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Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

Lorenzo Terzi*

Alla cara, lieta memoria


di Padre Stefano Angiuli C.M.

Cenni biografici su P. Antonio Fanuli C.M.

La biografia di Antonio Fanuli è stata fedelmente ricostruita, in occasione della


sua morte, da P. Giuseppe Guerra1, attualmente Superiore della Provincia Napoleta-
na della Congregazione della Missione di S. Vincenzo De Paoli.
P. Guerra ricorda, innanzitutto, che il compianto confratello era nato a Copertino,
in provincia di Lecce, il 4 marzo 1932. Alunno della Scuola Apostolica di Lecce, il 6
novembre 1948 Fanuli entrò nella comunità dei Missionari Vincenziani, iniziando a
Oria il noviziato, che proseguì fino al 1950 sotto la direzione del P. Raffaele Vanacore.
Compì gli studi liceali, sempre a Oria, con P. Michele Cappiello, e quelli di Teologia a
Napoli con P. Filippo Grillo. Fu ordinato sacerdote il 24 marzo 1957 da Mons. Alfonso
Castaldo, a quell’epoca amministratore apostolico della Diocesi di Pozzuoli.
Inviato a Roma per specializzarsi negli studi biblici, conseguì la licenza in Teo-
logia all’Angelicum di Roma nel 1958, e quella in Sacra Scrittura nel 1960, presso il
Pontificio Istituto Biblico, ove sarebbe tornato nove anni più tardi per ulteriori perfe-
zionamenti. Cominciò la sua carriera di insegnante come docente di Sacra Scrittura
a Torino (1961-1963), per poi portarla avanti quasi ininterrottamente a Napoli, in
particolare presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, dove divenne ordi-
nario nel 2002.
Fu inoltre “Direttore degli Studenti” dal 1963 al 1965, Padre Spirituale al Semi-
nario Maggiore di Napoli dal 1965 al 1967, “Direttore dei Novizi” dal 1967 al 1969
a Benevento, di nuovo Padre Spirituale al Seminario Maggiore di Napoli dal 1984
al 1989.
L’incarico di Direttore delle Figlie della Carità della Provincia di Napoli, affi-
datogli dal 1989 al 1996, obbligò P. Fanuli a interrompere provvisoriamente l’inse-

* Archivista e bibliotecario, direttore di «Scrinia. Rivista di paleografia, diplomatica e


scienze storiche».
Il presente lavoro è stato originariamente realizzato come tesina finale del Corso di Biblio-
grafia tenuto dalla Prof.ssa Raffaella Vincenti presso la Scuola Vaticana di Biblioteconomia
(anno accademico 2014/2015), ed è stato successivamente rivisto e corretto in previsione
della sua pubblicazione in volume.
1
G. Guerra, Nella Missione dei Santi. P. Antonio Fanuli C.M. (1932-2005), in «Carità e
Missione», 5 (2005), pp. 157-162.

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gnamento. Peraltro il biblista salentino ricoprì la sua carica con totale dedizione, e
fu presente in tutte le circostanze, liete e tristi, della vita materiale e spirituale delle
Suore, fungendo sempre da animatore e formatore, sia in Italia sia all’estero.
Dal 1971 fino al 1974 fu Superiore della Casa di S. Gioacchino a Napoli; venne
poi trasferito presso la restaurata Casa di Formazione, sita sempre a Napoli, al Corso
Vittorio Emanuele, nel complesso di San Nicola da Tolentino. Consultore Provincia-
le per molti trienni – dal 1977 al 1985 e dal 1988 al 1995 – Fanuli ricevette la nomina
ad Assistente Provinciale nel marzo 2004.
Qualche mese dopo, però, fu colpito da una neoplasia polmonare che nel giro di
poche settimane lo condusse alla morte, avvenuta a Napoli il 2 agosto 2005.

L’impegno didattico

I discepoli di Fanuli sono concordi nel sottolineare, in lui, quello che P. Guerra
definisce felicemente il “carisma dell’insegnamento”: esso faceva dello studioso pu-
gliese un docente apprezzato per la didattica e per l’equilibrio che sapeva mantenere
tra i valori della tradizione e le aperture a nuove prospettive, nonché per la capacità
di tenere uniti il metodo rigoroso e scientifico e la divulgazione chiara e attraente.
Queste qualità si riscontravano, puntualmente, nelle sue lezioni a scuola, nelle nu-
merosissime conferenze da lui tenute nelle sedi più disparate, nei corsi biblici, nelle
sessioni di studio e nei convegni, nei corsi di esercizi spirituali e, naturalmente,
all’interno degli scritti elencati nella seguente Bibliografia.
L’inizio dell’attività didattica di Fanuli, ai primi degli anni ’60, coincise con
l’inizio del Concilio Vaticano II e con il grande impulso dato agli studi scritturistici
dalla Costituzione Dogmatica conciliare Dei Verbum. I suoi alunni di allora – molti
dei quali divenuti poi vescovi, rettori o a loro volta docenti – ricordano come egli
riuscisse a insegnare secondo le nuove metodologie di esegesi biblica senza disporre
di libri di testo adeguati, e come sapesse inculcare i nuovi principi interpretativi con
chiarezza e con rigore scientifico.

Il fondo librario “Antonio Fanuli”

Alla sua morte Antonio Fanuli lasciò alla Biblioteca della Provincia Napoletana
della Congregazione della Missione il suo personale patrimonio librario, che è anda-
to a costituire il cospicuo Fondo “Antonio Fanuli”. Esso è stato oggetto di un inter-
vento di inventariazione, timbratura e catalogazione su software ISIS30 promosso
dai Padri Vincenziani sotto la supervisione del bibliotecario, P. Stefano Angiuli, e
realizzato dall’autore della presente bibliografia insieme con la Dott.ssa Linda Iacuzio.
La composizione del Fondo Fanuli riflette senza dubbio la personalità dell’autore
e dello studioso così come è stata delineata, per sommi capi, nei precedenti paragrafi.
Fra gli oltre 9900 volumi e opuscoli che compongono il lascito dello scrittore

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vincenziano, infatti, compaiono pochissimi esempi di libri antichi e di quelle edizio-


ni che nel linguaggio corrente si definiscono “di pregio”. Avanziamo l’ipotesi che
questa caratteristica del Fondo Fanuli sia dovuta alla concezione del libro propria del
biblista vincenziano.
Non tutti gli studiosi sono anche “bibliofili” in senso stretto; probabilmente
nemmeno Fanuli lo fu. Egli dové avere un’idea del libro come testimonianza di un
“messaggio” da ricevere e da trasmettere, attraverso la parola e gli scritti (magari,
altri libri), e non tanto come “oggetto” da possedere e custodire per il suo valore in-
trinseco. Quella di P. Antonio Fanuli, infatti, è la tipica biblioteca di un “professore”,
contenente testi da usare quali subsidia studiorum per perfezionare e comunicare
sempre meglio la propria materia.
Possiamo affermare che il Fondo in questione si compone in grandissima parte di
monografie. Seguendo lo schema impiegato da Giuliana Sapori – nel suo manuale per
l’applicazione delle REICAT in SBN2 – allo scopo di distinguere fra i vari tipi di pub-
blicazioni monografiche, siamo anche in grado di aggiungere che la biblioteca di Fanuli
comprende monografie costituite da una sola unità, da unità pubblicate tutte insieme o
contemporaneamente, da più unità pubblicate in tempi successivi, e anche da pubbli-
cazioni a carattere monografico, ma concepite e progettate per raggiungere il com-
pletamento o conclusione con l’edizione in successione di un certo numero di unità.
Esempi di quest’ultima tipologia di pubblicazioni monografiche sono, a puro
titolo esemplificativo: il Grande lessico del Nuovo Testamento (Brescia, Paideia,
1965-1992), in sedici volumi; la Corrispondenza di S. Vincenzo De Paoli (Roma,
Edizioni Vincenziane, 1952-1982, 16 voll.); la Storia del Mondo Moderno (Milano,
Garzanti, 1972, voll. 12).
Non mancano le opere che in biblioteconomia si definiscono “di consultazione”.
Vi sono, innanzitutto, i sussidi primari: dizionari di tipo bio-bibliografico (intenden-
do, in questo particolare caso, il termine “biografico” come riguardante la vita di una
corporazione religiosa, e non di una singola persona), per esempio il Dizionario de-
gli istituti di perfezione (Roma, Paoline, 1974-2003, voll. 10); enciclopedie speciali
alfabetiche, come l’Enciclopedia del Novecento (Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 1975-1990, voll. 9) e l’Enciclopedia cattolica (Città del Vaticano, Ente per
l’enciclopedia cattolica e per il libro cattolico, 1948-1954, voll. 12).
Ma il Fondo Fanuli annovera pure sussidi secondari: tale è la Bibliografia storica
ragionata su Sant’Amato da Nusco, curata da Gennaro Passaro (Nusco, Poligrafica
Irpina, 1993), o le bio-bibliografie Notices Bibliographiques sur les écrivains de la
Congrégation de la Mission (Angoulême, Imprimerie de J.B. Baillarger, 1878) e la
Bibliografia dei Missionari di S. Vincenzo De Paoli del Mezzogiorno d’Italia (1668-
1968), di Giacomo Conte C.M. (Roma, Fratelli Palombi, 1971).
La maggior parte del patrimonio librario appartenuto a P. Antonio Fanuli si pre-

2
G. Sapori, Regole di catalogazione per SBN, http://manualesapori.cilea.it/index.php?id=706
(link attivo il 27 luglio 2015).

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senta, dunque, abbastanza omogenea, essendo formata da testi che trattano materie
oggetto d’insegnamento e di studio da parte del biblista vincenziano. Al tempo stes-
so occorre rilevare, però, che non pochi sono i volumi di narrativa, italiana e stranie-
ra, spesso raggruppati per collezione.
Né è da tacersi il fatto che, dopo la scomparsa di Fanuli, sono state aggregate alla
sua biblioteca personale opere che non ne facevano parte; spesso, sui fogli di guardia
o sugli occhielli, si trovano firme o timbri di appartenenza dei suoi confratelli.
Singolare, in tal senso, è il caso di un nucleo librario d’una certa consistenza, uni-
to al Fondo Fanuli in tempi recenti, già proprietà di Mons. Gastone Mojaisky-Per-
relli (1914-2008), arcivescovo di Nusco e poi della Diocesi di Conza – Sant’Angelo
dei Lombardi – Bisaccia. Mojaisky, nel corso della sua carriera ecclesiastica, ricoprì
numerosi incarichi in diverse parti del mondo, grazie alla sua padronanza delle lin-
gue. Fu destinato dapprima in Bolivia, nel 1942, quale Segretario della Nunziatura e
incaricato di affari ad interim, mansione che ebbe anche a Santiago del Cile. Trasfe-
ritosi in Svizzera come uditore, nel 1951 venne inviato in Messico come Consigliere
di Nunziatura. Resse anche, ad interim, le Nunziature di Cuba e Guatemala. Ricoprì,
quindi, la carica di Delegato apostolico a Mombasa, in Kenia, per poi insediarsi a
Leopoldville, nel 1959, con la funzione di Delegato per il Congo e Ruanda-Burundi,
fino al suo ritorno in Italia, avvenuto nel 1963.
In conseguenza di ciò, oggi il Fondo “Antonio Fanuli” è arricchito da pubblica-
zioni estremamente rare, edite in America Latina e in Africa, molte delle quali irre-
peribili anche negli OPAC internazionali, come quelle riguardanti il sindacalismo in
Messico negli anni Cinquanta.

Cenni sulla storia e la tipologia della bibliografia.


La redazione della presente bibliografia

Come è noto, il termine “bibliografia” inteso come “liste di libri” compare per
la prima volta nel 1633 nell’opera Bibliographia Politica, di Gabriel Naudè (1600-
1653), segretario e bibliotecario del cardinale Giulio Raimondo Mazarino. Le liste di
libri, in realtà, erano nate convenzionalmente nel 1494 con Tritheim, “perfezionate
da Gesner, 1545, entrate, col nome di bibliography, nella Encyclopaedia Britannica
nel 1797”3. In precedenza il medesimo concetto veniva reso con una terminologia
non specifica e piuttosto oscillante: “bibliotheca”, “catalogus”, “repertorium”, “in-
dex”. Peraltro il vocabolo introdotto da Naudè non conobbe subito grande fortuna,
tanto che, alla fine del XVIII secolo, l’Encyclopédie lo riferì nuovamente allo studio
della paleografia e della codicologia.
Ancora nel 1865 il Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo forni-

3
R. Pensato, Manuale di bibliografia. Redazione e uso dei repertori bibliografici, Milano,
Editrice Bibliografica, 2007, p. 41.

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va la seguente definizione di “bibliografia”: “scritto che tratta della storia de’ libri, e
in essa considera la storia letteraria e civile”. Bisognerà attendere il Novecento per-
ché emerga in modo chiaro e inequivocabile l’autonomia della bibliografia rispetto
alle altre discipline storiche.
Quanto alla tipologia, possiamo distinguere tra bibliografia “generale” e “spe-
ciale: la prima raccoglie testi senza distinzione di soggetto e di lingua; la seconda,
invece, si interessa di testi riguardanti un’unica disciplina o soggetto.
Rispetto all’area geografica, poi, la bibliografia può essere “internazionale” o
“universale” se registra testi pubblicati in vari paesi; “nazionale”, se riguarda opere
pubblicate in una sola nazione e in un’unica lingua; “locale”, infine, se riguarda
opere pubblicate in una determinata località geografica oppure opere di autori locali
pubblicate in luoghi diversi.
Rispetto allo sviluppo storico, una bibliografia è “retrospettiva” se comprende
testi editi nell’arco di un determinato periodo di tempo; “corrente”, se è costante-
mente aggiornata.
Rispetto al metodo di compilazione, abbiamo una bibliografia “segnaletica”, se
fornisce solo informazioni catalografiche: autore, titolo, sottotitolo, luogo di edizio-
ne, editore, anno, numero di edizione, collezione; “descrittiva”, se gli elementi della
bibliografia segnaletica vengono analizzati più ampiamente nella prospettiva della
storia del libro (ciò accade preferibilmente nel caso dei manoscritti, degli incunaboli
e delle cinquecentine). La bibliografia “analitica” contiene anche un’informazione
sul contenuto dei vari testi; quella “critica”, oltre alle notizie catalografiche e a quelle
relative al contenuto, riporta anche un giudizio di valore sull’opera; la bibliografia
“ragionata” mette a confronto il testo con lo sviluppo intellettuale dell’autore; infi-
ne, la bibliografia “selettiva” si ha nel caso in cui il compilatore effettua una scelta
personale dei testi da riportare.
Rispetto alla conoscenza dei testi, possiamo avere, invece, una bibliografia “pri-
maria”, o “di prima mano”, se il compilatore riporta le notizie sui volumi avendoli
materialmente davanti; “secondaria”, o “di seconda mano”, se il compilatore esami-
na le notizie bibliografiche per via mediata.
In ultimo, rispetto all’ordinamento, si distingueranno una bibliografia “crono-
logica”, se in essa viene rispettato il criterio dell’anno di pubblicazione dei testi;
“alfabetica”, se le voci bibliografiche sono ordinate sulla base del cognome e del
nome dell’autore; “sistematica”, se le opere vengono elencate in base a un criterio
di classificazione.
Alla luce di quanto sopra premesso4, il lettore potrà agevolmente constatare che
la bibliografia delle opere di Antonio Fanuli, qui di seguito riportata, è una biblio-
grafia a carattere “speciale”; “nazionale” rispetto all’area geografica; “retrospettiva”
rispetto allo sviluppo storico; “analitica” quanto al metodo di compilazione; “pri-

4
Cfr. F. Russo, In biblioteca, Palermo, L’Epos, 2004, pp. 129-143, in particolare pp. 132-
133, 136-138.

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maria”, perché redatta consultando direttamente i testi conservati nel Fondo Fanuli;
“cronologica”, in quanto rispetta il criterio dell’anno di pubblicazione dei testi.
Nel corso della realizzazione del presente lavoro ci si è sforzati di non perdere
mai di vista i principi della scienza bibliografica, senza però dimenticare che – come
scrive Rino Pensato – le indicazioni di metodo riguardanti la raccolta del materiale
e la ricerca delle fonti oscillano sempre “in misura a prima vista sorprendente e
sconcertante”5. Non esiste infatti, rileva Pensato, una sola metodologia di raccolta
delle notizie bibliografiche, ma tante metodologie quanti sono i generi bibliografici,
e tanto diversificate tra di loro quanto diverse possono essere le finalità dei reper-
tori, la cultura e l’abilità dei compilatori6. Tutte le metodologie, infatti, si possono
considerare valide, purché rispettino i criteri della fondatezza teorica, della coerenza
con l’oggetto del repertorio, della loro verifica sul modello di autorevoli repertori
analoghi già pubblicati e siano, infine, passate al vaglio della destinazione e dell’uso.
Ritornando all’articolazione interna della bibliografia qui esaminata, ferma re-
stando la successione cronologica, all’interno di ogni anno sono riportate prima le
monografie e i contributi in volumi miscellanei, quindi gli articoli in rivista, in ulti-
mo le recensioni.
Un paio fra i titoli di seguito elencati si possono ascrivere a quella tipologia di
pubblicazioni che si definiscono “letteratura grigia”, prodotte “da istituzioni, enti
e società, a uso interno, o per limitata diffusione, e non a scopo commerciale”7. A
questa categoria appartiene anche un documento che si è scelto di non includere,
conservato nel Fondo Fanuli. Si tratta di un dattiloscritto di 70 carte numerate se-
guite da altre cinque con numerazione propria, rilegate in tela. Il frontespizio è così
strutturato: “I. M. I. V. / Introduzione ed esegesi / ai / Salmi / Ad uso privato degli
Alunni / Seminario S. Vincenzo – Torino 1963”. È probabile che tale scritto non sia
altro che una dispensa frutto dell’attività d’insegnante svolta da Fanuli nel capoluo-
go piemontese proprio in quel periodo. Tuttavia, non essendo state rinvenute prove
certe che avvalorassero la suddetta ipotesi, si è deciso di non attribuire l’opera al
teologo di Copertino.
I criteri redazionali seguiti nella compilazione della bibliografia di Fanuli cor-
rispondono a quelli prescritti dalle Norme per i collaboratori delle pubblicazioni
degli Archivi di Stato, edite in «Rassegna degli Archivi di Stato», LI (1991), 2-3, in
appendice con numerazione propria (pp. 1-27).
Circa le fonti consultate al fine della realizzazione del presente lavoro, esse sono
costituite, per quanto riguarda le monografie, dall’OPAC del Servizio Bibliotecario
Nazionale e dal catalogo del “Fondo Fanuli”, redatto – come si è detto – da chi scrive
e dalla Dott.ssa Linda Iacuzio. Per i contributi in volumi miscellanei e gli articoli
in rivista, si è fatto riferimento agli estratti inclusi nel predetto fondo bibliografico,
ma soprattutto all’Elenchus bibliographicus biblicus (cui è subentrato, dal 1985,

5
R. Pensato, Manuale di bibliografia, cit., p. 103.
6
Ibidem.
7
M. Guerrini (a cura di), Guida alla biblioteconomia, Milano, Bibliografica, 2008, p. 66.

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l’Elenchus of Biblica), edito a Roma dal Pontificio Istituto Biblico. Questi dati sono
stati incrociati con quelli riportati su un abbozzo dattiloscritto di bibliografia – forse
compilato dallo stesso Fanuli – lacunoso e contenente varie inesattezze, conserva-
to presso l’Archivio Storico della Provincia Napoletana della Congregazione della
Missione, Carte Fanuli (in ordinamento).
In un solo caso (n. 41) non è stato possibile consultare direttamente il testo: si
tratta di un opuscolo che l’OPAC SBN segnala come custodito in un’unica bibliote-
ca, peraltro di difficile accesso.

Bibliografia delle opere di P. Antonio Fanuli C.M.

1972
1) Il Cristo che mi piace, Torino-Leumann, Elle Di Ci, 1972, 159 pp. (Collezio-
ne “Le coordinate”).
La figura del Cristo, come emerge da questo libro di F., è quella di un Cristo
“scomodo”, che snida i segreti egoismi dell’uomo e le sue subdole complicità
con il male; un Cristo “che passa per il mondo facendo bene a tutti”, denunciando
l’ipocrisia e il conformismo, l’alienazione di una religione ridotta a un rito vuoto,
dissociata dalla vita. Soprattutto, si tratta di un Cristo che dà la vita per gli altri,
per tutti indistintamente, e che spinge quanti vogliono dirsi davvero suoi discepo-
li a fare altrettanto; un Cristo “liberatore” e “uomo nuovo” che vuol fare dei figli
di Dio, a loro volta, degli “uomini nuovi”.
2) L’uomo e la scelta morale nella Bibbia, parte I, L’uomo e la scelta morale
nell’Antico Testamento, in Antropologia biblica e morale. Atti del I Congresso
dei biblisti e moralisti dell’Italia meridionale. Castellammare di Stabia, 1-2
giugno 1971, Napoli-Roma-Andria, Edizioni Dehoniane, 1972, pp. 39-68.
La Bibbia non afferma che l’uomo è capace di una scelta morale, né tanto meno si
preoccupa di stabilire quale sia la motivazione che rende morale o immorale una
scelta: “La Bibbia dimostra che l’uomo è libero, che è capace di una scelta perché
lo presenta come uno che è interpellato, che è chiamato a dare una risposta, che
prende una decisione dando o rifiutando la risposta, che agisce nel senso della ri-
sposta data”. Il tema trattato deve essere dunque considerato nella linea dell’amore
e dell’esperienza. F. illustra questo assunto attraverso l’analisi scritturistica del nes-
so stretto che lega la promessa di Dio, il patto (o “alleanza”) con Israele e la Legge.
Particolare risalto, a proposito del tema della “scelta” dell’uomo, è dato al testo
classico dell’antropologia biblica: quello dei capitoli 1-3 del libro della Genesi.
3) Note d’introduzione biblica. 1. Aprendo la Bibbia…, in «Parole di Vita»,
XVII (1972), pp. 67-68.
“Aprire la Bibbia è come entrare in un museo”, afferma F. Ma chi entra in un museo
ha bisogno di una guida. L’A. sintetizza a grandissime linee la struttura della Bibbia.
4) Note d’introduzione. 2.« Toràh»: la legge che fa d’Israele un popolo, ibid.,
pp. 149-150.

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L’A. dà una scorsa ai primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco), mettendo in risalto
che, per l’antico Israele, la Toràh non costituiva una raccolta di decisioni giudiziarie,
“ma un ammaestramento dato in forma imperativa in nome del suo Dio”.
5) Note d’introduzione. 3. Pentateuco: un concerto a quattro voci, ibid., pp.
229-232.
F. nota che il Pentateuco, a una prima lettura, dà l’impressione di un complesso
letterario unitario. Invece, se per poco si fa attenzione al racconto e lo si analizza
sia pure superficialmente, si arriva alla conclusione che ben quattro autori “o,
meglio, gruppi o scuole di autori hanno lavorato alla composizione dell’attuale
Pentateuco”, anche se non contemporaneamente.
6) Note d’introduzione. 4. Jahvista: un teologo profondo dalla fine psicologia,
ibid., pp. 307-310.
Dei quattro “autori” del Pentateuco, il cosiddetto “Jahvista” è presente in ma-
niera predominante nel libro della Genesi e dell’Esodo e, dal capitolo 10 in poi,
nel libro dei Numeri; è assente totalmente nel Levitico, ma chiude il libro del
Deuteronomio. Suo grande merito, secondo l’A., “è di aver letto per primo nelle
righe della storia umana una storia di Dio con gli uomini orientata nel senso della
salvezza”.
7) Cristo e gli uomini del potere, ibid., pp. 365-372.
A differenza della folla, le cui reazioni sono molto spesso improvvise e inconsul-
te, l’uomo di potere è per eccellenza l’uomo del calcolo. Gesù ha sperimentato
i colpi e i contraccolpi delle emozioni facili delle moltitudini. Le autorità che
l’hanno avversato si sono dapprima tenute alla larga; solo al momento opportu-
no sono arrivate a interventi più diretti, fino a mettere il Cristo sotto processo.
Inizialmente “farisei ed erodiani” lo sottopongono a esame per coglierlo in fallo,
mentre i sadducei, i quali non credevano nella resurrezione dei morti, tentano
di ridicolizzarlo con domande come quella sulla condizione ultraterrena di sette
fratelli che avevano sposato la stessa donna (Mc 12,18-23). Infine un uomo disin-
teressato e onesto chiede a Gesù quale sia il primo di tutti i comandamenti.
Cristo supera brillantemente questo esame improvvisato, tanto che l’evangelista
annota: “E nessuno più ardiva interrogarlo” (Mc 12,34c).
Le autorità, incapaci di liquidare l’incomodo rabbi per mezzo di dispute teologi-
che, tramano finché non riescono ad arrestarlo, trascinarlo in tribunale ed elimi-
narlo. Ma l’impresa non viene portata a compimento senza difficoltà: davanti ai
giudici – l’autorità religiosa (i gran sacerdoti), culturale (gli scribi) e politica (gli
anziani) – sfilano testimoni incapaci di concordare un’accusa credibile, mentre
l’imputato tace ostinatamente. Allora il sommo sacerdote gioca l’ultima e de-
cisiva carta: chiede a Gesù se egli sia il Messia. Cristo questa volta non resta
in silenzio. Risponde a Caifa di essere, in effetti, non solo quel che ha detto il
sommo sacerdote, ma molto di più: di essere uguale a Dio, di potersi attribuire
le sue prerogative. Il suo accusatore, a questo punto, si straccia le vesti, non per
ipocrisia, ma perché sinceramente scandalizzato per aver udito quelle parole, che
non potrebbero non suonare spaventosamente blasfeme alle orecchie di un ebreo
del suo tempo.

