circa un migliaio, ma non sono mai
stati diffusi dati ufficiali): sulle rive del fiume, sui tetti degli edifici, sulle nuove facciate neoclassiche, in mezzo
alle piazze, ai lati delle strade, al centro delle fontane. Quando è finito il metallo ed è aumentato il costo del
rame, uno dei materiali usati per fare il bronzo, si è continuato a fare statue con la terracotta. I personaggi
storici macedoni erano così pochi, scherza oggi qualche abitante del posto, che il governo ha eretto una sta-
tua anche per la cugina di secondo grado della madre di Alessandro Magno. Quando sono finiti i soldi da
spendere, ne sono stati stanziati altri. Secondo un’inchiesta realizzata nel 2015 dal sito Balkan Insight, il pro-
getto è arrivato a costare più di mezzo miliardo di euro, almeno sette volte quanto era stato inizialmente
previsto.
Nel fiume Vardar sono comparsi anche tre ristoranti a forma di “navi pirata”, nemmeno troppo apprezzati
dagli abitanti della città. I vascelli non sono certo il simbolo di un qualche tipo di potere navale, visto che la
Macedonia è uno stato senza sbocchi sul mare, e non è chiaro cosa rappresentino, o se con la loro costruzione
si volesse simboleggiare qualcosa. Sulle rive del Vardar, inoltre, sono state installate palme per una spesa
complessiva di mezzo milione di euro: il 95 per cento è morto nel corso del primo anno – una cosa non
impossibile da prevedere, in un paese in cui la temperatura d’inverno scende spesso sotto lo zero.
Il grande piano di rinnovamento del centro di Skopje ha creato contrasti notevoli in città, soprattutto per-
ché a pochi metri dalle colonne doriche e ioniche degli edifici di nuova costruzione si trova il vecchio bazaar,
la parte più antica del centro, eredità dei secoli di dominio ottomano. Il vecchio bazaar è rimasto un mondo
a parte, con le sue stradine pedonali piene di negozi di ogni tipo, i suoi ristoranti di cucina locale e la voce del
muezzin che per cinque volte al giorno chiama alla preghiera i musulmani, che a Skopje appartengono per lo
più alla minoranza albanese (20 per cento circa della popolazione) e turca (2 per cento). Questa zona è rima-
sta in buona parte in piedi durante il terremoto del 1963 e più di recente è stata esclusa dal progetto “Skopje
2014”, e oggi viene considerata l’unica parte autentica ancora visitabile dell’antica città.
Il costo e i risultati di Skopje 2014 hanno avuto conseguenze importanti e nel 2017 sono stati uno dei temi
della campagna elettorale delle elezioni politiche. I conservatori di Vmro-Dpmne si sono confermati il primo
partito, anche se alla guida del governo è poi finito il centrosinistra guidato dal Partito Socialdemocratico. Il
nuovo primo ministro Zoran Zaev non ha perso tempo e in meno di un anno ha concluso un accordo per fare
la pace con la Grecia: l’intesa prevede che la Macedonia cambi il suo nome ufficiale – oggi si chiama FYROM,
una sigla che significa ex Repubblica Jugoslava di Macedonia – e rinunci a usare simboli e personaggi contesi,
in cambio del ritiro del veto greco all’entrata dei macedoni nella NATO e nella UE. Il governo Socialdemocra-
tico ha anche bloccato i lavori di Skopje 2014, che come aveva previsto qualcuno sono proseguiti oltre la
scadenza stabilita nel progetto iniziale.
Oggi se anche il governo decidesse di smantellare tutte le statue e le facciate erette negli ultimi anni – cosa
che non sembra voglia fare, almeno per ora – Skopje rimarrebbe una città bizzarra, piena di cose fuori posto
e copiate da posti più rinomati e conosciuti. Camminando per esempio per le vie del centro, vicino alla cen-
tralissima piazza Macedonia, è facile imbattersi in una copia del toro di Wall Street, nota scultura in bronzo
del quartiere della Borsa di New York. A pochi passi da dove si trovava la casa di Madre Teresa – andata
completamente distrutta nel devastante terremoto del 1963 – c’è la Porta di Macedonia, un monumento
simile al più famoso Arco di Trionfo di Parigi. Poco distanti dal centro, infine, circolano degli autobus rossi a
due piani molto simili a quelli di Londra: gli abitanti si erano affezionati a quel modello quando nel 1963,
dopo il terremoto, il governo britannico gliene prestò qualcuno per rimettere in piedi il trasporto pubblico
cittadino.
Nonostante la delusione di molti abitanti della capitale macedone per i risultati del progetto “Skopje 2014”
e le enormi spese sostenute per realizzarlo, oggi il Vmro-Dpmne è ancora popolare e i suoi inviti a boicottare
il referendum e opporsi a un accordo con la Grecia potrebbero convincere molti elettori a non andare a
votare. Per rendere valido il voto dovrà presentarsi al seggio il 50 per cento più uno degli aventi diritto al
voto: gli ultimi sondaggi davano il Sì intorno al 58 per cento, ma molto dipenderà dall’efficacia della campagna
di Vmro-Dpmne.
11. Ma la lingua nordmacedone esiste veramente?

In queste divagazioni ho sempre usato per comodità il termine slavo, sia perché guardando alle notizie dei
secoli passati è difficile a volte distinguere, sia perché in numerosi casi gli stessi Slavi evitavano di farlo, al-
meno fino all’Ottocento. Ma il discorso sulla lingua macedone va fatto. Diciamo che il nordmacedone sta al
bulgaro come il corso sta all’italiano. Secondo ogni logica classificazione linguistica, si tratta di dialetti all’in-
terno di una lingua maggiore; ma i suoi parlanti hanno rifiutato l’integrazione per motivi politici, per gli af-
fronti subiti in diverse occasioni da quelli che avrebbero dovuto essere i loro fratelli. Il fatto che il corso sia
pieno di prestiti francesi ed anche il macedone abbia tanti prestiti dalle lingue vicine conta poco: è la volontà
di due popoli, e come tale va rispettata.
Su ciò i Bulgari non sono d’accordo, e continuano a ripetere l’insulsa storiella che il macedone sia stato
inventato da Tito, nella sua ricostruzione della Jugoslavia, magari con tutti i Macedoni e la Macedonia. (tesi
che in questi anni di tensione è stata ripetuta da molti Greci, in genere gli stessi che pretendevano che la
repubblica di Skopje prendesse il nome da operetta di Vardaraska, che Tito invece aveva soppresso, e che
ricordava un precedente esperimento di centralità belgradese, rifiutato da tutti i popoli della Jugoslavia).
Invece non solo si sa che il nome Macedonia non è mai stato abbandonato nelle regioni del Nord in cui con-
vivevano tanti popoli, ma si dovrebbe anche sapere che il nome indica la parlata slava della Macedonia, al-
meno dal 1903 (il maresciallo Tito aveva ancora dieci anni), quando Krste Misirkov delinea i confini della
lingua. D’altra parte i Bulgari tutti i torti non ce l’hanno, dato che con la separazione definitiva tra Bulgaria e
Macedonia hanno perduto Ochrida, per secoli il centro propulsore della cultura bulgara. Ma ormai è cosa
fatta.
Comunque sia, Bulgaro e Macedone sono lingue slave ma molto diverse dalle altre. Hanno perso i casi, se
non in espressioni residuali, e hanno introdotto l’articolo, sia pure posposto. Non vi è chi non veda un’analo-
gia con il greco. Ho anche notato che macedone e greco hanno la stessa intonazione, come a volte accade
tra lingue confinanti. Ma c’è di più. Le due lingue slave partecipano insieme con il greco, l’albanese, il rumeno
e valacco, e persino il romanì, la lingua degli Zingari, a un complesso fenomeno che si chiama lega linguistica
balcanica.
È un fenomeno curioso, notato da diversi studiosi già dall’Ottocento, e a cui è stato dato questo nome dal
Rosetti, un glottologo romeno dal cognome italiano. I vocabolari sono relativamente indipendenti, ma le
grammatiche hanno stranissime coincidenze. Il bello è che le lingue sono tutte indoeuropee, pure quella degli
Zingari, ma appartengono a rami diversi, stando alla classificazione genetica che normalmente si usa per
inquadrarle. Dunque la loro affinità è nata e si è sviluppata indipendentemente dalla loro origine, ma nei
Balcani, a partire dall’Alto Medioevo. C’è chi vi vede una prova di supremazia greca, dato che il greco è sem-
pre rimasto la lingua culturalmente dominante, ma la maggior parte degli studiosi respinge questa ipotesi.
Gli studiosi greci, allora, rigettano tutta la teoria della lega balcanica, per altrettanto ottime ragioni in cui solo
uno spirito malignetto potrebbe vedere l’ombra di una ritorsione.
La teoria fino ad oggi è riuscita a restare fuori dalla propaganda dei tanti nazionalismi balcanici, anche per-
ché sono discorsi che è difficile divulgare se non si ha una saldissima preparazione grammaticale. Ma non si
sa mai. Ricordiamoci sempre che potrebbe succedere. Però, se, come spero, non accadrà, nei prossimi anni
potrà essere un argomento a disposizione di chi vorrà costruire discorsi sui Balcani più fraterni di quelli che
corrono oggi. È per questo che mi sono permesso di inserire questa nota pedante.

Dialoghi con i lettori


Angelo Ardovino Mi piacerebbe sentire l'opinione di un amico slavista, presumo non ignaro di romanì, che mi
segue regolarmente.

Guido Carpi Sinceramente ne so troppo poco: siamo in ambito di linguistica balcanica, cose molto lontane
da quelle di cui mi occupo io. Da quel poco che capisco, il macedone è effettivamente una costruzione politica,
ma anche il serbo e il croato come entità separate lo sono. Qual è il discrimine fra un dialetto e una lingua?
In molti casi la volontà politica di considerarli una cosa o l'altra. Mi viene in mente il caso dell'ucraino: quando
ne fu codificata una versione standard, fra le tantissime coppie di sinonimi si scelsero sistematicamente i
termini di origine polacca rispetto a quelli russi; un po' la stessa cosa accaduta col gallego, che fu consapevol-
mente "lusitanizzato"..
12. Non è Las Vegas

5 agosto

La descrizione della nuova Skopje di Elena Zacchetti e Luca Misculin che ho pubblicato giorni fa era esatta,
ma non basta a dare l’idea di quel che è successo. Diciamo che se D’Annunzio chiamò il lungomare di Reggio
Calabria il chilometro più bello d’Italia, questo l’avrebbe chiamato il chilometro più fitto d’Europa. I palazzi
del potere, in uno stile eclettico ma con una nota di fondo da neoclassico americano, alla “Campidoglio di
Washington”, le statue, di cui tanto si parla, ma anche ogni altro genere di scultura, come i rilievi, alti e bassi,
i fanali dorati o sbalzati e decorati da sirene, i giochi d’acqua che trasformano autorevoli monumenti in fon-
tane, e si prolungano in aree a zampilli per la gioia dei bimbi che d’estate si rinfrescano, tutto ciò crea un
guazzabuglio incredibile. Per di più, nel fiume che bagna ministeri e musei sono stati collocati tre velieri ri-
storante. Immaginatevi che a Parigi qualcuno volesse piazzare davanti al Quai d’Orsay la nave di Capitan
Uncino. Beh, a Skopje l’hanno fatto. A suggello del nuovo centro storico all’altezza di una capitale.
Le immagini si susseguono alle immagini, non fai a tempo a vedere una cosa che subito un’altra attrae la
tua attenzione, e non importa il tuo livello culturale: è un carosello continuo, un caleidoscopio strapieno, un
bombardamento che stordisce. Lo dico senza vergognarmi: io mi sono divertito. Naturalmente la mia anima
di studioso e di professionista dei beni culturali in un paese evoluto dell’Europa occidentale non ha smesso
di condannare tutto ciò nemmeno per una frazione di secondo, però mi sono divertito.
Niente a vedere con la sindrome di Stendhal, che ti prende se guardi troppi capolavori in un lasso di tempo
troppo ristretto, e che mi prese una volta al Prado. Lì ti gira la testa, stai male, devi sederti, chiudere gli occhi,
aspettare che passi la fase acuta e cambiare aria. Qui al massimo c’è un’ubriacatura da spettacolo: quando
arrivi in fondo, alla statua di Filippo II (che adesso non si chiama più così per tener buoni i Greci ma è Filippo
II che di più non si potrebbe), vorresti chiedere il bis.
Una mia amica mi rimprovera di essere avaro di immagini. Ma, a parte le mie lacune di informatica e il fatto
che sono sempre stato un pessimo fotografo, non c’è foto che possa rendere l’atmosfera in cui ti trovi im-
merso. Le panoramiche danno le dimensioni del fenomeno, ma non lo fanno rivivere. Ci vuole un professio-
nista che realizzi e monti dei filmati, in cui si passi da un fenomeno all’altro senza soluzione di continuità. Per
il momento, dovendo scegliere una sola immagine, scelgo la panoramica della grande statua che fu quasi
occasione di guerra con la Grecia, in cui Alessandro Magno è stato declassato in un contesto da baraccone:
una specie di fungo gigante, il cui disco superiore è tanto ampio per assorbire il peso della statua, un fusto
con bassorilievi e guerrieri di bronzo, una vasca guardata da due file di leoni e centro di giochi d’acqua; viene
completato da una piazzola di zampilli in cui l’estate ci si butta e ci si diverte.
Ma non è giusto ridurre tutto a una sorta di Las Vegas. A parte le motivazioni politiche di tutto questo, su
cui tornerò, l’operazione ha delle radici culturali da capire. Dare un assetto architettonico a una capitale è
cosa comprensibile. Lo fanno tutti, in tutto il mondo. Ma qui si doveva dare un segnale di essere una vera
capitale, di un vero stato, agli stati vicini e ai propri cittadini. Se una capitale ha un grande museo nazionale,
Skopje deve avere un grande museo nazionale, se una capitale ha una grande accademia filarmonica, Skopje
deve avere una grande accademia filarmonica. Ci sono dei modelli da superare, soprattutto Belgrado, dove
hanno sempre visto i Macedoni come dei montanari. Ma la cultura che sta dietro le singole scelte, come il
museo e la filarmonica, non si improvvisa, ed allora si ricorre all’elefantismo. Decine di palazzi pubblici sovra-
dimensionati, e uno spazio reinventato da colorare. Statue e fontane.
La scelta delle statue non nasce dal nulla. Se volete vedere un Alessandro Magno a cavallo in bronzo fatevi
un giretto per Edessa, la città greca delle cascate; a Bitola invece c’è un buon Filippo II, sicuramente migliore
di quello che sta a Salonicco presso la Torre Bianca. La scelta di connotare il paesaggio urbano con delle statue
veniva da lontano ed era tutt’altro che sbagliata. Era anche una buona occasione di mecenatismo artistico,
mica da buttare. Le poche che sfuggono alla retorica patriottarda sono piacevoli. A poche decine di metri dal
“fontanone” alessandrino c’è, ad esempio, la statua del lustrascarpe, molto gradevole. Ma il gioco ha preso
la mano, e così lo spazio più importante della capitale, il fulcro della nuova Macedonia, da Sancta Sanctorum
è passato rapidamente a presepio napoletano. A questo punto il colore prevaleva irreparabilmente sulla so-
stanza, e così sono state possibili operazioni che nell’austera monumentalità iniziale non sarebbero state
nemmeno pensabili, come le tre (tre, avete capito? Ben tre!!!) navi ristorante ancorate nel Vardar. Siamo
arrivati così alla deriva estetica, ma poi la maggioranza ha perso le elezioni e siamo in pausa. Ma non chiamate
tutto ciò Las Vegas.

Dialoghi con i lettori

Maria Concetta Brigandì La barbarie del gusto dei neoarrivati che devono dimostrare quello che non vi è
dentro. Povera storia maltrattata dagli uomini che vi si sono voluti sostituire.
Angelo Ardovino questi sono così poco barbari che si sono mossi in una tradizione secolare. Bisogna invece
chiedersi come essa possa scapparti di mano.
Guido Carpi Ma i soldi per tirare su tutto questo ciarpame, dove li hanno trovati?
Angelo Ardovino come si diceva nel bosco, tra mustelidi: ma tu le tasse le paghi?
Guido Carpi Me le deducono dalla busta paga: infatti non mi posso permettere una statua di Bucefalo in
calore.
Angelo Ardovino Aggiornamento: a Ochrida, città macedone di una certa importanza, nella piazza sul lun-
golago ci sono cinque statue di bronzo. Ai Macedoni piacciono molto. Skopje è l'episodio spinto di un feno-
meno generale, da non guardare assolutamente con l'occhio totalizzante dell'architetto.
13. Zorbas il profugo

6 agosto

Oggi tappa di trasferimento, da Bitola ad Ochrida, più o meno parallelamente al confine greco, che corre
una ventina di chilometri più a Sud. Giornata di osservazione, non di redazione, e per questo vi ammollo una
nota sul confine, che deve essere tenuta presente, già confezionata.
Se le cose andassero per il verso giusto, girando per le Macedonie sarebbe obbligato il passaggio da Neos
Kafkasos, Νέος Καύκασος, il nuovo Caucaso, l’ultima fermata greca di un treno che non viene mai ripristinato
tra Florina (Lerin) e Monastiri (Bitola). È un nome molto impegnativo, che fa venire in mente il lavoro di Nikos
Kazandzakis da alto dirigente dello stato: trasferire in Macedonia i Greci del Ponto e quelli del Caucaso. È
anche il lavoro che faceva, prima di aprire una miniera a Creta, il narratore del suo libro Zorba il greco, che in
parte replica i tratti dell’autore. La Macedonia greca in quegli anni fu riempita di profughi, in parte orientali,
in parte dai paesi slavi. A due chilometri da Florina c’è il paesino di Σκοπιά, nome che ci dice chiaro e tondo
che i suoi abitanti arrivarono da Skopje. È facile immaginarsi Kazandzakis girare in queste terre che dovevano
assurgere a nuova vita, e magari incontrarvi il modello del suo personaggio più celebre. Infatti Zorbàs, che la
propaganda cinematografica ha reso celebre come Zorba il Greco, non è un operaio di Creta, dove lo vediamo
in azione: è un Macedone sceso dal Nord. Uno che ha combattuto contro gli Slavi e ha preferito andar via, in
cerca di fortuna. E che al Nord torna, quando finisce la sua avventura cretese.
Kazandzakis, che ha ascoltato dai suoi profughi cose indicibili ma vere, e per questo è l’autore greco più
lontano dalla retorica nazionalista, tanto che, invece di proclamarsi discendente della stirpe degli Elleni, ci
racconta di discendere dagli Arabi che nel IX secolo occuparono Creta e, sconfitti, furono confinati nelle mon-
tagne più impervie dell’isola. Kazandzakis mette in bocca a Zorbàs delle storie terribili di morte, come quella
del prete bulgaro che di notte si cambiava, si armava ed andava a scannare Greci nel sonno. Zorbàs l’aveva
scoperto e lo aveva ucciso. Poi, qualche giorno dopo, si era imbattuto nei suoi figli, che erano rimasti senza i
soldi per mangiare, e aveva regalato loro tutti i suoi averi. Non ci sono i nomi e cognomi di questa storia, ma
essa da sempre è stata vista come realtà possibile.
Kazandzakis è un autore trascurato dalla scuola greca. I suoi libri dovrebbero essere obbligatori come in
Italia i Promessi Sposi, e i ragazzi imparerebbero quanto sia inutile l’odio contro i vicini, quanto ne siano gravi
le conseguenze, e quanto sia fatuo l’eroismo. Ma nessuno ha il coraggio di proporlo come modello.
Però adesso sapete perché la questione del nome è così importante. Essa si lega a infiniti massacri degli uni
e degli altri, che nessuna delle parti si sogna neppure lontanamente di ammettere. Il confine attuale non ha
radici; è stato fissato dagli eserciti, non in un passato consolidato, ma nel 1949, quando le truppe greche
buttarono le truppe titine (stavolta il maresciallo Tito c’entra) fuori da Edessa, di cui si erano impadronite
durante la guerra civile greca. Oppure è una linea tracciata dalle truppe serbe che scendevano e da quelle
greche che salivano mentre, di comune accordo, scacciavano quelle bulgare. È non è solo il divisorio tra due
popoli, come poteva essere il confine italo-sloveno, che con i decenni e lo stemperarsi degli asti è diventato
un colabrodo con valore soprattutto amministrativo. È il bordo di due enormi ceste, in cui sono stati stipati
da una parte i profughi che scendevano a Sud e dall'altra i profughi, più numerosi, che salivano a Nord. Ogni
rivendicazione, anche la più banale, può fare ridiscutere il diritto a restare dove altri connazionali sono arri-
vati a vivere e morire. È una prospettiva ottocentesca e fuori moda? Può essere, e infatti molti, nel resto
d’Europa e nel mondo, ne ridono. Ma sbagliano: è una prospettiva concreta, che va superata, anche con gravi
sforzi. Non solo nel riconoscere le ragioni degli altri, ma soprattutto ammettendo i propri errori e i propri
crimini. I Greci devono ammettere che Zorbàs non è stato un eroe ad uccidere il prete assassino (Kazandzakis
aveva cercato di spiegarlo), e gli Slavi che il prete era davvero un assassino, non un patriota. Ma da questo
ultimo passo siamo ancora lontani.
14. Mamma li Turchi!

7 agosto

Gli amici greci mi leggono pochissimo, almeno sinora, spero perché fa caldo e non perché tutti vogliano
crogiolarsi all’infinito nelle loro certezze, ma forse questa volta mi daranno più retta.
Tutti sappiamo che la Macedonia ha una forte minoranza albanese. Non si tratta di un‘alloglossia come
quella degli Arvaniti in Grecia o degli Arbëreshë in Italia, ma di una minoranza di chiaro contenuto politico.
Che chiede tutto quello che chiedono le minoranze linguistiche di questo mondo. I risultati ottenuti non sono
un granché, a parte qualche scritta come si deve a Skopje e l’uso locale della lingua nei comuni dove gli
Albanesi sono maggioranza, ma la cosa è seria, e, tra l’altro, ha complicato non poco la risoluzione della
vertenza con la Grecia, perché la proposta greca del nome “Macedonia slava”, che a prima vista appariva
ragionevole, non poteva assolutamente essere accettata da nessun governo skopjano per la ribellione che
avrebbe comportato nelle minoranze, Albanesi in testa, che tutte insieme assommano a circa il 35%.
Il problema principale però non è il numero, ma la religione. Noi Italiani a questo non ci pensiamo, perché
i nostri Arbëreshë sono tutti Cattolici, e, del resto, cattoliche sono tutte le minoranze ed alloglossie presenti
sul territorio nazionale, a parte qualche Valdese di Valle Pellice e di Calabria, ma gli Albanesi della Macedonia
del Nord sono quasi tutti musulmani, come anche quel 2% di Turchi rimasti.
Qualcuno si meraviglierà, perché come esempio di Albanese di Macedonia viene a tutti in mente Madre
Teresa di Calcutta. Ma lei, oltretutto di madre valacca, era un concentrato di minoranze, e non fa testo. Di
per se il fatto potrebbe anche non essere preoccupante. La gente, quella della porta accanto, vuole vivere in
pace, ed è abituata alla convivenza. L’unico segno esteriore di differenza, che è una novità, sta nel velo che
un po’ di donne portano da qualche tempo. Ma è un fatto planetario, e evolverà anche qui come nel resto
del mondo. Il problema, come al solito, è la politica.
A Bitola c’è ufficialmente una minoranza turca, che si somma agli Albanesi come parte musulmana della
città. Ci sono due grandi moschee sulla piazza principale, i cui due minareti si allineano in una sola prospettiva
con il campanile della cattedrale cattolica. Sulle due moschee c’è stato un intervento del TIKA, la potentissima
agenzia governativa turca che si occupa di restauro di edifici di culto. Un restauro, manco a dirlo, ben lontano
dai principi italiani di mantenimento della materia originale: sono belle nuove. La religione cioè serve al go-
verno turco per far sentire la sua vicinanza ai corregionali albanesi. Questo già sarebbe preoccupante, ma ad
Ochrida ho visto di peggio.

Intervento di rifacimento di una moschea di Bitola,


a spese del governo turco
A Ochrida ho visto altre due moschee sotto intervento TIKA, ma mi sono anche trovato inaspettatamente
in un abbozzo di quartiere turco. Due volte mi sono fermato a pranzo e due volte ho ordinato in turco, be-
vendo ayran, perché non servono alcoolici. E questa non me l’aspettavo davvero. Mi sono guardato in giro,
pensando di aver trovato la traccia di una comunità turca che dalle mie letture non risultava, ma poi mi sono
accorto che erano locali tenuti da Turchi specializzati in turisti turchi. Scritte turche ci sono anche in centro,
nei negozi turistici. Naturalmente non ho fatto interviste, e non le avrei fatte nemmeno se la lingua me
l’avesse consentito, ma Ochrida, città di chiese importantissime e di moschee insignificanti, come attrattiva
principale, se togli le chiese antiche, ha il bagno in un lago a 700 metri di quota e non è il primo posto in cui
immaginare un turismo turco. Però per secoli Ochrida è stata una città turca, anchese i Turchi l’avevano
riempita di musulmani albanesi, fino all’ingresso dell’esercito serbo nel 1912. È rimasta nella memoria col-
lettiva e, a quanto pare, qualcuno sta proponendo viaggi. E il legame musulmano tra Albanesi e Turchi si
rinsalda.
Fantasie? Dipende. Se qualcuno avesse fatto un discorso come il mio quindici anni fa sarebbe parso un
pazzo, ma la politica estera di Erdoğan ama questo genere di fantasie. Spende e spande nei Balcani, e fa
spendere altri quattrini ai suoi concittadini, per rafforzare legami affettivi, nella malcelata speranza che pos-
sano un giorno diventare legami politici. In questo caso però la miscela è esplosiva, perché si sta organizzando
un nazionalismo panalbanese, a prevalenza islamica, che vuole, oltre a relegare le città cristiane in un angolo,
annettere all’Albania il Kosovo e metà Macedonia (la Grecia fino a Preveza è un osso troppo duro, ma nelle
intenzioni ci sarebbe; magari più in là, perché no?)
Non è roba da sottovalutare. Gavrilo Prinzip ragionava allo stesso modo, e guardate cosa ha combinato.
Ma tutto ciò fa pensare alla necessità che Grecia e Nord Macedonia collaborino. Non sta a me dire come e
quando, ma trovino interessi comuni che creino una volontà di amicizia che possa fare da freno a questi
fantasmi balcanici.

Dialoghi con i lettori

Guido Carpi A dire il vero, ricordo che gravi disordini a sfondo panalbanese nell'est macedone ci furono già
una ventina di anni fa, sull'onda della guerra in Kosovo.
Angelo Ardovino sì, ce ne sono stati anche di più recenti, ma adesso le acque sembrano chete. Anche i deli-
ranti piani urbanistici scultorei skopjani sono stati contestati dai socialdemocratici, ma le minoranze se li sono
tenuti. Del resto, se giustificazione è possibile del macedonismo, è che il collegare tutte le memorie della patria
macedone a tutti i suoi abitanti, Slavi e Albanesi compresi, fornisce una meta alternativa a certi balcanismi
pericolosi. Ma è veramente strano che dell'invadenza erdoğaniana in Macedonia del Nord ce ne siamo accorti
in Italia il mio amico Arbëreshë ed io, e in Grecia nessuno. E fanno cadere governi per il nome della Macedonia.
Francesca Sakellaridi in che senso "in Grecia nessuno"?!
Angelo Ardovino Ho decine di contatti greci, e ne avevo di più prima che manifestassi la mia convinzione
che gli accordi con la Macedonia di Skopje fossero opportuni, perché in quel momento molti mi hanno ban-
nato. Pochissimi hanno il coraggio di dire che non c'era altro da fare. Ma sinora non ho trovato nessuno che
dica che bisogna capire quel che succede in Nord Macedonia in generale, e in particolare quali ragioni abbiano
gli abitanti di questa terra. Neppure ho trovato, fino ad adesso, Greci che discutano, come ho provato a fare
io, il problema dell'aggressività di Erdoğan nei Balcani. E magari l'opportunità di un'amicizia Atene-Skopje per
fronteggiare questo fenomeno in crescita. Non dico che non ci sia gente così, dico solo che fino a questo
momento non l'ho trovata. Se tu me la segnali mi farai felice. Grazie
Francesca Sakellaridi non c'era altro da fare e non c'è altra via da seguire, secondo me.
Angelo Ardovino lo so che TU la pensi così. Il problema, infatti, non sei tu.
15. Povero San Cirillo!

11 agosto

Frontiera tra Scu-


tari e Podgorica.

Il lago di Scutari è
stagnante

Una piccola divagazione, su un tema che mi è venuto davanti agli occhi in Montenegro, dove finisce il lago
di Scutari, l'ultimo e il maggiore lago dei Balcani.
Tutta la segnaletica stradale, che è un fatto ufficiale, è stata rifatta in alfabeto latino. Le insegne, quasi tutte
in caratteri latini. I giornali, la maggior parte in caratteri latini. Il menù al ristorante in caratteri latini! E l'alfa-
beto usato per il dialetto serbo locale è quello latino. La partita è decisa. Non so come stia andando oltre
frontiera, nella Serbia vera e propria, ma presumo che la situazione sia più o meno la stessa. Nel mio unico
passaggio da Belgrado, una decina di anni fa, si vedevano i segni della lotta in corso, anche con episodi buffi.
Mi ricordo che giravano i tram con le indicazioni del percorso in alfabeto cirillico e i filobus in quello latino;
ogni deposito aveva deciso per proprio conto!
Chi si oppone è soprattutto il clero ortodosso: non ha tutti i torti, perché la tradizione ha la sua importanza.
Oggi il problema non si pone, perché tutti conoscono entrambi gli alfabeti, ma un domani non si sa, soprat-
tutto se peggiorerà ancora la qualità dell'istruzione primaria, qui come nel resto del mondo. Forse i preti
perderanno, ma se riuscissero ad ottenere misure per impedire che le generazioni future non siano staccate
dalla loro tradizione cirillica avranno fatto una gran cosa.
Pare, oltretutto, che si tratti di un processo spontaneo. Per la riforma della scrittura greca, con l'unificazione
degli accenti e la soppressione degli spiriti, furono necessarie due leggi, una in Grecia l'altra a Cipro. Qui non
c'è stata nessuna battaglia politica: alla gente sta bene, punto e basta.
Tutto ciò rivela che la tendenza all'abbandono dell'alfabeto cirillico non riguarda solo le più remote pro-
vince di quello che un tempo fu l'impero sovietico, ma anche la Jugoslavia. Fa eccezione la Nord Macedonia,
in cui l'alfabeto cirillico gode ottima salute. Sarà perché non si è voluto approfondire il solco con la Bulgaria,
sarà perché l'alfabeto che oggi chiamiamo cirillico in realtà è stato reinventato ad Ochrida nel IX secolo, ed è
una gloria nazionale, nessuno tocca il cirillico. Bene, ma ciò significa che il distacco culturale dagli altri paesi
jugoslavi aumenta. Ma una Macedonia settentrionale che recide i legami con il suo Nord, li dovrà allacciare
con qualcun altro. La scelta sarà tra la Bulgaria, l'Albania e la Grecia. Chiedo a questo punto ai miei amici
Greci intelligenti: ma a voi, quale di queste tre possibilità converrebbe?
Quanto all'importanza di Ochrida nei Balcani, soprattutto nell'alto medioevo, si tratta di un argomento
fondamentale per capire l'oggi dell'area. Ne parlerò la prossima volta.