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8) Cristo, il Vivente risorto dai morti: un uomo che è Dio in persona, ibid., pp.
373-380.
Spesso, nei Vangeli, le affermazioni di Gesù suscitano profonde perplessità, se
non reazioni scandalizzate, in quanti lo ascoltano, soprattutto quando egli si at-
tribuisce poteri che la religione ebraica considerava esclusivi di Dio: il rimettere
i peccati (Mc 2,6) o l’essere “padrone del sabato” (Mc 2,28). Il suo “mistero”
diviene per un momento luminoso nell’episodio della Trasfigurazione. Ma il ba-
leno che squarcia le nubi e apre il reale orizzonte della personalità di Cristo è la
sua resurrezione, attestata dalla testimonianza degli apostoli, i quali lo vedono e
gli parlano più volte dopo la sua morte. L’uomo Gesù, scrive F., è Signore poiché
è nel contempo un Io divino, “un essere preesistente alla creazione e mediatore
della creazione, è l’immagine, la riproduzione perfetta di Dio, perciò è detto Fi-
glio, Unigenito, Diletto”. Proprio perché è Dio, il suo essere umano – sebbene
fatto di carne e sangue come tutti gli altri uomini – non può rimanere prigioniero
della morte. Assurge, infatti, a una vita rinnovata, è fatto partecipe dello splendo-
re della vita divina. Le parole e i gesti di Cristo vanno dunque riletti all’insegna
della nuova luce della resurrezione. In questa rilettura è possibile scoprire Gesù
come colui che salva l’uomo e la sua speranza ultima: quella di non perire e di
non tornare nel nulla da cui è stato tratto.
9) Note di introduzione. 5. L’Elohista: il teologo di un Dio trascendente e salva-
tore, ibid., pp. 383-386.
L’autore del Pentateuco individuato con il termine “Elohista” è mosso dall’esi-
genza di dare un’idea di Dio che sottolinei la sua distanza dall’uomo, esprimen-
done la trascendenza e la maestà. Questa distanza è colmata da profeti e mediatori
scelti fra gli uomini. I “dieci Comandamenti” sono la legge fondamentale sulla
quale Israele si impegna e si obbliga con Dio.
10) Note di introduzione. Deuteronomio: quando ci si appella al cuore, ibid., pp.
471-474.
Protagonista del Deuteronomio è un Mosè diverso da quello dei due libri precedenti
che parlano di lui, ovvero Esodo e Numeri. Il profeta “si trasforma in un oratore
dal tono caldo e suadente”: l’intero libro del Dt è, infatti, composto da tre grandi
discorsi, nei quali è evidente la lezione della storia. Crollata Samaria sotto l’assedio
di Sennacherib, gli Ebrei sono costretti a emigrare in gran parte nell’Assiria. Di
fronte alla catastrofe storica, chi parla per bocca di Mosè ribadisce in tutta la sua
importanza e imponenza la funzione dell’Alleanza come baluardo d’Israele.

1973
11) Note di introduzione. Storia deuteronomistica: una storia religiosa, in «Paro-
le di Vita», XVIII (1973), pp. 73-76.
Il punto di partenza della dottrina deuteronomica è, secondo F., l’elezione: Dio
si è scelto Israele. Il Deuteronomio ha fornito la motivazione più profonda della
scelta del Signore: “Dio opera, crea, salva quando ama. Al fondo e alla radice di
ogni intervento di Dio c’è l’amore” e la sua gratuità. Ma all’elezione di Dio deve
far seguito l’elezione di Israele, che viene posto dinanzi al bivio tra la vita e la

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morte, ovvero tra l’accettazione o il rifiuto dell’alleanza. Dall’unicità di Jahvè


scaturisce il radicalismo dell’amore che Israele deve ricambiare al suo Dio.
12) Note di introduzione. Terra di Canaan, dono di Jahvè, ibid., pp. 150-154.
Con il libro di Giosuè cambia solo il protagonista umano del Deuteronomio: Gio-
suè, appunto, al posto di Mosè. Ma, allo stesso modo di costui, Giosuè inizia col
rivolgere al popolo le parole che gli sono state dette da Dio e termina con due
discorsi in cui rinnova l’alleanza e lascia il popolo “decisamente orientato nel
servizio del suo Dio salvatore”. L’episodio qui narrato della lotta vittoriosa di
Israele contro gli Amorrei nella battaglia di Gabaon mette in luce la convinzione,
da parte dello stesso Israele, dell’intervento risolutore di Dio.
13) Note d’introduzione. Ombre e luci d’un mondo barbarico, ibid., pp. 229-233.
F. esamina la struttura del Libro dei Giudici, in cui si ricapitolano gli avvenimenti
della conquista di Canaan da parte delle tribù ebraiche. A rigor di logica, quindi,
dovrebbe essere una sintesi del libro di Giosuè. Invece costituisce un racconto
diverso, anche se parallelo. I “Giudici” sono i protagonisti delle vicende narrate:
capi che hanno il compito di amministrare la giustizia, ma soprattutto capi politici
di singoli clan o tribù. Ci troviamo certamente di fronte a una popolazione dalla
vita e dalla mentalità barbariche, sostiene l’A. Ma tutto questo rientra nel piano di
Dio, che “costruisce il suo disegno di amore e di salvezza dell’uomo, servendosi
di tutto l’uomo così com’è”.
14) Note d’introduzione. Glorie e sfortune dei tempi nuovi, ibid., pp. 311-315.
Nei due libri cosiddetti “di Samuele” e “di David” c’è di tutto: storia, leggenda
e saga; profezia e inni. La vicenda in essi narrata ruota intorno a tre personaggi:
Samuele, Saul e David. Il primo è il “predestinato sin dalla nascita”. Saul, invece,
è un re sfortunato, ma anche incauto, che abusa del suo potere sconfinando nel
sacro, a lui interdetto. David “ha tutto di un uomo di eccezione”, ma è anche de-
bole in casa e in famiglia. Ciononostante, però, su di lui veglia il Signore, perché
egli rimane sempre “l’uomo fedele”. Per questo suo merito, Jahvè stipula con la
sua dinastia “un’alleanza in bianco”: non solo il trono sarà assicurato alla discen-
denza di David, ma i suoi successori saranno adottati come figli da Jahvè che, per
mezzo loro, stabilirà la sua regalità sulla terra.
15) Note d’introduzione. Una scuola che insegna a leggere i «segni dei tempi»,
ibid., pp. 384-389.
Sebbene l’espressione “segni dei tempi” sia relativamente nuova, essendo stata
coniata da papa Giovanni XXIII, basta prendere il 1° e 2° Libro dei Re “per ac-
corgersi che più autori o, se vogliamo, un’intera scuola s’è applicata allo studio
e all’interpretazione di essi”. I tempi forti dell’intera vicenda dei due libri sono:
la presa di Samaria (721 a.C.), con la relativa scomparsa del Regno del Nord o
Regno d’Israele; la presa di Gerusalemme (587 a.C.), con relativa scomparsa
del Regno del Sud o “Regno di Giuda”; l’esilio in Babilonia (587-538). L’au-
tore, secondo F., è senz’altro un gerosolimitano, “buon nazionalista, devoto del
Tempio, conquistato alle idee della riforma religiosa”. A prima vista fa opera da
storiografo. Ma a lui la storia come la intendiamo noi non interessa affatto: egli
scrive una storia religiosa nella quale il Tempio di Gerusalemme è al centro dei

26
Lorenzo Terzi

suoi interessi. Finché Gerusalemme e il Tempio sono in piedi, anche l’alleanza


con Jahvè continua. L’anonimo autore sacro, quindi, “indirizza con il suo scritto
un appello alla fede e all’impegno morale della sua gente”.
16) Peccato e Alleanza nella Bibbia, ibid., pp. 405-416.
Quando si parla di “peccato”, nella Bibbia, non si può fare a meno di inquadrare
il concetto nel contesto dell’alleanza. Il peccato si configura, così, come un’infra-
zione clamorosa degli impegni che Israele si è assunto con il suo Dio, abbando-
nando la vita e consegnandosi alla morte, avendo rifiutato l’amore di Jahvè, “più
attento e memore di una madre che non può dimenticare il figlio delle sue viscere
(49,15)”. In sintesi, la ricerca condotta sul peccato rapportato all’alleanza ne evi-
denzia un triplice aspetto: giuridico e filosofico, teologico e religioso, sociale. In
ogni caso, da qualsiasi punto di vista ci si ponga, Israele non sa vedere il male
morale dell’uomo se non nella dimensione religiosa. “Non esiste nella Bibbia”
conclude F. “una morale «atea». Giacché al fondo del proprio essere e della pro-
pria storia, l’uomo trova Dio”.
17) Note d’introduzione. La tradizione sacerdotale. Dall’esilio un invito alla spe-
ranza, ibid., pp. 469-473.
F. ricorda le quattro “voci principali” che formano il “concerto” del Pentateu-
co: “la più antica è denominata jahvista, la sorella più giovane elohista, la terza
derivata o collegata con la seconda, deuteronomista”. La quarta, la più tardiva,
è servita da ordito all’intera trama del Pentateuco, ed è la tradizione “sacerdota-
le”. Rientra in essa il grandioso racconto della creazione (Gen 1,1-2,4a). L’intero
brano, infatti, è percorso da un’evidente finalità cultuale, che tradisce la matrice
sacerdotale della sua provenienza. La suddetta tradizione racchiude un doppio
contenuto: quello a sfondo storico e l’altro strettamente giuridico. Alla base della
storia sacerdotale vi è, a sua volta, una doppia preoccupazione: una teologica e
l’altra esistenziale. La teologica è evidente nello sforzo di tracciare un quadro
completo e continuativo della storia della salvezza. La preoccupazione esisten-
ziale emerge, invece, nel racconto degli antichi fatti: è utile tornare a narrarli per
poterli nuovamente meditare, traendone ispirazione per il presente.

1975
18) Note d’introduzione. Quando la legge diventa un messaggio, in «Parole di
Vita», XX (1975), pp. 69-74.
Per Israele la legge è condizione di vita senza aggettivi. Ciò che lo distingue dagli
altri popoli, infatti, è l’incontro con il suo Dio salvatore. Pertanto la volontà di Dio
“diventa legge per Israele, diventa comandamento, diventa condizione perché con-
tinui a usufruire dell’assistenza e della salvezza assicuratagli solennemente da lui”.
Ai primi cinque libri della Bibbia (in greco “Pentateuco”) gli israeliti danno quindi
il nome di “Torâh”, cioè, per l’appunto, di “legge”. La legislazione più estesa, so-
stiene F., doveva appartenere alla tradizione sacerdotale. Da tutta la legislazione
sacerdotale, però, si stacca per importanza, antichità e dottrina il cosiddetto “codice
o legge di santità”, inserito nella parte centrale del Levitico. Alla base di questa le-
gislazione vi è la dottrina della “trascendenza di Dio”. All’infuori di siffatto “nucleo

27
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

centrale”, non vi è che legislazione “cultuale” in senso stretto, distinta in tre tipi:
“ammaestramento al popolo”, “rituale” e “scienza sacerdotale”. Di fronte alla rovi-
na delle grandi istituzioni del Tempio e della monarchia, l’unità del popolo disperso
nell’esilio si ricostruisce intorno alla legge scritta.
19) Note d’introduzione. Congedandoci dal Pentateuco, ibid., pp. 142-148.
Un solo autore, o redattore, o tutt’al più un solo gruppo di redattori, compirono
un lavoro di “orditura” sul materiale del Pentateuco. Secondo gli studiosi, questo
lavoro fu portato a termine dopo l’esilio, nel V secolo a.C., in Palestina. F. si
occupa poi di un problema che definisce demodé, ovvero quello dell’autentici-
tà “mosaica” del Pentateuco. Innanzitutto, “la questione dell’autore di un dato
libro biblico è secondaria ai fini del messaggio che porta”. In secondo luogo la
tradizione – presunta “antichissima” – secondo cui Mosè sarebbe stato l’autore
letterario del Pt, non è così antica come si pensa, risalendo al tardo giudaismo
(Filone e Flavio), quindi, in sostanza, all’epoca di Gesù. Inoltre, è pur vero che il
Pentateuco è “storia e legge”. Per quattro quinti la storia riguarda gli avvenimenti
dell’Esodo e del Sinai, nei quali la personalità di maggiore spicco in assoluto è
proprio Mosè. Tutta la legislazione successiva è stata considerata come lo svi-
luppo e l’applicazione di quella mosaica. Se, dunque, non possiamo parlare di
“paternità sostanziale”, resta il fatto che Mosè è effettivamente “padre” del Pen-
tateuco, in un senso forse ancora più profondo e radicale.
Quanto all’analoga questione se si possa parlare propriamente di “storia” a pro-
posito dei fatti narrati nel Pt, bisogna precisare che nessun libro della Bibbia ha
un intento puramente storiografico: “ogni fatto, vicenda, legge, canto, insegna-
mento ha un senso e rivendica un diritto di presenza nella Bibbia solo e in quanto
serve all’esperienza religiosa”.
20) Note d’introduzione. Cronache: quando l’idealizzazione non nuoce, ibid., pp.
229-233.
Sotto il titolo di “Cronista” la moderna scienza biblica vorrebbe racchiudere i
Libri I e II delle Cronache e quelli di Esdra e Neemia. Le imprese del sacerdote
Esdra e del governatore Neemia si riferiscono al periodo della restaurazione di
Israele dopo l’esilio. Sembrerebbe trattarsi, dunque, di un “doppione” della storia
deuteronomistica. Eppure, nota F., vi sono delle differenze non trascurabili. Per
esempio, le genealogie della Genesi ruotano intorno alla figura di Abramo; quelle
del primo libro delle “Cronache”, invece, sono polarizzate intorno alla figura e
all’azione di Davide: un Davide un po’ “idealizzato”, nel quale il cronista vede il
grande fondatore del culto del Tempio, come Mosè lo è stato di quello del deserto.
Il secondo libro delle Cronache ha invece quale protagonista Salomone. Il merito
più grande attribuito a questo personaggio riguarda ancora una volta il Tempio: il
fatto, innanzitutto, di averlo costruito; in secondo luogo, quello di avervi installa-
to il culto secondo le prescrizioni di Mosè e di suo padre Davide.
Il rimanente del secondo libro è consacrato alle grandi riforme religiose di Eze-
chia e di Giosia, cui, però, segue la rovina del Tempio, ma con l’accenno a Ciro
che ne ordina la ricostruzione a Gerusalemme.
Può dunque dirsi a ragione che il Cronista è “un testimone attento e sensibile alle
tradizioni del suo popolo”.

28
Lorenzo Terzi

21) Note d’introduzione. Esdra e Neemia: sionismo antico e moderno, ibid., pp.
311-316.
Il sionismo, afferma F., non è un fenomeno esclusivo del secolo XX. Anzi, come
aspirazione a ricostruire la propria vita nazionale nella sede dei padri, esso è ab-
bastanza antico. Anche sotto l’aspetto del ritorno materiale, lento ma continuo,
alla terra d’origine, non è una novità. Lo dimostrano i Libri di Esdra e Neemia. È
quest’ultimo, infatti, a ricostruire le mura di Gerusalemme, ed è lo scriba Esdra a
provvedere “al rimpatrio, alla ricostruzione, al ripopolamento del nuovo Israele”,
imponendo a tutti i rimpatriati la “Legge di Mosè” quale legge dello Stato. Con
lui nasce il “Giudaismo”, con le sue tre idee di base: “la razza eletta, il Tempio, la
Legge”. Sotto questo aspetto la comunità di Esdra e di Neemia andrà fatalmente
incontro al “settarismo”, specialmente verso i Samaritani, e al “particolarismo”
verso gli stranieri. Ma si tratta anche di una comunità che “si rinnova attingendo
alla tradizione migliore e all’eredità più recente a forte tendenza spiritualista del
Deuteronomio, di Geremia e di Ezechiele”, sviluppando così una spiritualità che
nei filoni della liturgia (i Salmi) e della sapienza più tardiva (il Libro della Sapien-
za) prelude al Nuovo Testamento.
22) Note d’introduzione. Ester: l’antisemitismo non è di oggi; Tobia, dall’esilio
un altro romanzetto edificante; Giuditta, da una donna la salvezza, ibid., pp.
384-391.
La storia narrata nel Libro di Ester testimonia che l’antisemitismo non è un pro-
blema solo odierno. Ester è una giovane ebrea bellissima prescelta per diventare
la moglie del re persiano Assuero. Suo zio, Mardocheo, si serve di lei per con-
trastare i disegni del gran visir Aman, il quale vorrebbe sterminare in massa gli
isreaeliti. Alla fine Assuero, venuto a conoscenza delle trame di Aman e dei suoi,
ne ordina l’impiccagione.
In realtà la vicenda di Ester non trova riscontro nella storia “vera”. Più che di
“storia”, quindi, bisognerà parlare di racconto ben imbastito a sostegno di una
teoria: una sorta di “romanzo storico”, insomma. Il cuore del Libro di Ester è una
lezione di fede: il tema del capovolgimento delle sorti, che fa ricadere sui malvagi
il frutto dei propri misfatti e libera gli oppressi.
Il racconto di Tobia, invece, si svolge durante la diaspora ebraica, tra i deportati del
regno del Nord in Assiria e nella Media (VIII-VII secolo a.C.). Tobi, della tribù di
Neftali, è deportato a Ninive, dove continua a mostrarsi pio osservante della legge
mosaica. Un incidente, però, lo fa diventare cieco. Sara, unica figlia del cugino di
Tobi, Raguele, è nata ad Ecbatana. Fidanzata a sette giovani, nessuno è riuscito a di-
ventare suo marito, perché la sera delle nozze il demonio Asmodeo, puntualmente,
li ha uccisi. Dio ascolta le preghiere dell’uno e dell’altra capovolgendo la situazio-
ne. Manda infatti l’arcangelo Raffaele a prendere l’unico figlio di Tobi, Tobia, per
portarlo da Raguele, gli fa sposare Sara e gli fa pescare un pesce dal quale trarre un
rimedio per la cecità del vecchio Tobi. Il racconto non serve ad altro se non a ripro-
porre e a risolvere il tragico problema della letteratura sapienziale: “la bontà ha una
sua ricompensa? Vale la pena vivere?”. Il giusto, sebbene tribolato, viene ascoltato
da Dio, perché questi non è indifferente o assente, ma solo nascosto, nell’attesa di
cogliere il momento giusto per ricavare il bene dal male.

29
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

Analogamente, il Libro di Giuditta, pur facendo riferimento a qualche personag-


gio storico, con la storia vera e propria non ha nulla a che fare. Oloferne, generale
in capo dell’esercito di Nabucodonosor, pone sotto assedio Betulia, per poter
dilagare nelle pianure della Giudea allo scopo di sottomettere gli Ebrei e sop-
primerne il culto. Giuditta, una giovane vedova di Betulia, dopo aver accusato
i capi religiosi israeliti di poca fede, si presenta da Oloferne con l’intenzione di
sedurlo. La notte, quando tutti dormono e il generale è completamente ubriaco,
Giuditta gli stacca la testa e l’indomani la presenta trionfalmente ai suoi cittadini.
L’esercito di Oloferne, disorientato, si dà alla fuga.
Questa narrazione presenta enormi incongruenze, come si è accennato, sul piano
storico ma anche geografico. Essa deve essere però considerata come un “raccon-
to edificante” fondato sul tema della lotta fra Dio e l’empio, e fra il popolo di Dio
e i suoi oppressori.
23) Note d’introduzione. 1 e 2 Maccabei: Ellenismo e Giudaismo si scontrano,
ibid., pp. 471-476.
Un prete ebreo di Modin, località a trenta chilometri da Gerusalemme, padre di
cinque giovani figli, i Maccabei, invitato sulla pubblica piazza del suo paese a sa-
crificare agli dei del re seleucida, non solo si rifiuta, ma uccide anche l’ebreo che
davanti a tutti aveva osato sacrificare. Con l’era maccabaica, scrive F., “s’inizia
l’epoca della difesa, alla quale Israele successivamente dovrà ricorrere spesso e
spesso in maniera sfortunata […] per salvaguardare la propria indipendenza o la
propria fisionomia religiosa”.
Il 2 Libro dei Maccabei non è la continuazione del primo. L’autore, che scrive
in greco, “strumentalizza” la storia, sovraccaricandola di prodigi e di interventi
miracolosi dall’alto, con un intento di edificazione al quale concorre pure lo stile,
“oratorio, ampolloso, suadente”, di chiara matrice ellenistica. Si tratta, dunque, di
un giudeo “ellenizzato”, che però resta pur sempre un giudeo. Come ogni giudeo
autentico, è entusiasta della tradizione religiosa della sua gente: centra infatti i
suoi interessi e le sue tematiche sul Tempio.
Ma 2 Mac è anche uno dei libri più ricchi di dottrina di tutto l’Antico Testamento.
L’anonimo scrittore afferma con chiarezza le verità della resurrezione dei morti,
delle sanzioni d’oltre tomba, dell’efficacia della preghiera per i defunti, dei meriti
dei martiri e dell’intercessione dei santi. Conclude F.: “Il Nuovo Testamento e i
cristiani gli devono molto”.

1976
24) Il Cristo che mi piace..., Torino – Leumann, Elle Di Ci, 1976, 159 pp. (Colle-
zione “Le coordinate”).
Ristampa del n. 1 della presente Bibliografia.
25) El Cristo de mi agrado. (trad. in spagnolo de Il Cristo che mi piace di José
Prémoli SDB), La Plata, Ediciones Don Bosco, 1976, 146 pp. (Collezione
“Reflexiones sobre el Evangelio”, 1).

30
Lorenzo Terzi

1977
26) Il Messaggio della Salvezza. Corso completo di studi biblici, III, Pentateuco,
Storia deuteronomistica e Cronista (in coll. con Armando Rolla), 4. ed.,
Torino-Leumann, Elle Di Ci, 1977, 572 pp.
F. delinea un’introduzione generale al Pentateuco, parlando della sua struttura:
titoli, libri, contenuto e divisione. Si concentra, poi, sull’origine storico-letteraria
dei cinque libri, compiendo anche una rassegna della critica applicata al Penta-
teuco a partire dalle stesse testimonianze bibliche, giudaico-cristiane e dai Padri
della Chiesa fino alla lettura che di questi testi fornì il teologo protestante Julius
Wellhausen, e ai recenti interventi del Magistero ecclesiastico.
Introduce, poi, singolarmente ciascun libro del Pt: Genesi, Esodo, Levitico, Nu-
meri e Deuteronomio, per quindi concentrarsi sull’analisi del racconto “jahvista”
della formazione dell’uomo e del suo peccato (Gn 2,4b-3,24). Infine, F. prende in
esame i testi della Pasqua leggendoli nel contesto dell’Esodo (Es 11,1-13,16) e il
tema dell’Alleanza, con la problematica dottrinale che ne deriva (Es 19-40).
27) Dio in strada con l’uomo. Sulle orme dell’Esodo, consulenza di monsignor
Enrico Galbiati, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1977, 143 pp. (Colle-
zione “Le mie vie”).
L’Esodo è uno dei punti focali della storia della salvezza. Dio irrompe come libe-
ratore nelle vicende di un popolo oppresso, che sfugge alla morsa che lo teneva
prigioniero e, ormai libero, si mette in moto verso una patria promessa e un av-
venire noti solo a Colui che lo guida. Attraverso l’Esodo F. conduce il lettore alla
comprensione della storia del Patriarchi; lo stesso Israele, per secoli, riconobbe
proprio nell’Esodo la propria identità e il senso della propria esistenza. Ancora:
Cristo medesimo inaugurerà la sua Pasqua proprio durante il memoriale di questa
festa ebraica. Ma l’A. collega anche il concetto di “esodo”, in senso più largo, agli
uomini d’oggi, per i quali esso costituisce un avvenimento che si ripete nella vita
di ciascuno e ne rivela l’inevitabile dramma. Il mondo dei faraoni è ormai fuori
dalla storia, e fa bella mostra di sé nei musei. Eppure quell’umanità che si è messa
in cammino per sfuggire alla cavalleria del Faraone non è uscita dalla storia; anzi,
ancora cammina, in Israele, nella Chiesa e in ogni uomo.
28) Note di introduzione. I profeti biblici, coscienza d’Israele, in «Parole di Vita»,
XXII (1977), pp. 67-72.
L’A. si chiede “chi è davvero il profeta che attraversa quasi per intero la vicenda
dell’Antico e del Nuovo Testamento”. I profeti biblici sono, per prima cosa, uo-
mini che hanno una coscienza vivissima di se stessi: uno di essi, Michea, afferma
addirittura che dietro di lui c’è “lo Spirito di Jahvè”. D’altra parte il più grande
dei profeti, Isaia, ha lasciato un resoconto della sua “vocazione”: la “visione di
Dio”, da lui avuta, lo colma di un sentimento di indegnità e di distanza rispetto
all’Unico. Ma, subito dopo, la distanza viene annullata, e l’indegnità purificata:
“Poi udii la voce di Jahvè che diceva: Chi manderò e chi andrà per noi? Ed io
risposi: Eccomi, manda me!”.
La prospettiva temporale del profeta biblico è triplice: costantemente rivolto al
passato, egli giudica il presente e preannuncia l’avvenire. Il passato è caratteriz-

31
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

zato dalla liberazione e dalla libertà, dalla prosperità e dalla sicurezza assicurate
da un Dio alleato. Il presente è, invece, disastroso, essendo Israele venuto meno
all’esclusivo servizio e all’amore totalizzante di Jahvè. Questi punisce e mette
alla prova, ma lo fa “per offrire la possibilità di un amore senza più pentimenti e
tradimenti”.
29) Note di introduzione. Il fenomeno del profetismo in Israele, ibid., pp. 155-161.
Il profetismo in Israele non è semplicemente quello delle personalità di spicco.
Con loro ve ne sono altre, più umili ma non meno importanti, alcune note e altre
rimaste senza nome. Lasciando da parte Mosè – profeta, ma anche condottiero e
legislatore – con Samuele inizia ‘epoca classica dei cosiddetti “profeti storici”,
di quelli – cioè – la cui attività è testimoniata dai libri storici, in particolare 1 e 2
Sam; 1 e 2 Re, 1 e 2 Cr.
Vi sono, poi, i “profeti scrittori”, così chiamati perché hanno lasciato per iscritto
i loro oracoli; ma anch’essi, spiega F., hanno innanzitutto “parlato”: “In alcuni
casi avranno provveduto loro stessi a raccogliere le «parole», molto più spesso
saranno stati i discepoli a tramandarci la memoria scritta della predicazione del
rispettivo maestro”.
Il fenomeno del profetismo appare e si va consolidando man mano che in Israele
prendono piede le varie istituzioni, la politica con la monarchia e la religiosa con
il sacerdozio. In questa situazione il profeta è “l’outsider”, il “battitore libero”,
“l’uomo imprevisto e dell’imprevisto”, che può comparire ovunque, fra il popolo
o accanto ai capi, e sempre, in momenti di crisi o di trapasso, di guerra e di pace.
30) Note di introduzione. I profeti, gli uomini della Rùakh e del Davàr, ibid., pp.
325-331.
“Rùakh” e “davàr” sono due parole ebraiche che significano, rispettivamente,
“spirito” e “parola”. I profeti sono, appunto, “gli uomini sequestrati dallo spirito
e impegnati in una parola da trasmettere”.
Nella Bibbia “rùakh”, “spirito”, è il soffio del vento, il respiro dell’uomo e degli
animali. Ma è “spirito” anche “quella forza e potenza con la quale Dio si mette
in contatto con la creazione, la riscalda e la anima dal di dentro, la fa vivere”. La
presenza della “rùakh” si percepisce anche nei capi del popolo di Israele: se Mosè
libera gli Ebrei, dà loro un Dio, una fede, una legge, un culto, può farlo perché lo
“spirito” di Jahvè è in permanenza con lui. Dal canto suo, il profeta ha dimesti-
chezza con lo spirito di Dio, tanto che Osea può definirsi “uomo dello spirito” e
Michea “uomo pieno dello spirito di Jahvè”.
Il sostantivo “davàr”, invece, ha una ricchezza semantica enorme, impossibile
da rendere in traduzione se non con il pallido corrispettivo di “parola”. Quanto
quest’ultimo termine sia inadeguato a rendere le realtà raggruppate sotto “davàr”,
possiamo constatarlo facilmente considerando che con un “davàr” Dio effettua la
creazione: “quanto dire che il davàr creativo è una decisione che Dio prende di
porre un qualcosa come l’universo al di fuori di sé, è un comando che manda ad
effetto la decisione, è l’ordine che pone a legge e struttura interna del cosmo”.
Ancora per mezzo di un “davàr”, Jahvè svela il significato della storia e della
presenza in essa dell’azione divina, ad esempio in Es 20,1-2: “Io sono Jahvè che
ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù”.