Dialoghi con i lettori

Guido Carpi Confermo: l'abbandono spontaneo del cirillico è una conseguenza della guerra per il Kosovo e
dei suoi traumi. Semplicemente, i giovani vogliono lasciarsi alle spalle un passato umiliante e cupo, e consi-
derano il cirillico uno dei suoi simboli. Ciò accade in Serbia e non in Macedonia e Bulgaria 1) perché quel
trauma non li riguarda; 2) perché non hanno una tradizione scrittoria bella e pronta in alfabeto latino (il
croato).
Angelo Ardovino sì, Guido, ma questo sottolinea il distacco della Macedonia dalla Jugoslavia, proprio di
quella Macedonia che si oppose alla fine della confederazione jugoslava
Guido Carpi non saprei. I macedoni, come i russi e i bulgari (e gli ucraini anche più violentemente occiden-
talisti) semplicemente non possono immaginare la propria lingua scritta in un altro alfabeto. Solo i serbo-
croati hanno da sempre la doppia opzione di scelta, che può essere attivata in specifiche contingenze storiche.
La semiotica del cirillico, per un giovane di Belgrado, è oggi "clericalismo-nazionalismo straccione-guerra-
tutticischifano-cheppalle!", mentre quella dell'alfabeto latino è "Europa–cocacola-youtube-cheffigo!" Lo so
che è idiota, ma la semiotica spesso lo è.
Angelo Ardovino ti do un cruccio: a Podgorica due quotidiani sono rimasti in cirillico, ma uno ha solo notizie
sportive e annunci economici. Come la mettiamo con la semiotica?
Francesco Rubat Borel Anche nella Republika Srpska in Bosnia Erzegovina usano ormai maggiormente l'al-
fabeto latino o lì, per motivi identitari (o di differenziazione) continuano con l'alfabeto cirillico?
Angelo Ardovino non lo so. Non ci sono laghi da quelle parti, e non ci vado.
16 La capitale perduta

14 agosto

Santa Sofia

Ochrida oggi ricorda un po’ Desenzano: un bell’affaccio turistico sul lago, e all’interno un agglomerato ur-
bano di grandezza insospettata. Ci sono scorci caratteristici, c’è un bel tour delle chiese, inerpicandosi per la
collina, ma per lo più si sta in spiaggia. Una frequentazione spensierata, in cui ci si dimentica che la città, pur
stando in mezzo alle montagne, è stata un punto cruciale della storia degli Slavi, dei Balcani e d’Europa.
Pare assurdo. Oggi Ochrida è estremamente periferica nel mondo slavo. Eppure fu sede patriarcale (sì,
avete letto bene, c’era un Patriarca!), capitale della Bulgaria e faro del Cristianesimo tra gli Slavi. Poi, dopo la
riconquista bizantina dell’XI secolo, fu uno dei centri dello Scisma d’Oriente, grazie al vescovo Leone, braccio
destro del Patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, e con lui scomunicato dal cardinale Umberto di Silva
Candida, con il gesto che sancì la separazione delle Chiese. Poi la decadenza, anche se il nome di Ochrida si
lega a quello, fascinoso, di Boemondo di Altavilla, figlio di Roberto il Guiscardo e nipote di Ruggero il Nor-
manno, che la occupò nel 1083. La città passò da allora da una dominazione all’altra, però l’arcivescovo, a
volte greco a volte slavo, riuscì a mantenere una primazia sulle diocesi di tutte le lingue dall’Adriatico al Mar
Nero. Ma la conquista turca alla fine del medioevo la svuotò di importanza politica e un po’ alla volta anche
di Cristiani. Ochrida dai tempi della sua costituzione a capitale bulgara aveva controllato la via Egnazia da
Durazzo a Salonicco (come anche il suo precedente classico, Lychnidòs), aveva sostenuto il predominio bul-
garo nei territori più a occidente e a sud, anche se essi restavano popolati da Greci, Albanesi e Valacchi, e per
questo era stata capitale malgrado la posizione apparentemente eccentrica. Ma i Turchi non sapevano che
farsene, perché avevano altre strategie di controllo del territorio. Bastava loro un presidio sicuro, una città
con tanti musulmani (Albanesi e Turchi) in cui i Cristiani, Greci e Slavi, contavano sempre meno. La stolta
propaganda nazionalista del governo conservatore macedone, lo stesso che ha "monumentalizzato" Skopje,
tra altre atrocità raccontava che le manovre dei complottisti greci portarono alla soppressione dell’arcive-
scovado macedone a metà del Settecento. In realtà la presenza cristiana si era ridotta al punto che più che
un arcivescovo bastava un parroco. Poi le guerre balcaniche portarono nel 1912 le truppe serbe a occupare
la città, espellere tutti i Turchi (che ora, abbiamo visto, stanno tornando) e sostituirli con nuovi abitanti, Bul-
gari occidentali o, se preferite, Nord-Macedoni.
La memoria dell’antico Patriarcato slavo e quella della diocesi che prese il suo posto sono ormai compro-
messe ed oggetto di un’operazione archeologica più che di una continuità culturale. La sola Santa Sofia, con
le sue architetture straordinarie, e ben lontane da qualsiasi manierismo ortodosso, risale a prima del Patriar-
cato; ma le pitture furono volute dall’arcivescovo Leone nel periodo greco postpatriarcale, alla metà dell’XI
secolo, hanno le iscrizioni in alfabeto greco e attuano un programma iconografico pensato nella Polis. Da
notare, anche se in una lunetta laterale poco visibile, una delle più antiche rappresentazioni del Mandylion,
a circa un secolo dall’arrivo della reliquia mesopotamica a Costantinopoli. Il Mandylion ricomparirà qualche
secolo dopo nella chiesa della Perivleptos, dal nome non certo slavo.
Però, sia vero o no, le memorie della cristianizzazione e dell’alfabetizzazione degli Slavi, che vanno di pari
passo, partono da qui, dalla leggenda che San Metodio sia finito qui e vi abbia istruito il suo allievo migliore,
San Clemente di Ochrida, che avrebbe modificato l’alfabeto slavo e l’avrebbe mandato in giro per il mondo.
Sarà anche una leggenda, ma è la memoria più viva dell’Ochrida di più di mille anni fa, madre di tutti gli Slavi.
Per questo le statue di bronzo del lungolago, lungi dal formare un baraccone alla Skopje, formano un insieme
religioso coerente, preortodosso e ortodosso, che in San Clemente trovano il suo fulcro.
17. Ancora il lago di Ochrida

15 agosto

Ochrida è così importante che non può bastare la paginetta che ho scritto, anche se forse deluderò i miei
lettori, che si aspettano da me l’attualità, mentre stavolta mi atterrò alla geografia storica. Chi trova noioso
l’argomento, passi pure ad altro.
Diciamo che il lago di Ochrida e quelli di Prespa non fanno parte della Macedonia fisica, che, sia a Nord sia
a Sud del confine che oggi la taglia, è un susseguirsi di pianure ed altipiani, con percorsi comodi e numerosi,
accompagnati da acque che scendono tutte verso l’Egeo. Il territorio ad Ovest, praticamente Albania ed Epiro,
è fatto di valli strette e disagevoli, un po’ somiglianti all’Appennino, e di bacini chiusi. I laghi di Prespa non
comunicano con il mare, come del resto quello di Ioannina, e il Drin nero ha aperto una via tra il lago di
Ochrida e l’Adriatico, all’altezza di Scutari, che nessuno si sogna di percorrere in tutti i suoi 335 chilometri.
Però non è mai stato un posto sperduto, anche prima che si aprisse ufficialmente la Via Egnatia nel 146 a.C.,
e il perché, a parte la mitezza del clima lacustre, secondo me sta nella transumanza.
La Macedonia, territorio più ameno, ha molti possibili percorsi per spostare il bestiame, ma l’Illiria ha biso-
gno di grandi tratturi, come l’Appennino. Se i grandi tratturi dell’Italia meridionale si iniziano ad organizzare
nell’età del bronzo, verosimilmente succede la stessa cosa sulla riva opposta. E il percorso tratturale più evi-
dente parte dalla spiaggia di Apollonia (in parole povere la pianura di Fier e Kavaje) e risale la valle del Ge-
nesso, in albanese Shkumbini, fino al passo, che a stento raggiunge i 1000 metri, da cui si scende al lago di
Ochrida, a 680 metri. Se i pascoli non bastano, e se fa troppo caldo, si può proseguire per la pianura che sta
a Nord del lago grande di Prespa. Altimetria non irresistibile, spazi ampi, le poche strettoie facilmente aggi-
rabili dalle greggi. Naturalmente nelle vie aperte dalle pecore poi possono passare anche muli e cavalli, che
affronteranno in modo diverso le stesse curve, creando piste più gradite agli uomini. Proseguendo il percorso
si fa più difficile, e forse le pecore non sarebbero bastate a creare una via, ma credo che ci abbia pensato
Filippo II, trecento anni prima della sistemazione romana dell’itinerario, chiamato Via Egnatia, che venne in
fondo ai suoi domini a fondare Lyncestis.
Non so se nelle trattative grecomacedoni di amicizia i Greci abbiano chiesto di sbattezzare come a Skopje
la statua di Filippo II che domina l’ingresso al corso di Bitola, ma se lo hanno fatto non hanno avuto successo
perché Bitola (Monastiri) non è che l’esito di una stratigrafia orizzontale che inizia con Lyncestis e prosegue,
due chilometri più a nord, con la città moderna. Il diritto dei cittadini di Bitola alla statua al loro fondatore
era indiscutibile! Comunque sia, Lyncestis è allo sbocco della via che viene dai laghi di Prespa, ed è l’inizio di
un percorso facilissimo che passando da Edessa arriva a Pella. La Via Egnazia lo ottimizzò e vi collegò Durazzo,
che aveva l’approdo migliore della costa adriatica. E Lychnidòs si ritrovò in una posizione strategica. È degno
di nota, e dopo questo finisco di fare l’archeologo pedante, che la Via Egnatia non attraversa Lychnidòs –
Ochrida. Non è come a Sepino, tanto per intenderci, dove la città fu posta sul tratturo e ancora oggi le pecore
attraversano i ruderi del foro. La città antica stava sulla collina davanti al lago, e la strada passava alle sue
spalle, ma ciò non riduceva le possibilità del suo controllo.
L’idea del tratturo mi pare rara in bibliografia. Mi sono divertito a formularla sull’atlante, e a verificarla dal
finestrino di un autobus. L’autobus è il mezzo migliore di viaggio per chi si trova in un paese sconosciuto, e
vuole esaminare la gente e i paesaggi. Quando dico che un percorso tratturale supera tutte le difficoltà di
percorso lungo la valle dello Shkumbini ma non quelle tra Prespa e la pianura di Lyncestis o Bitola, riferisco
l’opinione che mi sono appena fatto. La regalo a storici e topografi antichi. Ne facciano l’uso che credano.
Da archeologo però, mi sono trovato, dal finestrino dell’autobus, a occuparmi contemporaneamente di
archeologia tratturale e di archeologia industriale. Le ferrovie albanesi create da Enver Hoxha, di cui sono
rimasti in funzione per il solo traffico merci i pochi chilometri dal confine montenegrino a Scutari, avevano
coperto l’intero territorio nazionale. Lungo la valle dello Shkumbini ne correva una, che raggiungeva il lago
di Ochrida. Non Ochrida ma Pogradec, sulla riva opposta, da cui hanno tolto ogni traccia di sedime. Binari
sommersi dalla vegetazione, viadotti in cemento armato che si sgretola, milioni per adeguarli agli standard
europei che nessuno mai spenderà. Un monumento al dittatore diffuso per tutta l’Albania.
Finisco sul lago di Ochrida con l’immagine dell’uscita delle acque del lago per formare il Drin, a Struga. Presa
dal tavolino di un bar all’aperto, mentre litigavo con una revisione balcanica del caffè freddo. Atmosfera
rilassata, come il Rodano a Ginevra.
Ho anche la foto del passaggio dello stesso fiume dalla periferia di Scutari, ma mette tristezza.
18. Un'altra statua

16 agosto

Domando a Guido Carpi: come ti spieghi che Pushkin e sua moglie siano così popolari a Podgorica, nel
Montenegro, da averci le statue di bronzo sul viale davanti alla Galleria nazionale e a fianco della Banca cen-
trale? Comunque, se volete sapere che non solo Skopje, ma tutti i Balcani, da Metsovo in su, amano le statue
per le vie, quale prova migliore di questa?

Guido Carpi Forse per le stilizzazioni fatte da Pushkin su temi dei canti popolari serbi? (Pesnizapadny-
chslavjan).
Angelo Ardovino in ogni caso, visto che parlando di Pushkin vengono in mente cavalieri e cavalli di bronzo,
beccatevi la statua che sta di fronte, in stile retorico ufficiale, che però qui è doverosa: Re Nicola. Il bisnonno
a cavallo dello sparatore di Cavallo.
19. La gente dei laghi dei Balcani

17 agosto

In genere non amo sentir parlare di razze, stirpi, e simili, non perché non si possano descrivere le differenze
tra un tipo umano e l’altro, ma per lo scombinìo culturale che ciò comporta. Il razzismo vero e proprio, cioè
l’associazione di un tipo fisico a una cultura o a una società, in realtà è più raro di quanto si creda, al di là
delle battute da bar e di certe improvvisazioni alla “giornalista padano”, ma indubbiamente c’è troppa con-
fusione. Ad esempio va di moda indagare il passato con il DNA mitocondriale. Può andar bene per gli albori
dell’umanità, ma non negli ultimi cinque millenni, cioè da quando è chiaro che in quasi tutte le società si
discenda di padre in figlio, mentre il DNA mitocondriale si trasmette in linea femminile. Se Romolo rapisce
una Sabina e la feconda, i figli avranno il DNA della mamma, ma saranno Latini come il padre. Sottovalutando
questi ed altri dati, si sono creati pessimi romanzi storici da parte di ricercatori che, pur provvisti delle dovute
lauree scientifiche, sono di un’ignoranza crassa in storia, e hanno pure l’impudenza di collegare a tutto ciò
l’origine delle lingue.
Perché questo sproloquio? Perché l’origine dei Bulgari, quindi dei Nord Macedoni, in genere viene presen-
tata secondo i peggiori stereotipi. I Bulgari sarebbero l’incontro di Slavi, Traci (che è un modo elegante di non
nominare i Greci, dato che la Tracia era totalmente ellenizzata dall’inizio del III sec. a. C.) e Protobulgari (at-
tenti quando trovate scritto proto davanti al nome di un popolo: la cretinata è in arrivo), popolazione iranica
proveniente dal Volga. L’errore è plateale, dato che i popoli iranici del Volga non esistono, ma serve a na-
scondere l’imbarazzo di avere antenati dagli occhi a mandorla, magari non proprio come i Cinesi, ma come
quei tali che si vedono nei reportage da Astana. Invece è proprio gente così a dare nome ai Bulgari, avventu-
rieri che assumono il comando di una massa di Slavi e poi di contadini grecofoni, né più né meno di come i
Normanni (che abbiamo visto arrivare fino ad Ochrida) prima danno il nome alla Normandia e poi, secoli
dopo, latinizzatisi, a tutti gli eserciti di cui si trovano a capo, formati da Francesi, Inglesi e Italiani. Ma ciò non
fa i Bulgari geneticamente meno Europei di noi. Se mai è il contrario. In genere si ritiene conclusa la nascita
del popolo bulgaro al tempo del regno di Asparuh, nel VII secolo, ma l’Italia è piena di notizie più antiche che
ci parlano di Bulgari. La Regione di Bolgare nel Novarese, i "cipressi che a Bolgheri alti e schietti", il monte
Bulgheria, che divide in due il Cilento, ricordano le terre date ai Bulgari venuti al seguito dei Longobardi; ci fu
pure un’assegnazione di terre nel Sannio, tra Boiano e Sepino. È probabile che le avanguardie con gli occhi a
mandorla siano finite in Italia, lasciandoci i loro geni. Nessun Greco o Albanese le addossi per polemica ai
Bulgari: ce le prendiamo noi. Pace.
In realtà l’impero romano, come ogni società schiavista, ha provocato la totale dispersione dei fenotipi
iniziali e il crogiuolo genetico. Trovi dappertutto gli stessi tipi, e tutti ben mischiati. Raramente sono soprav-
vissuti, e nelle aree più isolate, dei tipi puri, tra cui però c’è un tipo balcanico che ha in Nord Macedonia una
frequenza maggiore che da noi o in Grecia. Lo potete vedere nelle nostre città tra gli immigrati rumeni. Ma
attenzione, non traetene conclusioni affrettate. Ricordatevi sempre che le linee patrilineari e matrilineari
sono indipendenti, e che storici e genetisti hanno il difetto di non tenere abbastanza conto delle corna. Tutti
questi popoli che convivevano in piccole comunità nello stesso spazio, Bulgari, Serbi, Albanesi, Valacchi,
Greci, e poi in un secondo momento anche Ebrei e Turchi, si sono mescolate in tutti i modi possibili e imma-
ginabili, anche se restavano separate le lingue e poche altre cose.
So di essere stato un po’ noiosetto, stavolta. Perdonatemi, ma era necessario. C’è una tendenza a parlare
di stirpe che ogni tanto riaffiora, soprattutto tra Greci ed Albanesi, e mi è parso opportuno non passare sotto
silenzio il problema, e di chiarirlo, per quel che posso, servendomi di queste antiche avanguardie partite dal
Volga e finite nel Matese, che ormai non danno più fastidio a nessuno.
20 Il lago triste