32
Lorenzo Terzi

Il “davàr”, insomma, è “opera, legge e oracolo”. Al profeta, in particolare, appar-


tiene il “davàr” che fa o dà senso alla storia, che fonda e dà rilievo all’etica.
31) Note di introduzione. Un profeta in una società opulenta: Amos, ibid., pp.
406-412.
Amos è un pastore di Teqoa, villaggio a sud di Betlemme, al confine con il de-
serto di Giuda. Ma è anche un profeta, che parlando di Jahvè impiega immagini
di pianure assolate e di ruggiti di belve, immagini tratte proprio dal deserto. Fa
risuonare la voce di Dio nel regno settentrionale di Samaria, opulento e corrotto
al massimo grado. Il libro di Amos si apre con una serie di oracoli su sei nazioni
pagane di confine, verso le quali il portavoce di Jahvè ha parole di denuncia e di
annunzio catastrofico. Ma a esse Amos allinea, sebbene per ultimo, anche Israele,
lasciando chiaramente intendere che gli Ebrei si sono macchiati degli stessi mi-
sfatti dei popoli non credenti. Le accuse del pastore-profeta coinvolgono l’ambito
dei tribunali, dove i magistrati disconoscono le ragioni dei deboli per lucro; delle
famiglie, nelle quali padre e figlio abusano della propria schiava, ridotta a mero
strumento di piacere; del culto, allorché il ricco crede di onorare Dio a spese del
povero.
Amos fa presente a Israele che la sua predilezione da parte di Jahvè è un’arma a
doppio taglio: è privilegio e titolo di nobiltà, ma anche obbligo di fedeltà e di im-
pegno, violando il quale la condanna sarà più pesante, proprio perché maggiore è
stato il privilegio concesso da Dio.

1978
32) Conosci Gesù, Leumann, Elle Di Ci, 1978, 48 pp. (Collezione “Mondo nuo-
vo”, 13).
F. invita il lettore a conoscere il “suo” Gesù. A suo dire, infatti, non esiste “un
Gesù a sé, un Gesù comune. Esiste solo il Gesù che io, tu, un gruppo di persone ha
sperimentato nella propria esistenza di fede”. Il Gesù dei Vangeli certamente esiste,
ma è comunque un Gesù “mediato”, arrivato a noi così come è stato sentito e vis-
suto dai primi cristiani, e che ha sfumature diverse “se si passa da quello di Marco
a quello di Matteo e poi a quello di Luca e soprattutto a quello di Giovanni”.
Premesso ciò, l’A. espone il Gesù della sua esperienza; un uomo “dolcemente e
fortemente umano”, ma soprattutto “libero”: dai suoi, dalla lusinga, dalle conven-
zioni, contro l’ipocrisia, al di sopra delle minacce e dei tabù. È un “provocatore”
che smaschera gli idoli della ricchezza, del potere e perfino della religione, invi-
tando l’uomo a cercare dei “centri di interesse diversi”: se stesso e gli altri.
Non per questo, però, viene meno la funzione di Gesù come Cristo e Salvatore:
“Aderendo totalmente a Cristo, la risurrezione che è un fatto al di là della storia,
in noi diventa operante nella storia, diventa un fermento di rinnovamento per il
mondo, di riscatto e di trasformazione della creazione tutta intera”.
33) Note di introduzione. Un profeta in una società decadente: Osea, in «Parole
di Vita», XXIII (1978), pp. 60-66.
Contrariamente ad Amos, Osea è originario del Nord, dove svolge il suo mi-
nistero. I due uomini, pur animati da una stessa, bruciante passione, sono pro-

33
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

fondamente diversi per estrazione sociale e per indole. Osea, inoltre, riceve da
Dio un comando singolare: “Va’, prenditi in moglie una prostituta e abbi figli di
prostituzione, poiché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore”
(1,2). Il profeta obbedisce: sposa Gomer – per l’appunto una prostituta – che gli
dà tre figli, ma che col tempo si allontana da lui per concedersi ad altri uomini.
A questo punto Osea ripudia la moglie, così come Jahvè divorzia da Israele. Ma
l’infelice marito sa che Dio non divorzia per sempre, non punisce senza speranza;
e così pure egli stesso capisce che dovrà riprendersi Gomer e farla nuovamente
sua, dopo averla purificata.
Non è tutto. Il Libro di Osea addita anche i responsabili del tradimento di Israele:
gli uomini del potere politico e religioso, re e sacerdoti. Contro di loro si abbatte
l’ira del Dio di Osea, che sembra risentito e vendicativo. In realtà, rivela F., “è
solo un Dio geloso. E si sa che la gelosia ha a che fare con l’amore, un amore tal-
mente esclusivo, che non accetta concorrenze, che fa di tutto, minaccia e castiga
perfino, allo scopo di riavere e riamare”.
34) Michea, la denuncia di un provinciale, ibid., pp. 156-161.
Michea proviene dalla pianura giudaica a sud-ovest di Gerusalemme. È dunque
un giudeo come Amos e come il contemporaneo Isaia. La sua denuncia ha i modi
della requisitoria. Egli, come altri profeti, impiega il genere letterario del “rîb”,
o processo giudiziario. I “capi d’accusa” sono l’infedeltà di Giacobbe e di Giuda
a Jahvè e l’ingiustizia sociale portata avanti dai responsabili del potere politico,
giudiziario e religioso.
Quasi contraltare alle denunce di Michea, spicca la stupenda “interpellanza” di
Dio, passata di peso nella liturgia del Venerdì Santo: “Popolo mio, che male ti
ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi. Forse perché ti ho fatto uscire
dall’Egitto?...” (6,3).

1979
35) La vicenda esodale e l’identità d’Israele, in Stato e Comunità religiosa nella
tradizione biblica, L’Aquila, Studio Biblico Teologico Aquilano, 1979, pp.
65-82.
L’intera vicenda dell’Esodo – afferma F. – si può studiare da due punti di vista. Il
primo è quello “strettamente storico”: in questo caso tale vicenda si inquadra tra
i periodici sconfinamenti in Egitto di tribù nomadi semitiche del Sinai, dell’A-
rabia, di Canaan e della Siria. L’esodo-fuga con a capo Mosè, in particolare, si
sarebbe verificato nella seconda metà del XIII secolo; esso avrebbe riguardato le
tribù che poi sarebbero andate a costituire il “regno del Nord”, e che percorsero
un lungo tragitto: dal deserto del Sinai, attraverso i territori di Edom, Moab,
Ammon, fino a Canaan. I resti archeologici testimoniano effettivamente che vi
fu, in questo periodo, una conquista di Canaan da parte di una popolazione cul-
turalmente inferiore, quale era appunto Israele nei confronti delle popolazioni
cananee.
Un altro punto di vista è quello “biblico”. La Bibbia parla proprio di questo se-
condo esodo; Israele lo ha costantemente tenuto presente nella memoria, cele-

34
Lorenzo Terzi

brandolo nel culto. F. ripercorre l’Esodo attraverso i passi scritturali, fornendone


sempre un’interpretazione teologica. La finalità ultima di tutta la vicenda esodale
è la “libertà”: “L’Esodo libera Israele da un padrone di schiavi per dargli l’oppor-
tunità di servire un padrone che libera. La libertà, nel pensiero biblico, non è un
valore assoluto: essa è condizione per un impegno ulteriore: ci si libera da (o si è
liberati da) per essere di…”.
36) Così sono nati i libri dell’Antico Testamento, in «Parole di Vita», XXIV
(1979), pp. 14-25.
F. segue il percorso dei libri biblici, dalla loro formulazione “orale” alla lenta
organizzazione in “cicli di racconti”, fino alle prime parziali “messe in scritto”
e alla formazione delle unità posteriori “più complete e definitive”. Un processo
durato un buon millennio, dall’XI sec. a.C al I d.C.
Mosè dové certamente dare una legge fondamentale e altre norme riguardanti il
culto e i rapporti sociali. Successivamente, presso i santuari, si andò sviluppando
un primo nucleo di legislazione in continuazione di quella mosaica. Con l’XI se-
colo a.C., ovvero dopo l’avvento della monarchia, Israele è a una svolta; prende
corpo in questo periodo la prima grande opera narrativa attribuita a un autore
denominato dagli studiosi “Jahvista”. Segue l’epoca degli “uomini dello Spiri-
to”, ovvero dei profeti: Amos e Osea influenzano l’altra grande opera letteraria
parallela alla Jahvista quanto a contenuti, ma differente per impostazione, stile e
teologia: è l’opera dell’Elohista.
Un po’ prima dell’esilio (587 a.C.) è redatta la prima edizione di quella che verrà
chiamata “storia deuteronomistica”. Con il rimpatrio degli esuli a Gerusalem-
me, nasce il “giudaismo”: Israele si costituisce in comunità religiosa fortemente
caratterizzata dalla vita cultuale. All’interno di questa comunità, tutte le varie
tradizioni del passato vengono unificate. Nasce, così, la Bibbia.
37) Così è nato il Pentateuco, ibid., pp. 165-174.
Il Pentateuco, così come lo conosciamo, è opera relativamente tardiva (V sec
a.C.). Esso, però, fu redatto sulla base di documenti preesistenti: “Jahvista” (sec.
X-IX), “Elohista” (sec. VIII), “Deuteronomista” (sec. VII-VI) e “Sacerdotale”
(sec. VI). Gli studiosi sono riusciti a ricostruire i documenti per mezzo di quegli
elementi letterari che di essi sono rimasti nel libro del Pt. F. compie un excur-
sus sull’opera redazionale delle quattro “tradizioni”, individuando le tematiche
caratteristiche di ciascuna, e collegandole con il contesto storico entro il quale
le diverse redazioni vennero prodotte. La redazione “sacerdotale” salda l’anello
delle origini, attraverso la lunga serie di anelli intermedi, all’ultimo anello della
catena biblica: “la comunità d’Israele che nel culto celebra la sua salvezza”.
38) Alleanza e legge (Esodo 19 e 20), ibid., pp. 269-276.
In questo studio F. riporta in parte il testo, leggermente modificato, di una
lezione da lui tenuta il 2 dicembre 1977 allo Studio Biblico-Teologico Aqui-
lano, e pubblicata in volume (v. numero 35 della presente Bibliografia).
39) Una grande opera storica-teologica: la storia deuteronomistica, ibid., pp.
324-335.
Dal punto di vista del contenuto, il Deuteronomio si può dividere in due parti

35
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

di grandezza diversa: il “Deuteronomio” propriamente detto, composto da tre


discorsi attribuiti a Mosè; il racconto degli ultimi atti attribuiti allo stesso Mosè.
Quanto agli autori, F. ritiene che il Dt trovi la sua “culla” in un ambiente preciso,
ovvero quello dei “leviti del regno del Nord, discesi a Sud dopo la distruzione
di Samaria (721 a.C.)”. Qui il libro avrebbe avuto una sua prima redazione. La
seconda, e attuale, sarebbe stata effettuata durante i primi anni dell’esilio babilo-
nese.
Al cuore di tutto il messaggio deuteronomico c’è il mistero di un’iniziativa as-
solutamente gratuita e imprevedibile di Dio per Israele: “Tutto questo è espresso
da tre termini tipici della letteratura deuteronomica: elezione, amore, promessa”.
Dio ha scelto Israele fra le nazioni, liberandolo dall’Egitto, per un atto inspiega-
bile di amore, in mantenimento delle promesse fatte ai padri.
I libri della “storia deuteronomica” abbracciano un’epoca vastissima, dal XII al
VI sec. a.C., e un contenuto altrettanto vasto. Bisogna perciò saper distinguere
fra le tradizioni antiche, che ci hanno conservato il ricordo dei fatti e delle epoche
remote, e le interpretazioni alle quali quelle tradizioni sono state sottoposte a
opera della scuola che si rifaceva alla dottrina del Deuteronomio.
Lo schema teologico-interpretativo seguito dagli autori sacri consiste nella se-
quenza: infedeltà d’Israele – castigo di Jahvè – pentimento da parte di Israele,
unito alla richiesta di soccorso rivolta a Dio – liberazione.

1981
40) Conosci Gesù, Torino, Elle Di Ci, 1981, 48 pp. (Collezione “Mondo nuovo”,
13).
Ristampa del n. 32 della presente Bibliografia.
41) IV centenario della nascita di S. Vincenzo De Paoli, 1581-1981. In preghiera
e adorazione con S. Vincenzo, Milano, s.n., 1981, 23 pp.
42) Le «Tradizioni» nei libri storici dell’A.T. Nuovi orientamenti, in Rinaldo Fa-
bris (a cura di), Problemi e prospettive di scienze bibliche, Brescia, Querinia-
na, 1981, pp. 13-40.
I cosiddetti “libri storici” dell’Antico Testamento vengono sempre più suddivisi
dalla critica secondo la seguente tripartizione: “Pentateuco (o Tetrateuco, se si
esclude il Dt), Storia deuteronomistica (da Gs. a 2 Re), Opera del Cronista (1 e 2
Cr., Esd. e Ne.)”.
Nei confronti del Pentateuco, rileva F., la ricerca biblica è pervenuta alla conclu-
sione, peraltro ipotetica, secondo cui i cinque libri del Pt sarebbero stati composti
sula base di documenti preesistenti, di epoca diversa. Come documenti, essi sa-
rebbero da considerarsi le immediate fonti del Pt. A loro volta, questi documenti
sarebbero stati composti mediante l’inclusione e l’elaborazione di dati provenien-
ti dalla tradizione orale.
L’A. ricostruisce quindi l’iter storico della ricerca sul Pentateuco, dall’epoca
dell’Illuminismo alle diverse scuole contemporanee di esegetica. Conclude af-
fermando che – se è autentica la necessità di stabilire con maggiore precisione il
processo di formazione del documento “Jahvista”, che avrebbe dato la “forma” e

36
Lorenzo Terzi

il “genere” al Pentateuco – è pure vero che la soluzione va trovata preliminarmen-


te nello stabilire l’esatta natura del documento “Elohista”, il più antico – insieme,
appunto, con quello Jahvista – dei quattro “documenti” che costituiscono il Pt (gli
altri due sono il “Deuteronomista” e il “Sacerdotale”).
43) L’uomo e il suo habitat secondo Gen 1, in Giuseppe De Gennaro (a cura di),
L’antropologia biblica, Napoli, Dehoniane, 1981, pp. 71-100.
F. si propone di rispondere alla domanda su quale debba essere – secondo la paro-
la di Dio e in particolare secondo Gen. 1 – “la destinazione originaria dell’habitat
umano, quale la funzione dell’uomo con esso”. La Bibbia riprende, a tale propo-
sito, concezioni cosmologiche proprie della cultura orientale, ma dando a esse un
contenuto diverso. Il Dio della creazione, infatti, è anche il Dio della storia, che
“rende saldo il mondo”. Ma soprattutto è il Dio la cui parola ha un’efficacia tale
da dare la vita agli esseri: “La creazione dei vari elementi del cosmo non è ema-
nazione della sostanza divina, ma un prodotto, un’opera della volontà personale
di Dio, significata nella sua parola”. Quindi, fra Dio e la sua opera, fra creatore
e creatura, vi è “solo” la parola, sulla quale è fondata la distinzione tra creante e
creato, e quindi la “trascendenza” del creatore.
Il celeberrimo passo riguardante la creazione dell’uomo e della donna presenta
il fatto stesso dell’esistenza di due esseri diversi tendenti l’uno all’altro come
progetto voluto da Dio, con tutto quello che ciò comporta: l’altissima funzione
assegnata alla sessualità e la radicale parità fra uomo e donna in rapporto a Dio
stesso.
Un’altra idea feconda, nota F., è quella del tempo. Nell’antichità esso veniva con-
siderato in forma “ciclica”, cioè come un tempo ininterrotto di fatica che ritorna
sempre su se stesso: “Invece il tempo biblico è un tempo ritmico, cioè intervallato
di lavoro e di riposo”.
44) Bibbia, storia, cultura nel Catechismo degli adulti, in «Catechesi. Rivista di
pastorale catechistica a cura del Centro Catechistico Salesiano», L, 12 (ago-
sto-settembre 1981), pp. 71-78.
Il Catechismo degli Adulti, pubblicato dalla Conferenza Episcopale Italiana nel
1981, si è proposto di realizzare un’opera di interazione tra Bibbia e catechesi
secondo una modalità “antropologico-teocentrica”, fondata sulla ricerca di un de-
licato equilibrio tra fedeltà al testo biblico, analizzato secondo tutte le esigenze
teologico-esegetiche che la migliore scienza moderna richiede, e la fedeltà all’uo-
mo, “la cui realtà attuale sia individuale che ecclesiale è riconosciuta come oriz-
zonte ermeneutico fondamentale per cui il messaggio biblico diventa messaggio
incarnato, Parola di Dio a me, oggi”.
I redattori del Catechismo hanno infatti considerato la condizione in cui si tro-
va attualmente l’uomo, smarrito di fronte ai fallimenti storici, al tramonto delle
ideologie e al crepuscolo delle “grandi promesse”, tra cui quella del benessere.
Preso atto della sua impotenza a liberarsi dalle molteplici forme di schiavitù e a
salvarsi da sé, all’uomo non resta che una possibilità: aprirsi alla trascendenza.
Non a caso, afferma F., il CdA si apre con l’episodio evangelico della chiamata
dei discepoli da parte di Cristo. La scena “ha il sapore dell’assoluta gratuità e no-
vità degli interventi di Dio”. Gesù si cala nella specifica situazione storica ed esi-

37
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

stenziale di Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, toglie i quattro da un presente


senza sbocchi e li avvia per un futuro diverso, annunziando loro: “Il Regno di Dio
è qui ed è per voi”. Nell’impiego della categoria “Regno”, il CdA rimane fedele
alla memoria biblica, alla tensione messianica costante dell’Antico Testamento;
al tempo stesso si accosta alla sensibilità degli uomini moderni. La categoria “Re-
gno”, infatti, ha la capacità di sollecitare il cammino degli apostoli verso un futu-
ro affidato alla presenza di Dio e alla fattiva collaborazione dell’uomo. L’umanità
odierna, che si sente protagonista della sua storia e sa che nelle sue mani è posto
il dominio dell’universo, può così accogliere con fede e umiltà il Regno, dono di
potenza divina e di infallibile riuscita, conferendo ai propri progetti sicurezza ed
esito. Ma il Regno apre all’uomo anche altri sbocchi: la scoperta dell’altro e la
possibilità di vivere e operare nella comunione.

1982
45) Il Messaggio della Salvezza. Corso completo di studi biblici, III, Pentateuco,
Storia deuteronomistica e Cronista (in coll. con Armando Rolla), 4. ed.,
Torino-Leumann, Elle Di Ci, 1982, 572 pp.
Ristampa del n. 26 della presente Bibliografia.

1983
46) I libri di Mosè, in Mario Cimosa – Francesco Mosetto (a cura di), Parola e
vita. Una introduzione alla Bibbia, Leumann, Elle Di Ci, 1983, pp. 51-71.
F. ritorna sul tema del Pentateuco, ricostruendone il contenuto e la struttura, la
genesi e le caratteristiche letterarie, evidenziando i risultati e i vantaggi derivanti
all’esegesi dall’applicazione della critica letteraria, soprattutto dal “metodo della
storia delle forme”, che studia prevalentemente “il genere letterario con il quale
il materiale letterario è presentato nella Bibbia”.
L’essenziale del messaggio del Pt sta nell’aver colto la presenza di Dio nella
storia d’Israele, al punto che esso si può definire come “il testimone della fede
d’Israele”. Questo messaggio fondamentale si coglie attraverso l’esame dei “do-
cumenti” che compongono il Pentateuco: “Jahvista”, Elohista”, “Deuteronomi-
sta” e “Sacerdotale”.
In conclusione è possibile dire che, se il Pt ha una rilevanza primaria per l’ebreo,
non l’ha meno per il cristiano: “La rivelazione del Dio biblico è fondamentale
per la comprensione del Dio di Gesù Cristo. È lo stesso Dio che realizza per noi
in Cristo la stessa e insieme una più piena salvezza che nella storia d’Israele è
preannunziata, prefigurata, preparata”.
47) La storia deuteronomistica, ibid., pp. 72-86.
I libri che nella Bibbia vengono subito dopo il Pentateuco – cioè Giosuè, Giudici,
1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re – hanno come blocco un titolo diverso a seconda che li
cerchiamo nella Bibbia ebraica o in una moderna. Gli ebrei li denominano, infatti,
“profeti anteriori”, distinguendoli dai “profeti posteriori”, che nella tradizione
cristiana vengono definiti “profeti scrittori” (Isaia, Osea, Geremia, ecc.). Nelle
Bibbie cristiane, inoltre, i libri da Gs a 2 Re sono genericamente chiamati “libri

38
Lorenzo Terzi

storici”: essi narrano gli avvenimenti che vanno dalla conquista di Canaan da
parte di Israele (sec. XII) all’esilio babilonese (587 a.C.). Recentemente, però, si
è scoperto che questi libri, pur così eterogenei quanto a materiale di provenienza,
hanno subito una rielaborazione a opera di una scuola di pensiero ispirata alla
dottrina del Deuteronomio, che ha conferito all’intero blocco un’unità interpre-
tativa di fondo, per cui essi vengono oggi denominati sempre più con il titolo
unitario di “Storia deuteronomistica”.
F. espone il contenuto di questi libri, la genesi e le caratteristiche letterarie e te-
ologiche, e soprattutto il loro messaggio: la capacità di lettura di quelli che con
espressione moderna si definiscono “segni dei tempi”; la responsabilità dell’uo-
mo, nella doppia dimensione sociale e personale; l’impotenza di fatto dell’uomo
stesso all’autosalvezza o, se si vuole, all’autorealizzazione.
48) Gesù di Nazaret nella prima parte del CdA [Catechismo degli Adulti], in La
teologia e la pastorale del Catechismo degli adulti. Una teologia rinnovata
per una nuova catechesi, Bologna, Dehoniane, 1983, pp. 33-51 (Collezione
“Fede e annuncio”, 14).
Il Catechismo degli Adulti ha come soggetti e protagonisti Gesù e l’uomo. La
cristologia ne costituisce l’impianto globale. Cristo infatti, rileva F, viene presen-
tato nel CdA come un uomo, ma anche – nella sua unicità – come l’uomo per ec-
cellenza secondo il disegno di Dio, l’uomo totalmente rinnovato, l’uomo nuovo:
“profeta e maestro” (1ª sezione), “sacerdote e redentore” (2ª sezione), “Signore”
(3ª sezione). A questa triplice definizione del Cristo corrispondono, all’interno
del CdA, tre soggetti umani (Gesù, la chiesa, i cristiani) e tre divini (il Figlio, lo
Spirito, il Padre). Nella prima parte è protagonista Gesù, l’uomo di Nazaret e il
Signore risuscitato. Nella seconda è soggetto la chiesa, intesa quale comunità che
incarna nella storia il messaggio e l’opera di Cristo. Nella terza sono soggetti i
cristiani, come singoli e come comunità, “in quanto completano l’opera di Gesù
di portare la storia a ritrovarsi redenta e rinnovata nel regno di Dio”.
La cristologia del CdA conserva quella, irrinunciabile, fondata sulle definizioni
conciliari di Nicea (325), Costantinopoli (381) e Calcedonia (451), ma rispetto
a essa è “più attenta agli aspetti storici, esistenziali ed escatologici della fede in
Gesù, Messia e Signore”.
La novità più sconvolgente, e insieme più liberante, del messaggio di Cristo con-
siste nel modo assolutamente nuovo di porsi come uomo di fronte a Dio. “Nes-
suno” afferma il CdA “aveva mai osato dire che Dio è per noi Abbà”, termine
aramaico proprio del mondo infantile. Presentandoci Dio come Abbà, Gesù fa
comprendere che l’uomo è chiamato a quella grandezza, libertà, intimità e a quel-
la compartecipazione, condivisione, corresponsabilità che sono proprie dei figli.
Ma, se Dio si apre all’uomo con la fiducia del padre, la risposta umana è quasi
sempre data in termini di sordità e resistenza, di pratico rifiuto, di abbandono.
Questa dialettica è rappresentata dall’episodio evangelico del giovane ricco (Mt
19,16-22), che il testo del Catechismo pone molto opportunamente a questo pun-
to del discorso come l’immagine realistica della situazione di ogni uomo di fronte
al messaggio di Gesù. Il giovane ha le buone disposizioni per intraprendere la
strada, ma non ha la forza di incamminarvisi; vuole, ma non può. Non può perché

39
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

v’è un’impotenza di fondo che glielo impedisce. Proprio perché non si può da sé,
c’è bisogno di un altro. Questo “altro” è Cristo stesso, il quale assume in sé tutto
l’umano, nei suoi aspetti positivi e negativi, ribaltando la situazione di “carenza”
attraverso una potenza che viene da Dio.
Passaggio imprescindibile e obbligato per uscire dalla condizione mortale ed en-
trare nella vita dello Spirito è per Gesù la morte: “in essa egli dà la dimostrazione
massima degli ideali e degli impegni con i quali ha vissuto la sua vita: l’amo-
re-ubbidienza al Padre, l’amore-donazione ai fratelli, gli uomini”. Qui il CdA
sviluppa la linea storico-salvifica veterotestamentaria che sfocia nell’eucaristia,
attraverso i gesti rituali del convito di alleanza, della cena pasquale di ogni anno,
dei sacrifici di espiazione e di comunione.
Nella terza sezione, il Catechismo propone la fede matura, post-pasquale, della
chiesa su Gesù, alla luce della quale vengono letti tutti gli episodi dei “vangeli
d’infanzia”. Il Cristo sin qui proposto è quello che ha vissuto, capito ed espresso la
chiesa delle origini. Ma Cristo è il Vivente, e come tale va annunziato a ogni gene-
razione. Il quattordicesimo capitolo del CdA è dedicato a Gesù “il ricapitolatore”,
colui che pone in sé il centro di tutte le cose, le congiunge in unità e le consegna al
Padre, permettendo all’uomo di essere partecipe della natura divina: “Il cristiano
diviene così il libro aperto del Cristo, la sua incarnazione storica, il suo «oggi»”.
49) Gesù e le folle, in La storia di Gesù, I, Milano, Rizzoli, 1983, pp. 361-378.
Gesù, osserva F., non era un eremita come Giovanni Battista. Dopo molti anni
trascorsi nel suo villaggio, partì alla ricerca degli uomini, trovandoli “per le stra-
de, nei luoghi di raduno, nelle sinagoghe, nelle piazze, lungo le rive del Mare
di Galilea, a Gerusalemme in occasione delle grandi feste d’Israele”. Tutti gli
evangelisti concordano nel documentare la presenza costante delle folle intorno a
Cristo. Uno dei primi incontri significativi si colloca a Cafarnao, nella sinagoga
locale. Marco (1,22) documenta lo stupore degli astanti nel constatare che quel
rabbi “insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi”. Cristo
predica e guarisce malati e indemoniati; si sottrae, però, all’abbraccio interessato
delle moltitudini tutte le volte in cui si rende conto che esse vanno a lui come
taumaturgo e non per ascoltare l’annunzio del regno di Dio. Gesù non vuol essere
frainteso. Tra miracolo e annunzio c’è una differenza sostanziale: il miracolo è la
rivelazione della potenza del guaritore e dell’impotenza del guarito; esso lascia
passivo il miracolato. L’annunzio, invece, è rivolto all’uomo e ne sollecita la
risposta e la partecipazione: “Per l’uomo la parola è più liberante del miracolo”.
Tra la folla Cristo sceglie i suoi discepoli, traendoli dalla massa e invitandoli a
farsi protagonisti di una storia diversa. Invita a seguirlo dei pescatori, persone
collocate all’ultimo gradino della scala sociale; chiama a sé dei pubblicani, all’e-
poca considerati peccatori pubblici. La sua scelta non è mai discriminatoria: la
predicazione si indirizza a tutti, anche se dipende da ciascuno se accoglierla o no.
Nell’episodio giovanneo (cap. 6) in cui Gesù provvede il pane in piena campagna
per una grande folla, la gente – sbalordita e ammirata per il prodigio – vorrebbe
fare del rabbi di Galilea il suo capo politico. Ma quando Cristo trasporta il discor-
so su un piano più alto, che spinge quella stessa folla a superare certi interessi e a
cercarne altri, questa finisce per lasciarlo solo con i pochi fedelissimi.

40
Lorenzo Terzi

Anche a Gerusalemme l’adesione iniziale della massa è favorevole, al punto che


i sommi sacerdoti e le altre autorità ebraiche non ardiscono mettere le mani ad-
dosso a quello scomodo Maestro, per il timore di una reazione popolare. Eppure,
di lì a pochi giorni, è ancora la folla, sobillata dagli avversari di Gesù, a chiedere
la liberazione di Barabba e la sua crocifissione: “L’entusiasmo, il fanatismo, gli
impulsi emotivi non bastano a formare dei discepoli”.

1984
50) Osea. Il profeta dell’amore sempre disposto a innamorarsi. Michea. L’uomo
dall’acuta coscienza profetica, Brescia, Queriniana, 1984, 190 pp. (Collezio-
ne “LoB [Leggere oggi la Bibbia]. 1. sez., Antico Testamento”, 23).
F. esamina i libri biblici intitolati ai profeti Osea e Michea. Del primo sottolinea
l’impegno profetico dispiegato in un tempo di decadenza e di corruzione. La
prostituzione di un intero popolo, Israele, agli occhi di Dio, fa sì che questi, come
conseguenza, imponga a Osea di sposare una prostituta, Gomer, che gli darà tre
figli e poi lo abbandonerà per riprendere la vita di prima. Il castigo incombe sui
due “traditori”: Gomer e Israele. Ma, accanto al castigo e alla pena, si profila la
speranza del ritorno di una prospettiva di salvezza: Israele rivivrà, dopo la sua
cancellazione dalla storia; Osea riscatterà la propria moglie, pagando il prezzo di
una schiava adulta a colui al quale si è prostituita.
Michea è, invece, un “provinciale”: viene dalla campagna, per la precisione da
Morèscet, località della pianura giudaica. Si sente, però, investito di una missione
profetica, in virtù della quale egli muove a Israele una duplice accusa: l’infedeltà
religiosa di Giacobbe e di Giuda e l’ingiustizia sociale compiuta dagli uomini
di potere, ricchi insaziabili e creditori senza pietà. La sola speranza di Michea è
Jahvè: “Di fronte al crollo di ogni ‘bontà’ umana – non c’è più né il pio (hāsêd) né
il giusto (yāšār: 7,2); non si ha più riguardo al fratello ma gli si prepara l’agguato
(7,2b); non c’è più giustizia da parte dei magistrati o dei principi (7,3); non ci si
può più fidare dell’amico (7,5), né del familiare (7,6); per cui non resta che aspet-
tare il ‘giorno’ della rovina di una società così corrotta (7,4b) – al profeta rimane
solo uno scoglio cui aggrapparsi per non affogare, e questa roccia è il suo Dio”.
51) Dio in strada con l’uomo. Sulle orme dell’Esodo (2.a edizione riveduta), con-
sulenza di monsignor Enrico Galbiati, Milano, Istituto Propaganda Libraria,
1984, 143 pp. (Collezione “Le mie vie”).
Seconda edizione del n. 27 della presente Bibliografia.
52) L’uomo sulle piste di Dio. Attraverso il deserto del Sinai, consulenza di mon-
signor Enrico Galbiati, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1984, 253 pp.
(Collezione “Le mie vie”).
A distanza di alcuni anni F. scrive una seconda monografia sull’Esodo, dopo Dio
in strada con l’uomo, ripromettendosi di mantenere l’impostazione del primo
volume. La presente opera “vuol essere un commento che aiuti a trarre dall’antico
testo biblico ispirazione per la propria vita, criteri di valutazione e scelte operati-
ve conformi o derivanti da una genuina mentalità di fede. Un commento pertanto
che privilegia la visione religiosa della storia e della vita, presente nel testo bibli-

41
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

co, e che assume come dimensione imprescindibile per il credente di ogni epoca,
cristiano compreso. Un commento, dunque, attento agli aspetti di fede del testo e
al servizio della fede”.
Il taglio religioso dato al volume non impedisce tuttavia all’A. la ricerca filolo-
gica e il vaglio dello spessore storico dei dati offerti dal testo. Dal punto di vista
metodologico, infatti, l’intera vicenda dell’Esodo è letta in chiave di “liberazione
storica ed esistenziale”, ma il testo viene subito dopo sottoposto ad analisi lette-
raria e storica. Ampio spazio è dato al commento vero e proprio: dove necessario,
esso analizza minuziosamente; generalmente, però, procede “per ampi e sintetici
quadri contenutistici”. Non mancano le attualizzazioni del testo all’interno del-
la Bibbia, e soprattutto del Nuovo Testamento: “In questo modo il cristiano ha
l’opportunità di costatare come la Parola di Dio a Israele è stata resa piena dalla
parola, dall’azione e dalla stessa persona di Gesù”.
53) Il Cristo che mi piace, Leumann, Elle Di Ci, 1984, 152 pp. (Collezione “La
fede e la vita”, 31).
Ristampa del n. 1 della presente Bibliografia (cfr. anche il n. 24).
54) Le parabole della misericordia, in La storia di Gesù, III, Milano, Rizzoli,
1984, pp. 817-836.
F. definisce le parabole contenute nel capitolo 15 del Vangelo di Luca come “la
più riuscita traduzione popolare del messaggio di Gesù”: “Un pastore che si pone
sulle tracce di una pecora smarrita e che, quando la trova, se la carica sulle spal-
le e con gioia la riporta a casa; una donna che spazza ansiosamente la casa per
ritrovare una moneta perduta; un padre che scende precipitosamente le scale per
riabbracciare un figlio allontanatosi di casa in modo sconsiderato e che ora ritorna
traducono in maniera immediata e insieme incantevole l’immagine di un Dio alla
ricerca dell’uomo al quale rivelare i segreti e partecipare la dolcezza della sua mi-
sericordia e del suo amore”. L’evangelista si preoccupa di chiarire il contesto nel
quale Cristo espone le suddette parabole: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani
e i peccatori per ascoltarlo” (15,1), con grande scandalo degli scribi e dei farisei,
per i quali costoro formavano il “popolo della terra” da cui tenersi rigorosamente
lontani.
La parabola della “pecora perduta” (15,3-7) è tratta dall’ambiente culturale semi-
nomade. Viene raffigurato un episodio in sé trascurabile dell’ordinaria vicenda
umana di un comunissimo villaggio di pastori. Tuttavia nel racconto sono presen-
ti una finezza e un rilievo di sentimenti incantevoli: il momento triste della sco-
perta di una pecora mancante, la ricerca affannosa, il ritrovamento felice, la gioia
del pastore che contagia tutto il villaggio. Il significato della parabola è chiaro.
Per Dio un uomo è davvero una grande cosa. Anche il più malvagio e perverso
tra gli uomini, anche colui che ha smarrito il senso della bontà, per Dio è sempre
un uomo per il quale vale la pena impegnarsi sino in fondo per recuperarlo. Una
volta che vi è riuscito, la sua felicità è al colmo: “ha salvato il perduto, ha ridato
la vita al morto”.
La seconda parabola, quella della “dramma perduta” (15,8-10), non aggiunge
niente alla precedente quanto al senso religioso che Gesù vuole trasmettere, ma
costituisce una testimonianza estremamente significativa dell’attenzione che il

42
Lorenzo Terzi

Cristo riserva al mondo femminile. Lo smarrimento della moneta, poi, ha – oltre


all’ovvio risvolto economico – anche un aspetto sentimentale. In Oriente una
donna sposata si riconosceva da un copricapo sul quale erano fissate dieci monete
d’argento legate insieme da una catenina, anch’essa d’argento. Nell’eventuali-
tà che Gesù abbia tenuto presente questo risvolto storico, il ritrovamento della
dramma della parabola alluderebbe a un’analoga fierezza di Dio che, rifacendosi
amico il peccatore, lo considererebbe come un suo trofeo.
La celeberrima parabola del “figliuol prodigo” si comprende appieno solo tenen-
do presenti usanze e comportamenti del popolo ebraico contemporaneo a Gesù.
Un figlio non poteva chiedere la propria parte di eredità prima della morte del
padre. Ma il padre della parabola gliela concede ugualmente, perché ha capito che
il figlio è irrecuperabile con i consigli e che, se imparerà qualcosa, dovrà farlo a
sue spese: “L’esperienza del peccato ha una sua forza educatrice, e Dio la mette
in conto”.
Il figlio dissipa la sua eredità e, quel che più conta, la dignità stessa, tanto da
finire guardiano di porci, nella condizione del più umile degli schiavi. A questo
punto egli matura la decisione di tornare dal padre, riconosce la propria colpa e
si dispone ad accettare qualunque condizione pur di poter rientrare a casa. Ma le
aspettative del figlio sono largamente superate dalla tenerezza del genitore, che
gli corre incontro, lo abbraccia e ordina di rivestirlo a nuovo e di fare festa. Il
figlio maggiore, saputo quanto è successo, si indigna e rifiuta di vedere il fratello:
“Egli è l’uomo della giustizia: a ognuno quel che gli spetta. Pur essendo rimasto
in casa, il figlio maggiore non aveva capito il padre, e ora gli rimaneva sostan-
zialmente estraneo e lontano”. Nel fratello maggiore Gesù fa intravedere i suoi
obiettori, i farisei, che si sono costruiti un dio senza volto e senza cuore, esattore
scrupoloso. “Ma il Dio di Gesù è diverso: è vero Dio, cioè padre”.
55) Dio redime il suo popolo. Il messaggio dell’Antico Testamento, in «Parole di
Vita», XXIX, 1 (gennaio-febbraio 1984), pp. 4-17.
Israele ha sempre guardato alla propria storia come al luogo della salvezza mes-
sa in opera dal suo Dio in suo favore. La liberazione dall’Egitto, in particolare,
oltre a essere una liberazione “fisica”, è un recupero, una “salvezza”: solo con
essa si comincia a parlare di riscatto e di “redenzione”. In Es 13,3-5 si riflette
la coscienza più completa, da parte di Israele, della portata dell’evento egiziano
nella sua vita. Tale coscienza è affidata alle parole di Mosè: “Ricordati di que-
sto giorno, nel quale siete usciti dall’Egitto, dalla condizione servile, perché con
mano potente il Signore vi ha fatto uscire di là… Oggi voi uscite nel mese di
Abib. Quando il Signore ti avrà fatto entrare nel paese del Cananeo, dell’Hittita,
dell’Amorreo, dell’Eveo e del Gebuseo, che ha giurato ai tuoi padri di dare a te,
terra dove scorre latte e miele, allora tu compirai questo rito in questo mese…”.
Dopo essersi soffermato sulla ricchezza teologica dei termini ebraici, F. sottolinea
l’emergere, nel Secondo Isaia, di un nuovo attributo di Jahvè: “go’el”, ovvero
“Redentore”. La redenzione, per il Secondo Isaia, è un’opera di creazione: “l’esi-
stenza d’Israele è tutta dovuta all’opera redentiva di Jahvè”. Redimendo, Dio dà
inizio a una storia nuova, la storia della salvezza.

43
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

1985
56) Disumanizzazione e umanizzazione del lavoro nella esperienza biblica, in
«Parole di Vita», XXX, 1 (gennaio-febbraio 1985), pp. 27-33.
Quando l’Israele della Bibbia ricorda l’esperienza egiziana, la rievoca in termini
di “miseria”, di “grido supplicante”, di “lamento”, di “oppressione”.
In Es 1,11 si racconta che un faraone aveva avuto bisogno di braccia per le sue
costruzioni, e aveva trovato comodo applicarvi la forza lavoro dei clan israelitici
dimoranti sul territorio egiziano. Se per il faraone un’operazione simile rientra-
va nel normale uso del suo diritto di monarca assoluto, per gli ebrei essa “era
un’ingiustizia, un clamoroso caso di abuso di potere e un’offesa alla dignità della
persona umana”. A quel tempo, infatti, gli Ebrei erano dei pastori seminomadi;
e non v’è nulla di più intollerabile, per un uomo amante della libertà come un
nomade, di sottoporsi a una corvée. L’altra ragione va ricercata nel trattamento,
particolarmente duro, riservato ai lavoranti ebrei.
Ma il lavoro forzato era una pratica diffusa fra gli stessi ebrei: vi era costretto non
solo lo schiavo, prigioniero di guerra, ma anche il debitore insolvente, il quale
abbassava la propria condizione a quella di “lavoratore servile”, non potendo
pagare il suo debito se non mediante l’uso gratuito della sua forza lavoro. Con
il tempo la legislazione ebraica guadagna in umanità. La predicazione profetica
denuncia come intollerabile la frode del giusto salario all’operaio. Anche la legi-
slazione sacerdotale e il Deuteronomio prescrivono la corresponsione della paga
al lavoratore. F. coglie in queste indicazioni uno degli aspetti più specifici della
giustizia biblica: “Essa non si limita a dare a ognuno il suo, che è già tanto, ma
lo fa con attenzione all’uomo e alla sua specifica situazione, non disdegnando un
tratto di autentica tenerezza”.
57) La coppia umana secondo il libro della Genesi, in «Parole di Vita», XXX, 5
(settembre-ottobre 1985), pp. 9-16.
Una celebre controversia che oppose Gesù agli Scribi e ai Farisei fu quella riguar-
dante la liceità del ripudio della propria moglie (Mc 10,1-12). Esso era ammesso
– beninteso, solo da parte dell’uomo – sulla base di un testo di Dt 24,1-4. Vi era-
no, tuttavia, aspetti controversi, riguardanti le modalità e i motivi del ripudio. Ma
Gesù “scavalca a piè pari la casistica di moda negli ambienti giuridici dell’epoca e
pone la sua obiezione alla radice negando la liceità stessa del divorzio”. Se Mosè
lo ammise, aggiunge Gesù, fu per una concessione alla “durezza del cuore”, per
trovare un rimedio alla debolezza e all’incostanza dell’uomo. Il progetto iniziale
di Dio, però, non era questo. Cristo afferma perentoriamente: “In principio non fu
così”. Il “principio” di cui egli parla è letteralmente collegato al momento della
creazione dell’uomo e della donna. Tuttavia, esso ha una funzione “tipologica”,
ovvero corrisponde al modello di Dio valido per tutti i tempi e per tutti gli uomini.
In effetti per la Bibbia “la donna avvenente ed efficiente padrona di casa è un
bene da augurarsi, un ideale di vita, la più profonda soddisfazione del marito”.
Si tratta di una visione che oggi definiremmo “maschilista”. Peraltro, nel diritto
israelitico la donna era considerata come una “proprietà” del marito; addirittura
veniva ammesso che un padre vendesse la propria figlia come “schiava-concubi-
na” di un uomo, sia pure con qualche piccola garanzia per la donna.

44
Lorenzo Terzi

Eppure lo Jahvista, uno dei più antichi scrittori biblici, percepisce la contraddi-
zione insita in questo “modello” di donna rispetto all’originario progetto di Dio,
e tenta di superarla mettendo in evidenza la realtà di un equilibrio ideale che si è
rotto con il peccato originale: “Non si vive un rapporto sociale valido se prece-
dentemente s’è compromesso un rapporto più radicale, quello con Dio”.
Sempre nell’ambito del Libro della Genesi, un altro teologo, il Sacerdotale,
ha ulteriormente qualificato la dignità e il ruolo della donna, affianco a quelli
dell’uomo, in rapporto a Dio. L’uomo è immagine del Signore proprio in quanto
“maschio” e “femmina”. Sicché: “La donna è essenziale come e al pari dell’uomo
perché entrambi costituiscano l’unica e adeguata «immagine» di Dio”.

1986
58) Il Messaggio della Salvezza. Corso completo di studi biblici, III, Pentateuco,
Storia deuteronomistica e Cronista (in coll. con Armando Rolla), 4. ed.,
Torino-Leumann, Elle Di Ci, 1986, 572 pp.
Ristampa del n. 26 della presente Bibliografia (cfr. anche il n. 45).
59) L’azione di Dio liberazione dei “poveri”, in Paolo Doni (a cura di), Diaconia
della carità nella pastorale della chiesa locale, Padova, Gregoriana, 1986,
pp. 71-88 (Collezione “Studi Pastorali”, 8).
C’è un’affermazione del Salmo 34,7 che riassume l’intera fede di Israele: “Il po-
vero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce”. Commenta F.:
“Povertà dell’uomo e potenza liberante di Dio sono il binomio che attraversa tutta
l’esperienza religiosa d’Israele”. L’A. discute le modalità di tale azione liberante
come essa appare nel libro dell’Esodo. In forza del riscatto esodale, dell’uscita
dall’Egitto, Jahvè diventa il go’el, ovvero il “Redentore”.
Gli stessi profeti si mostrano spessissimo quali portatori della voce di Dio allor-
ché, indignati, tuonano contro le ingiustizie perpetrate dai potenti a danno dei
deboli. Il più acceso fra loro è Amos: questi accusa Israele di aver venduto il
giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; di aver calpestato come la
polvere della terra la testa dei poveri; infine, di aver fatto deviare il cammino
dei miseri. La predicazione profetica otterrà i suoi frutti a due livelli: aumenterà
una produzione legislativa più attenta ai diritti inalienabili della persona e creerà
una coscienza più umanitaria nei riguardi dei ceti deboli. Analoga sensibilità si
riscontra nei Salmi e in un celebre passo di Sofonia, nel quale il povero in senso
sociale diventa povero in senso religioso: “il povero è ora colui che crede, che si
fida di Dio e gli si affida, perché ha compreso che l’unica ricchezza e potenza che
conta e che salva è solo quella che discende da Dio”.
60) Realizzarsi: «Se vuoi essere perfetto…», in «Vocazioni», III, 2 (marzo-aprile
1986), pp. 15-19.
L’episodio evangelico del giovane ricco ricorre in tutti e tre i sinottici: Mt 19,16-
22; Mc 10,17-22; Lc 18,18-23. Ma solo nel Vangelo di Matteo compare l’espres-
sione “Se vuoi essere perfetto”; gli altri due recano al suo posto le espressioni,
analoghe tra loro: “Una cosa ti manca” (Mc 10,21) e “Di una cosa sei privo”
(Lc 18,22). F. ritiene che la risposta originale di Gesù sia stata effettivamente

45
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

quest’ultima. Matteo, rendendo più radicali e definitive le parole di Cristo, ha


voluto evidentemente indicare nella “perfezione” basata sul binomio giustizia-
santità un elemento obbligatorio per tutti coloro che desiderano incamminarsi ed
entrare nel regno dei cieli. Inoltre l’evangelista si propone di dimostrare agli ebrei
che la strada additata da Gesù come obbligatoria non è contraria alla via indicata
dalla legge di Mosè; al contrario, ne costituisce il compimento, la completezza, la
perfezione appunto.
Il giovane ricco è un ebreo osservante, “un arrivato e un soddisfatto”; non avreb-
be altro cui aspirare. Se non che, nel momento in cui incontra Cristo il suo equi-
librio etico entra in crisi: egli avverte che gli manca qualcosa. Gesù gli risponde
che quello che gli manca è sbarazzarsi delle sue ricchezze e seguirlo. Ridotta in
questi termini, la proposta fatta dal Maestro al giovane ricco è semplicemente
la proposta di essere cristiano, suo discepolo, “uomo della sequela”. Come tale,
la proposta è fatta a ogni uomo, ieri, oggi e sempre. Il tipo di vita realizzato da
Gesù di Nazaret è da considerarsi, nella fede, il tentativo più riuscito di attuare nel
modo più perfetto il progetto antropologico di Dio.

1987
61) Il Messaggio della Salvezza. Corso completo di studi biblici, III, Pentateuco,
Storia deuteronomistica e Cronista (in coll. con Armando Rolla), 4. ed.,
Torino-Leumann, Elle Di Ci, 1987, 572 pp.
Ristampa del n. 26 della presente Bibliografia (cfr. anche i nn. 45 e 58).
62) Il riposo come approdo del lavoro umano nella Bibbia, in Giuseppe De Gen-
naro (a cura di), Lavoro e riposo nella Bibbia, Napoli, Dehoniane, 1987, pp.
25-37.
Nella Bibbia, come è noto, il riposo è collegato con il settimo giorno della set-
timana. La motivazione del riposo settimanale risiede, da una parte, in una co-
stumanza che si ritrova in quasi tutte le culture, dall’altra in una ragione di in-
dole umanitaria, che gli autori sacri aggiungono in modo esplicito. Il lavoro, a
quell’epoca, era fondamentalmente svolto nei campi, in luoghi lontani dal centro
abitato, non di rado sotto un sole cocente. Inoltre, spesso era compiuto da piccoli
proprietari o da schiavi, oggetto della tutela della legislazione biblica. “Liberare
lo schiavo dal lavoro” commenta F. “equivale a operare un esodo ebdomadario
(o settimanale) nei suoi confronti, equivale a introdurre l’attività liberatoria (il
riposo) nello schema e nella potenza liberante della storia della salvezza operata
da Dio in modo esemplare nell’Esodo dall’Egitto”.
63) Il sabato come riposo religiosamente impegnato, ibid., pp. 37-48.
Il sabato, come giorno di riposo, è però un tempo aperto su Dio. In Es 31,14 è
detto, infatti, “osserverete, dunque, il sabato, perché lo dovete ritenere santo”,
ossia come giorno riservato a Jahvè. Le feste della Pasqua, delle messi e della
vendemmia sono storicizzate e collegate con altrettanti eventi storici in cui si
è attuata la salvezza biblica: rispettivamente, l’esodo dall’Egitto, il dono della
Legge sul Sinai, la conquista di Canaan. Se queste tre feste “memorializzano” il
Dio che salva nella storia, il sabato è il giorno in cui si fa memoria del Dio che

46
Lorenzo Terzi

crea. Ma è anche il giorno “benedetto” (nel senso biblico di “reso fecondo”) da


Dio, come dimostrano altri episodi dell’Antico Testamento; il giorno in cui Dio
accetta il sacrificio cultuale dell’uomo. Il sabato dell’uomo è dunque “sacramen-
to” del sabato di Dio: “Nel suo riposo l’uomo si ricarica della potenza di Dio per
reimpiegarla nuovamente nel lavoro che riprende dopo il sabato”.
64) La spiritualità della Torah, in Antonio Bonora (a cura di), Storia della Spiri-
tualità, I, La Spiritualità dell’Antico Testamento, Bologna, Dehoniane, 1987,
pp. 49-106.
L’evento del deserto, l’esodo e la libertà dall’Egitto e l’incontro con Dio libe-
ratore sono il fulcro della spiritualità “jahvista”, che peraltro estende per prima
la sua visione della vita e della storia di Israele alla storia dell’umanità. Dio è la
discriminante della riuscita o del fallimento dell’uomo: “Agire secondo Dio è
bene, diversamente è male. L’azione «buona» porta con sé la benedizione: šālôm;
la peccaminosa la maledizione: ostilità”. Ma la fede jahvista è fondata essenzial-
mente su un Dio che ama la vittoria sul peccato da parte dell’uomo. Non a caso, lo
stesso Jahvè che scaccia Adamo ed Eva confeziona una tunica di pelli alla coppia
peccatrice (Gn 3,21), difende da qualsiasi attacco il fratricida Caino (Gn 4,15),
preserva dal diluvio Noè e la sua famiglia (Gn 6,8), libera gli schiavi in Egitto (Es
1-15).
Diversa è, rispetto a quella jahvista, la sensibilità elohista rispetto al peccato: la
sua tematica più insistita e originale è quella del “timore di Dio”. La spiritualità
sacerdotale, invece, si fonda sul tema della terra da popolare e da riconquistare,
come destino e aspirazione di Israele e dell’umanità.
65) La spiritualità deuteronomista, ibid., pp. 107-142.
Il Deuteronomio dovette appartenere a quel complesso di libri “storici” che va da
Gs a 2Re, detto anche “Storia deuteronomistica”. La sua “culla” è da ricercarsi
nel regno di Israele, detto anche “regno del Nord”, durato un paio di secoli, dal
931 al 721 a.C. L’ambiente deuteronomico si colloca nell’ultimo scorcio del re-
gno del Nord, caratterizzato da una situazione di pesante decadenza politica, che
spiega il tentativo, da parte dei circoli levitici settentrionali, di salvare un Israele
moribondo, ma non consapevole della sua fine.
Fra i termini cari al Deuteronomio spiccano un avverbio di tempo, “oggi”, e un
verbo all’imperativo, “ascolta”. L’oggi “è il banco di prova della fede, dell’a-
more, del servizio dell’uomo verso colui che gli dà tutto”. “Ascoltare” non vuol
dire solo “prestare attenzione” a qualcosa che qualcuno sta dicendo, ma – più
profondamente – accogliere la proposta di Dio fino a farla propria norma di vita,
atteggiamento concreto, prassi quotidiana.
Dt pone l’amore esclusivo di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio come modalità
globale di osservanza della legge. Da qui il giudizio fornito dalla spiritualità deu-
teronomista sulle disgrazie nazionali di Israele: è l’infedeltà reiterata di quest’ul-
timo a provocare il suo abbandono, da parte di Jahvè, “in mano a razziatori”.
Sempre per le sue colpe, Israele subisce l’esilio.
Ma non è questa l’ultima parola: “Ancora una volta tutto è rimandato all’uomo. I
doni di Dio sono irrevocabili e altrettanto le sue promesse (Dt 4,31). Se Israele si
converte, può sperare in una rinnovata «uscita» dall’attuale Egitto”.