18 agosto

Tutti i laghi che ho visitato (Ioannina, Kastoria, Prespa, Ochrida) sono in quota, e sono posti ameni. Tranne
l’ultimo, il lago di Scutari, che dovevo comunque raggiungere per completezza. Mi accorgo adesso che è an-
che l’unico lago che non ha nulla di greco, perché Ochrida, anche se l’ultimo Greco vi fu scacciato dai Turchi
tre secoli fa, ha l’aria piena di Grecia. Scutari però dista 200 chilometri dalla frontiera greca, e Podgorica è
alle sue spalle. Fanno parte di un mondo diverso cui si dovrebbe fare più attenzione.
Il lago di Scutari è il lago più grande dei Balcani, ed è anche più grande del lago di Garda. Ma mentre guardi
il Garda e vedi le onde e la gente che fa il windsurf, guardi il lago di Scutari e vedi un enorme stagno. Per
carità, qualche posto con un po’ di costa c’è, ma il tono lo danno le rive paludose e la superficie delle acque
piene di vegetazione. Ho anche visto un pescatore che aveva steso sul marciapiede le sue carpe. Ma, con il
mare a pochi chilometri, interessano poco. Così Scutari è costruita a distanza di sicurezza, lontana dagli ac-
quitrini, e non vive un rapporto con il lago. Al massimo Il suo emissario, il Boiana, ne lambisce la periferia.
Vale però la pena di darle un’occhiata. L’Albania è un paese povero, che ha messo decenni per riprendersi
dalle condizioni di miseria in cui l’aveva ridotta il regime di Hoxha, che mirava a tenere bassissimo il tenore
di vita della gente in nome della purezza rivoluzionaria e dilapidava quattrini in opere pubbliche di pessima
qualità, ormai da smantellare, come le ferrovie di cui si è parlato. La povertà c’è ancora, e si vede nelle brutte
case popolari ancora in uso, che nessuno si sogna di abbattere. Però girando non vedi quei continui cartelli
SI LOCA, o in Grecia ΕΝΟΙΚΙΑΖΕΤΑΙ, che affliggono le nostre passeggiate. Scutari è fatta così: si respira la cer-
tezza che le cose possano migliorare. E poi, concedetemi una volta tanto una punta di sciovinismo, è bello
muoversi in una città in cui tre abitanti su dieci capiscono l’italiano. Sarà per la televisione, sarà perché la
maggioranza è cattolica romana ed i preti studiano tutti in Italia, ma se uno non ti capisce ti capirà il suo
vicino. Sono passato sul sagrato della Cattedrale prima di un matrimonio, mentre la sposa stava facendo
fotografie. Le ho gridato: Auguri!; mi ha sorriso e risposto: Grazie!
A proposito, merita una nota il cattolicesimo di Scutari. Da Italiano sono abituato agli Italo-albanesi cattolici
greco-orientali, che dicono messa in greco come i loro avi, e conducono una politica di amicizia con il patriar-
cato di Costantinopoli che ha provocato le proteste di chi, soprattutto a Piana degli Albanesi, l’ha giudicata
eccessiva. Qui sono Cattolici Romani come nel resto del mondo. La sola frase greca che ho sentito durante la
messa in Santo Stefano, cattedrale brutta ma grande, in cui puoi respirare a pieni polmoni come in una cat-
tedrale cattolica, è kyrie eleison; ma l’avrei sentita anche a Milano in una messa di rito ambrosiano. Furono i
Cattolici di Scutari, imparzialmente perseguitati da Hoxha con gli Ortodossi e i Musulmani, a guidare la rivolta
contro il regime che aveva inserito l’ateismo nella costituzione. Un po’ come accadde in Lituania, all’interno
dell’Unione sovietica, e a Danzica, nel cosiddetto “impero esterno”. Sempre i Cattolici a cominciare. La Messa
in Santo Stefano il 4 novembre 1990 fu il segnale per tutti i credenti albanesi, di ogni religione, che l’ateismo
di stato era fallito e ci si poteva riprendere la libertà.
Da allora tante cose sono cambiate, e i petrodollari che arrivano dai paesi arabi hanno riempito tutto di
candidissimi minareti e moschee, tutte uguali e tutte vuote, ma questo candore dà una nota insolita al pae-
saggio urbano di una città cattolica. Poco male, il ricordo della lotta comune contro l’ateismo rende tutti più
tolleranti. Sicché la fotografia simbolo di Scutari può essere questa immagine di repertorio, con la statua di
Madre Teresa (praticamente l’unica statua che c’è) sullo sfondo della moschea di Ebu Bekr, che Hoxha aveva
fatto saltare in aria. Dinamite. La strada vicina è intitolata a Teuta, regina degli Illiri sconfitta dai Romani. Così
siamo tutti d’accordo.
Credo che sia anche necessario far vedere cosa sia il Boiana, appena uscito dal lago, alla periferia di Scutari,
poco prima della confluenza nel Drin. Devo farlo perché foto aeree, scattate da particolari angolazioni, danno
un'immagine idilliaca dei luoghi. La realtà è questa: acqua stagnante, alghe, buste di plastica. Scutari non ama
i suoi fiumi, e nemmeno le sue periferie.

Non vorrei aver dato l'impressione di accusare Hoxha di parzialità perché ha fatto saltare la moschea mag-
giore con la dinamite e invece la cattedrale cattolica l'ha soltanto chiusa. Se c'è una colpa, è dei Turchi, che
misero le moschee nei posti migliori e consentirono le chiese cristiane nei peggiori. È chiaro che, urbanistica-
mente parlando, erano le prime a rischiare di più.
21. Una città normale

20 agosto

L’ultima tappa di un viaggio per i Balcani non può che essere Podgorica (mi raccomando, Podgorìzza, con
l’accento sulla i), non solo perché sta un po’ oltre il lago di Scutari, ma perché la visita di Podgorica è il neces-
sario contraltare a quella di Skopje. E in effetti non reca sorprese: la città sta a monte delle torbe e delle
paludi che la separano dal lago, e non mi pare che ambisca a stabilire con lui un rapporto più stretto: e, dopo
le follie architettoniche e urbanistiche skopjane, fornisce una gradita razione di normalità.
Intendiamoci, i palazzi del potere ci sono, ma nella misura in cui ci devono essere in un piccolo capoluogo
di regione. Sono gli stessi degli anni in cui il Montenegro era una repubblica federale della Jugoslavia, un po’
più di una regione, molto meno di uno stato, e gestiva dignitosamente un’onesta povertà. Certo, hanno fatto
un ponte con uno strallo inutilmente vistoso, ma forse l’avrebbero fatto lo stesso se la città non fosse diven-
tata capitale. Più che altro hanno cambiato le targhe con i nomi degli uffici, lasciandole ancora in cirillico, in
attesa di decisioni ufficiali, tranne la banca centrale, che ha già optato per il latino. L’impressione generale è
piacevole, ma scontata: le solite chiese, le solite moschee tra le viuzze turche, la solita torre dell’orologio,
che non manca mai nelle città balcaniche con le due religioni, per ragioni che potete facilmente immaginare,
soprattutto se vi ricordate Don Camillo e Peppone.
Ci sono però le ambasciate. Eh sì, perché uno stato sovrano deve avere le ambasciate: così gli stati chiudono
uffici consolari in città molto più importanti, perché Internet li ha resi inutili, ma aprono ambasciate a Pod-
gorica. La più appariscente è quella tedesca, ma il mio è un bilancio provvisorio, non ne trarrò conclusioni
affrettate. Ma, facendo attenzione alle ambasciate, mi sono trovato davanti a un fatto un po’ curioso, ma
anche un po’ triste, lo scambio di ambasciatori tra una plaga e l’altra dell’ex Jugoslavia. Che spesa! Mi è parsa
emblematica l’ambasciata della Nord Macedonia: il secondo piano di un palazzo di quattro, sopra un grande
magazzino. Per il Montenegro non ci si poteva permettere di più. Magari spendendo un po’ meno a Skopje si
poteva affittare qualcosa di meglio ma, che volete, è andata così.
Ma la cosa che ho trovato più curiosa è il recupero vintage di Tito. D’accordo, Tito non è mai stato detestato
come Hoxha o Ceausescu, ma era pur sempre un dittatore, e c’era chi aveva paura di lui. Molti Serbi ne hanno
decretato la fine perché era Croato, molti Croati perché aveva concentrato il potere a Belgrado. Cosa volete,
a questo mondo come si fa si sbaglia. Un pochettino di damnatio memoriae era inevitabile, e c’è stata.
L’esempio più evidente è proprio Podgorica, beneficata dal regime titino che l’aveva fatta capoluogo del
Montenegro al posto di Cettigne, arroccata sui monti, ma ribattezzata Titograd. Podgorica, capitale o no, ha
rivoluto il suo vecchio nome, e lo ha ottenuto. Tutto normale, però c’è un però.
Nelle zone del paese in cui non c’era odio per Tito, e comunque in quelle lontane dalla grande tragedia che
colpì la Jugoslavia dopo la sua morte, e che in tanti attribuirono ed ancora attribuiscono ai suoi sbagli, c’è
stata un po’ di difesa toponomastica. Ad Ochrida la gente festante passeggia sul lungolago che ancora porta
il suo nome. A Podgorica, malgrado tutto, Tito ricorda un periodo felice, e così Titograd. Sicché uno dei locali
del centro si chiama come la vecchia città, e - perché no? - strizza anche l’occhio al vecchio maresciallo.
22. Ma i Greci, che fine hanno fatto?

21 agosto

In questo viaggio diviso tra la Grecia e i paesi alle sue spalle, è un po’ che non parlo di Greci; torno a farlo
adesso, ma non parto dai laghi dei Balcani che ho visitato, ma da più a Nord, dal Danubio.
A Vienna, vicino all’antico porto canale della città, una strada si chiama griechische Gasse, la via dei Greci.
Ci si immagina traffici medievali in cui mercanti greci risalivano il Danubio nei barconi, ma i Greci più vicini
stavano sul Mar Nero, un po’ troppo lontano. Però a metà strada c’era una città che i Tedeschi chiamavano
griechisch Weissenburg, la greca città bianca. Posta su una collina alla confluenza della Sava nel Danubio,
nell’immaginario nordico Belgrado, la città bianca, era greca. I barconi partivano da lì. Intendiamoci, non che
ci fosse una colonia greca particolarmente numerosa. È che i Tedeschi avevano difficoltà a distinguere i Greci
dagli altri popoli cristiani dei Balcani, così come gli Italiani avevano difficoltà a distinguere i Greci dagli Alba-
nesi: stesse usanze, stessa messa e stessi santi, stessi baffoni e vestiti simili; anche la stessa lingua, perché le
diverse etnie comunicavano tra di loro in greco, che così aveva il primato sulle altre, ed era la più nota.
Nei Balcani tutti i popoli convivevano, creando un viluppo saldissimo, ma la lingua greca, e chi la parlava,
avevano una primazia. Ricordo (ne ho già parlato) che le società segrete in cui si muoveva Rigas Fereos si
proponevano di costituire una grande Εταιρική δημοκρατία, curioso nome che indica nel greco del Sette-
cento la repubblica federale, con tutti i popoli dell’area uniti sotto il pacifico predominio linguistico e culturale
greco. E lo stesso obiettivo se lo poneva qualche anno dopo Daniil Moschopoleanu, autore di un famoso
dizionario poliglotta. Questo equilibrio si ruppe sicuramente per colpa degli Europei occidentali. Avevano una
visione idealizzata delle cose ispirata dai classici e ignoravano la realtà balcanica. Si ostinavano a vedere nei
Greci con cui avevano a che la nobile stirpe degli Elleni, ma questa idea, buona per le accademie letterarie,
trasmessa ai loro amici greci, li indusse a separare la loro sorte da quella delle altre popolazioni balcaniche.
Sorse un’antipatia reciproca, alimentata dai comportamenti “europei” dei re bavaresi e danesi capitati alla
Grecia, ma soprattutto, non riuscendo né il minuscolo regno di Nafplio e poi di Atene, né il Patriarcato ecu-
menico di Costantinopoli, che era ancora il centro propulsore della cultura e della lingua greca, a sostenere
un’idea di fraternità balcanica, l’interesse per la lingua greca venne meno. Del resto, era diventato insoppor-
tabile il peso della lotta tra lingua dotta e lingua del popolo dopo l’invenzione a tavolino della katharevoussa,
che fallì gli obiettivi di conciliazione per i quali era stata creata. L’Albanese, il Valacco, il Bulgaro che volevano
imparare il greco dovevano sapere tre lingue diverse. E iniziarono a cercare altri sistemi di comunicazione. Le
guerre russo-turche, che misero i popoli dei Balcani l’uno contro l’altro, le guerre balcaniche, la guerra mon-
diale ed altro ancora, fecero il resto. Oggi di questa secolare presenza greca non resta più niente. Natural-
mente le lingue balcaniche sono piene di prestiti greci (è bello ad esempio accorgersi che in bulgaro/ mace-
done mille si dice chiliada), ma non c’è più nessun interesse per la lingua greca. Intendiamoci, non ho neppure
trovato sentimenti antiellenici, come farebbe pensare certa propaganda che alle volte filtra dalla Macedonia
e dall’Albania e che in realtà la gente non ama, e di cui farebbe a meno. Ma sulla Grecia è scesa la cappa
dell’ignoranza. A Ochrida, che fu un centro di cultura greca quasi quanto di cultura slava, è più facile farsi
capire con il turco che con il greco. Il quartiere principale del centro reca ancora il nome bizantino di Meso-
castron, ma quando ho detto che era un nome greco, i miei interlocutori sono caduti dalle nuvole. Chiarisco:
non hanno fatto finta di non capire, come facevano una volta certe vecchiacce sudtirolesi con l’italiano, non
hanno capito davvero. Certe cose bisogna viverle, per valutarle. A Bitola, con la frontiera a 20 chilometri, è
diverso. Il mio albergo si chiamava El Greco. Vengono da Florina dal dentista, o a comprare gioiellini d’ar-
gento, e chissà cos’altro ancora, e i commercianti e i camerieri dei ristoranti si adeguano. C’è persino, sul
corso, un signore che vende il ”vero gyros di Milo”. Gli ho chiesto in greco se fosse di Milo, si è messo ridere
però mi ha risposto: όχι.
Dal punto di vista umano c’è speranza, da quello linguistico no. L’antica fraternità è perduta. Ma la cosa più
triste è che ai Greci della perdita di importanza della loro lingua oltre le loro frontiere non gliene frega proprio
niente. Magari si crogiolano con quella solenne cretinata dell’affinità con la Magna Graecia (sì, è una solenne
cretinata. Lo dico da archeologo con numerosi titoli sull’Italia meridionale) ma non rimpiangono la grande
occasione che la storia aveva offerto alla lingua greca, e ai Balcani.

Dialoghi con i lettori

Francesca Sakellaridi La Grecia ha scelto, oppure è stata obbligata a scegliere, di girare le spalle ai Balcani
durante la guerra fredda. C'è stato un momento, forse, negli anni '90 e '00 che c'erano imprese e banche
Greche nei paesi confinanti e persino in Turchia, e ci sono tantissimi immigrati che vivono e lavorano da de-
cenni in Grecia e parlano il Greco meglio di noi. Loro e i loro figli forse ritorneranno ai loro paesi di origine a
causa della crisi.
Angelo Ardovino Anche questo è vero. In realtà la politica russa dell'Ottocento, che consisteva nel mettere
gli ortodossi tutti contro i Turchi ma l'uno contro l'altro è la peggior cattiveria che la Grecia abbia subito. Ma
a voi Greci non dovrebbero interessare le cattiverie che gli altri vi hanno fatto, ma gli errori che avete fatto
voi. Dalle prime non avete nulla da imparare, dai secondi sì.
Francesca Sakellaridi Ma noi Greci siamo troppo impegnati a fare la guerra tra di noi per arrivare a pensare
ai nostri sbagli.
Guido Carpi Angelo, i Russi, nella seconda metà dell'Ottocento, pensavano al panslavismo e a Costantino-
poli. I Greci rompevano solo i coglioni. NB: nella prima metà, con Capodistria e altri, non era così.
Angelo Ardovino certo, ai tempi di Capodistria era differente, ma poi capirono che dovevano mettere i Bul-
gari contro gli altri, per evitare che divenissero troppo potenti, e poi una cosa tirò l'altra. Ch'amma fa'?
JanCasalicchio Da appassionato ma non esperto di storia, mi chiedo se nella separazione tra Greci e altri
popoli balcanici non abbia giocato un ruolo primario anche il panslavismo proveniente dalla Russia - o magari
quest'ultimo è stato piuttosto una reazione al distacco della Grecia?
Angelo Ardovino Il panslavismo russo ha in realtà messo tutti i popoli dell'area l'uno contro l'altro. Tutti
erano Slavi, o almeno ortodossi, ma i Russi erano più Slavi e Ortodossi degli altri. Così va il mondo
Francesco Rubat Borel Il fatto è che da Romei li hanno fatti diventare Elleni. Ciò ha tolto quindici secoli di
storia tra Balcani ed Anatolia, ha scisso i rapporti con gli slavi, i valacchi e gli albanesi (che pure erano fonda-
mentali nella lotta per l'indipendenza) e in più ha favorito l'instaurazione di un arcivescovado di Atene gio-
cando sul fatto che quello di Costantinopoli era sotto i Turchi.
Angelo Ardovino Già, è andata così. Da grande potenza a popolo di albergatori. I Greci sono stati vittime di
questo, ma se senti parlare anche persone colte, ignorano l'argomento e sfogano il loro vittimismo su argo-
menti falsi o insignificanti.
Francesco Rubat Borel E soprattutto da grande potenza culturale a museo malandato. Rifiutando l'eredità
bizantina (che fu dileggiata o regalata alla Russia, che non aspettava altro) per tornare a una remotissima
eredità ellenica, ormai fatta propria dall'intera Europa che di questa si pasceva da cinque secoli, hanno fatto
la figura dei parenti poveri che sono rimasti al paesello con tre capre, dove è bello tornare per le vacanze e
poi di nuovo a casa, in città.
Francesco Rubat Borel Anche l'Italia unita per anni volle essere una nuova Italia, al più rifacendosi al Rina-
scimento. Quando poi ritirò fuori l'antica Roma, l'Impero ecc. è finita male, da Adua a Dongo.
Angelo Ardovino Un mio amico era ad Atene nel 1974, quanto i Turchi, approfittando di gravissimi errori
fatti dai colonnelli, subdolamente spinti da Kissinger, occupavano Kyrenia e Ammochostos. Invece di dire
"quanto siamo stati coglioni", la gente diceva: “C'è la guerra, stavolta arriveremo alla Polis”. Ma restiamo ai
Balcani.
23. carte geografiche e bandiere folli. Prima la Macedonia del Nord