47
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

66) I grandi personaggi della storia: Abramo, Giacobbe, Mosè e Giosuè, ibid.,
pp. 333-348.
F. ritrae i personaggi citati nel titolo investigando Abramo dal punto di vista del-
la sua “spiritualità”, studiando l’immagine di Giacobbe nella tradizione biblica,
mettendo in risalto Mosè in quanto “forgiatore della fede e della coscienza etica
d’Israele” ed evidenziando il ruolo di “conquistatore” attribuito dalla Bibbia a
Giosuè.
67) Gn 2,17: il precetto nel contesto sapienziale di Gn 2-3, in Sapienza e Torah.
Atti della XXIX Settimana Biblica, Bologna, Dehoniane, 1987, pp. 213-222.
Scrive F.: “È noto che Gn 2-3, e più genericamente l’intero quadro della fonte
jahvista di Gn 2-11 risponda a preoccupazioni o problematiche di taglio sapien-
ziale. La condizione dell’uomo concreto, la ricerca orientata a darne una spiega-
zione o motivazione, il tentativo di prospettare un possibilità diversa, rispondono
a tematiche che i sapienti d’Israele riprenderanno in seguito”.
Nel racconto della Genesi, con la violazione del divieto di mangiare il frutto
dell’albero del bene e del male, l’uomo e la donna conquistano, sì, la sapienza,
ma in un modo che comporta l’espulsione dal giardino e la rottura del rapporto
con Dio. Il peccato è, a suo modo, “sapienza”: “fa toccare con mano che significa
essere stolti e in che modo, quando e fino a che punto si è stolti”. La proibizione,
da parte di Dio, dell’accesso all’albero si risolve, in definitiva, in una “proposta
di sapienza” e in un “rifiuto della salvezza”. Si è “sapienti” quando si accetta la
propria condizione di “creatura” e ci si integra al Creatore. Si è, invece, “stolti”
se si fa il contrario: è questo il male, la morte-maledizione che l’uomo attira sulla
propria esistenza.
68) Genealogie e storia da Adamo ad Abramo, in Atti del seminario invernale
Noè, il diluvio universale e la preistoria dell’alleanza. Paestum 22-25 gen-
naio 1987, Settimello, Biblia, 1987, pp. 37-51.
F. prende in considerazione la “linea genealogica” che nella Bibbia congiunge
due personaggi, Adamo e Abramo, ma anche due “unità letterarie”: Gen 1-11, che
va sotto il nome di “Storia primitiva”, e Gen 12-36, denominata “Storia patriarca-
le”. La prima è composta da materiale letterario proveniente dalle fonti “Jahvista”
e “Sacerdotale”. Secondo la fonte Jahvista, da Adamo ed Eva nascono i fratelli
Caino e Abele. Caino resta solo; ma da lui deriva una discendenza segnata dalla
violenza del capostipite. A fronte di questa “linea degli empi”, l’autore jahvista
pone la discendenza di Set, derivante da Abele. Al tempo del diluvio vi è sulla
terra un solo uomo giusto, Noè; ma non si sa a quale stirpe questi appartenga. Lo
stesso autore traccia, poi, una certa “mappa” dei popoli provenienti dai tre figli
di Noè, Sem, Cam e Japet. Attraverso un “moncone di genealogia” lo jahvista ci
fa arrivare ad Abramo, figlio di Terah e marito di Sara. Ciò che risalta, in questa
ricostruzione, è il senso di un lento e progressivo deteriorarsi della condizione
umana sotto l’impero sempre più devastante del peccato, riscattato solo dalla
“vocazione di Abramo”.
Nella genealogia dell’autore “Sacerdotale”, invece, da Adamo a Noè c’è linea
continua e diretta: viene ignorato il peccato di Adamo, come quello di Caino.
L’ultimo tratto della storia primitiva, secondo il Sacerdotale, è la genealogia di

48
Lorenzo Terzi

Terach con il quale si arriva ad Abramo. Essa non è collegata con il quadro dei
popoli, ma è di evidente derivazione semitica. Dal punto di vista letterario-erme-
neutico è possibile dire che questa versione propone una doppia dimensione, di
“continuità” e di “selezione”: “Tutti gli uomini appartengono allo stesso ceppo e
sono parte di una stessa storia, ma Dio privilegia una linea”.
69) Ciclo di Noè: fonti ed esegesi, ibid., pp. 53-63.
Noè è collegato con il diluvio universale narrato dalla Bibbia. È l’unico a salvar-
si, insieme con la sua famiglia: costituisce, dunque, il nuovo punto di partenza
dell’umanità “e come tale eredita la benedizione riservata al primo uomo”.
Le fonti del racconto biblico del diluvio sono antichissime: presso molti popoli si
trovano racconti di alluvioni catastrofiche. La stessa “epopea di Gilgames”, eroe
mesopotamico del III millennio a.C., ha un suo racconto del diluvio nell’area
mesopotamica.
Anche nel caso di Noè ritroviamo una versione “Jahvista” e una “Sacerdotale”
delle sue vicende, che confluiscono nel testo della Genesi. Nella prima, il Dio
creatore vede fallire la sua opera a causa dell’uomo. Il diluvio è, perciò, un “az-
zeramento di creazione”, un ritorno al caos primordiale causato, in ultima analisi,
dal peccato, il quale fa “tornare indietro” l’umanità.
Nel testo sacerdotale è introdotta un’importante novità: l’alleanza con Dio, pro-
messa di ulteriore salvezza: “La nuova umanità ha un’assicurazione che, nono-
stante qualsiasi altra «corruzione» che possa intervenire da parte della terra, Dio
non manderà più il diluvio”.
70) L’esperienza del deserto, in «Parole di Vita», XXXII, 5, (settembre-ottobre
1985), pp. 335-345.
Le tradizioni esodali hanno evidenziato la “mormorazione” e la “protesta” che il
clan nomade di Mosè rivolse durante il viaggio nel deserto contro la sua guida e
contro lo stesso Dio. Nonostante la sfiducia in Jahvè, però, questi è sempre fedele
ai suoi impegni, e manda l’occorrente per la vita messa in pericolo nel deserto. Il
deserto è immagine dell’impotenza dell’uomo, della sua incapacità a progettarsi
e ad attuarsi. Ma l’impotenza diventa possibilità e l’incapacità di progettarsi si
muta in pienezza di senso se l’uomo si ancora all’azione di Dio, così come la
terra “deserta e vuota” si trasforma in esistenza e vita sotto l’azione della parola
creatrice di Jahvè.
Il deserto ha anche la funzione di “prova”: Dio sperimenta la fedeltà del suo
popolo “attraverso una pedagogia singolare, fatta di assenza e di presenza, di im-
potenza assoluta e di assoluta gratuità. Il deserto è infatti maestro di essenzialità
e di assoluto, è il luogo in cui Israele apprende che al suo fianco c’è solo il Dio
unico, e nessun altro dio”.
Secondo il profeta Osea, infine, il deserto è anche il luogo ideale per un rinno-
vato “matrimonio” fra l’uomo e Dio. Nota F. che l’azione di Dio nel riconquistare
a sé Israele equivale a una vera e propria seduzione: “Abbiamo qui un abbozzo di
quell’azione di profonda trasformazione del cuore umano di cui parleranno Gere-
mia e Ezechiele quando preannunziano un’«alleanza nuova» la cui legge è scolpita
nel cuore (Ger 31,31-33) o un «cuore nuovo» al posto del cuore di carne e uno
«spirito nuovo» con il quale osservare i precetti del Signore (Ez 36, 25-27)”.

49
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

1988
71) La donna nell’Antico Testamento: alcune considerazioni esegetico-teologi-
che, in Donatella Abignente – Maria Antonietta Giusti – Nerina Rodinò
(a cura di), La donna nella Chiesa e nel mondo. Studi promossi dalla Facoltà
Teologica dell’Italia Meridionale e dalla Commissione Diocesana Donna,
Napoli, Dehoniane, 1988, pp. 163-184.
F. premette che la donna contava poco o niente nella società d’Israele riflessa
nella Bibbia dell’Antico Testamento. A lei, infatti, era riservato, quasi in esclu-
siva, un ruolo di contorno o di stretto rapporto con il marito o con i figli. I testi
biblici veterotestamentari, anzi, allorché riconoscono alla donna un ruolo di pro-
tagonista, fanno sì che esso abbia una valenza negativa, di insidia nei confronti
dell’uomo, come dimostra il caso di Eva nei confronti di Adamo.
Tuttavia, proprio dalla Bibbia ci vengono delle preziose indicazioni di un qualche
recupero della dignità della donna in termini di persona, a un triplice livello:
strettamente teologico; più specificamente soteriologico; più ampiamente crea-
zionale. Infatti, alcuni fra gli attributi di Dio più celebrati dalla Bibbia sono col-
legati proprio con il mondo femminile e con la maternità: è il caso del termine
“misericordioso”, rāhûm, derivante da rehem, che significa “utero”.
Quasi esclusivamente nell’area deuteronomistica “non mancano significative at-
tenzioni alla situazione della donna nella società ebraica in vista di una sua riva-
lutazione in termini più personalistici”.
Infine, è importante notare come Gen 2,18-24 “sia l’unico testo, all’interno non
solo della Bibbia ma di tutti i miti creazionali dell’Oriente antico, che metta in
risalto l’importanza della donna come persona e come membro della società”.
72) L’azione di Dio liberazione dei poveri, in Paolo Doni (a cura di), Diaconia
della carità nella pastorale della chiesa locale, Padova, Gregoriana, 1988, 2.
ed., pp. 71-87 (Collezione “Studi Pastorali”, 8).
Seconda edizione del n. 59 della presente Bibliografia.
73) Antonio Fanuli (a cura di), Storia della spiritualità, I, La spiritualità dell’An-
tico Testamento, Roma, Borla, 1988, 682 pp.
- Introduzione, ibid., pp. 1-10.
Il piano della presente Storia della Spiritualità dell’Antico Testamento, chiarisce
F., si attiene al tracciato biblico con una sola modifica: al filone delle tradizioni
storiche fa seguire quello delle tradizioni profetiche e per ultimo il sapienziale.
All’interno, poi, di ogni filone, ogni studioso tenta una sua ricostruzione storica e
letteraria dell’esperienza spirituale d’Israele.
All’orizzonte e dentro tutte le esperienze e le loro espressioni, nell’Antico Te-
stamento, c’è Dio, “punto convergente e prospettico”: “L’uomo biblico sia che
guardi dentro la sua storia, sia che si ponga in posizione speculare di fronte alla
rettitudine o ingiustizia della sua vita, sia che s’interroghi sul senso delle cose, del
suo dolore, del suo destino, la realtà che gli si staglia davanti prepotente e insieme
dolcissima è sempre e solo il suo Dio. Un Dio che libera e dà identità all’uomo,
che gli offre possibilità di vita e traccia una strada nel futuro consegnato alle sue
mani, che gli chiede conto della libertà e della responsabilità male impiegate, che

50
Lorenzo Terzi

sottopone a dura prova per riportarlo all’intimità di prima, che l’uomo ritrova in
fondo al viale di tutte le sue riflessioni per permettergli di superare i limiti del suo
ragionare e di dare «risposte» ai suoi insaziati «perché» in quell’oceano senza
fondo del suo amore che tutto comprende e tutto «spiega»”.
- La spiritualità dell’Antico Testamento. Tradizioni storiche, ibid., pp. 11-332.
Per prima cosa, F. analizza la spiritualità dei “padri”: ovvero di Abramo, Isacco,
Giacobbe, Israele, nomi di patriarchi appartenenti “alla variegata famiglia dei
nomadi”. Alla narrazione delle vicende dei patriarchi ebrei segue quella della
fuga dall’Egitto: fra l’una e l’altra si inserisce la grossa “unità letteraria” della
“storia di Giuseppe”. Con Mosè si ha la nascita di una vera e propria “spiritualità
esodale”, tanto che l’Esodo stesso verrà “cultualizzato” con la Pasqua.
L’esperienza del deserto costituisce un ulteriore “tempo di salvezza”: Dio, attra-
verso la peregrinazione del suo popolo, ne mette alla prova la fede. Il Sinai è il
punto di arrivo di tutta la vicenda esodale: qui, infatti, si verifica la “teofania”,
l’apparizione di Dio sulla montagna, e qui il Signore stringe il suo patto di allean-
za con Israele. Al Sinai, secondo la tradizione “sacerdotale”, avviene anche la nascita
del sacerdozio con Aronne, fratello di Mosè.
Nella dimensione del Sinai c’è anche spazio per la consueta dialettica fra espe-
rienza del peccato ed esperienza del perdono di Dio, attraverso l’episodio della
costruzione del vitello d’oro.
Per quanto riguarda il periodo che va dalla conquista della terra del Canaan all’esi-
lio in Babilonia, F. parla di “spiritualità del quotidiano”. Con Giosuè, “eroe” della
presa del Canaan, si chiude l’epoca “nomade” di Israele. Si consolidano, così, an-
che le istituzioni israelite, sia dal punto di vista politico, sia sul piano del culto.
Dopo aver passato in rassegna le scuole etico-religiose di Israele, la Jahvista, la
Helohista e la Deuteronomica, l’A. parla della spiritualità di un tempo di crisi
quale fu quello della distruzione di Gerusalemme e dell’esilio in Babilonia. Le
“scuole di spiritualità” dell’esilio saranno quella “Deuteronomistica” e quella
“Sacerdotale”.
La ripresa della vita nazionale, seguita alla “cattività” babilonese, è caratterizzata
da una spiritualità oscillante fra tradizione e tensione escatologica e da un culto
“sinagogale” centrato sulla parola di Dio.

1989
74) Tu conosci Gesù? Si comportava da uomo libero, e come un provocatore.
Ma era il Cristo e il salvatore del mondo, Leumann, Elle Di Ci, 1989, 47 pp.
(Collezione “Mondo nuovo”, 103).
Nuova edizione dei nn. 32 e 40 della presente Bibliografia.
75) Interventi pronunciati da Antonio Fanuli durante la discussione conclusiva
del seminario Lo statuto epistemologico della teologia biblica, tenutosi il
25 e il 26 aprile 1988 e organizzato dalla rivista «Rassegna di Teologia» in
collaborazione con i docenti della Sezione S. Luigi della Pontificia Facoltà
Teologica dell’Italia Meridionale, con la partecipazione di mons. Giuseppe
Segalla, docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, in Et-

51
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

tore Franco (a cura di), La teologia biblica. Natura e prospettive. In dialogo


con Giuseppe Segalla, Roma, A.V.E., 1989, pp. 149, 177, 188, 189-191, 193.
F. rivolge a mons. Segalla alcune domande: cosa egli intenda per “teologia bi-
blica”; se vi sia un centro generatore di questa teologia e se esso non costituisca
anche un centro sistematizzante; in caso di risposta affermativa a quest’ultimo
quesito, se esista un centro sistematizzante solo all’interno di una singola teologia
o anche all’interno di una teologia che comprenda tutto un Testamento; e, avendo
parlato di unità fra i due Testamenti, se vi sia un centro generatore e sistematiz-
zante dell’intera teologia biblica; infine, se vi sia spazio per una teologia sistema-
tica che non sia la teologia biblica stessa.
Si dice, poi, d’accordo sul fatto che si debba tener conto dell’oggettività di un te-
sto e che per l’esame di esso vi siano diversi tipi di approccio: esegetico, storico-
critico, strutturalista, psicanalitico, materialista, sociologico. Si chiede, però, se
esistano criteri sicuri in base ai quali sia garantita al credente una lettura del testo
sacro in Spiritu congeniale a quella dei protagonisti.
Concorda, inoltre, con l’affermazione di Segalla per cui il terreno d’incontro fra
teologia sistematica e teologia biblica può essere quello ermeneutico. Si tratta,
egli afferma, del metodo che è stato adottato dalla rivista «Parole di Vita» negli
anni 1985-1987.
Propone, poi, una configurazione della teologia biblica che parta dal “dopo” per
capire il “prima”: non solo, quindi, è opportuno reinterpretare l’Antico Testamen-
to alla luce del Nuovo; nell’Antico stesso “la novità ulteriore è criterio e luogo
di reinterpretazione e comprensione più profonda, e in questo senso «nuova»,
del precedente”. Si domanda, quindi, se siffatto modo di leggere la Bibbia non
debba considerarsi lo specifico attraverso il quale le Scritture mettono in evidenza
l’azione di Dio nella storia. Si chiede infine: “se è così, la teologia biblica che
desumiamo dalla Bibbia può non tenerne conto? L’articolazione di una teologia
biblica potrebbe consistere proprio nel cogliere, evidenziare e sistematizzare que-
sto tipo di lettura interna alla Bibbia?”.
Nell’ultimo intervento F. prende atto che, nell’Antico Testamento, il novum della
storia è spesso più un’implosione che una crescita. Così anche l’infedeltà di Israele
non fa andare avanti la storia. Ma Dio la sblocca con la prospettiva di un’alleanza
nuova: “E in questo senso non manca mai un novum nella storia della salvezza”.
76) A proposito di un libro sulla composizione del Pentateuco, in «Rivista Bibli-
ca», XXXVII, 4, (ottobre-dicembre 1989), pp. 469-485.
F. redige un’ampia recensione di un libro di Roger Norman Whybray, The Ma-
king of the Pentateuch. A Methodological Study (Sheffield, Sheffield Academic
Press, 1987), facendola precedere da una breve introduzione concernente la fortu-
na critica dell’ipotesi “documentaria” sul Pentateuco formulata nell’ultimo scor-
cio dell’Ottocento da Julius Wellhausen.
77) Rapporti tra fratelli nella Genesi, in Vittorio Liberti (a cura di), La famiglia
nella Bibbia, Roma, Dehoniane, 1989, pp. 45-87 (Collezione “Studi biblici”).
Il libro della Genesi, afferma F. “contiene più esperienze di vita che indicazio-
ni etiche”. Sicché in esso “non si discetta di fratellanza”. Semmai si parla di
“coppie” di fratelli e dei loro rapporti. “Come spesso nella vita” commenta l’A.

52
Lorenzo Terzi

“tra fratelli succede il peggio: non sempre ci si vuole bene davvero; anche se in
modo più o meno dissimulato, ci si invidia reciprocamente; raramente, ma poi
non tanto, si arriva perfino al fratricidio. E si uccide non solo quando si elimina
fisicamente il fratello, ma anche quando lo si ignora, lo si emargina, non lo si fa
«esistere» in qualsiasi modo nella propria vita”.
La Genesi offre un campionario di questo tipo di rapporti fraterni: il caso più
celebre è senza dubbio quello di Caino e Abele, ma non ne mancano altri.
A tale proposito l’A. ricorda le storie dei figli di Noè, Sem, Cam e Jafet; di Abra-
mo e Lot, “fratelli” nel senso di “parenti” (erano, in realtà, zio e nipote); delle
figlie di Lot; di Ismaele e Isacco; di Esaù e Giacobbe, figli di Isacco; di Giacobbe
e Làbano (anch’essi, rispettivamente, nipote e zio); di Lia e Rachele, mogli di
Giacobbe; di Simeone e Levi; di Giuseppe e dei suoi fratelli.
78) Recensione a: Angelico Poppi, Sinossi dei quattro Vangeli, II, Introduzioni e
commento, Padova, Edizioni Messaggero, 1988, in «Parole di Vita», XXXIV,
2 (marzo-aprile 1989), pp. 79-80.
79) Recensione a: Lorenzo Zani, Venite mangiate. Meditazioni bibliche, Milano,
Àncora, 1983, ibid., XXXIV, 3 (maggio-giugno 1989), pp. 76-77.
80) Recensione a: Renzo Infante, L’amico dello sposo: Giovanni Battista, Napo-
li, Dehoniane, 1984, ibid., pp. 78-79.

1990
81) Il Messaggio della Salvezza. Corso completo di studi biblici, III, Pentateuco,
Storia deuteronomistica e Cronista (in coll. con Armando Rolla), 4. ed.,
Torino-Leumann, Elle Di Ci, 1990, 572 pp.
Ristampa del n. 26 della presente Bibliografia (cfr. anche i nn. 45, 58 e 61).
82) L’uomo: dialogo e comunione. Incontri di spiritualità francescana, 21-26
agosto 1989, Santuario della Verna, Firenze, Convento San Francesco, 1990,
30 pp. (Quaderni di Spiritualità Francescana, XII/1).
Il termine “dialogo” (dal greco dià lògon, ovvero “attraverso la parola”), nel
senso più profondo, è apertura e comunione reciproca: “Il dialogo, quando avrà
dispiegato tutte le sue possibilità, si troverà che equivale all’amore”. Questa pro-
fondità e ampiezza di significato, secondo F., è chiaramente presente nel linguag-
gio biblico.
Nell’Antico Testamento l’uomo e Dio sono in continuo dialogo. La prova più
originale di questa esperienza è costituita dall’Esodo. Gli oppressi gemono per
la loro schiavitù. Dio li ascolta e progetta un suo intervento, coinvolgendo Mosè.
Anche le famose “dieci piaghe d’Egitto” sono un modo per stabilire un “dialogo”
che il faraone, però, rifiuta. Il più decisivo intervento di Dio è quello consistente
nella liberazione di Israele dalla morsa dell’Egitto.
Giunti al Sinai, il dialogo aperto da Jahvè e portato avanti dai suoi interventi libe-
ratori richiede ora una risposta da parte di Israele. Addirittura, con la “teofania”,
Dio fa sentire la sua stessa voce.
Non solo: ogni volta che Israele interrompe il dialogo con il Signore, agli inviti

53
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

alla conversione e alle minacce di castighi seguono sempre parole che aprono alla
speranza. Con Dio, infatti, si può sempre riprendere a parlare, perché egli è il Dio
dell’eterna novità.
Nel Nuovo Testamento, il dialogo è, naturalmente, “rivelazione di Dio attraverso
il Figlio”. Anzi, nel Vangelo di Giovanni Gesù non è solo il portatore della parola
di Dio, ma è la Parola stessa, il Lògos. Ora, “se Gesù nella sua parola, azione
e persona è il tramite unico e definitivo del dialogo di Dio con l’uomo, questi
risponde a Dio ripartendo da Cristo. Questo «ripassare» da Cristo comporta una
triplice operazione: l’ascolto, la sequela, l’amore alla sua maniera”.
Il creato stesso non è tanto l’interlocutore dell’uomo in un eventuale dialogo fra
l’uno e l’altro, ma il luogo e il tramite dove si attua il colloquio con Dio.
83) «Ora va’, io ti mando» (Es 3,10), in «Parole di Vita», XXXV, 1 (gennaio-
febbraio 1990), pp. 15-23.
Mosè è una figura riassuntiva di otto secoli di evoluzione e di espressione della fede
d’Israele. Il Pentateuco, a lui attribuito dalla tradizione giudaico-cristiana, è l’opera in
cui Israele ha racchiuso il meglio della sua tradizione culturale; in esso vede riflessa la
sua identità religiosa. Il testo biblico attuale, quindi, ha prestato particolare attenzione
alla sua persona, facendo della sua missione “un prototipo di tutte le vocazioni e
missioni dei carismatici e dei profeti della Bibbia”. Storicamente parlando, però,
è vero il contrario: è la vocazione-missione di Mosè a essere stata modellata,
dal punto di vista letterario, su quella dei profeti classici. È, quindi, posteriore a
quest’ultima.
Il testo biblico mostra Mosè mentre si reca dai lavoratori ebrei schiavizzati dal
faraone, in una sorta di “esodo alla rovescia”. Qui assiste alla scena di un aguz-
zino egiziano che uccide un ebreo; accecato dalla collera, ammazza a sua volta
l’egiziano e lo seppellisce nella sabbia. Il giorno dopo, forte di questo gesto da
“vendicatore”, compie il suo secondo “esodo” presso i fratelli ebrei, ma il tentati-
vo di fare da giudice in una lite tra due schiavi fallisce: il suo arbitrato è percepito,
comunque, come quello di un uomo potente e violento. A Mosè, allora, non resta
che un terzo “esodo”: mettersi in salvo nel deserto, dietro un gregge, diventando
pastore. Un giorno, mentre si trova con le greggi nei pressi di una montagna
sacra, Dio gli appare come fiamma di fuoco che brucia ma non consuma, e lo
chiama a guidare il popolo d’Israele via dall’Egitto, verso la libertà. Mosè, forse
memore della passata esperienza fallimentare con i suoi fratelli ebrei, oppone
molta resistenza. Alla fine si lascia convincere, anche perché Dio gli comunica
che sono morti quanti attentavano alla sua vita in Egitto. Mosè, dunque, torna a
chiamare gli Ebrei a uscire dalla schiavitù. Spesso verrà colto dalla tentazione di
pentirsene. Ciò malgrado, sarà lui a fare di quella massa di schiavi un vero popolo.

1993
84) Osea. Il profeta dell’amore sempre disposto a innamorarsi. Michea. L’uomo
dall’acuta coscienza profetica, 2. ed. aggiornata, Brescia, Queriniana, 1993,
190 pp. (Collezione “LoB 1. sez., Antico Testamento”, 23).
Seconda edizione del n. 50 della presente Bibliografia.

54
Lorenzo Terzi

85) Integrità originaria e violenza: Genesi 1-11, in Vittorio Liberti (a cura di),
La pace secondo la Bibbia, L’Aquila, ISSRA, 1993, pp. 15-33.
F. afferma che Genesi 1-11 non è il racconto dell’età dell’oro irrimediabilmente
perduta e solo in parte recuperata a partire da Cristo. Al contrario, “è il quadro di
situazioni costantemente ricorrenti. Il testo ha pertanto valore esistenziale più che
storico; o, se si vuole, è storico nel senso che accade sempre”.
Dal punto di vista dell’analisi letteraria, Gen 1-11 risulta essere l’intreccio di un
materiale proveniente da una doppia tradizione e scuola letteraria: la Sacerdotale,
più recente (VI sec. a.C.), e la Jahvista, più antica (sec. X-IX a.C.). Dopo un’analisi
comparata delle due versioni, l’A. ricorda che alla prima coppia (Adamo ed Eva)
ne succede un’altra, questa volta costituita da due fratelli, Caino e Abele. “Come
Adamo ed Eva sono ogni lui e lei” spiega F. “così Caino e Abele sono la metafora di
ogni società, gruppo o comunità”. Caino ha meno successo di Abele: ciò determina
in lui una forma di “depressione irosa”. Egli sceglie di seguire non l’indicazione
di Dio, ma la sua passione, e diviene fratricida. Quindi, da nomade, si fa cittadino.
Dalla cultura nomade a quella urbana il passo è enorme: la vita nomade è essenziale
e monotona, quella urbana è articolata e ricca, poiché vi fioriscono tutte le arti e i
mestieri. Tuttavia, “l’avere più” non è un “essere più”: “L’avere più può e spesso è
un deterioramento della vita, una soggezione a forme di violenza maggiorata”.
L’autore biblico esprime questo concetto attraverso la metafora di Lamech, quinto
discendente di Caino, violento come il progenitore, ma di una violenza gratuita,
esorbitante, inarrestabile. Anche la sua morte produce una conseguenza abnorme:
lo sterminio dell’intero clan di chi l’ha ucciso. Rifiutato Dio come signore e come
norma di vita, si rifiuta il fratello: da qui la violenza perpetrata all’interno di una
famiglia e di un gruppo (Caino), che dilaga fino a coinvolgere l’intera società. La
“torre di Babele” è, secondo F., un archetipo di quell’imperialismo caratterizzato
dalla megalomania e dall’ansia: “bisogno di sentirsi grandi per mantenersi uniti”.
Ma ogni unità imposta e non nata dal consenso è anch’essa violenza.
86) Itinerario di fede e di vita cristiana sul modello dell’Esodo, in Cesare Bissoli
(a cura di), “La parola di Dio si diffonda e sia bene accolta” (2 Ts 3,1). Pro-
poste per incontri biblici, Leumann, Elle Di Ci, 1993, pp. 65-72.
L’obiettivo che F. si propone è quello di raggiungere il tipico “uomo d’oggi (un
cristiano praticante non particolarmente motivato dal punto di vista religioso; un
adulto che avverte l’esigenza di una fede più impegnata; un uomo che si apre per
la prima volta a Dio), nella sua situazione di vita, spesso asservita, consapevol-
mente o inconsapevolmente, a potenze alienanti di qualsiasi livello (psicologico,
morale, sociale, religioso) e da lì partire per annunziare l’interesse di Dio e del
suo Cristo a portarlo in libertà, e nel dono dello Spirito a impegnarlo nell’uso
liberante e aperto agli altri della sua libertà”. A tal fine, l’A. formula una proposta
catechistica fondata sullo schema “Esodo”: una fede da suscitare, una fede da
mettere in cammino e far crescere, una fede da impegnare nella vita.
87) La caridad en el Antiguo Testamento (trad. dall’originale italiano di Alberto
López, C.M.), in La caridad carisma vicenciano. XX Semana de Estudios Vicen-
cianos, Salamanca, CEME, 1993, pp. 9-33 (Collezione “Evangelizare”, 34).

55
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

Per i cristiani, osserva F., la vita di Gesù è stata un regalo, e anche quella del cri-
stiano, pertanto, deve esserlo: una vita da impegnare nel servizio, specialmente,
dei più poveri, come immagini viventi di Cristo. Questa può definirsi “carità”.
Una simile concezione è impensabile nell’Antico Testamento, pur non mancan-
do in esso esempi di magnanimità. Certamente possiamo anche ammettere che
quanto insegna l’Antico Testamento sull’amore di Dio e del prossimo prepara e,
in qualche modo, anticipa la grande “esplosione” dell’amore praticato da Gesù
e richiesto al cristiano. Però la carità, nell’Antico Testamento, rappresenta un
vertice, un’eccezione, e non la regola.
Guardando alla storia antica, si vede chiaramente come il sorgere della monar-
chia, in Israele, ha portato alla creazione di un ceto di funzionari cui è stata aperta
la via per l’arricchimento. Alcuni hanno approfittato della situazione favorevole
applicandosi al commercio; altri hanno speculato sulle terre, costituendo dei lati-
fondi. In ogni caso, l’ottavo secolo a.C. segna un periodo di grande splendore ma-
teriale per il cosiddetto “regno del Nord”. In quest’ambito si esercita la missione
del profeta Osea, che denuncia le ingiustizie di una società divisa fra opulenza e
miseria. Anche gli altri profeti si fanno portatori di un messaggio di futura rovina
per i prepotenti. Le loro accuse non cadono nel vuoto, influenzando positivamen-
te la legislazione nel senso della salvaguardia dei valori fondanti della conviven-
za umana e della promozione del rispetto per le classi più deboli.
Ma è solo con il Nuovo Testamento che compaiono e si affermano concetti come
l’amore per il prossimo, per lo straniero e addirittura per il nemico. Il punto di
contatto e di raccordo fra l’antica e la nuova Alleanza sta nel dovere prescritto
agli uomini di amare e di servire, perché è stato Dio ad amarci e a servirci per
primo.

1994
88) Parola e preghiera, in «Annali della Missione», CI (2/1994), pp. 127-140.
In Isaia 2,2-5 vi è la descrizione di una visione del profeta, che si ritrova anche
in Michea 4,1-3. Isaia vede che il piccolo colle di Sion sarà trasferito sulla cima
di tutti i colli, sarà come un diadema regale sui più regali monti della terra, o
come un pinnacolo sullo zoccolo roccioso delle più alte catene montuose. Segue
l’immagine di fiumane di uomini che da tutte le parti della terra si dirigono verso
il colle, immagine speculare e opposta a quella della torre di Babele. Quest’ulti-
ma, infatti, nasce dallo sforzo dell’uomo, mentre sul colle di Sion c’è “il tempio
del Dio di Giacobbe”: “lì Dio ha rivelato la sua volontà, lì il Dio d’Israele fa
risuonare la sua toràh, la sua parola, il suo insegnamento, la sua legge”. Il testo
isaiano, nella conclusione, invita calorosamente Israele, che per primo ricevette
l’educazione di Dio attraverso la sua parola, a lasciarsi convertire anche adesso
per primo da Dio.
L’educazione della Parola ci pone in contatto diretto e immediato con Dio; con-
temporaneamente ci rende consapevoli degli insuccessi e dei tradimenti di cui è
costellata la via del credente, anche perché pregare è immergersi in Dio, inabis-
sarsi “nell’oceano senza fondo della sua grandezza”. Quanto più ci si riflette in
Lui, tanto più appare la povertà dell’uomo, ma al tempo stesso pure la sua gran-

56
Lorenzo Terzi

dezza: “La vocazione radicale dell’uomo, anche del più grande peccatore, è di
trascendersi sempre. Perché Dio è l’eterna possibilità dell’uomo”. L’autocatarsi
può andare soggetta a fallimento, ma l’apertura fiduciosa a Dio, “al suo perdono,
alla sua grazia rigeneratrice diventa la chance vincente dell’uomo”. E qui la pre-
ghiera si fa supplica e confessione, lode e ringraziamento.
89) «Il Signore cercò di far morire Mosè» (Es 4, 24-26), in Esperienza e silen-
zio di Dio, numero monografico della rivista «Parola, Spirito e Vita», XXX
(1994), 2, pp. 39-48.
F. analizza un brevissimo passo tratto dal Libro dell’Esodo, considerato da tutti i
commentatori uno dei testi più oscuri di tutta la Bibbia: “Mentre [Mosè] si trova-
va in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne incontro e cercò di
farlo morire. Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio
e con quello gli toccò i piedi e disse: ‘Tu sei per me uno sposo di sangue’. Allora
si ritirò da lui. Essa aveva detto sposo di sangue a causa della circoncisione”.
La versione biblica dei Settanta (seconda metà del III secolo a.C.) ha introdotto
nel testo alcuni cambiamenti, allo scopo di rendere meno enigmatici questi tre
versetti: non è Dio ma il suo angelo che cerca di uccidere Mosè; Zippora, poi,
s’inginocchia ai piedi dell’angelo con il sangue del figlio e dice: “Il sangue della
circoncisione di mio figlio scorre”, “dando con questa espressione un valore sa-
crificale alla circoncisione che propizia la salvezza del marito”.
F., però, cerca una spiegazione più soddisfacente, che non edulcori la carica
“scandalosa” del brano originale. È chiaro, egli scrive, che Zippora compie il rito
della circoncisione sul figlio, e che tocca con la membrana del prepuzio i genita-
li del marito, adombrati eufemisticamente nei “piedi”. Ella, inoltre, salva Mosè
proprio in virtù di questo rito; così si spiegherebbe pure l’espressione “sposo
di sangue”. Dio avrebbe dunque cercato di uccidere Mosè perché questi aveva
trascurato di circoncidere il figlio. Zippora rimedierebbe ottenendo un doppio
effetto: “il compimento del dovere dei genitori verso il bambino e la salvezza del
marito”.
Tuttavia, nota F., rimane sempre insoluto il problema del contesto: “perché qui,
perché ora e perché proprio un attacco frontale?”. Se a prima vista il Signore
appare volubile e capriccioso perché dà ordine a Mosè di partire e poi gli si para
dinanzi con l’obiettivo di ucciderlo, al contrario è appunto un simile paradosso a
mettere in evidenza un aspetto irrinunciabile e insondabile di Dio, il suo mistero.
Questo procedere della divinità in modo apparentemente contraddittorio si può
leggere nella giusta luce ponendo il testo dell’Esodo a confronto con il racconto
di quanto accadde a Giacobbe di ritorno nel Canaan (Gen. 32,23-31). In entrambi
gli episodi il vero avversario di Giacobbe e di Mosè non è, rispettivamente, il
fratello Esaù e il Faraone, ma Dio. Questi, infatti, sottopone ambedue a una pro-
va, una specie di “notte oscura dello spirito” che permette loro di temprarsi, di
uscirne più forti. Arricchiti dalla prova, Giacobbe e Mosè non hanno più paura di
misurarsi con gli avversari umani del progetto salvifico di Dio: l’esito positivo è
dato per scontato. Gli evangelisti hanno narrato la notte precedente la passione di
Gesù in termini analoghi. Da Cristo il Padre esige l’accettazione della sconfitta
“umana” come condizione di una vittoria ben più vera e proficua per sé e per gli

57
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

altri: “Quando Gesù accetta le esigenze di questa seconda opzione la lotta finisce,
l’esito è ormai stabilito”. La vittoria del Figlio sulla morte è anch’essa data per
scontata: anzi, secondo l’evangelista Marco la morte sulla croce è il momento
che più intensamente rivela chi sia veramente Gesù. F. conclude: “Per quanto
paradossale possa sembrare, l’esperienza di Dio più sofferta è la più feconda”.

1995
90) Gli anziani nella Bibbia : gli interessi degli anziani nei libri storici dell’An-
tico Testamento, in Massimo Lorenzani (a cura di), Gli anziani nella Bibbia,
L’Aquila, ISSRA, 1995, pp. 69-92.
L’odierna problematica dell’anziano, spesso condannato all’isolamento e all’inat-
tività sociale, è del tutto assente nella Bibbia: “La famiglia dell’epoca nomadica
e pastorale o anche del tempo della radicazione in un territorio e in una cultura
agricola è una famiglia patriarcale. L’autorità del capofamiglia o dell’anziano in
una tribù o comunità paesana praticamente non ha limiti di tempo, dura fino alla
morte”. Lo stesso quarto comandamento (“Onora tuo padre e tua madre”) esige
il riconoscimento fattivo dell’autorità dei genitori con la sottomissione dei figli
finché essi sono tali, in pratica sempre.
D’altra parte, i patriarchi sono spesso avanti con gli anni: Abramo ne ha cento
quando gli nasce Isacco (Gen 21,5); Giacobbe ne avrà centotrenta quando scende
in Egitto con i figli e i nipoti (Gen 47,9). Per loro la morte arriva quasi sempre
serena, anche perché la lunga vita e la scomparsa in vecchiaia sono esse stesse un
segno tangibile della benedizione di Dio sull’eletto. Per questo, aggiunge F:, “nei
discorsi di addio i personaggi di spicco della Bibbia sembrano i gestori sereni
della propria morte e della propria eredità morale”.
Una figura di uomo “comune”, un ottantenne cosciente di essere alla fine dei suoi
giorni, è invece quella di Barzillai di Roghelim nel Galaad (Transgiordania). Si
tratta di un personaggio che fa una breve comparsa nel secondo libro di Samue-
le, allorché Davide, partito da Gerusalemme, si ferma nella città di Makhanaim,
dopo aver attraversato il Giordano. Alcuni notabili del posto, fra cui Barzillai, si
fanno incontro al re e gli portano tutto l’occorrente per riposarsi e rifocillarsi. Da-
vide, allora, propone al vecchio ottantenne di seguirlo, di essere “commensale”
del sovrano. Ma Barzillai, saggiamente, rifiuta: “Quanti sono gli anni che restano
da vivere” (2 Sam 35). Un uomo della sua età può davvero essere utile al re? “Può
forse distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo?” (2 Sam 36a). Egli non vuole
offendere il re, e motiva il suo diniego con il fatto che la sua andata a Gesusalemme
sarebbe stata solo un peso per il sovrano. Al tempo stesso, però, prepara l’avvenire
per il suo erede: se Davide vuole davvero ricompensarlo, “porti allora con sé il fi-
glio, Chimam, a Gerusalemme e ne faccia quel che vuole” (2 Sam 38b). Il re accetta
di buon grado lo scambio. F. chiosa: “Il realismo più complesso e ricco il vecchio
Barzillai lo esprime in questo guardare avanti. Quando si è vecchi bisogna dar posto
ai giovani, che ci si è allevati come figli ed eredi di tutta l’esperienza di ottant’anni,
per poter continuare a vivere con le energie fresche dei giovani”.
Un’altra figura di anziano che spicca nel Vecchio Testamento è quella del novan-
tenne Eleazaro: il contesto storico nel quale egli conclude tragicamente la sua

58
Lorenzo Terzi

esistenza è quello della radicale ellenizzazione imposta agli Ebrei dal re seleucida
Antioco IV Epifane a Gerusalemme, il quale arrivò a dedicare il Tempio a Giove
Olimpio. Il testo di 2 Mac 6,18-20 descrive Eleazaro come uno scriba stimatis-
simo, molto anziano, venerando nell’aspetto. Si tenta, quindi, di farne un ellenista
convinto per trascinarsi dietro tutto il popolo. A tale scopo si prova a costringerlo
a mangiare carne suina. “Ma egli, preferendo una morte gloriosa a una vita igno-
miniosa, s’incamminò volontariamente al supplizio sputando il boccone” (2 Mac
6,19). Gli immancabili “accomodanti” tentano di risparmiargli la condanna, propo-
nendogli di porre in atto una finzione: far mostra di mangiare carne suina, sostituita
all’ultimo momento con carne di montone. Ma per il vecchio la mistificazione è
anche peggiore del boccone di carne suina, e perciò comanda che gli diano subito la
morte. Degno di particolare nota è il fatto che Eleazaro dichiari: “Non è affatto de-
gno della nostra età fingere con il pericolo che molti giovani… per colpa della mia
finzione... si perdano e io procuri così disonore e macchia alla mia vecchiaia” (2
Mac 6,24). L’eredità dell’anziano martire è il nobile esempio fornito ai giovani.
91) L’Ellenismo sfida la fede di Israele, in Gianfranco Ravasi (a cura di), La
Bibbia per la famiglia, IV, Cronache – Esdra – Neemia – Tobia – Giuditta –
Ester – Maccabei, Milano, San Paolo, 1995, pp. 399-403.
All’epoca della rivolta maccabaica la Giudea dovette confrontarsi con una cultura
e una civiltà fra le più importanti del mondo antico, ovvero con l’ellenismo. Già
in precedenza, come attestano gli stessi racconti biblici, vi era stato un confronto
con altri popoli orientali. Il salmo 137, “Sui fiumi di Babilonia”, esprime “l’ani-
mo profondo del popolo biblico che non vuole mischiarsi ai vincitori pagani”. La
ragione di questo ostinato rifiuto all’assimilazione è la fedeltà unica ed esclusiva
di Israele a Jahvè. Sotto Neemia, e ancor più con lo scriba e sacerdote Esdra, “la
comunità dei rimpatriati si impegnerà in una totale osservanza della legge mosai-
ca, per fare di Gerusalemme nuovamente la città di Dio e del suo tempio santo”.
Con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), il suo impero passa ai “Diadochi”.
La Palestina, in particolare, diviene parte del regno seleucide di Antioco III il
Grande. Questi e il suo successore, Seleuco IV Filopatore, mantengono buoni
rapporti con i sudditi giudei. La situazione cambia radicalmente allorché sale
al trono Antioco IV Epifane (175-164 a.C.). Costui, per riaffermare la propria
potenza nei confronti dei Tolomei di Egitto e dei Romani, nonché per sanare l’e-
rario, pensa di appropriarsi delle somme rilevanti conservate nel Tempio di Ge-
rusalemme, che – oltre a essere un centro religioso – svolgeva anche le funzioni
che oggi sono demandate alle banche, alle casse di risparmio e ai monti dei pegni.
Inoltre, Antioco porta avanti un deciso processo di “ellenizzazione” delle città,
anche sul piano religioso; arriva a dedicare il Tempio a Giove Olimpio, rendendo
quest’ultimo – di fatto – un luogo di culto “pagano”. Molti giudei si sottomettono
alla nuova cultura, più o meno volentieri; altri la rifiutano in blocco, preferendo
il martirio, o dandosi alla resistenza, passiva oppure armata, come nel caso dei
cinque fratelli Maccabei e dei loro compagni. Costoro porteranno alle estreme
conseguenze la fedeltà assoluta alla Legge, finendo con il compiere a loro volta
atti di violenza e di arbitrio: per esempio, costringendo tutti gli abitanti dei terri-
tori riconquistati a circoncidersi (1 Maccabei 2,46).

59
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

92) Sintesi teologica dell’Antico Testamento, in La Bibbia Piemme, Casale Mon-


ferrato, Piemme, 1995, pp. 2279-2289.
È possibile, secondo F., riassumere la parola di Dio nell’Antico Testamento at-
traverso tre categorie letterarie che corrispondono alla triplice divisione torah,
dābār, hokmah (“legge”, “parola”, “sapienza”), termini con i quali si intendono,
rispettivamente, il Pentateuco, i Profeti e gi Scribi. Nella torah Israele vedeva
la sua storia passata, quello che era chiamato a fare, la visione della realtà e del
suo destino: “Insieme la sua memoria, il suo futuro e la sua visione del mondo;
e tutto questo secondo quanto la parola di Dio gli era andata indicando”. A sua
volta la “parola” ha assunto la funzione di “appello alla conversione”, “annunzio
di castigo”, “annunzio di consolazione e salvezza”.
La terza grande categoria che si abbina alle altre due per tradurre la parola di Dio
nell’Antico Testamento è la hokmah, ovvero la “sapienza”. Sotto questa etichet-
ta vanno compresi i rimanenti libri biblici dell’Antico Testamento, quelli che la
Bibbia ebraica chiama gli “Scritti”.
La tematica della “salvezza” e la categoria del “messianismo” rappresentano,
invece, il “filo rosso” che collega l’Antico con il Nuovo Testamento. L’Esodo,
infatti, costituisce il paradigma di tutte le liberazioni e salvezze bibliche. La storia
stessa può essere così letta come un continuo esodo.
L’Antico Testamento ci fornisce, inoltre, esempi di “messianismo dinastico”: il
profeta di corte Natan assicura a Davide in nome di Dio la dinastia: “sul trono
ci sarebbe stato un suo figlio, che JHWH avrebbe considerato ‘suo’: «Io gli sarò
padre ed egli mi sarà figlio» (2 Sam 7,14)”.
Con l’eclissarsi del messianismo dinastico ai tempi dell’esilio, la speranza d’Israele
è affidata da alcuni circoli a un individuo che per missione è l’uomo di Dio per
eccellenza, il profeta. Scomparso il regno del Sud (587 a.C.), l’assenza assoluta
di un monarca umano fa sì che si facciano strada, sempre più prepotentemente,
l’attesa di un regno escatologico di Jahvè e il concetto della sua esclusiva regalità.
L’Antico Testamento si chiude, quindi, con l’aspettativa di una prossima rivela-
zione del “regno di JHWH”. Dalla rilettura recente dei testi antichi dei profeti si
capiva che Dio avrebbe introdotto il suo regno nel mondo, per la piena liberazio-
ne d’Israele, attraverso un suo inviato, il Messia.
Sarà Gesù, nel Nuovo Testamento, ad annunciare con forza che: “Il tempo dell’at-
tesa è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15).

1996
93) Sintesi teologica dell’Antico Testamento, in La Bibbia Piemme, Casale Mon-
ferrato, Piemme, 1996, 2. ed., pp. 2279-2289.
Seconda edizione del n. 92 della presente Bibliografia.

1997
94) Colloqui biblici. Per un rapporto rinnovato con il Signore Gesù, Leumann,
Elle Di Ci, 1997, 63 pp. (Collezione “Bibbia. Proposte e metodi”).
F. scrive la presente monografia con l’attenzione rivolta verso il Giubileo del

60
Lorenzo Terzi

2000. Offre quindi al credente delle “schede di lettura biblica”, allo scopo di
“promuovere la qualità del nostro rapporto con Gesù”.
Troppo spesso, afferma l’A., il rapporto tra il credente e il Cristo è di tipo “inte-
ressato”: “Nasce dal bisogno di essere capiti, aiutati, liberati da situazioni diffici-
li, compresi in momenti di crisi, di solitudine, d’insuccesso”. L’episodio dell’e-
morroissa, nel Vangelo di Marco, ci mostra un esempio di questa concezione
“magica” del rapporto con Gesù. La donna sofferente tocca il mantello di Cristo
per essere guarita. Ma a questo punto Gesù vuole che la donna esca allo scoperto,
e domanda con insistenza chi sia stato a compiere quel gesto. La “miracolata” gli
si prostra davanti, gli apre il cuore e gli rivela con quanta fiducia ha “approfittato”
della sua potenza. “Ecco il grande passaggio: da un Gesù visto e sfruttato solo
come un guaritore, la donna è passata a vedere e a onorare in lui la sua persona
divina e a consegnarglisi con tutta la sua vita”.
Tanta gente, inoltre, vive la dimensione religiosa come un dovere, o un insieme di do-
veri da assolvere. In questo tipo di “religiosità” tutto è in mano all’uomo. Alla divinità
tocca il ruolo, poco esaltante, di lasciarsi convincere dalle richieste del devoto. Ma la
religione biblica, e quella cristiana in particolare, è fondata proprio sul presupposto
inverso: l’iniziativa della rivelazione attiva e benefica è in mano a Dio.
Gesù, aggiunge l’A., non è nemmeno un casuale e felice incontro. Egli “dev’es-
sere una costante nella vita del credente, una presenza familiare, come i volti
delle persone care, come i nomi dolci degli amici o dell’innamorata. Bisogna
frequentarlo, bisogna andare a trovarlo in casa sua, sedersi con altri allievi alla
sua scuola. Con una sola parola, bisogna diventare discepolo”.
Tutte le preghiere degli uomini sono nobili, ma non tutte sono “cristiane”. Gesù
dice chiaramente che il Signore sa quello di cui abbiamo veramente bisogno e ce
lo vuol dare: siamo noi che non lo sappiamo e non glielo chiediamo.
Quanto all’etica, la cultura contemporanea è caratterizzata da un forte “sogget-
tivismo”, in un duplice senso: da un lato, l’uomo è convinto che egli stesso sia
la fonte dell’eticità o moralità del proprio comportamento; dall’altro, si diffonde
sempre più la convinzione che ogni essere umano possa e debba avere dei propri
punti di riferimento, una “morale su misura”. Alcuni famosi passi del Nuovo Te-
stamento ci mostrano, però, i limiti di una morale “autosufficiente” e compiaciuta
di sé: ad esempio, l’episodio del pubblicano e del fariseo (Lc 18,9-14), oppure
quello della prostituta che unge di olio profumato i piedi di Gesù durante il pran-
zo a casa del fariseo (Lc 7,36-50).
Essere “discepoli” di Cristo significa “mettersi alla sua sequela”. Ma c’è sequela
e sequela, nota F. C’è una sequela generosa, ma interessata; ce ne può essere una
perfino strumentale ai propri obiettivi: la prima è insufficiente, la seconda è inaccet-
tabile. “Se si vuol seguire Gesù lo si deve seguire senza condizioni. Queste le pone
Lui, lasciando a noi la libertà di accoglierle o meno”. Peraltro, le pone elencandole
chiaramente: rinnegare se stessi, prendere la propria croce e non vergognarsi di Lui.
95) Tu conosci Gesù? Si comportava da uomo libero, e come un provocatore.
Ma era il Cristo e il salvatore del mondo, Leumann, Elle Di Ci, 1997, 47 pp.
(Collezione “Mondo nuovo”, 103).
Ristampa del n. 74 della presente Bibliografia.