22 agosto

Per trarre le conclusioni del mio viaggio, devo esaminare le posizioni ideologiche dei vari paesi che ho at-
traversato, pericolose per la pace. Le conoscevo già, ma ho cercato di verificarle parlando con la gente o, più
semplicemente, guardandomi intorno. Inizio dalla Macedonia del Nord, poi verrà l’Albania, infine la Grecia.
Devo dire che non ho trovato traccia, neppure a Skopje, sulle bancarelle dei rigattieri lungo il Vardar, delle
famigerate carte geografiche della Macedonia unita, fino al mare, che circolavano una volta anche sul web.
Neppure sul web le ho trovate: naturalmente qualcuno che avrà più tempo e pazienza di me le troverà, ma
è fuori di dubbio che c’è stato un lavoro di rimozione. Dato però che la cosa è importante, ne pubblico la
prima versione, che fu copiata e semplificata una trentina d’anni fa, quando i veti greci all’uso del nome
scatenarono il nazionalismo slavo. È un documento che risale al 1913, e fu accluso a una nota destinata alla
diplomazia internazionale chiamata Mémorandum consérnant (sic) l'indépendance de la Macédoine, pubbli-
cata da un agitatore locale, Dimitrija Čupovski, e dalla società patriottica che aveva costituito.
La Macedonia di Čupovski comprende per intero l’attuale Nord Macedonia, quella greca tranne la zona di
Ekaterini e l’Olimpo, un po’ di Albania e anche una buona fetta di Bulgaria meridionale. Redatto durante la
guerra balcanica, pare soprattutto una pugnalata alle spalle della Bulgaria, che invece si aspettava l’aiuto
delle popolazioni bulgare locali per ricostruire l’unità nazionale. A me pare che Čupovski, più che un patriota,
fosse un agente della Russia, a cui una Macedonia indipendente che limitasse le ambizioni di Serbia, Bulgaria
e Grecia andava benissimo. E che fosse un agente russo lo dimostra il fatto che, finita la guerra balcanica,
essendo ormai persona sgradita in Serbia, Bulgaria e Grecia, non si rifugiò, come facevano gli esuli di ogni
parte del mondo, a Londra, New York o Parigi, ma a San Pietroburgo. Lì visse il resto della sua vita, realizzando
il suo capolavoro politico riuscendo a evitare tutte le purghe staliniane, dato che morì a Leningrado nel 1940.
Il memorandum e la carta erano una provocazione, destinata a impressionare una diplomazia disposta a
farsi impressionare, ma è fuori dubbio che Čupovski non lo firma da solo: trova un gruppo di letterati e patrioti
disposti a sottoscriverlo. Dunque una frattura tra la Bulgaria e le sue province occidentali si era già aperta, e
i firmatari, che non potevano essere tutti agenti zaristi, pensavano di essere dei patrioti macedoni e non dei
traditori bulgari.
Čupovski non ha lasciato una grande eredità, anche se gli hanno fatto una statua a Skopje (ma a chi non
l’hanno fatta?), perché non era difficile capire che fosse un agente russo. Però è servito a far circolare già dal
1913 la nozione di Macedonia unita ed indipendente, e anche a proporre una rivendicazione dei territori
dell’Egeo, che fu ripresa nei momenti di maggior tensione da alcune teste calde, ma che non ha un seguito
popolare, come non ce l’ha in Grecia l’idea di occupare altre terre. La ristampa della sua cartina fu una bra-
vata, non una vera minaccia. Non se ne parli più.
Se però la nozione di Macedonia unita ed indipendente circola dal 1913, e quella di lingua macedone dal
1903, come ho detto a suo tempo, come giudicare la propaganda greca che ha raccontato per decenni che la
Macedonia fu un’invenzione politica di Tito? E come pensate che i Macedoni del Nord abbiano valutato quei
Greci che pretendevano che la loro terra si chiamasse Vardaraska?
In realtà non si tratta solo di malafede, che pure in certi casi era evidente, o di crassa ignoranza. Perché i
diplomatici greci hanno ripreso per anni la favola di Tito, sapendo benissimo di fare una brutta figura con i
loro colleghi, in grado di documentarsi diversamente in breve? Perché in Grecia era iniziato un gioco al rialzo
sul nome della Macedonia, che aveva coinvolto tutti i partiti. Nessuno aveva il coraggio di andare contro
l’andazzo, che fu innescato, bisogna ricordarlo, da Antonis Samaràs, che in Italia certi filelleni e i narratori
della storiella di Tito che si inventa la Macedonia hanno difeso fino all’ultimo.
Delle motivazioni greche riparlerò. Qui aggiungo una nota su come i Nordmacedoni hanno vissuto il veto
greco all’uso del nome, che, credo, li colse di sorpresa, dato che essi, dando alla repubblica indipendente lo
stesso nome della precedente repubblica federale, avevano solo ripetuto la prassi delle altre repubbliche
della ex Jugoslavia, e pensavano che se alla Grecia non piaceva il nome di Macedonia per la loro terra, aveva
avuto decenni a disposizione per farlo presente. Ci fu perciò una reazione nazionalista, di cui si leggono an-
cora le tracce in certe truci pagine web, in cui si parla di Greci che occupano la Macedonia egea (certo, ci
furono profughi da tutte le parti!) o che hanno agito nei secoli contro la chiesa di Ochrida. Gente così in giro
ce ne sarà ancora, ma è difficile vederne le tracce. Caduto il governo conservatore, lo stesso che ha realizzato
la Skopje monumentale, hanno perso spazio. Anche la nuova Skopje, anche se a me è parsa un dispetto più
a Belgrado che ad Atene, rientrava in un disegno di rafforzamento dell’identità nazionale che i Greci avevano
stimolato.
Acqua passata, adesso? Parrebbe di sì: in ogni caso non ho visto odio in giro, nemmeno quando ho fatto la
prova di mettermi a parlare in greco. Meglio il greco in Nord Macedonia che l’italiano con certe vecchiacce
del Brennero. Ed è meglio così, perché altre nubi si addensano, come dirò nella mia prossima divagazione.
24. Carte geografiche e bandiere folli. Poi l’Albania

23 agosto

Per un Italiano che viaggia per i laghi dei Balcani, e che è abituato a pensare agli Albanesi come una tran-
quilla diglossia italiana, con gente che in parte si complica la vita con l’adesione a riti cristiani orientali, e in
parte, all’estremo opposto, sa solo di avere un cognome albanese ma non ha alcun interesse alla lingua o alla
patria degli avi, gli Albanesi sono una sorpresa. Nei laghi dei Balcani gli Albanesi sono dappertutto, o hanno
lasciato una memoria concreta e tangibile. Albanesi al 100%, non il frutto di compromessi con i paesi che li
contengono, come gli Arbëreshë o gli Arvaniti.
Hanno una storia difficile, perché nei secoli hanno sempre vissuto in simbiosi con i loro vicini. Hanno lottato,
sacrificando i loro uomini migliori, come Markos Botsaris, per l’indipendenza della Grecia come se fossero
Greci, pensando a un avvenire comune. Non che sia stato tutto rose e fiori. Bande di Albanesi, spinte dai
Turchi, che le usavano in Europa come manovalanza militare allo stesso modo con cui in Asia usavano i Curdi,
si macchiarono dei massacri di Otranto, di Mistrà, di Moschopoli. Ma nel complesso gli Albanesi diedero un
esempio di convivenza su vasta scala. Nell’Ottocento il modello entrò in crisi, perché i Greci perseguivano un
ideale di nazione che li tagliava fuori e accettarono di ellenizzarsi; perché gli Italoalbanesi si accorsero che la
lingua era destinata a morire se la sua scrittura non diventava patrimonio comune albanese, e per tante altre
ragioni. Così nel 1909 a Bitola si riunirono rappresentanti di tutte le comunità albanesi, stabilendo che la
lingua andava scritta in alfabeto latino, rompendo ogni legame con i Greci e con i Turchi, adottando – con
modifiche - la grafia elaborata da Girolamo De Rada, grande letterato arbëreshë, cosentino. Subito dopo
scoppiò la guerra balcanica, al termine della quale gli Albanesi pretesero un loro territorio. Furono acconten-
tati, ma solo dopo che i vicini ebbero fatto la parte del leone. Quelli che rimasero fuori dai confini si accorsero
di essere una minoranza. A volte la minoranza è diventata, sanguinosamente, una maggioranza autonoma,
come in Kosovo, a volte, come in Macedonia, ha assunto la forma della minoranza organizzata.
La guerra del Kosovo però ha ridestato ambizioni folli. Copio dal web, non essendo riuscito a fotografare
l’originale, che si vendeva in mezzo ad altri souvenir in una bancarella di Scutari sotto forma di bandiera da
fare sventolare, questa carta dell’Albania come la si vorrebbe. Annessione del Kosovo, di mezzo Montenegro,
di mezza Nord Macedonia, di Corfù e dell’Epiro fino a Preveza. Hanno aggiunto anche Bitola, che in precedenti
cartine mancava.
Non fraintendetemi, è evidente che oggi la maggior parte della gente giudichi come estremisti da evitare
quelli che usano una carta del genere. Ma essa c’è, e può essere sventolata come bandiera. E può diventare
pericolosa, se c’è qualcuno interessato a farla sventolare. Nel mondo è capitato che stravaganze anche più
grosse di questa siano diventate negli ultimi anni prospettive politiche concrete, se ciò interessava a qual-
cuno. Fatevi da soli gli esempi.
In questo caso chi è interessato c’è. L’ho già detto da Ochrida ma è passato inosservato. Mi ha risposto un
Arbëreshë dotto, che mi ha dato ragione, ed un tizio che fa lunghi sproloqui in un italiano incerto, che do-
vrebbe avermi dato torto. Da allora ho attraversato l’Albania, ed ho avuto conferma dei miei timori.
Negli ultimi anni l’Albania si è riempita di candide moschee al posto degli edifici distrutti o danneggiati dal
regime ateo precedente. Si pensa che i quattrini siano arrivati dall’estero, petrodollari di chi riteneva merito-
rio ridare ai correligionari perseguitati per anni le loro moschee. Si pensa, perché tutto ciò non ha una targa
ricordo. Chi ha dato i soldi li ha dati per la gloria di Dio, non per la sua. In Nord Macedonia queste elargizioni
non ci sono state, perché non ci sono state persecuzioni religiose. I benefattori anonimi quindi non sono
intervenuti, ma interviene a restaurare moschee, con tanto di cartelli provvisori e targhe definitive, Erdoğan.
Non ha uno scopo pio, come gli elargitori di petrodollari, ma politico: saldare il revanscismo turco al naziona-
lismo albanese, nutrito principalmente dalla maggioranza musulmana. Per questo, la seconda foto che vi
allego è una targa ricordo della beneficienza turca, in Macedonia, a Ochrida. È un accostamento insolito, ma
su cui vale la pena riflettere. E, visto che ci siete, chiedetevi come debba essere considerato dal punto di vista
morale prima ancora che politico il gioco dei politici greci che per vincere le elezioni hanno soffiato sul fuoco
per trent’anni contro Skopje.
25. Carte geografiche e bandiere folli. Infine la Grecia

24 agosto

La sconvolgente carta geografica della Grecia che vi presento, con in basso le cartine storiche di passati
momenti di gloria, e la scritta incivile ΤΑ ΙΔΙΑ ΦΥΛΑΣΣΕ, “guardati in uguale misura (da loro)”, che copre gli
stati confinanti, non l’ho fotografata in una sede di Alba Dorata o in un circolo privato, ma in un luogo
pubblico, la biglietteria-sala d’aspetto dello KTEL, azienda provinciale dei trasporti pubblici, di Florina. I capi
dell’azienda non brillano di attivismo (ma questa è un’altra storia) ma sono pronti a mantenere vivo l’odio
per i popoli confinanti, Albanesi, Macedoni, Bulgari. La foto è del 31 luglio 2019, perciò la carta è illegale,
perché chiama la Nord Macedonia con il nome di Repubblica di Skopje, mentre la denominazione ufficiale è
obbligatoria nei luoghi pubblici, ma allo KTEL di Florina se ne fottono. Finché non interverrà la polizia, man-
terranno il loro appello all’odio. Ma questa carta fa capire che per molti Greci il problema è il rapporto con
tutti i loro vicini. Anche se più di ogni altra vale la questione macedone.
Essa per molti anni, da una parte e dall’altra, è affogata in puntualizzazioni e ripicche pretestuose che non
vale la pena di ricordare. Νasce dal fatto che il confine, stabilito faticosamente in guerra, è in realtà il bordo
di due contenitori di profughi, con un quadro di ferite non rimarginate, colpe non ammesse, paure che il
diritto a restare dove bene o male si è giunti in cerca di tregua venga in qualche modo rimesso in discussione.
Un confine così ha provocato, da una parte e dall’altra, una disperata ricerca di legittimità della nazione. Così
al Nord c’è stata la dilatazione del concetto di territorio come elemento fondante della nazione, come negli
U.S.A., il quale è sacrosanto e in genere serve a comporre gli estremi tra realtà diverse che stanno al suo
interno, e qui invece è stato inteso in modo scioccamente aggressivo, mentre al Sud c’è stata la sopravvalu-
tazione del concetto di stirpe. In realtà ai Greci importa poco come si chiami la Macedonia del Nord. Importa
di più che solo i Greci possano chiamarsi Macedoni. Tsipras ha indubbiamente migliorato la questione del
nome della Macedonia ma ha lasciato la possibilità che dall’altra parte del confine si chiamino legalmente
Macedoni, e per questo ha perso le elezioni.
In realtà i termini storici della questione sono che una repubblica di uno stato federale diventa indipen-
dente e conserva il suo vecchio nome, che fino a quel momento non aveva mai dato fastidio a nessuno, e
all’improvviso ciò non sta bene a un vicino. Il vicino perciò con i suoi veti accumula antipatie ed incompren-
sioni. Purtroppo questo vicino è la Grecia, che in questi anni aveva bisogno della simpatia di tutti. Ma non si
può pretendere che mentre Cina ed Iran, che pure qualche importanza politica ce l’hanno, lasciano che stati
confinanti, come Mongolia ed Azerbaigian, abbiano il nome di una loro provincia, la Grecia possa mettere
veti impunemente. E infatti ha pagato un prezzo di credibilità altissimo. Ogni volta che ho provato a spiegarlo
sul web qualche Greco mi ha bannato, e ciò conferma quanto le radici irrazionali siano penetrate in profon-
dità.
Dunque è inutile prendersela con Samaràs, che da giovane montò per il proprio tornaconto la questione
fino a renderla irreversibile, quando nessuno pensa a rimuovere le paure che stanno dietro l’odio ai vicini che
quel manifesto ci rivela. Samaràs in definitiva è solo un personaggio da dimenticare, uno che da vecchio si
attirò la disistima di tutti gli archeologi del mondo cercando di pompare una tomba a tumulo trovata a Nord
di Amphipolis come quella di Alessandro Magno, mostrando la vastità del suo disprezzo per la verità, che è
proprio di tutti i politici cattivi. Questo disprezzo lo aveva già mostrato nell’aprire la questione macedone;
Tsipras ha avuto il coraggio di chiuderla, con una scelta che gli ha fatto perdere le elezioni ma che nessuno
rimetterà in discussione e tornerà utile al paese, ed ha chiuso il problema politico. Resta però il problema
culturale, di una Grecia che ha paura a fare i conti con la propria storia moderna, e preferisce parlare di
Pericle.
Il dato paradossale è che tutti gli Alessandri e Filippi di cui a Nord avevano riempito le piazze, e che hanno
dovuto rimuovere o sbattezzare per sbloccare la situazione, e i nomi delle autostrade, e tante altre cose che
sono state oggetto di frizione, in un contesto diverso avrebbero potuto essere uno strumento di amicizia. Se
il completamento e la gestione dell’autostrada da Salonicco a Skopje fossero il frutto di un’iniziativa coordi-
nata, magari finanziata dall’Europa che ama molto le collaborazioni tra i vicini, quale nome le sarebbe più
adatto di Alessandro? Si potrebbe mettere al confine, tra Gevghelia e Idomeni, una statua che guardi in dire-
zione di Gaugamela, dove Alessandro divenne il padrone del mondo. Magari trasportandovi quella che
adesso sta a Skopje, purché si lascino sul posto tutte le fontane e fontanelle che le sono collegate, che danno
allegria a una delle piazze più stravaganti del mondo.

Dialoghi con i lettori

Savvas Vassilios «Τα Ιδια φυλαττε» fa parte degli antichi ‘Ordini di Delfi’ ‘ Δελφικά Παραγγέλματα ’, (sono
una raccolta di estratti incisi sulla parete frontale del pronao, sui pilastri della porta del tempio principale,
sull'architrave del tempio e sulle colonne attorno all'oracolo di Delfi), il significato in questo caso è proprio
quello di ‘proteggere le nostre frontiere’,'Να προστατεύουμε τα δικά μας'. Non significa invadere altri paesi.
Che razza di traduzione è questa? Dove sta il male quando uno deve difendere i confini della patria? Perché
la scritta è sconvolgente e incivile? è forse un reato proteggere i propri confini dal momento che sappiamo
che esistono mappe degli stati che si trovano al Nord della Grecia dove ognuno di questi fa vedere mappe
dove i confini di essi si estendono e coprono quasi la metà della Grecia? Anche se la storia delle mappe a me
non dice niente siccome ognuno può stampare la sua e scrivere qualsiasi cosa, questa mappa fa un riferimento
al passato con fasi storiche e riporta anche i confini dello stato moderno Greco invitando i cittadini di difendere
i propri confini. Dove si trova il male in questo?
Angelo Ardovino L'unica cosa giusta che hai detto è che Τα Ιδια φυλαττε, scritta delfica antica, non significa
invadere altri paesi. Non lo significa nemmeno la scritta di Florina Τα Ιδια φυλασσε, che non è comunque la
stessa cosa, come chiunque sa un po' di greco capisce. L'invasione degli altri paesi è proprio l'unica cosa fuori
discussione. Mi attribuisci una traduzione che non ho dato e poi la contesti.
Comunque, ammesso che l'intenzione fosse solo di invitare a difendere i confini, come tu stesso hai cortese-
mente spiegato, sarebbe comunque sconvolgente e incivile per il metro con il quale queste cose sono giudicate
nel resto d'Europa. L'Europa (non quella della Merkel, ma quella della cultura e della gente) tende a dividere
i popoli in due categorie: quelli civili, che vivono la pace come una libera scelta ed appianano le controversie
con i vicini, e gli altri, che accettano la pace per necessità ma considerano i vicini dei potenziali invasori, e
mettono cartelli di inimicizia alle frontiere. La Grecia è piena di persone civili, ma gli altri fanno più rumore.
Comunque ti ringrazio del tuo intervento, che rompe una congiura del silenzio dei miei corrispondenti greci,
che dura da quando ho difeso, per la parte che meritava, il povero Fallmerayer, e ho criticato l'idea della stirpe
antica alla base del concetto di nazione greca. Dice il proverbio latino: Gutta cavat lapidem.
26. Bandiere, stelle e fontanelle

25 agosto

Anni fa il mio collega Manolis Andronikos, eforo (soprintendente) delle antichità in Macedonia Occidentale,
fece a Verghina delle scoperte clamorose, e per questo è addirittura finito effigiato sugli spiccioli greci. Darò
un dispiacere a qualcuno, ma per me è sempre stato un esempio di collega da evitare, soprattutto se con-
frontato alla sua vicina, prima in Epiro poi in Macedonia Centrale, Iulia Kuleimani Vokotopulu, il più grande
soprintendente greco di tutti i tempi. A me non è mai piaciuto per la disinvoltura con la quale lasciava che
altri pompassero le sue scoperte. Certo, è un sistema per avere più fondi, ma rischi di restare preso dal gioco.
Per questo ho sempre preferito i colleghi che queste cose non le fanno.
Strana premessa, vero? Il fatto è che un ossario d’oro contenuto in una tomba di Verghina, che fu spacciata
per quella di Filippo II, aveva sul coperchio una stella a sedici punte; fu definita il Sole degli Argeadi, e cioè il
simbolo araldico della famiglia reale macedone cui appartenevano Filippo ed Alessandro. Simbolo araldico
ante litteram, visto che siamo nel IV sec. a.C., ma questo per la propaganda non è un problema. Senza nes-
suna vergogna attribuirono alla famiglia di Alessandro l’equivalente del nodo dei Savoia o dei gigli dei Valois.
Il passo successivo, a riprova che queste cose ti possono sfuggire di mano, fu la promozione a vessillo della
Macedonia. Oggi è a Salonicco il vessillo regionale, come la Rosa Camuna a Milano o le Cinque Onde a Po-
tenza. Oro su azzurro, i colori europei.

Il passo successivo fu la bandiera della Macedonia, l’odiata “Repubblica di Skopje”! Inevitabile, direi. Solo
che, essendomi stancato di bandiere che garriscono al vento, ne pubblico la simpatica e spontanea rilettura
popolare che ne fecero in una stazione ferroviaria, a decoro di una fontanella (chissà se c’è ancora, o se
almeno funziona l’acqua; da quello che ho visto a Skopje, stazione con scale monumentali e piccioni morti, o
a Bitola, con la linea per Florina chiusa da anni, avrei dubbi).
Alla gente questa bandiera, oro su rosso, dev’essere piaciuta tanto, ed obiettivamente è bellissima. Ma le
proteste greche furono tali che a livello internazionale qualcuno giudicò la cosa una provocazione inutile e le
autorità stavolta ritennero di avere esagerato. La bandiera fu ridotta a otto punte, come l’Union Jack, che
unisce le croci dei Santi Giorgio, Andrea e Patrizio: è un simbolo cristiano e quindi i Greci se la dovettero
tenere, anche se richiamava quella precedente a sedici punte. Così la Nord Macedonia ha adottato come
bandiera quella britannica con i colori della Roma. Ma ormai è un simbolo che è stato fatto proprio dal po-
polo, e quindi è giusto che sia così. Come è anche giusto che il sole degli Argeadi, per quanto fittizio, sia
rimasto ai Greci che l’avevano fatto loro.
C’è però una coda. La bandiera dei Valacchi. A otto punte, e giallorossa, come quella macedone, ma le
punte sono davvero dei raggi lanceolati come nella stella originale e in quella greca, e non ridotte a fettucce
come nell'Union Jack. In modo da tener conto di tutti ma non copiare nessuno. E infatti, fino ad ora, nessuno
se l’è presa. Compare nelle feste popolari a Moschopolis, la capitale dei Valacchi di Albania, in ogni caso il
centro valacco più importante che ci sia a sud del Danubio. Non vogliono rifare frontiere (almeno loro!), ma
vogliono esistere. E la loro bandiera è esibita in segno di pace, a esempio per gli altri. Viva i Valacchi!
27. Piccolo “in calce”. Anche questa l’ho vista in viaggio

27 agosto

Questa l’ho vista a Ochrida, in una strada piena di ristoranti e botteguzze di perle di lago e carta di qualità.
Insegna della pizzeria: Cosa Nostra. In alfabeto latino e, tanto per essere più chiari, anche in alfabeto cirillico.
Vi chiederete se dietro questa citazione italiana quanto meno impropria, si celi un sentimento antitaliano,
ma rassicuratevi. Gli Italiani che arrivano sin là non sono tanti, ma sono graditi ospiti. La Macedonia del Nord
non ha sofferto nessun danno diretto dalle brillanti pensate di Galeazzo Ciano come l’annessione dell’Albania
e l’aggressione alla Grecia, e nemmeno dalla pensata ancora più brillante di Massimo d’Alema di concedere
gli aeroporti italiani per bombardare con bombe all’uranio la Serbia. Per anni il pesce di fiume è scomparso
dalle mense di Belgrado. Ochrida in particolare non ha mai avuto problemi con eserciti provenienti dall’Italia
da quando Boemondo di Taranto, che l’aveva conquistata, levò le sue tende. Non c’è nessuna animosità an-
titaliana nell’usare un sintagma collegato indissolubilmente alla delinquenza. È che l’italiano fa chic, soprat-
tutto quando non viene capito.
Ricordo tanti anni fa la vetrina di un negozio di scarpe a Salonicco, con l’insegna: “Senso”. Ispirata a Vi-
sconti? Può essere, ma tutti gli Italiani di passaggio pensavano alle scarpe malridotte e scoppiavano a ridere.
E non è tutto. Un altro negozio di scarpe, evidentemente della stessa catena di Italianisti, recava in bella vista
la scritta: “Strada battuta. Lei e Lui.”.
In realtà negli ultimi decenni ci sono state solo sei parole italiane e una locuzione complessa usata come
interiezione che hanno conquistato valore internazionale e sono ben diffuse: Pizza (che oramai però non è
più sentita come italiana, però italiana è ancora “pizzeria”), espresso, cappuccino, pasta, spaghetti, ciao e –
ahimé- l’interiezione vaffanculo (il cronista deve registrare anche quel che non approva). Una volta c’era
anche libero, in senso calcistico, ma l’abbandono della difesa a uomo ne ha provocato la rapida fine. Queste
parole sono ben chiare nel loro significato originale, e usate correttamente. Mi pare anzi di aver capito che,
passata la frontiera della Grecia, dove “iasou” gode di ottima salute, tra i ragazzi “ciao” tenda a prevalere sui
saluti locali. C’è un orecchio all’Italia, che fa sì che tante altre vengano sentite o lette sui giornali e riutilizzate
a sproposito. Se qualcuno si prendesse la briga di spiegare al padrone della pizzeria cosa è stata, o forse è
ancora, Cosa Nostra, i morti e i delitti in Sicilia, negli States e altrove, il pover’uomo probabilmente si preci-
piterebbe a cambiare il nome del suo locale. Ma perché farlo? E infatti nessuno lo fa.
Indubbiamente il Made in Italy ha avuto la sua funzione nel far nascere e prosperare questo fenomeno, e
questo stimola una riflessione amara. Il Made in Italy dal dopoguerra in poi ha avuto molto più peso del Made
in France. Anche questo, il cronista lo deve registrare, sia giusto o no. Ebbene, l’italiano fa ancora chic, mentre
il francese è totalmente scomparso, malgrado la Francia tenga in vita dappertutto istituzioni culturali che noi
neppure ci sogniamo. Dunque, badando all’effimero e non spendendo una lira per la cultura, siamo stati più
dritti noi di questi fessi di Francesi.

Dialoghi con i lettori

Francesco Rubat Borel Ochrida non fu


italiana neppure tra il 1941 e il 1943,
quando all'Albania furono attaccati il Ko-
sovo e l'attuale Macedonia occidentale,
ma fu assegnata alla Bulgaria, seppure cir-
condata da territori italoalbanesi. Da un
vecchio atlante di famiglia.
Angelo Ardovino per i Bulgari Ochrida
era una questione di principio. Lo zar Sa-
muele e San Clemente. Ma questa è un'al-
tra storia. Comunque Struga e le altre zone
del lago che vedo assegnate all'Albania
erano in effetti a maggioranza albanese.
Struga è oggi ufficialmente bilingue, anche
se mi è parso che il bilinguismo stesse solo
nelle scritte.
28. Appendice estetica. Anche questa l’ho vista in viaggio

31 agosto

Questa fotografia è di cattiva qualità ma l’ho scattata io e la preferisco ad altre, migliori, che circolano in
rete ma nascondono le magagne, come il sole che batte per ore sull’affresco. Così “ruspante” mi va meglio
per spiegare l’estetica popolare della Grecia. Quella Grecia che riempie il cielo di aquiloni il primo lunedì di
quaresima, inforna pani benedetti tutti decorati, si trova a suo agio in chiese dipinte secondo il più soffocante
horror vacui, vive il colore ogni volta che può.
Facciata della chiesa di San Minàs, a Kastorià. Per inciso, Kastorià è stata per secoli uno dei centri vitali
dell’arte macedone, subito dopo il Monte Athos, Salonicco ed Ochrida. Sì, arte macedone, perché tutti gli
storici dell’arte del mondo chiamano così l’esperienza artistica della regione, dando per scontato e per se-
condario che essa fosse multietnica; appaiono quindi un po’ sciocchi i cartelli sparsi in tutta la città che usano
il termine “postbizantino” per indicare il periodo in cui era finito il predominio politico greco; ma stavolta
non dobbiamo parlare di questo, ma di come la gente viva l’arte del suo paese.
Zona pedonalizzata, senza problemi di gas di scarico. Affreschi lasciati bellamente all’esterno, e che Dio li
salvi. Una tettoia a spiovente li protegge, ma crea una sorta di atrio che è stato delimitato da cancelletti di
legno e da fioriere - anzi, da glastre - rotonde. Dall’alto pende un lampadario da sala da pranzo, a 12 luci, a
gocce di vetro e le lampadine a fiamma. Come quello della vecchia zia, orrendo ma a cui ci si affeziona. Un
lampadario come quello è inutile per illuminare, ma unito alle fioriere crea una bella e gradevole confusione,
che piace alla gente. “Bella e gradevole confusione" non vi convince? Ve la ridico in termini aulici: “una sug-
gestione cromatica che introduce alla chiesa e colma la colorazione della facciata, lasciata troppo mutila nelle
sue figurazioni dalla cattiveria del tempo”.
Gusto del prete? Sicuramente sì, ma il prete fa parte del popolo e ne capisce i desideri. Il lampadario da
salotto sulla facciata della chiesa di Kastorià è fonte di gioia come tutti gli altri orpelli racchiusi in pochi metri.
Per i nostri occhi di intellettuali no di certo, ma per gli occhi del devoto sì. Lui ama vedere una realtà piena di
cose, che magari una per una sono anche stilizzate, come certe figure ieratiche sulle icone, ma che devono
affollarsi e si affollano. È il gusto popolare della Grecia, che merita il massimo rispetto anche se è diverso dal
nostro. Ma siamo davvero sicuri che il gusto dei burocrati che hanno disseminato di statue il centro di Skopje
fosse davvero diverso da questo?
29. Appendice estetica (l’ultima)

1° settembre

A Brescia, a Piazza della Vittoria, una delle piazze di Marcello Piacentini che porta quel nome, c’è un podio
per una statua. Il maestro non disse per quale statua dovesse servire. Da allora ogni tanto provano a metterci,
tra le proteste, un nudo maschile, detto popolarmente il Bigio. Esso volge le terga a un bar, che porta il nome
vintage di Impero, ma che, grazie alle terga del Bigio, ha il soprannome di Bar de le Ciape. Nei secoli. Questa
disavventura onomastica ci fa capire che quando si erge una statua a tutto tondo, bisogna ricordarsi di con-
trollare tutte le possibili visuali, a 360 gradi. Altrimenti, si rischia l’effetto Bar de le Ciape.
Il Bar de le Ciape mi è venuto in mente a Skopje, quando ho visto questa ridda di terga che chiude la pro-
spettiva di un ponte sul Vardar. Tutto curato, per carità, i palazzi neoclassici di sfondo, i lampioni autorevoli,
in stile Londra ai tempi di Jack lo Squartatore, tutti quei bravi signori effigiati, l’uno accanto all’altro. Sarò
maligno, ma mi viene in mente come sarebbe facile fucilarli alla schiena, o dannarli ad altri oltraggi. Qualcuno
potrà obiettarmi che è dai tempi di Ponte Sant’Angelo che si mettono statue sui ponti. Sì, ma non tutte quante
in giacca e pantaloni, e praticamente in batteria. Si risveglia l’attenzione di chi passa sulla riva e nota l’insolito
colpo d’occhio.
Ma, ormai lo sappiamo, siamo nello spirito dell’ammucchiata di Skopje, nell’affastellare sculture l’una
sull’altra, e potremmo essere tentati dall’assoluzione benevola, come abbiamo fatto per il lampadario da-
vanti alla chiesa di Kastorià, segno di una sensibilità artistica popolare che non abbiamo il diritto di irridere.
Dopo tutto, è casa loro, e se il loro gusto dice di sovrabbondare, di usare i volumi delle sculture per dare
colore a uno spazio, che facciano pure. Ma se fate attenzione, non è la stessa cosa. Sarebbe lo stesso deside-
rio di – chiamiamolo così- appagamento cromatico se avessero preso un ponte senza altri pregi e l’avessero
riempito di statue. A prima vista è quel che è successo, ma non è andata così: qui sono passati di grado, hanno
gettato sul Vardar un ponte pedonale inutile per poterci mettere le statue.
Non so se questo sia lecito, in una prospettiva urbanistica corretta. Non mi preoccupa la spesa, che pure
ha messo in ginocchio un paese che ha dovuto rinunciare ad altre opere pubbliche, come la manutenzione
delle ferrovie. I soldi vanno e vengono. Dopo tutto, se non avessi avuto notizia della nuova Skopje non avrei
lasciato i miei laghi per andare a vedere l’ennesima città di provincia; Skopje a suo modo è diventata un’at-
trazione e in parte si rifarà dei quattrini buttati. È che lo scompenso urbanistico che tutto questo museo del
kitsch all’aperto ha creato difficilmente potrà durare senza creare problemi alla città. E allora a qualcuno
verrà in mente di scegliere la via della semplificazione.
Già ci sono i primi segni. La cosa più stravagante di Skopje 2014 è la Porta di Macedonia, una specie di Arc
de Triomphe senza piazza, ai margini della zona monumentale. Signori miei, un arco di trionfo o ha un suo
valore specifico di monumento antico, o deve avere una grande piazza, se no decade a spartitraffico. È quel
che è successo. Ormai la Porta chiude il parcheggio di alcuni tassì e il capolinea del bus rosso a due piani di
tipo londinese (ultimo tocco di grandeur). È iniziata la crisi urbanistica della nuova Skopje? Forse, ed è possi-
bile che, grazie alla maggioranza che ha sostituito quella dei “conservatori” (meno male che erano conserva-
tori; se erano innovatori, cos’altro ti combinavano?) che aveva pensato la nuova capitale e ha mobilitato
senza successo la gente contro gli accordi con la Grecia, si pensi finalmente una Macedonia normale. Pensate
come sarebbe bello se in Grecia poi se ne accorgessero!
Do pure l'immagine della triste fine della Porta di Macedonia.
30. Ultima divagazione storica, in onore di Byron e di Vassilis Lékkas