61
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

96) Profeti e re in Israele, in Gianfranco Ravasi (a cura di), La Bibbia per la


famiglia, VII, Isaia – Geremia – Lamentazioni – Baruc, Milano, San Paolo,
1997, pp. 95-97.
Afferma F.: “C’è un testo nel libro del Deuteronomio che traccia lo statuto della
‘professione’ del profeta. Il Dio d’Israele concede alle nazioni pagane maghi e
indovini, ma non al suo popolo. A lui riserva il profeta. «Il Signore tuo Dio su-
sciterà per te tra i tuoi fratelli, in mezzo a te, un profeta come me: lui ascolterete»
(Deuteronomio 18,15)”. Questo testo indica anche dei criteri di discernimento tra
profeta vero e falso. Esso, comunque, è alquanto tardivo (non anteriore al VII se-
colo a.C.), e riflette – più che annunziare – il movimento profetico vero e proprio,
che ha operato nell’arco della monarchia israelitica (XI-VI secolo a.C.).
Nell’ambito della società ebraica il profeta svolge anche una funzione sociale: la
denunzia dello strapotere dei notabili, e specialmente dei re, è da lui usata come
arma per difendere i diritti delle classi deboli, per impedire il dilagare dell’ingiu-
stizia e per richiamare la somma supremazia di Jahvè.
Diversa è la posizione di Isaia, sia nei confronti della monarchia davidica sia
verso la potenza imperialistica del suo tempo, l’Assiria. Secondo Isaia, infatti,
l’istituzione monarchica, a dispetto dei suoi peccati e delle sue infedeltà, è lo stru-
mento di cui Dio si avvale per guidare il suo popolo e assicurargli l’avvenire. La
potenza assira, dal canto suo, costituisce in tale visione uno strumento di giustizia
e di castigo da parte di Dio verso le iniquità di Israele.
La visione più vera di Isaia, secondo F., è però quella della pacificazione univer-
sale che affratella i popoli e li rende protagonisti di un mondo più umano e vivibi-
le: “Dalle loro spade forgeranno aratri / e dalle loro lance falci; / una nazione non
alzerà più la spada contro un’altra / e non praticheranno più la guerra” (Is 2,4).
97) Parigi: solo un happening di un milione di giovani con il Papa?, in «Presen-
za Vincenziana», XX, 8 (settembre-ottobre 1997), pp. 15-18.
F. redige un resoconto della messa celebrata da papa Giovanni Paolo II a conclu-
sione delle manifestazioni per la XII Giornata Mondiale della Gioventù (Parigi,
19-24 agosto 1997). Accenna alla smentita delle previsioni iniziali, che stimava-
no l’afflusso dei giovani un terzo di quello che effettivamente è stato. Il 24 agosto
1997, per la messa papale, Long-champ era infatti gremita da un milione di per-
sone. La sera precedente settecentomila giovani avevano partecipato alla veglia.
L’A. riferisce inoltre di aver letto, sul «Corriere della Sera» del 25 agosto, un’in-
tervista al filosofo Massimo Cacciari, il quale aveva riconosciuto l’effettiva “pre-
sa” di Giovanni Paolo II sui giovani, perché il papa propone valori a un mondo
che non ne ha. Ma proprio qui, secondo Cacciari, stava la debolezza della pro-
posta: “I valori della proposta cristiana del Papa cadono nel vuoto, cadono in un
mondo secolarizzato. Come il seme della parabola che cade sui sassi: non attec-
chisce”. F. non è d’accordo con questa analisi. A suo avviso, le giornate di Parigi
non rappresentano un happening di giovani che non lascia traccia nella loro vita
successiva; al contrario: sono l’exploit di una fede che va maturando.
F., quindi, racconta come si era preparata all’avvenimento l’Associazione Maria-
na della Campania, della quale egli è assistente regionale, con un anno di intenso
lavoro formativo attraverso lo studio e l’approfondimento di sei schede bibliche.

62
Lorenzo Terzi

Sicché il papa, rivolgendo i suoi discorsi ai giovani, non li ha trovati impreparati.


L’A. dichiara, a tale proposito, la sua riconoscenza ai confratelli Vincenziani fran-
cesi, i quali hanno messo a disposizione dei gruppi dell’Associazione Mariana
“una loro tenuta con castello e edifici vari a Villebon, 20 km da Parigi, collegata
con treno alla città”.

1998
98) Colloqui biblici. 2. Per una riscoperta intelligente e amorosa dello Spirito
Santo nella storia di Dio con gli uomini, Leumann, Elledici, 1998, 123 pp.
(Collezione “Bibbia. Proposte e metodi”).
L’espressione “Spirito Santo” richiama puntualmente l’immagine della colomba
che, in verità, ricorre una sola volta nei Vangeli, in occasione dell’episodio del
battesimo nel Giordano. Ma vi sono anche altri simboli dello Spirito Santo, al-
trettanto significativi. Il vento, per esempio. In ebraico, fra l’altro, per indicare
“vento” e “spirito” si usa la stessa parola: rùah.
Così pure la colonna: è lo Spirito Santo, infatti, che garantisce – nella Chiesa –
la solidità e la sicurezza della verità: è lui la “colonna”. Altri simboli altrettanto
indicati, perché attestati dagli stessi Vangeli, sono poi l’acqua, la lingua, il fico,
l’olio, il dito, il rosso.
Lo Spirito Santo è anche “soggetto dell’autorivelazione di Dio”, attraverso “ispi-
razioni carismatiche” conferite da Dio stesso a persone che devono realizzare
eventi di salvezza, oppure “ispirazioni profetiche”, ispirate a chi deve parlare nel
nome del Signore.
In alcuni testi profetici dell’Antico Testamento il dono dello Spirito di Dio è in
funzione della molteplice missione del profeta, non solo quella della parola, ma
anche dell’azione religiosa, sociale e politica. Questa visione più totalizzante è
propria dei profeti del periodo dell’esilio e del post-esilio (secoli VI e V a.C.).
L’agente decisivo dei grandi appuntamenti di Dio con la storia dell’umanità è proprio
lo Spirito Santo. Egli interviene anche nel mistero dell’Incarnazione. La Vergine, ri-
manendo tale, può concepire proprio grazie allo Spirito. In Lc 1,39-45 Maria fa visita
a Elisabetta. Il bambino che è nel grembo dell’anziana parente della Madonna esulta,
e la stessa Elisabetta si sente piena di Spirito Santo: comprende di trovarsi di fronte
alla madre del suo Signore, e perciò la chiama “benedetta” e “beata”.
Anche all’inizio dell’esistenza della Chiesa lo Spirito Santo è protagonista, invi-
sibile ma quasi palpabile: anzi, “Spirito e Chiesa negli Atti degli Apostoli sono
talmente uniti e in sinergia costante che chi pecca contro la Chiesa, automatica-
mente è considerato peccatore contro lo Spirito”. Il battesimo degli Apostoli è
avvenuto, infatti, “nello Spirito”, ed è per questo che essi, senza cessare di essere
uomini, nella fragilità della condizione umana, saranno testimoni di Cristo corag-
giosi e impavidi, a tutte le latitudini della Terra.
L’assistenza dello Spirito Santo continua incessantemente nella Chiesa: “Portare
il Cristo ad ogni uomo perché lo accolga come il Signore della sua vita e come la
risposta più completa alle sue domande più assillanti: è questa l’opera per eccel-
lenza dello Spirito”. Gesù medesimo, alitando sugli Apostoli, ha compiuto un atto
“creazionale”, trasmettendo loro quanto di più vitale c’è in lui, la potenza vivifi-

63
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

cante che l’ha risuscitato: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati
saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,22-23).
È ancora una volta lo Spirito che il credente riceve nel battesimo, e che cresce
con gli altri sacramenti, con la preghiera assidua, con l’esercizio delle virtù che
da lui promanano. In particolare, spiega F., il battesimo è come un “passaggio del
Mar Rosso” nella vita del cristiano redento; a rendere così efficace l’acqua del
battesimo è proprio la presenza santificante dello Spirito.
Lo Spirito dato al cristiano diviene pertanto, in lui, principio di una vita nuova.
San Paolo è, a questo proposito, assolutamente perentorio (Rm 8,15): “Voi non
avete ricevuto uno Spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto
uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!»”. È
sempre lo Spirito Santo il vincolo che unisce i cristiani, incorporati a Cristo e,
quindi, appartenenti a Dio: pertanto, “tutto ciò che nuoce all’unità della Chiesa e
dei cristiani è tristezza per lo Spirito, paralisi della sua azione, progressivo allon-
tanamento della sua presenza”.
99) Spirito Santo e vita consacrata, in Nel vento dello Spirito. Per una esistenza
trasfigurata, supplemento a «Consacrazione e servizio. Rivista mensile delle
religiose» (n. 2, febbraio 1998), Roma, Centro Studi USMI, 1998, pp. 108-
115.
In 1 Cor (7,7) Paolo scrive: “vorrei che tutti fossero come me (cioè celibi, ver-
gini); ma ciascuno ha il proprio dono di Dio, chi in un modo, chi in un altro”. F.
spiega il contesto nel quale lo scrittore sacro colloca questa frase. Paolo risponde
alla domanda dei Corinzi sull’opportunità o meno di sposarsi. Egli vorrebbe che
tutti potessero restare come lui, per l’appunto celibi, vergini. Tuttavia sa bene che
il progetto di Dio prevede diversamente: ad alcuni uomini è dato il dono della ver-
ginità, ovvero dell’assoluta consacrazione a Dio, ad altri quello del matrimonio.
Ma l’una e l’altra condizione sono ugualmente doni del Signore.
In particolare, il carisma della vita consacrata è la fede, perché “fede”, nel lin-
guaggio biblico, significa “aprirsi a Dio”, “aderire a Dio”, “consegnarsi a Dio”,
darsi a lui in maniera radicale. Tale carisma ha tre aspetti: pneumatologico, in quan-
to è un dono dello Spirito Santo; cristologico, perché consiste nell’adesione a Cri-
sto, modello di ogni vita consacrata; ecclesiologico e sociale, poiché esso è dato al
singolo, ma in funzione del bene comune, sia della Chiesa sia della società.
100) Voci “Abele”, “Adamo”, Eva”, “Giacobbe”, Giosuè”, “Giuseppe”, “Isacco”,
“Mosè”, “Noè”, in Elio Guerriero - Dorino Tuniz (a cura di), Claudio Leo-
nardi - Andrea Riccardi - Gabriella Zarri (direzione di), Il grande libro dei
Santi. Dizionario enciclopedico, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1998, vol. I,
pp. 3-4, 18-20, 643-645; vol. II, pp. 799-801, 826-828, 975-977, 1130-1131,
1460-1464, vol. III, pp. 1499-1501.
101) Recensioni a Paula Bowes, I Libri di Samuele (Brescia, Queriniana, 1995);
Alice Laffey, I Libri dei Re (Brescia, Queriniana, 1995); Ead., I Libri delle
Cronache (Brescia, Queriniana, 1995); rispettivamente voll. 8, 9 e 10 della
collana “La Bibbia per tutti”, in «Rassegna di Teologia», XXXIX, 1 (gennaio-
febbraio 1998), pp. 139-140.

64
Lorenzo Terzi

102) Il Pentateuco secondo J. Blenkinsopp, ibid., 6 (novembre-dicembre 1998),


pp. 905-921.
Ampia recensione-presentazione di un volume di Joseph Blenkinsopp, Il Pen-
tateuco. Introduzione ai primi cinque libri della Bibbia (Brescia, Queriniana,
1996).

1999
103) Colloqui biblici. 3. Per un ritorno convinto e un dialogo amoroso con il Pa-
dre del Signore Gesù e nostro, Leumann, Elledici, 1999, 159 pp. (Collezione
“Bibbia. Proposte e metodi”).
Per molti, osserva F., la vita è simile a una parabola: “Sono permesse delle va-
riazioni più o meno vistose, ma il tema è lo stesso. Tutti nasciamo, cresciamo,
amiamo, moriamo. Per cui la vita non è solo una parabola, ma una parabola ine-
luttabile, inevitabile, ossessiva”.
Sulla nostra vita, tuttavia, la parola di Dio dice altro: essa viene da Lui, ha un
progetto da realizzare in piena libertà, è in cammino costante, anzi è “un grande
pellegrinaggio verso la casa del Padre”, e solo in Dio trova compimento e pienez-
za.
Il racconto della Genesi sull’origine dell’uomo ci conferma, appunto, che l’uma-
nità viene da Dio, e che la vita umana gli appartiene. Esso, inoltre, testimonia che
il criterio del bene e del male proposto da Dio è il più perfetto, il più utile, il più
vantaggioso per l’uomo. Accoglierlo equivale a sottomettersi a Dio, a riconoscere
la dipendenza da Lui, ad accettarne la legge. Disobbedirgli, invece, equivale a
“morire” alla riuscita migliore dell’uomo, è un fallire secondo il progetto di Dio.
Il “serpente” del racconto della Genesi è il simbolo di ogni seduzione, di ogni
convincimento o spinta a fare il male pensando di ricavarne un utile; pensando,
soprattutto, che non c’è nessuna legge, né umana né tantomeno divina, e che non
esiste verità oggettiva: “È vero quel che l’uomo considera come tale; è bene ciò
che mi conviene; è giusto ciò che in una determinata epoca e situazione la con-
venzione o la cultura di un popolo considerano come tale”.
In tutto il capitolo 3 del libro della Genesi Dio appare come giudice imparziale
e giusto, ma non per questo meno implacabile. Eppure egli compie un gesto ina-
spettato: confeziona una pelliccia per Adamo ed Eva. Il significato di tale azione,
secondo l’A., è di altissimo valore antropologico: “Vuol dire che Dio non abban-
dona al suo destino l’uomo peccatore, ma se ne prende cura, lo circonda delle sue
attenzioni”.
Una delle parabole più celebri che Gesù abbia mai raccontato è senza dubbio
quella cosiddetta del “figluol prodigo” (Lc 15,11-32). In essa emergono diversi
temi importantissimi. Innanzitutto il padre-Dio rispetta la volontà del figlio gio-
vane di avere la parte del patrimonio che gli spetta e di andarsene di casa, pur
sapendo che si tratta di una scelta sbagliata. Quando il giovane, dissipati tutti
gli averi, si trova nella miseria più squallida, ha una “presa di coscienza”, che
però non nasce dal pensiero del padre addolorato per il suo abbandono, ma dalla
semplice constatazione che l’infimo dei salariati della sua casa ha da mangiare,
mentre lui muore di fame: “Il testo parla sì di riconoscimento del peccato contro

65
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

Dio e il padre, ma tutto questo è orientato a una cosa sola: «trattami come uno dei
tuoi garzoni», come l’ultimo dei tuoi servi: fammi mangiare! Non merita niente,
ma un pezzo di pane non si nega a nessuno”.
Ma il padre-Dio compie un gesto di assoluta gratuità: vede venire il figlio da
lontano e gli corre incontro. Non lo lascia nemmeno parlare: “Quel che il figlio
non solo non osa chiedere ma nemmeno immaginare, il padre lo fa: lo reintegra
nella dignità di figlio”: “Così è il Dio di Gesù: senza che noi lo meritiamo in alcun
modo ci ama sempre, ci perdona, ci riammette nella sua amicizia, chiedendo a noi
solo di lasciarci conquistare dal suo amore”.
In questa prospettiva, il sacramento della Riconciliazione costituisce, per il cre-
dente, “un bagno di grazia, un passaggio del Mar Rosso, che libera da schiavitù
umilianti e fa camminare in novità di vita per la strada aperta dalla Parola di Dio
e dalla sua conduzione amorosa”. Ma la conversione richiede un cambiamento
radicale, che ci conduca a discernere i valori veri da quelli falsi. Il valore etico di
base, sottolinea l’A., è la persona umana: l’uomo, infatti, è l’immagine di Dio,
colui che lo “incarna” nella creazione. Collegato con la vita è il valore primario
della libertà, che non va confusa con l’arbitrio.
Strettamente legata al discorso sul discernimento dei valori è la necessità di pas-
sare da una concezione “egoistica” dell’amore a una “altruista”. Ancora una volta
è il Nuovo Testamento a fornirci uno spunto circa la mentalità da acquisire per
realizzare l’amore “oblativo”, “gratuito”, “centrifugo”. Gesù, infatti, comanda di
amare i nemici e di pregare per i persecutori, perché è proprio così che Dio ama:
“Il Padre ama con amore di benevolenza, di indulgenza e di tenerezza quei figli
che non comprendono quanto male si facciano e fanno agli altri nell’essere ingrati
e malvagi”.
La “lavanda” effettuata dal celebrante il Giovedì Santo richiama appunto all’a-
more di Gesù. Questo suo gesto, effettuato durante l’Ultima Cena, è “segno”,
cioè evocazione, manifestazione, trasmissione inondante e sovrabbondante del
suo amore. Un esempio celebre di questo insuperabile tipo di amore è offerto
dalla parabola cosiddetta del “Buon Samaritano”.
Ma l’amore come servizio è raffigurato nella sua forma più alta in Maria di Na-
zaret, la madre di Gesù: “serva di Dio” nell’annunciazione, “serva dei poveri con
cuore di madre” nell’episodio delle nozze di Cana, discepola silenziosa di Gesù.
A lei, quale modello sublime della carità fatta servizio, F. affianca le figure di San
Vincenzo de Paoli e di Santa Luisa di Marillac.
Il Vangelo, qui più volte citato, “è per tutti gli uomini”: “Nato e plasmato in una
cultura non è catturato da nessuna; può e deve essere calato in ogni cultura perché
raggiunga ogni uomo”. Compito del cristiano, oggi, è dunque quello di affrontare
le sfide del “secolarismo”, ovvero “dimostrare con la propria fede, con la testi-
monianza della vita che alla crisi di civiltà, di cui soffre la società contempora-
nea, viene in aiuto «la civiltà dell’amore, fondata sui valori di pace, solidarietà,
giustizia e libertà, che trovano in Cristo la loro piena attuazione» [citazione di F.
da Giovanni Paolo II, enciclica Tertio millennio adveniente], e della quale si fa
portatore il cristiano”.
L’ecumenismo leale e rispettoso delle identità proprie è un’altra delle sfide che
il cristiano cattolico deve saper affrontare e a cui deve rispondere con coraggio,

66
Lorenzo Terzi

“fidando nello stesso Dio, che ognuno chiama con nomi differenti e a cui attri-
buisce un volto corrispondente alla sua esperienza religiosa e alla sua fede. Per
ottenere questo, i credenti devono aprirsi a un dialogo che eviti gli inutili irenismi
e aborrisca ogni forma di sincretismo.
104) Omelia di apertura, in «Annali della Missione», CVI (4/1999), pp. 279-284.
Si tratta di un’omelia pronunciata da F. in occasione della Messa di apertura del
Meeting dei Giovani Vincenziani del 1999. L’oratore fornisce scarni elementi di
storia della Congregazione Vincenziana, commenta la prima lettura e il Vangelo
del giorno (Numeri 12,1-13; Mt 14,22-33), quindi addita ai presenti come esem-
pio della sequela di Cristo il modello della Vergine Santa, madre di Gesù.
105) Recensione a: Joseph Blenkinsopp, Il Pentateuco. Introduzione ai primi
cinque libri della Bibbia (Brescia, Queriniana, 1996), in «Rivista Biblica»,
XLVII (1999), pp. 462-465.
106) Recensione a: John Craghan, Ester, Giuditta, Tobia, Giona (Brescia, Queri-
niana, 1995), in «Rassegna di Teologia», XLI (1999), pp. 784-785.
107) Recensione a: John Rybolt, Sapienza e Siracide (Brescia, Queriniana, 1997;
nn. 20 e 21 di La Bibbia per tutti; edizione italiana a cura di Flavio Dalla
Vecchia) in «Rassegna di Teologia», XLI (1999), p. 926.

2000
108) Il Cristo degli amici. La gratuità assoluta di Gesù, Cinisello Balsamo, San
Paolo, 2000, 203 pp. (Collezione “Le ragioni della speranza”, 36).
La “gratuità” è un non senso per la logica comune degli uomini. Dare, spendersi
per gli altri senza un immediato e preciso tornaconto è un assurdo: “Si dà per
avere”.
Essere disposti a fare dell’altro uomo “un polo alternativo al proprio” può sem-
brare un’utopia. Ma si tratta, né più né meno, dell’ottica degli “amici”. F. sostiene
di conoscere un uomo che ha vissuto questa alternativa e l’ha proposta agli amici.
Quest’uomo si chiama Gesù di Nazaret.
I gesti della gratuità, infatti, gli appartengono. Dopo il battesimo ricevuto da Gio-
vanni, figlio di Zaccaria, la vita di Gesù prende un’altra piega: “Non lavora più,
ma parla e soprattutto incontra gente. Nelle situazioni più impensate e magari
rischiose”. Per esempio, a tavola, con persone “poco dabbene”, pubblicani e pec-
catori. A casa di un notabile, invece, di un fariseo, permette che una prostituta gli
si avvicini, gli bagni i piedi con le sue lacrime, glieli asciughi con i suoi capelli e
vi sparga sopra dell’unguento prezioso.
Talora interviene senza nemmeno essere stato pregato, come nel caso della re-
surrezione del figlio della vedova di Nain. Ma, cosa ancora più sorprendente, la
gratuità del suo intervento salvifico si manifesta anche nei confronti delle folle.
Invece di averne paura e di fuggirle, Gesù manifesta spesso sentimenti di tenerez-
za nei loro confronti.
Naturalmente, egli interviene anche se viene espressamente pregato di farlo. Nu-
merose sono le testimonianze in questo senso nei Vangeli: particolarmente cele-

67
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

bre è l’episodio del centurione romano che intercede per la salute del suo servo
(Lc 7,1-10).
Ma Gesù dice anche dei “no”, talvolta sdegnati, altrove misericordiosi o funzio-
nali a un bene maggiore. Non di rado rimprovera: anche questo, nota F. è “il gesto
di una gratuità senza limiti, il gesto disperato di chi vuole salvare in extremis
colui che non fa niente per salvarsi e fa di tutto per perdersi”.
I miracoli – dei quali non è il caso, secondo l’A., di negare la veridicità – costi-
tuiscono la parola “forte” di Gesù. Essi sono un gesto di liberazione, e possono
riguardare sia il fisico sia l’anima dell’uomo. Infatti “nessun gesto di Dio è un
gesto egoistico: l’offerta di sé all’uomo è per la grandezza dell’uomo. Il regno di
Dio predicato da Gesù raggiunge tutto l’uomo fin nei meandri del suo cuore e lì
lo fa libero”.
Quanto ai “modelli di gratuità”, lo stesso Gesù ne incontra nel suo cammino, o li
addita nelle sue parabole, come quella, celeberrima, cosiddetta “del buon Sama-
ritano”. Fra l’altro, il Cristo sottolinea la bontà, l’onestà e la fede degli stranieri
con grande disinteresse ed entusiasmo, “rompendo” anche in questo caso con il
suo ambiente di origine, che considerava i Romani null’altro che invasori degni
solo di odio, e i Samaritani dei “bastardi” sul piano etnico e religioso.
Nella seconda parte del volume, F. cerca di rispondere alla domanda “Chi è dav-
vero Gesù?”. Setaccia, quindi, i Vangeli per sottolineare quei passi in cui il Cristo
è visto e “commentato” da chi gli sta attorno, dalle moltissime persone che egli
incontra più o meno casualmente. Si sofferma, poi, sul “Cristo degli amici”, ov-
vero degli Apostoli, che Gesù stesso chiama “amici” in Gv 15,14, mentre altrove
gli evangelisti li definiscono con la parola greca mathetài, ovvero “discepoli”.
Anche in questo caso, l’A. passa in rassegna i Vangeli alla ricerca delle reazioni e
dei commenti dei Dodici; mette poi a confronto i modi in cui i quattro Evangelisti
narrano la Passione e la Resurrezione.
Con quest’ultimo avvenimento, l’identità di Gesù diviene più chiara ai suoi di-
scepoli; non solo: a essi si aprono anche orizzonti nuovi. Con la Resurrezione
“l’umanità di Gesù è ricolma dello Spirito di Dio, è totalmente santificata e resa
capace di santificare. Da questa santità del Cristo risorto deriva la santificazione
nostra, il dono dello Spirito, che introduce il credente nella intimità divina in qua-
lità di figlio adottivo”. Con il battesimo, quindi, si entra a far parte della comunità
di salvezza che è la Chiesa, nella quale si nasce, si viene allevati, “si raggiunge la
pienezza dell’età adulta sulla misura di Cristo”.
109) Rinaldo Fabris - Antonio Fanuli, Venite, benedetti del Padre mio. Atti della
Settimana Biblica Diocesana. Molfetta 25-28 gennaio 1999, a cura di Gioac-
chino Prisciandaro, Molfetta, Luce e Vita, 2000, 61 pp. (Collezione “Qua-
derni di «Luce e Vita»”, 47).
- Il discorso apostolico (Mt 9,35 - 10,11), ibid., pp. 39-50.
Matteo ha organizzato buona parte della parola di Gesù in cinque grandi discorsi
– il più celebre dei quali è il “discorso della montagna” – in cui, secondo alcuni
esegeti, Cristo è paragonato a Mosè: “come Mosè ha dato la Toràh, il Pentateuco,
che si compone di cinque libri e contiene l’alleanza antica, così Gesù, nei cinque
discorsi, propone la legge nuova del Regno di Dio, la legge per i suoi discepoli”.