6 settembre

La pagina che segue racconta cose che ho imparato da anni, ma che il mio viaggio mi ha aiutato a mettere
a fuoco, dopo aver visto la fragilità del fasto della nuova Skopje e l’incidenza numerica degli Albanesi.
Sono tantissimi quelli che si possono in un modo o nell’altro definire Albanesi. In Grecia ed Italia formano
due pacifiche alloglossie, Arvaniti e Arbëreshë, leali cittadini greci e italiani che coltivano l’essere Albanesi
come valore aggiunto. Ne ho già nominati, ma vorrei ricordare il mio amico Giuseppe Roma, ordinario di
Archeologia Cristiana e Medievale a Cosenza, Arbëreshë di Castroregio, piccolo paese alle falde del Pollino di
cui fu sindaco, persona dottissima e generosa cui avrei fatto leggere per primo queste mie note se la malattia
non se lo fosse portato via un anno fa. Il loro numero è in diminuzione, di meno in Italia, dove si lavora di più
per rallentare il fenomeno. La mia fonte non sono le statistiche ufficiali, ma le lamentele degli anziani perché
i giovani non imparano la lingua.
Ma in Kosovo sono la gran maggioranza, che finge che non esista una minoranza serba (anche in questo
caso la mia fonte non è ufficiale: sono i volgaroni che infestano Internet), e sono una minoranza importante
e organizzata in Nord Macedonia. Hanno ottenuto il bilinguismo amministrativo là dove superano una certa
percentuale, compresa Skopje. Sono quasi arrivati alla lotta armata contro gli abusi della maggioranza slavista
“patriottica”. Hanno condizionato la formazione del nuovo stato, che a causa loro non si è potuto chiamare
“Macedonia Slava” come avevano proposto i Greci. Hanno contribuito a rafforzare il concetto di territorio
come base della nazione macedone, che ha reso connazionali Alessandro e Madre Teresa. Alla fine hanno
ridestato l’interesse del revanscismo turco, molto attratto dall’idea di una Macedonia islamica.
Ciò è fonte di instabilità per la Nord Macedonia; i governi hanno cercato di correre ai ripari coinvolgendo
nella loro apparente megalomania la minoranza albanese; in altri termini lo stato si è mosso in modo da far
sorridere all’estero, facendo magari arrabbiare i vicini, ma acquistando credibilità interna. Poteva essere fatto
meglio, ma era la prima cosa da fare. Però una minoranza organizzata rischia di interagire con il panalbani-
smo, cui si devono mappe con un’Albania da Corfù a Skopje (presumo divisa in due, come Nicosia o Gorizia).
Idea stupida, ma che potrebbe avere il suo peso in una situazione esasperata. Al momento tutto pare tran-
quillo, ma sarà vero? Dunque il problema albanese è la principale causa di fragilità della Nord Macedonia,
sicuramente più dell’inimicizia greca, che, se mai, ha fatto da collante, facendo indignare insieme Slavi ed
Albanesi davanti a richieste indecenti come quelle di chiamare il paese Vardaraska. Ma tutte queste inquie-
tudini hanno radici remote, che nascono in Grecia.
I Macedoni del Nord, devo ripeterlo, quando hanno chiamato il loro nuovo stato indipendente con il nome
della vecchia repubblica federata jugoslava, cioè Macedonia, non hanno fatto altro che quello che facevano
nelle altre repubbliche. Non li muoveva nessuna molla antiellenica; essa, se mai, si è creata dopo, per rea-
zione ai veti greci. Ma per i Greci era inaccettabile, e continua ad esserlo, che così venisse sanzionato che il
nome dei Macedoni fosse usato dai non Greci. Violava la regola, assolutamente autolesionista e totalmente
antistorica, che il Greco sia tale per stirpe, perché discende da Achille, da Pericle e da Alessandro. La nazione
greca moderna nasce ai primi dell’Ottocento in questa chiave; un valore fondante ambiguo, che è difficilis-
simo mettere in discussione, e che ha provocato al popolo greco la maggior parte delle sue disgrazie.
Tutto nasce in Occidente, quando il Romanticismo scopre che esistono ancora Greci. Nessuno però si mette
a studiarli seriamente. Ci provò, con errori, il povero Fallmerayer e mal gliene incolse. Si fa la cosa più sem-
plice, si prendono i valori attribuiti agli antichi Elleni e li si carica addosso ai Romei, oltre tutto disprezzando
come un’incidente di percorso tutto il loro passato medioevale e recente che in realtà è splendido ed ha agito
come un lievito per il resto d’Europa, e il loro ruolo di cemento dei Balcani. I bravi Romei non si rendono
conto che così facendo gli Occidentali, che in realtà considerano come patrimonio comune Omero e i Tragici,
Socrate e il Nuovo Testamento, i frontoni di Egina e i Marmi Elgin, offrono loro un frutto avvelenato. Dando
loro come valore specifico un valore in realtà condiviso, li privano della ragione di essere, e li costringono a
cercarla nella stirpe degli Elleni.
Ciò ha anche uno scopo politico. Serve una spina nel fianco dei Turchi, ma che non dia fastidio più di tanto.
Questa è l’opinione che prevale nei paesi con un impero marittimo, Francia e Inghilterra, ed in Austria, che
ha con l’impero turco un confine lunghissimo. La Russia inizialmente preferisce pensare invece all’unità pa-
nortodossa, poi si adegua. Che a questo mirino le potenze occidentali, lo dimostra un episodio che ho già
citato. Gli Austriaci catturano Rigas Fereos, che voleva nei Balcani uno stato federale sotto l’egida greca, e lo
consegnano ai Turchi. Ma cosa se ne faceva l’Europa di uno stato forte e civile nei Balcani? Riempire la testa
dei Romei, cioè del popolo cristiano più importante per lunga tradizione e capace di promuovere l’unità dei
Balcani, con un valore inutile, perché l’antica Grecia non era più loro ma di tutti, significava renderli inutili, e
quindi innocui. Ecco spiegata l’esaltazione della stirpe degli Elleni!
Così cade l’interesse dei Greci alla simbiosi con gli Albanesi che aveva distinto il medioevo ed aveva per-
messo agli uni e agli altri di sopravvivere a invasioni, massacri, turchizzazioni forzate ed altro. La lotta per
l’indipendenza, che era nata con gli Albanesi che combattevano e morivano per la libertà della Grecia perché
era la loro stessa libertà, finisce con la separazione dei popoli, totale e irreversibile, con buona pace di quegli
Italoalbanesi che ancora ascoltano la messa in greco. La storia della lingua greca dell’Ottocento non è soltanto
la storia della lotta tra la dimotikì e la katharevoussa, è la storia dei progressi dell’insegnamento del greco
agli albanofoni, a partire dalla nuova capitale del Paese, Atene, dove in origine erano la stragrande maggio-
ranza. Ed è veramente strano che gli albanofoni ellenizzati abbraccino anche loro l’idea della stirpe come
valore fondante della nazione greca. Potenza della scuola!
Byron crede alla causa della libertà dei Greci con assoluta sincerità, e muore per questo. Ma nella nostra
ottica il rapporto di Byron con la Grecia è spaventoso. La sua opera più nota di ambientazione greca, Il Cor-
saro, poema del 1814, rivela un’ignoranza totale della Grecia. Tra l’altro, ignora gli Albanesi. Eppure ce
n’erano nell’Egeo, dove il poema è ambientato: ce ne sono ancora, dato che a Patmos c’è una vitalissima
colonia arvanitica. Sia benedetta la sua memoria, che riscatta l’ipocrisia dei governi dell’Europa occidentale,
che per i loro piccoli ed inutili interessi del momento lasciarono che l’unità morale dei Balcani si rompesse
definitivamente, e con essa la prospettiva di una pace stabile. E speriamo che prima o poi la cultura greca si
renda conto che i Greci non sono i discendenti di Achille, ma qualcosa di molto più complesso.
A questa mia divagazione non allego una foto del viaggio, ma rimando a una canzone sulla catastrofe di
Smirne: Ασίκικο πουλάκι (https://www.youtube.com/watch?v=q_OsviGxKow&t=9s). La musica è di Theodo-
rakis, e sta bene, ma i versi sono di un poeta con un cognome tratto da un nome slavo, Ganàs, e l’eccezionale
interprete ha un cognome arvanitico, Lèkkas. Non so da quante generazioni l’uno e l’altro siano ellenizzati, e
non mi interessa. So però che entrano nel cuore nella tragedia del popolo greco, che è il loro, senza discen-
dere da Achille.
31. Conclusioni politiche, con l’aiuto di Alessandro Manzoni

9 settembre

Qualcuno si sarà meravigliato che, anche se ho toccato con decisione la storia e la politica balcanica, ho
fatto pochissimi riferimenti ai partiti e mai ho usato le parole destra e sinistra. Non prendetemi per uno snob
o per uno di quelli che sostengono surrettiziamente che destra e sinistra non si debbano distinguere. La ra-
gione è un'altra. È che i punti focali della politica dei Balcani si sono formati prima che vi si diffondessero i
partiti come noi li intendiamo. Essi non hanno saputo risolvere il problema principale, il riequilibrio da farsi
dopo la fine del melting pot che era durato per secoli, fino ai primi decenni dell’Ottocento. Fine innescata
dalle potenze occidentali, che da allora non hanno fatto altro che lamentarsi della “Polveriera dei Balcani” di
cui erano responsabili. Ne sono seguiti disaccordi e memorie insanguinate che ancora non si riesce a superare
e che impediscono una vera pacificazione, mettono sulla bocca di insospettabili massaie discorsi guerrafondai
(soprattutto in Grecia) e ostacolano una collaborazione economica tra paesi vicini che da noi parrebbe ovvia,
si sia di destra o di sinistra.
Del resto fino a poco tempo fa i governi democratici di destra e di sinistra hanno fatto le stesse scelte di
fondo. Per esempio, Nuova Repubblica e PASOK sono corresponsabili del disastro finanziario greco. I pro-
blemi a monte sono sempre gli stessi, da due secoli a questa parte; hanno condizionato le azioni della gente
e le decisioni dei capi anche dove sarebbero state opportune valutazioni meno idealiste e decisioni più reali-
stiche. Quale che fosse il colore dei governi, sono stati affrontati allo stesso modo.
A prima vista dopo la fine dei regimi comunisti mediamente le destre si sono comportate peggio, ma sia
chiaro che questo non è un giudizio di parte. Era inevitabile che, caduti i comunisti, ci fossero governi di colore
diverso formati da opportunisti e improvvisatori. Li chiamiamo conservatori, ma non conservavano un bel
niente; semplicemente non erano all’altezza della situazione. Invece in Grecia c’era una bellissima destra,
con Premi Nobel che facevano da contraltare a una cultura prevalentemente di sinistra, leader tornati
dall’esilio per ristabilire le istituzioni democratiche, un giornale come Kathimerinì che alla prima velina dei
colonnelli chiuse e riaprì il giorno dopo la loro caduta, ed ancora oggi è una delle poche testate di destra
leggibili in Europa. C’erano personaggi di grande seguito popolare, come Alekos Panagulis, il cui funerale fu
l’occasione di un’impressionante manifestazione di massa. Ero ad Atene, quel giorno. Una destra così garan-
tiva una sicura alternanza democratica con il nuovo partito socialista, che aveva reso superflua la presenza
dei comunisti tradizionali in parlamento. Tutto bene? No, perché a dispetto delle belle intenzioni in qualche
decennio tutti i partiti si ridussero a contenitori clientelari, e la politica fu dettata dagli interessi immondi di
chi controllava la stampa.
Classi dirigenti non all’altezza non potevano risolvere i problemi della saldezza istituzionale e nemmeno
quello della razionale convivenza dei popoli, che i soloni nostrani trascurano, ma che è rimasto la chiave dei
Balcani. A parte la questione del nome della Macedonia, devo ricordare che il governo macedone per lunghi
anni non prese alcuna iniziativa per sistemare i rapporti tra lo stato e la minoranza albanese finché non scop-
piarono le rivolte, e che nel 2012, quando gli animi si erano placati, Sali Berisha, capo dell’Albania, per stolti
calcoli elettorali sposò la tesi panalbanese, provocando la crisi diplomatica con la Macedonia (ma si può es-
sere più dilettanti?). Ma alla fine, batti che ti batti, una maggiore maturità politica sta uscendo fuori. Crisi
politiche come quelle provocate tre anni fa da Nikola Gruevsky a Skopje o oggi da Ilir Meta in Albania un
tempo avrebbero visto scorrere il sangue, oggi sono affrontate con metodi democratici.
Quanto poi alla questione del nome Macedonia, attorno alla quale ruota tutto e a cui si finisce per tornare,
appare chiaro che se non fosse stata sollevata, ciò avrebbe influito positivamente su tutto lo scacchiere bal-
canico, Grecia compresa. La repubblica del Nord avrebbe avuto più agio di regolare i problemi delle mino-
ranze e avrebbe tolto spazio agli avventurismi albanesi e turchi. Magari oggi Skopje, Tirana e Salonicco firme-
rebbero tranquilli accordi interregionali, come avviene tra regioni e piccoli stati in altre parti d’Europa.
Non è andata così. Si può facilmente dimostrare in questo la precisa responsabilità di Antonis Samaràs, che
da ministro degli esteri innescò a freddo la questione, per cinismo elettorale, e ne perse il controllo come il
classico apprenti sorcier. Ma sarebbe dare troppa importanza ad un mediocre, che come ultimo attacco ai
nemici di oltre confine cercò di avallare la tesi che una tomba allora in corso di scavo archeologico a Nord di
Amphipolis fosse di Alessandro Magno. Era il primo ministro: brutta figura internazionale della Grecia che si
aggiunse alle altre che costui aveva causato. Ne abbiamo già parlato. La fortuna è che oggi, in tutti gli schie-
ramenti, sono emerse persone migliori. Forse si stanno creando classi dirigenti all’altezza.
Inizio dal primo ministro Nordmacedone Zoran Zaev. Ha chiuso con un passato politico del suo paese fran-
camente imbarazzante, da Skopje 2014 alle provocazioni antigreche. Posso testimoniare che la rimozione
delle cose che avevano urtato la sensibilità greca e che si era impegnato a rimuovere procede. Le folle che
nei giorni della ratifica degli accordi assediavano il parlamento non ci sono più. La Nord Macedonia adesso è
un normale paese povero, che deve pure pagare le spese di immagine degli ultimi anni, ma non può che
migliorare, anche perché Zaev sta sostituendo la classe dirigente.
Poi Mitsotakis. Ha goduto di una situazione favorevole, perché la gente in Grecia voleva per prima cosa
vendicarsi di Tsipras che aveva firmato gli accordi antipatriottici, ma è giusto che un politico sfrutti un’occa-
sione così, se gli capita. Chi ha deciso le elezioni sono stati quegli elettori di estrema destra che hanno lasciato
al suo destino Alba Dorata e hanno votato per Nuova Repubblica per fargli conquistare la maggioranza rela-
tiva e quindi, per la legge greca, la vittoria, pur sapendo che Mitsotakis avrebbe rispettato gli accordi sotto-
scritti. Dunque non è dovuto scendere a patti con l’estrema destra ma se ne è preso i voti. Chapeau. È in una
botte di ferro, ed a questo punto può portare avanti la politica di collaborazione con la Nord Macedonia, ma,
soprattutto, può portare avanti un rinnovo della classe dirigente del suo partito, se avrà voglia di farlo. I
socialisti lo hanno già fatto. Speriamo bene.
In ultimo, Tsipras. Tsipras ha gestito la questione macedone pensando di fare il bene della Grecia a chiu-
derla il più presto possibile, ma sapeva benissimo che su ciò avrebbe perso le elezioni. Anni di politica impo-
polare nelle tasse e nei tagli alla spesa non hanno in realtà spostato grandi masse di votanti. Ma l’accordo di
pacificazione con la Nord Macedonia è stato giudicato una vergogna e un tradimento. Questo Tsipras lo sa-
peva, ma uno statista fa il bene del suo paese e non il suo, e Tsipras si è comportato da statista. La storia lo
riconoscerà. Certo, aveva perso la guerra con la finanza europea che voleva fare della punizione della Grecia
un esempio, e che a questo scopo malvagio ha persino convinto la Cina a rimandare la conclusione di un
accordo che avrebbe tolto la Grecia dalle sue immediate difficoltà malgrado esso desse un vantaggio finan-
ziario a tutta l’Europa. Non è infallibile, ad esempio sbagliò quando accettò di farsi presentare in Italia come
un simbolo di una sinistra inutile che per giunta ora lo ritiene un perdente; che essa si crogioli nel suo nulla
ripieno di niente! Ma ha cercato di creare una classe dirigente nuova, indipendente dai vecchi partiti, comu-
nisti compresi. Se sarà riuscito a stimolare gli altri nel processo di rinnovamento, avrà davvero fatto il bene
della Grecia.
E la gente? Quando sono capitato a Psarades, il paesino dove Zaev e Tsipras hanno firmato gli accordi, ho
cercato il luogo della firma. Presumevo una scuola. Invece i paesani mi hanno spiegato che li hanno firmati
davanti al molo dove di solito stazionano i pellicani. Tsipras è arrivato in elicottero e Zaev dal lago, con una
barca (με το καράβι). I bravi paesani mi raccontavano la cosa con simpatia e divertimento, ma io vi ho visto
uno stato d’assedio. La firma in riva al lago scoraggiava gli attentatori, e bastava un posto di blocco a Koula,
a tre chilometri, per impedire ogni accesso ai manifestanti, che nei giorni precedenti organizzavano bellicosi
pullman. Potevano passare solo attraverso un bosco senza sentieri, delimitato da civilissimi cartelli che di-
cono a chi entra: “il bosco è la casa dell’orso, non la tua”. L’ostilità agli accordi è stata tanta, ed ancora con-
tinua. D’altra parte, quando a scuola ti insegnano che discendi dalla stirpe degli Elleni che da soli hanno dato
la civiltà al mondo, è facile che tu non voglia dividere il nome dei Macedoni che di questa stirpe erano parte.
Se gli altri in tutto il mondo ne ridono hanno torto. Tanta gente è così, e per cambiare ci vorrà sangue sudore
e lacrime, oltre che un’epurazione dei dirigenti scolastici. Ma non crediate che i Greci siano tutti così autole-
sionisti. Ho parlato con un sacco di gente che è felice che questa faccenda del nome della Macedonia sia
finita. Ma siamo ancora al Manzoni, che diceva che il buon senso c’era, ma stava nascosto per paura del senso
comune.
Chiudo con un’immagine agreste. Macchia di ginepro gigante, o cedro, del lago di Prespa, e tasso. Il tasso
femmina è velenoso. La macchia forma il bosco di proprietà dell’orso che i "patrioti" dovevano attraversare
per manifestare contro la firma degli accordi. Bella, vero?
Ringrazio gli amici di cui ho trascritto qualche commento su Facebook: Pietro Cociancich, Guido Carpi, Ma-
ria Concetta Brigandì, Francesca Sakellaridi, Francesco Rubat Borel. Sono debitore anche di altri amici, primo
fra tutti Virgilio Avato. Elena Zacchetti e Luca Misculin mi hanno concesso di riprendere il loro articolo (Come
è fatta Skopje, una delle capitali più kitsch del mondo, in https://www.ilpost.it › 2018/09/30 › skopje-mace-
donia-kitsch-referendum) e mi hanno fatto un sacco di complimenti. Li ringrazio per tutte e due le cose. Le
fotografie sono in parte mie, in parte di repertorio. Non mi risulta che siano soggette a copyright, trattandosi
di immagini di soggetti comuni di promozione turistica, ma mi assumo ogni responsabilità in caso contrario.

Dialoghi con i lettori


Guido Carpi Come sai, considero questo tuo ciclo di post una vera perla. Spero che ciò mi permetta una critica:
i tuoi Balcani sono a baricentro greco (con satelliti albanesi e valacchi). Perché rimuovere gli slavi e l'unico
tentativo serio di unificare quelle terre? Qui non faccio differenza fra i Karađorđević e il maresciallo Tito: che
mi dici degli slavi?
Angelo Ardovino I Balcani sono stati a baricentro greco dai tempi dell'Impero Romano fino alla costituzione
del regno di Grecia dopo la battaglia di Navarino. Griechischer Weissenburg, era Belgrado in tedesco. Non ho
un interesse particolare per l'unificazione di quelle terre, che credo sia stata voluta per l'ultima volta da Mao-
metto II e mai dagli Slavi, a meno che non si vogliano definire tentativi di unificazione quelli di sopraffazione
tra Bulgari e Serbi, ogni volta che hanno potuto. Comunque non mi occupo di unificazioni e secessioni. Mi
occupo di incubi politici, di cui tutti i popoli dell'area devono liberarsi, per fare pace con se stessi prima ancora
che con gli altri.
Appendice storica. Filippo II e la Via Egnatia

Questa appendice è nata a viaggio terminato, non contiene osservazioni sul presente. È una precisazione
archeologica sulla formazione dell’itinerario che nel 146 prenderà il nome di Via Egnatia dal proconsole Cneus
Egnatius. È infatti possibile che si sia stato un progetto generale, che possiamo attribuire a Filippo II, di siste-
mazione di tracciati precedenti, per collegare la costa illirica a Pella, capitale della Macedonia a partire dagli
inizi del V sec. a.C. Non è ancora la strada romana, che viene tracciata quando Pella ha perso qualsiasi impor-
tanza e che, di prolungamento in prolungamento, finisce al Bosforo. Non ha gli obiettivi strategici che inte-
ressano i Romani, per i quali è del tutto vitale il rapido passaggio dall’Italia ai Balcani e all’Asia; è una via di
arroccamento militare, per le truppe che partendo dalla capitale devono controllare il territorio occidentale.
Come ben sappiamo, a Filippo II interessa ben altro che l’Italia (il cognato, Alessandro il Molosso, farà un
tentativo che si risolverà in tragedia), gli interessa assoggettare tutti i popoli contermini alla sua Macedonia,
occupandoli o stringendo rapporti a lui favorevoli con città oppure con regoli locali. Intervenire in Illiria, indi-
pendente ma ridotta all’obbedienza da due campagne militari, nel 358 e nel 343 (Diod. Sic. XVI, 4; 69,7), è
strategico e facile, perché sulle sue coste ci sono due città greche, Apollonia e Durazzo. Tra esse e Pella si
stabilisce un itinerario militare, che giova ad esercitare un controllo politico centrale, utile ad un impero in
crescita.

Possiamo distinguere quattro tratte, la prima da Apollonia e Durazzo ai laghi di Prespa, a 850 m. s.l.m., la
seconda da questi alla pianura di Lynkos, la terza da questa ad Edessa, e la quarta da Edessa a Pella. L’ultima,
che ha il percorso più facile, tutta in piano tranne le rampe di Edessa, dobbiamo a fortiori ritenerla realizzata
insieme con le altre, ma è per noi secondaria; invece è cruciale la seconda, dalla piana di Lynkos ai laghi di
Prespa, che stabilisce il collegamento tra due itinerari preesistenti ed obbligati. Filippo II fonda una città per
suggellare l’opera, e cioè Heraklea Lynkestis, all’inizio della salita che porta al passo, e ciò fa pensare che
anche la strada sia opera sua.
Il percorso della strada romana dall’Adriatico a Pella è stato delineato con una relativa certezza da Nicholas
Hammond, The Via Egnatia in western Macedonia, JRS 1974, pp. 247 253, da Michele Fasolo, La via Egnatia.
1. Da Apollonia e Dyrrachium ad Herakleia Lynkestidos. Roma 2003 e da Mario De Matteis, Stazioni di sosta
(mutationes) lungo la via Egnazia, Unisalento Palaver 6 n.s. (2017), n.2, pp. 7 – 28; qui non interessa control-
lare quanto di esso abbia resistito a millenni di smottamenti, ma ricostruire i precedenti, che seguono una
logica diversa da quella romana.
Illiria e Macedonia (con le rispettive appendici meridionali, abitate prevalentemente da Greci, e cioè Epiro
e Tessaglia, sono due territori molto diversi dal punto di vista fisico. L’Illiria, Epiro compreso, ricorda un po’
l’Appennino, con valli parallele che risalgono dalla costa, oppure trasversali, interne. Paese di pastori di pe-
core. La Macedonia è un insieme di balze, una pianura marittima sovrastata da altipiani da cui sorgono im-
provvise montagne. Paese di allevatori di cavalli e di bovini, con un po’ di agricoltura nelle pianure più grasse.
Non ci sono le premesse per un grande sviluppo urbano, e per secoli le sole vere città sono quelle marittime:
in Illiria Apollonia, poi interratasi, ed Epidamno, con voce illirica Dyrrachium, che chiamo sempre per como-
dità Durazzo, colonie corinzie, come in Epiro Ambracia, oggi Arta; in Macedonia Pidna, colonia calcidese.
Tutte queste regioni hanno uno sviluppo sociale e politico diverso dalla Grecia, un popolamento spesso ca-
tacomitico, divisioni cantonali, monarchie, ma hanno diverse esigenze di viabilità.
In Italia quando pensiamo a un tratturo, o ad una trazzera, pensiamo a qualcosa di codificato, come fecero
gli Aragonesi nel XV secolo, che ne fissarono dogane e misure. In Illiria non c’è mai una tale sistemazione, ma
è evidente che la costa tra le due città di Durazzo e Apollonia (in origine anch’essa città marittima, in una
laguna che poi si interrò) è una sede ideale per i pascoli invernali delle pecore, come in Italia lo era la pianura
foggiana, mentre i laghi dell’interno, quello di Ochrida e i due di Prespa, lo sono per i pascoli estivi. A prima-
vera le greggi, brucato in piano tutto il brucabile, partivano per la pianura a Nord del lago di Ochrida, e, non
bastando questa, potevano proseguire per le pianure degli altri. I colleghi che si sono occupati della strada
romana non hanno dedicato spazio al fenomeno perché esso è molto più antico e probabilmente precede
anche la fondazione corinzia di Durazzo e Apollonia. Bastava risalire la valle del Genesso, o, in albanese,
Skhumbini, fino al valico di Qafë Thanë, o magari fino a un’altra sella un po’ più a Nord.
Il tratturo è una strana via: si riempie di erba, e le greggi la seguono brucando. Il suo processo di creazione
è sempre quello: gli ingegneri stradali sono i montoni in testa alle greggi. È un po’ come avviene con le mu-
lattiere, solo che l’asino, che in genere è il primo a passare, segue criteri più complessi: traccia le curve, aggira
le pendenze eccessive, crea una via che noi seguiamo e trasformiamo in strada. Il montone non ha sufficiente
intelligenza: non progetta curve, ma si gira di lato e va avanti, creando tracciati ad angolo retto; nessuno è
mai riuscito a mettergli la soma e perciò va dritto su terreni scoscesi su cui i pastorelli lo seguono a stento. Il
tratturo non diventa automaticamente una strada aperta ai carri; però apre una direttrice di traffico, e la
strada seguirà, inserendo varianti e opere d’arte, ponti e terrazze, che alle pecore non servono e che cerche-
ranno di evitare. Il percorso delle pecore dalla pianura ai monti Candavi, da cui si scende ai laghi, si vede
splendidamente bene ancora oggi, mentre la strada, che è vincolata al passaggio dei carri e degli animali da
soma, si perde in strettoie che Fasolo e De Matteis hanno ben descritto nei loro lavori. Dopo lo spartiacque
il tratturo scendeva ai laghi, prima quello di Ochrida e poi, per parte delle greggi, quelli di Prespa, dove il
cammino delle pecore terminava.
È degno di nota che il tratturo aveva una doppia partenza, una a Sud di Durazzo, l’altra a Nord di Apollonia.
Così i pastori potevano raccogliere più agevolmente le greggi su due itinerari, che si fondevano solo quando
giungevano alla valle del Genesso. La doppia partenza la aboliscono i Romani, che puntano tutto su Durazzo
capolinea unico per il viaggio di terra verso l’oriente, anche perché l’interramento della laguna di Apollonia,
che un tempo aveva permesso facili approdi ai Corinzi, era inarrestabile. Ai Romani conveniva concentrare
tutto il traffico nel basso Adriatico su due soli porti, e scelsero i migliori; Brindisi e Durazzo. Lungo il tratturo
non c’erano città, ma è probabile che nel territorio dei Dassareti ce ne fosse una su una collina da cui si
guardava da un lato il tratturo e dall’altro il lago. Il suo nome illirico fu trascritto in greco Λυχνιδός, e i Bulgari
lo trascrissero Ochrid, e ne fecero una delle città più importanti d’Europa. Non c’era invece una città sul
bacino lacustre di Prespa, a 850 m.s.l.m., come non c’è quasi mai al termine dei tratturi.

Questo itinerario arcaico può essere confrontato con la terza tratta della via, anch’essa preesistente a Fi-
lippo, che collegava la pianura di Lynkos, un altopiano intorno ai 600 m.s.l.m., alle cascate di Edessa, luogo di
incontro di mille sentieri e di traffici. Giustino (Epitome delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo ) confonde
Edessa con Aigai, capitale arcaica della Macedonia, e ci fa pensare che anch’essa possa avere avuto a tratti
questo ruolo. Ma il percorso qui non è un tratturo, è una via che scende dai pascoli dei grandi erbivori, bovini
ed equini. Essi sanno fare le curve e, poiché brucano l’erba senza distruggerla, hanno bisogno di poco spazio
e possono camminare tutto l’anno, indipendentemente dalle stagioni. La strada passa cosi per punti che re-
steranno, lascia la pianura sotto Vevi, passa dal valico di Kleidi e percorre le vallate create dal lago di Petres
e da quello, più grande, di Vegoritis; così scende gradualmente fino ad Edessa. Questo percorso, e quello del
primo tratto, quello illirico, sono i due capisaldi che devono essere collegati tra loro e a Pella per realizzare
un unico percorso dalla capitale macedone fino all’Adriatico. La via che da Edessa porta a Pella, tolte alcune
acclività iniziali, perché perde rapidamente quota, non riveste problemi, e potrà anche spostarsi un po’ più a
Nord o un po’ più a Sud senza che ciò provochi problemi alla nostra tesi. Quello che conta è esaminare il
tratto nuovo, quello che taglia diagonalmente l’altopiano di Lynkos e arriva ai laghi di Prespa.
Esso unisce due mondi. La piana di Lynkos è il territorio che Tucidide IV, 83,1 chiama dei Macedoni Lincesti,
gli unici che per ai suoi tempi portavano il nome di Macedoni fuori del regno di Macedonia, che non li aveva
ancora inglobati e riconosceva loro un proprio re. Però avevano lo stesso nome, segno di radicati legami
etnici, su cui torneremo. I laghi dell’Illiria, che oggi sono divisi tra Albania, Nord Macedonia e Grecia, a sug-
gello della loro perifericità, erano un luogo remoto. La strada modificò per sempre la geografia, perché fece
sviluppare due importanti città, la cui importanza continua sino ad oggi: Lychnidòs - Ochrida, cui si è accen-
nato, ed Heraklea Lynkestis, poi Monastiri e Bitola.

È interessante che non solo Lychnidòs ma anche Heraklea Lynkestis si sviluppi fuori dalla strada. Guardia-
mola con attenzione. Le città chiamate Heraklea lo sono, quasi sempre, perché sono legate ad una strada e
prendono il nome in onore di Herakles, il dio che aveva percorso infinite miglia. Qui l’interesse per la strada
si interseca con la ricostruzione della stratigrafia orizzontale della città, tra le maggiori d’Europa. Heraklea
Lynkestis era addossata a una collinetta, alle spalle della quale, più a Nord, si apriva una convalle. Da essa, e
non dalla città, passava la strada che veniva da Edessa e risaliva al passo di Gjavato (intorno ai 1000 metri)
per ridiscendere ai laghi di Prespa. Da notare che, malgrado la totale degrecizzazione della regione, operata
nei secoli dai Turchi e perfezionata ad ogni buon conto dall’esercito serbo intorno al 1912, il paese vicino al
valico, Gjavato, ha conservato un nome bizantino (διαβατός = passo). Della città rimane un quartiere tardo
antico di un certo pregio: teatro e chiese paleocristiane. Fu abbandonata nel VII secolo dopo essere stata
devastata dai Serbi, appena giunti in Macedonia chiamati da Eraclio per scacciare dai Balcani gli Avari. A ben
vedere viene da pensare ad un abbandono graduale. Forse si seccarono i pozzi o non si poté più riparare
l’acquedotto, e la gente si trasferì oltre la convalle, che ancora oggi non è edificata e ospita giardini e stazione,
nella collina subito a Nord, dove corre un grosso torrente, il Dragor. In tutto due chilometri di distanza, da
Herackea al termine della salita che funge da corso, dove la statua di Filippo II segna l’inizio della città
medievale. Nel nuovo sito essa prende il nome greco di Monastiri, ripreso in albanese ed in turco, ma gli Slavi
preferiscono tradurlo in Bitola. Bitola nell’Ottocento è la città centrale della Macedonia, finché le guerre bal-
caniche non la riducono ad un posto di confine.

Dobbiamo pensare che tutte queste opere siano volute da Filippo II perché mirano a due risultati che prima
di lui non interessavano la monarchia macedone: la creazione di una città nel territorio dei Macedoni Lincesti,
che per i suoi predecessori potevano tranquillamente vivere κατὰ κώμας allevando cavalli, ma che per lui
significava la totale adesione della Macedonia al modello urbano greco, e il controllo dell’Illiria, ottenuto con
due diverse guerre e l’assoggettamento delle dinastie locali.
È bene aggiungere due parole sui Macedoni Lincesti, regno indipendente di Macedoni. Fatto unico, perché
il regno di Macedonia, che inizialmente comprende solo le pendici settentrionali dell’Olimpo, con la capitale
Aigai, e la valle dell’Haliakmon, si estende progressivamente su tutti i cantoni della regione, e con esso si
estende anche il nome della Macedonia e dei Macedoni. I Lincesti invece sono definiti Macedoni ma stanno
fuori dal regno. Ciò fa pensare prima di tutto che il loro re Arrabazo fosse della stessa dinastia dei vicini, e poi
che i Lincesti si ritenessero consanguinei degli altri Macedoni. Questo non è di poca importanza, e dovrebbe
essere tenuto di più presente nelle interminabili diatribe sul vero ἔθνος dei Macedoni, sul loro essere Greci
ab initio oppure ellenizzati, che ha distinto nei decenni passati tutto un indirizzo di studi, e di cui in questo
momento possiamo anche fare a meno (anche perché abbiamo ricordato in altre pagine l’impatto negativo
che la querelle, in realtà singolarmente mal posta, ha avuto sulla moderna “questione macedone”).

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