68
Lorenzo Terzi

Il messaggio contenuto nei discorsi verte intorno al concetto secondo cui Gesù e
i discepoli condividono la stessa missione. Questo è un nesso strettissimo, impor-
tante da cogliere per comprendere il contesto dei capitoli 10 e 18 di Matteo, in cui
si descrivono la missione dei discepoli e i rapporti di fraternità e di comunione
che si stabiliscono tra coloro che formano la Chiesa e la comunità.
La struttura tipica del “discorso apostolico” è, secondo F., la seguente: A) Corni-
ce: missione di Gesù. B) Istruzione agli inviati: programma, stile e accoglienza.
C) Esortazioni e promesse ai discepoli perseguitati. D) Principio della conformi-
tà maestro-discepolo. C’) Esortazioni e promesse ai discepoli perseguitati. B’)
Istruzioni agli inviati: accoglienza. A’) Cornice: missione di Gesù.
- Il cristiano secondo Matteo. Tra intolleranza, perdono, accoglienza, ibid., pp.
51-61.
Nel discorso del capitolo 18 – definito “ecclesiastico” – del Vangelo di Matteo
Gesù offre disposizioni comunitarie, indica come vivere all’interno della comuni-
tà di fede, quali rapporti stabilire fra i credenti e cosa fare per essere davvero suoi
discepoli. La struttura di questo discorso, afferma F., è “a dittico”. La prima parte
è costituita da una domanda rivolta dai discepoli: “Chi dunque è il più grande nel
regno dei cieli?”. Il Maestro chiama a sé un bambino, lo pone in mezzo a loro e
risponde: “In verità, vi dico: se non diventerete come i bambini non entrerete nel
regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il
più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie uno solo di questi bambini in nome
mio, accoglie me” (Mt 18,1-5).
Al v. 21 inizia la seconda parte: “Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Si-
gnore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me? Fino
a sette volte?». E Gesù gli risponde: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta
volte sette»”.
La figura del bambino rappresenta colui che, essendo minorenne, ha bisogno di
appoggiarsi all’adulto. Diventare “bambini”, quindi, significa “sentire che si ha
bisogno di Dio”. Quando Maria, nel Magnificat, loda il Signore, dice: “Ha guar-
dato l’umiltà della sua serva”. In realtà la traduzione è imperfetta, perché per noi
“umiltà” equivale a “sentirsi un niente”. Nel linguaggio biblico, invece, l’umiltà
si identifica con la piccolezza dell’essere umano: “Dio ha guardato che io ero un
nulla, che io ero la più piccola e ha fatto cose grandi in me”.
Ma il bambino rappresenta anche il povero e chi non conta; accogliere costoro è
indispensabile per mettersi alla sequela di Cristo.
Per quanto riguarda la domanda sul perdono, rivolta a Gesù da Pietro, è da notare
che le parole di quest’ultimo riflettono la mentalità e il modo di procedere fra i
giudei. Nella prassi ebraica, l’iniziativa del perdono doveva partire non dall’of-
feso, ma dall’offensore. Costui chiamava dei testimoni, alla cui presenza si rivol-
geva alla persona offesa, cui chiedeva per ben tre volte di essere perdonato. Dopo
questa triplice richiesta, l’offeso doveva concedere il perdono abbracciando l’of-
fensore.
Ma la risposta di Gesù capovolge completamente tale prassi consolidata e il modo
di pensare a essa sotteso: il perdono deve essere senza misura.
Dio, in Gesù, ha superato gli angusti confini del perdono giudaico: “Il suo” spiega

69
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

F. “è un perdono preveniente, gratuito, totale ed illimitato e, come tale, diventa


il modello del perdono cristiano ed ecclesiale”. Proprio perché Dio perdona così,
ne deriva la condanna severa per chi non ha praticato la misericordia nella forma
del perdono fraterno.
110) Aspetti biblici del giubileo cristiano, in Carmine Matarazzo (a cura di), Giu-
bileo: scuola, società. Proposte educative per l’insegnamento di religione,
Napoli, Luciano Editore, 2000, pp. 7-16 (Collezione “Religione – Valori –
Didattica”, 9).
Il testo biblico “classico” sul Giubileo è Lv 25,8 e seguenti. Il latino accosta
iubileus a iubilum, che significa “gioia”, “letizia”. In realtà la parola ha tutt’al-
tra derivazione, provenendo dall’ebraico yobhel. In prima istanza questo termine
significa “ariete” o “caprone”; in unione con la parola shophar (“corno”), “si
comprende bene che è il ‘corno di ariete’ che veniva e anche adesso viene usa-
to come strumento dal suono lugubre e stentoreo, molto adatto a farsi sentire
lontano. Come tale serviva per Israele a convocare il popolo alle grandi feste o
a particolari celebrazioni”. In Lv 25,20 il termine yobhel fa un ulteriore passo
avanti, finendo con l’indicare – per antonomasia – la stessa festa indetta al suono
dello shophar yobhel, e quindi il “giubileo” tout court. Ancora una volta è l’E-
sodo a fornirci la chiave di lettura per comprendere la valenza del giubileo nel
mondo ebraico. Se il sabato si può definire un “esodo settimanale”, a buon diritto
si può parlare di “esodo settennale” in riferimento al settimo anno di servizio di
uno schiavo ebreo, allorché il padrone doveva metterlo in libertà e munirlo del
necessario affinché potesse guadagnarsi la vita da solo. Inoltre ogni settimo anno
veniva considerato come un anno sabbatico della terra, nel quale non si doveva
né seminare né mietere, ma solo raccogliere i frutti spontanei. “Moltiplicando
sette per sette si ottiene un periodo di quarantanove anni completi che si aprono
al cinquantesimo: è questo l’anno del giubileo”.
L’attività messianica di Gesù ha anch’essa una valenza “esodale” e sociale: Cristo
è venuto perché gli uomini trovino la via del ritorno a Dio dopo essere “usciti” da-
gli asservimenti che umiliano la dignità umana a tutti i livelli: “Sotto l’azione di
Gesù” commenta l’A. “le persone si avvertono come in un esodo continuo, in una
specie di giubileo prolungato, dove tutto ritorna alle sue origini e insieme si avvia
per sentieri inesplorati di libertà riacquistata e da impegnare”. Nella Lettera agli
Efesini, Paolo si rivolge agli interlocutori dicendo loro che un tempo essi erano “i
lontani”, ma che ora, in Cristo Gesù, non sono più “stranieri” oppure “ospiti”, ma
concittadini (sympolitai) dei santi e familiari (oikèioi) di Dio.
Il giubileo è, appunto, uno dei tempi straordinari in cui può realizzarsi questa
identica cittadinanza, che è anch’essa un dono del Cristo.
111) La spiritualità dell’animatore biblico, in Cesare Bissoli (a cura di), L’anima-
tore biblico. Identità, competenze, formazione, Leumann, Elle Di Ci, 2000,
pp. 14-23.
In 1 Cor (12,4ss) Paolo parla della diversità dei carismi operanti nella Chiesa per
il bene comune e la crescita di tutti; più avanti (vv. 28-30) ne stabilisce anche la
gerarchia in base all’utilità ecclesiale dei medesimi. L’animatore biblico trova
il suo carisma specifico nel servizio della Parola, partecipando al magistero di

70
Lorenzo Terzi

coloro che sono chiamati a essere in vario modo educatori della fede dei propri
fratelli. Egli, continua F., deve sempre tenere presenti tra i suoi modelli le grandi
figure degli infuocati profeti d’Israele, “primo fra tutti il profeta e maestro Gesù
di Nazaret”.
Quanto alla spiritualità specifica dell’animatore biblico, bisogna che essa si fondi
su alcune convinzioni: innanzitutto quella dell’iniziativa di Dio nei riguardi della
propria vocazione che, come ogni vocazione nella Chiesa, proviene dal Signore.
In secondo luogo, è opportuno che l’animatore prenda coscienza della sua “stru-
mentalità”. Pur essendo indubbia l’importanza del vincolo umano, l’efficacia
della Parola risiede nella Parola stessa e nella forza dello Spirito che apre i cuori
all’ascolto. La terza convinzione si identifica con la perfetta coscienza della pro-
pria debolezza: la povertà del ministro è lo “spazio teofanico” nel quale si rivela
in maniera più efficace la potenza di salvezza della Parola di Dio.
Oltre a possedere i requisiti qui sopra riportati, l’animatore biblico deve anche
essere un instancabile cercatore di Dio, per aprire al Signore il cuore dei propri
fratelli. La maniera più a portata di mano e, insieme, efficace d’incontrare Dio
e farsi incontrare da lui si attua mediante la lettura della Sacra Scrittura. Nella
ricerca di Dio attraverso la Scrittura l’animatore biblico avrà così occasione di
realizzare sempre più la condizione del discepolato e della sequela di Gesù Cri-
sto; nella misura in cui si addentrerà nella sequela di Cristo, egli si accorgerà di
doversi porre nella disposizione d’animo di mettersi sempre in questione. Ciò ha
come effetto, a sua volta, quello di lasciarsi lavorare dalla Parola. Di fronte alla
possibilità di riscuotere l’ammirazione e la gratitudine dei fratelli, l’animatore
biblico potrà essere indotto a pensare che ciò provenga da meriti propri, oltre che
dalla potenza della grazia di Dio. Per sfuggire al pericolo di montare in superbia
il ministro si confronterà con la severa ammonizione del Maestro contro l’ambi-
zione e l’ipocrisia degli scribi e dei farisei. In ultimo, quando si è fatto tutto quello
che è nelle nostre possibilità, si metterà l’animo in pace, sapendo di aver fatto il
proprio dovere, come i “servi inutili” citati nel Vangelo di Luca (17,10).
112) Dio «ha parlato» a noi. La centralità della parola, in «Comunità», XXVII,
7-8 (luglio-agosto 2000), pp. 3-4.
Un noto passo della Lettera agli Ebrei (1,1-2) riassume il significato forte dell’e-
spressione “centralità della Parola”: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi
molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ha parlato a noi per
mezzo del Figlio”.
F. collega il brano paolino alla Costituzione dogmatica Dei Verbum, emanata dal
Concilio Vaticano II, che in 1,2 mostra come Dio, attraverso il linguaggio proprio
degli uomini, ha trovato il modo di aprire il cuore ai figli e introdurli nella sua
intimità. Da tutto ciò deriva un primo corollario: nel rapporto-conoscenza di Dio,
nella relazione-comunicazione con lui non si può fare a meno di riferirci a questa
Parola. Un secondo corollario riguarda le modalità attraverso le quali Dio parla.
La Costituzione Dei Verbum afferma che Dio si rivela per mezzo di “eventi e pa-
role” (1,2). Le “parole” sono, dapprima, quelle delle guide e dei profeti d’Israele;
poi quelle di Cristo e dei suoi apostoli. Se dunque il Signore ha aperto un dialogo
con gli uomini mediante la sua Parola, ne deriva che anche il singolo credente

71
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

nonché le comunità ecclesiali sono tenuti a rispondere a Dio servendosi di quella


stessa Parola. Gli inviti della Chiesa si fanno sempre più pressanti in questo sen-
so, esortando essa i fedeli ad accostarsi volentieri alle Scritture “con sicurezza e
utilità” (DV, 25).
113) Memoria biblica tra teologia ed ermeneutica, in Mysterium regni, ministe-
rium verbi (Mc 4,11; At 6,4), a cura di Vittorio Fusco, supplemento n. 38 a
«Rivista Biblica», Bologna, Dehoniane, 2000, pp. 229-246.
Il ricordare costituisce una delle attività più significative dello spirito umano.
Nell’Antico Testamento l’azione del ricordare è resa dal verbo zākar e dai suoi
sostantivi correlati. Questo verbo è spesso impiegato in senso religioso, e in tal
senso il soggetto di esso è frequentemente Dio, il quale “si ricorda” degli uomini
o della sua alleanza con loro. Scopo di F. è quello di esplorare l’uso di zākar nella
tradizione deuteronomica, “in un contesto storico preciso, il ricordo del quaran-
tennale itinerario che, sempre secondo questa tradizione (cf. Dt 8,2-6), gli ebrei
fuoriusciti dall’Egitto avrebbero percorso nel deserto prima di arrivare ai bordi
del Giordano”.
Il deserto, nel Deuteronomio, è prima di tutto un luogo teologico, perché Israele
è invitato ad attuarvi una memoria del suo passato di tipo ermeneutico, che per-
metta di dare senso, di interpretare alla maniera profetica la condotta di Dio nei
suoi confronti. La pedagogia divina ricorre alla prova dell’assenza. Gli israeliti
sono afflitti dalla penuria di cibo, ma all’improvviso giunge loro un alimento ina-
spettato: la manna. Dunque, al primo posto va messa “ogni parola che esce dalla
bocca di Dio”, “cioè la sua volontà, la sua legge, l’integrazione con il suo pro-
getto di vita; nei posti successivi le esigenze fisiologiche dell’uomo, il mangiare
per vivere, il vestire”. Dopo la valutazione dei segni che il Signore gli ha offerto
attraverso le assenze e le presenze, Israele è ora in grado di comprendere quale
tipo di metodo educativo egli ha impiegato: quello di un padre.
Quindi, il deserto è certamente il tempo e il luogo della pedagogia di Dio, e in
questo senso Israele deve farne memoria. “Ma è anche il tempo della provocazio-
ne operata dal popolo nei confronti del suo Dio (9,7-10,11) e della grande lezione
da ricavarne per l’oggi (10, 12-22)”. L’una e l’altra, la provocazione e la lezione,
devono costituire l’oggetto della memoria ermeneutica da cui trarre un insegna-
mento per la vita.
Da una memoria “ermeneutica”, il Deuteronomio ci permette di passare a un’altra
di tipo “sapienziale”, che è solo una variante di quella. L’Oreb, il monte su cui
Mosè riceve le tavole della Legge, è luogo dell’esperienza di Dio fatta da Israele,
che servirà poi come motivazione per l’osservanza del secondo comandamento,
riguardante la proibizione di rappresentare il proprio Dio con immagini di esseri
viventi. Nel relativo testo vetero-testamentario il verbo zākar non ricorre, ma
compare un altro verbo non meno collegato con la memoria: šākah, “dimenti-
care”. Israele è invitato a “non dimenticare”, e quindi a ricordare, l’esperienza
salvifica vissuta con il suo Dio dall’Egitto all’Oreb, a non lasciarla cadere dal
suo cuore, “dalla sua coscienza o consapevolezza memore”. Nella misura in cui
questi fatti sono “riconosciuti”, ci si premura di “farli riconoscere” ai propri figli
e discendenti: “dalla confessio si passa così alla traditio”.

72
Lorenzo Terzi

114) Recensione a Ellen van Wolde, Racconti dell’inizio. Genesi 1-11 e altri rac-
conti di creazione (Brescia, Queriniana, 1999), in «Rassegna di Teologia»,
XLI (2000), pp. 135-136.
115) Recensione a Roberto Gelio, L’ingresso di Davide in Gerusalemme capitale.
Studio letterario, storico e teologico su 2Sam 5,6-8; 6,1-23 (Cinisello Balsa-
mo, San Paolo, 1997), in ibid., pp. 299-300.

2001
116) Conosci Gesù? Si comportava da uomo libero, e come un provocatore. Ma
era il Cristo, e il salvatore del mondo, Leumann, Elle Di Ci, 2001, 49 pp.
Nuova edizione del n. 74 della presente Bibliografia (cfr. anche i nn. 32, 40 e 95).
117) Osea. Il profeta dell’amore sempre disposto a innamorarsi. Michea. L’uomo
dall’acuta coscienza profetica, 3. ed. aggiornata, Brescia, Queriniana, 2001,
190 pp.
Terza edizione del n. 50 della presente Bibliografia (cfr. n. 84).
118) Pentateuco. Appunti tratti dalle lezioni universitarie tenute durante il corso
accademico 2000-2001, a cura di Leonardo Gallo, Napoli, Pontificia Facol-
tà Teologica dell’Italia Meridionale (Sezione San Luigi), 2001, cc. 73 dattilo-
scritte (edizione “pro manuscripto”).
Si tratta di una dispensa universitaria delle lezioni tenute da F. per la Facoltà
Teologica dell’Italia Meridionale (Sezione San Luigi) nell’anno accademico
2000/2001. L’autore conduce una puntuale esegesi di Genesi 1-21 e di Esodo 19,
20 e 24. Al termine del fascicolo F. pone agli studenti due quesiti in forma di pro-
blemi aperti, senza fornirne la risposta. Anzitutto, “non è che l’esegeta conclude
il suo studio operando una sorta di ‘media’ di tipo culturale, storica, religiosa,
tradizionale, ambientale? Soggettiva?”. Infatti, se vi è stato un continuo sviluppo
nell’esegesi del Pentateuco, evidentemente l’elaborazione successiva, almeno in
parte, è frutto delle conoscenze degli studi precedenti. Sicché potrebbe essere
possibile che il retaggio culturale del singolo esegeta e il clima intellettuale del
periodo in cui ha operato abbiano influenzato non poco le conclusioni di ciascu-
no.
In secondo luogo: “Non è che al tempo dei racconti del Pentateuco il ‘fatto’ reli-
gioso non fosse così separabile dal ‘vissuto’ dell’uomo del tempo?”.
119) Due recenti “introduzioni” critiche sulla composizione del Pentateuco. Un
primo bilancio su un’ipotesi gloriosa, in «Rivista Biblica», XLIX, 2 (aprile-
giugno 2001), pp. 211-225.
Ampie recensioni dedicate da F. a Jean Louis Ska, Introduzione alla lettura del
Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia (Bo-
logna, Dehoniane, 2000) e ad Alexander Rofé, La composizione del Pentateuco.
Un’introduzione (Studi biblici, 35), Bologna, Dehoniane, 1999.

73
Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

2003
120) Una nuova recente introduzione al Pentateuco, in «Rivista Biblica», LI, 4
(ottobre-dicembre 2003), pp. 437-445.
Ampia recensione di F. a un volume di Félix García López, El Pentateuco. In-
troducción a la lectura de los cinco primeros libros de la Biblia (Estella, Verbo
Divino, 2003).
121) Recensione a: Gianni Barbiero, Dio di misericordia e di grazia. La rivela-
zione del volto di Dio in Esodo 32-34 (Casale Monferrato, Portalupi, 2002),
ibid., pp. 463-465.

2004
122) Introduzione al Pentateuco e ai libri storici dell’Antico Testamento, in «Ras-
segna di Teologia», XLV, 1 (gennaio-febbraio 2004), pp. 140-143.
F. presenta e recensisce un libro di Michelangelo Tabet, Introduzione al Pen-
tateuco e ai Libri Storici dell’Antico Testamento. Manuale di Sacra Scrittura
(Roma, Apollinare Studi, 2001).

2005
123) Bibbia, scuola del dialogo. Sì, la Bibbia contiene le direttive per un dialogo
costruttivo con Dio, il creato e l’umanità, Leumann, Elle Di Ci, 2005, 41 pp.
(Collezione “Mondo nuovo”, nuova serie, 235).
F. intende parlare del dialogo, sulla scorta della Parola di Dio racchiusa nella
Bibbia, secondo la quale l’uomo, ogni uomo, è chiamato a rapportarsi a Dio, al
Creato, all’umanità.
Nel senso più profondo il sostantivo “dialogo” significa apertura e comunione
reciproca: “Essere in dialogo, entrare in dialogo, equivale a intendersi, capirsi,
accettarsi, diffondersi l’uno nell’altro e arricchirsi reciprocamente”. Insomma,
sostiene l’autore, “dialogo equivale ad amore”.
Questa profondità e ampiezza di significato è ben presente nel linguaggio biblico. Se
è Dio a parlare, la sua parola – trasmessa dal mediatore – “è rivelazione, comunica-
zione della sua volontà, attuazione di un fatto”. Nell’Antico Testamento l’esperienza
di dialogo fra Dio e Israele si attua in virtù degli avvenimenti che segneranno per
sempre la fisionomia del popolo eletto. Tali avvenimenti vanno sotto il titolo com-
plessivo di “Esodo”, ovvero “uscita” verso la libertà. Il dialogo fra Dio e Israele
inizia, dunque, con un intervento liberatore in favore di determinati gruppi israelitici
in Egitto e continua attraverso altri interventi liberatori nel cammino del deserto del
Sinai. Ma questo dialogo richiede una risposta, che viene fornita al momento solen-
ne della cosiddetta “stipulazione dell’alleanza” (Es 24,3-8). L’alleanza fa dunque di
Israele il popolo del dialogo permanente con Dio, dialogo destinato a durare fino a
che permane la fedeltà agli obblighi assunti. Le violazioni del patto da parte di Isra-
ele, le sue infedeltà, vengono rinfacciate agli israeliti stessi dai “profeti”: “un misto
di veggenti e accesi predicatori”, con i quali Dio instaura un dialogo aperto, senza
soste, per riprendere a sua volta il dialogo interrotto dal popolo dell’alleanza.

74
Lorenzo Terzi

Nel Nuovo Testamento il colloquio fra l’uomo e il Signore avviene attraverso un


mediatore d’eccezione: il Figlio di Dio. Anzi, Dio – nel Figlio – “diventa” dialo-
go tout court, rivelazione, comunicazione, in ultima analisi Parola. Da parte sua,
l’uomo risponde a Dio ripartendo da Gesù. Il ripassare da Cristo comporta una
triplice operazione: l’ascolto, la sequela, l’amare alla sua maniera.
La dimensione del dialogo riguarda anche il rapporto dell’essere umano con il
Creato. Quest’ultimo però non è tanto l’interlocutore dell’uomo in un eventuale
dialogo tra l’uno e l’altro, “ma il luogo e il tramite dove si attua il colloquio con
Dio”. Esso rappresenta anche il risultato del dispiegamento della potenza divina
creatrice e ordinatrice; può tuttavia trasformarsi, paradossalmente, in ostacolo e
inciampo alla scoperta dell’autentico volto di Dio, come è avvenuto nelle reli-
gioni antiche che mitizzarono il sole, la luna e le potenze cosmiche. Nel Libro
di Giobbe (28,1-11), al contrario, si celebra la capacità dell’uomo di conoscere
e dominare il Creato, proprio perché il Signore ha reso la sua creatura capace di
tanto. Contemporaneamente la parola di Dio esorta pure al rispetto del mistero
irriducibile dell’universo.
Riguardo al problema del dialogo degli uomini fra loro, F. riprende il celeber-
rimo episodio dell’uccisione di Abele da parte del fratello Caino (Gn 4,9). Dio
interpella il fratricida chiedendogli dove sia Abele. Caino replica con una risposta
“arrogante e distruttiva”: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”. È
uno sradicare l’altro dal proprio cuore, prima ancora che dalla terra dei vivi. È la
forma di omicidio più grave.
Il teologo salentino indugia, poi, su altri esempi di dialogo fraterno presenti nella
Bibbia, sino a porre Gesù stesso quale modello di una vita in cui tutto è offerta
di dialogo, di relazione, di rapporto di amicizia e comunione. Dopo la morte di
Cristo sulla croce il dialogo è diventato sempre possibile, perché nessuno si sente
escluso: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più
uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo” (Gal 3,28).
124) ‘Avad: schiavitù e servizio, in «Parola, Spirito e Vita», LII (2005), 2, pp. 57-80.
Il verbo ebraico ‘āvad, nota F., “ha una ricca semantica che va dal lavoro diuturno
e oneroso del contadino, come anche di ogni operaio e artigiano, a quel lavoro
particolare che è il culto”. Nella Bibbia ‘āvad, se riferito a cose, esprime il va-
lore fondamentale nei riguardi della vita: se l’uomo vuole vivere, deve lavorare.
Riferito a persone, il lavoro può essere tanto servizio del singolo a un suo simile
(aspetto sociale) quanto servizio di un popolo rispetto a un altro (aspetto politi-
co). In entrambi i casi, il lavoro-servizio può favorire la crescita umana e sociale
di coloro che sono a servizio oppure ostacolarla gravemente, come nel caso del
servizio prestato per debiti, che – di fatto – riduceva il lavoro a schiavitù. In senso
religioso, invece, il verbo ‘āvad indica il servizio a Dio, non inficiato dall’ambi-
guità alla stregua del servizio dell’uomo all’uomo.
Il libro dell’Esodo si apre con uno scenario positivo per Israele: il clan di Giacob-
be si è moltiplicato, diventando un popolo numeroso. Ma la crescita degli israeliti
allarma gli egiziani, i quali temono per la stabilità del loro stato. L’intervento
che mette in atto l’Egitto si propone un duplice scopo: rallentare la prorompente
vitalità degli ebrei e servirsi di loro come forza lavoro per la costruzione di città-

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Bibliografia di P. Antonio Fanuli C.M.

deposito adibite al casermaggio. Gli israeliti, dunque, da pastori liberi di muo-


versi ovunque con i loro animali sono costretti a trasformarsi in operai addetti a
impastare fango e paglia per farne mattoni, sotto il sole cocente dell’Egitto, per
giunta trattati brutalmente da una gente straniera e ostile.
In Es 3,1-10 Dio rivela a Mosè, presso il roveto ardente, che verrà in soccorso de-
gli schiavi. I verbi impiegati in questo passo biblico “esprimono tutta una vera e
propria azione liberatoria dalla situazione precedente”. A un altro verbo, tratto dal
mondo economico-commerciale, ricorre la tradizione sacerdotale per esprimere
in termini ancora più espressivi la liberazione degli schiavi ebrei: gā’al, ovvero
“riscattare” (Es 6,6c). Verrà dunque richiesto al Faraone di riconoscere l’autorità
superiore del Dio degli schiavi cui sottomettersi e, in seconda istanza, di privarsi
di una forza lavoro preziosa per i suoi fini politici. In questo stesso testo inizia
a far capolino il verbo ‘āvad nell’accezione di “prestare un servizio religioso”.
A cominciare dal capitolo 7 del libro dell’Esodo ‘āvad significherà sempre “ser-
vire” un padrone, ma il contenuto e le modalità del servizio saranno totalmente
diverse: non schiavizzano, ma liberano.
La sezione del Sinai riguardante l’alleanza (Es 19-24; 32-34) si apre con il pro-
getto di Dio di fare d’Israele la sua “proprietà”, il suo popolo, a condizione che
Israele ascolti la sua voce e osservi la sua bĕrît o alleanza. In negativo, questo
comandamento vieta il culto di altre divinità, espresso da due verbi: “Non ti pro-
sternerai davanti a loro (hwh) e non li servirai (‘āvad)”. “Prosternarsi equivale a
riconoscere la signoria della divinità che s’intende onorare, mentre ‘āvad com-
porta l’impegno dimostrativo della dipendenza dalla divinità”. Il culto è il “lavo-
ro” con cui il fedele “coltiva” il suo Dio, il suo rapporto con lui.
F. aggiunge che non bisogna lasciarsi sfuggire un ultimo aspetto dell’impiego del
verbo ‘āvad. Se esso esprime a chiare lettere il servizio, cioè il culto da rendere a
Dio, nello stesso tempo racchiude un’ulteriore dimensione: il servizio alla comunità
dei fratelli. Non a caso, sette dei dieci comandamenti riguardano la comunità, in quei
valori che servono a salvaguardarla e a farla crescere: “Il riconoscimento di Dio come
il Signore cui servire comporta il riconoscimento dell’altro come appartenente a una
comunità di vita di cui tutti siamo parte. Servire Dio è servire l’uomo”.

2006
125) Il ciclo di Giacobbe: l’officina della tradizione, in «Rivista Biblica», LIV
(2006), 1, pp. 83-89.
Lunga recensione di F., pubblicata postuma, su Federico Giuntoli, L’Officina
della Tradizione. Studio di alcuni interventi redazionali post-sacerdotali e del
loro contesto nel ciclo di Giacobbe (Gn 25,19-50,26), Collana “Analecta Biblica”
154 (Roma, Pontificio Istituto Biblico, 2003).

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