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La sede più opportuna per lo sviluppo professionale degli insegnanti parrebbe l’università, da
sempre proiettata su ricerca e innovazione. Non tutti d’accordo e dibattito oggi è ancora aperto.
Negli anni 70 americano Martin Habermann elenca motivi per cui università non è controparte
ideale per un percorso di formazione della forza lavoro della scuola. Vi è l’idea che nemmeno i
modelli attuati in prima persona dai futuri insegnanti possano essere spendibili successivamente
nei contesti scolastici, troppo distanti dall’università per struttura, obiettivi e destinatari. Soluzione
proposta di recente: mediazione tra scuole e università. Entrambe in continua evoluzione
UNIVERSITA’ passa da istituzioni private all’inizio 900 a veri e propri servizi pubblici / IL MONDO
DELLA SCUOLA si è trasformato profondamente anche se rimangono ostacoli alla realizzazione di
approcci curriculari per aree quali quella dell’educazione civica, della cittadinanza, dei temi
ambientali e di quelli legati al multiculturalismo. Per far sì che questa mediazione sia possibile la
scuola deve costruire una propria autonomia di ricerca, ma essa non è ancora un oggetto
autonomo riconosciuto nella valenza di sede di ricerca in una prospettiva che vede università =
responsabile/titolare della formazione iniziale e la scuola = responsabile/ titolare di quella in
servizio. L’università, responsabile della formazione iniziale, ha bisogno della collaborazione della
scuola: nel contempo la scuola, che deve pensarsi e realizzarsi pienamente come sede di ricerca
didattica, ha bisogno della collaborazione dell’Università.
La TEACHER RESEARCH = ambito di studio su cui si concentra uno sforzo considerevole, sia in
termini economici che ini termini di risorse umane.
TALIS (Teaching and Learning International Survey), indagine che nel 2018 (il suo terzo ciclo) ha
coinvolto per lo studio principale 124.000 insegnanti di scuola primaria e secondaria inferiore in 31
Paesi. Secondo TALIS
1. è necessario preparare gli insegnanti a lavorare in contesti multiculturali, di multilinguismo e
con livelli di abilità diverse
2. la formazione dovrebbe includere dei periodi di formazione obbligatoria all’estero e la
conoscenza di lingue diverse non solo per insegnarle, ma anche come strumento di comunicazione
con i futuri cittadini “globali”.
3. attenzione al clima di classe e alle dinamiche relazionali tra insegnanti e allievi. Garantire un
contesto di sviluppo protetto è il primo fondamentale elemento dal quale partire. Sempre TALIS
mostra come poco più della metà degli insegnanti non si senta preparato nell’ambito della
gestione della classe (e potremmo allargare questo discorso ai rapporti con le famiglie e con le
altre istituzioni del territorio) sebbene poi il 93% si ritenga in grado di controllare comportamenti
di disturbo.
PROBLEMA DELLA FORMAZIONE DEI DOCENTI DI SCUOLA SECONDARIA. Con la legge del 30
dicembre 2018, n. 145, Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio
pluriennale per il triennio 2019-2021, si è eliminata la Formazione Iniziale e Tirocinio (FIT) che, fino
a quel momento, avrebbe dovuto rappresentare la via maestra per la formazione iniziale degli
insegnanti delle scuole secondarie, lasciando però sopravvivere il PF24, il quale, in tal modo, da
momento preliminare, è assurto a unico passaggio accademico per costruire il bagaglio di
conoscenze e competenze dell’area delle scienze dell’educazione e delle metodologie disciplinari
necessarie per entrare in classe. Dopo che il ministro Bussetti ha cancellato qualsiasi percorso
formativo organico indirizzato a questo scopo, si è compreso che la sola acquisizione di 24 crediti
di Scienze dell’educazione rappresenta una misura del tutto insufficiente per garantire un solido
profilo professionale all’insegnante. Il problema è anche la concezione dell’insegnamento, spesso
visto come una mera trasmissione di sapere da riprodurre e quindi legato solo al possesso di certi
contenuti da parte del docente. La consapevolezza dell’inadeguatezza dello stato di cose ha
riattivato il dibattito sulla soluzione da dare a questo problema, con relative prese di posizione e
produzione di documenti, tra i quali ve ne sono alcuni capaci di dare indicazioni concrete e
lungimiranti (si veda, per esempio, il documento della CUNSF, la Conferenza nazionale dei
Dipartimenti di Scienze dell’educazione).
Rispetto alla formazione iniziale il modello di riferimento è quello delle SSIS – le scuole di
specializzazione all’insegnamento secondario, inspiegabilmente soppresse dal ministro Gelmini –
nonché dei corsi di laurea in Scienze della formazione primaria. Entrambi i modelli si basano su
due idee:
*LA COMPETENZA può essere intesa come la capacità di usare le conoscenze per agire in modo
intelligente entro un dato campo d’attività. Si tratta di un costrutto complesso, poiché intreccia il
sapere, il saper fare e il sapere pensare, ossia la conoscenza dichiarativa, il sapere procedurale e
una componente meta-cognitiva. Di conseguenza, formare competenze non è la stessa cosa che
trasmettere conoscenze: la scala temporale diviene più estesa, perché per amalgamare i suddetti
ingredienti occorre tempo. Da ciò deriva l’inadeguatezza di percorsi di formazione iniziali brevi per
gli insegnanti. parlare di competenza implica la possibilità di transfer nei contesti d’uso
professionale. Ma per garantire questa trasferibilità risultano insufficienti i mediatori didattici
tradizionali, la lezione e il seminario, in quanto questi comunicano conoscenze astratte e
decontestualizzate, che tendono a restare incapsulate nella sfera accademica.
Rispetto a tali modelli, rimane però una questione aperta, ossia a quale identità professionale
generale di insegnante si debba fare riferimento. In realtà il profilo del docente non dovrebbe
essere concepito in astratto, ma calibrato in rapporto al tipo di scuola che si desidera:
. se si parte da idea di scuola = azienda che produce capitale umano → il docente come un tecnico
della formazione dei produttori, e quindi va a costituire i quadri operativi della fabbrica scolastica.
. se si parte da idea di scuola = comunità democratica indirizzata allo sviluppo dei futuri cittadini ci
sono due modelli interessanti e complementari → insegnante come ricercatore (di matrice
deweyana), nel volume del 1929, intitolato ‘’Le fonti di una scienza dell’educazione’’ (Dewey,
1996), Dewey avanza l’ipotesi che l’insegnante possa e debba essere un ricercatore sul campo, ma
è importante cogliere che lo fa in modo realistico e privo di qualsiasi elemento velleitario. Il
pedagogista esclude un’autosufficienza dei ricercatori accademici, che li porterebbe a una mera
scienza da tavolino. L’insegnante non può improvvisarsi come ricercatore, la prospettiva che
suggerisce è piuttosto quella di una cooperazione tra il ricercatore accademico e l’insegnante, che
veda la partecipazione di quest’ultimo a percorsi di ricerca che coinvolgano anche il primo.
Attraverso una ricerca collaborativa l’insegnante può gradualmente acquisire la consapevolezza
epistemologica della logica della ricerca e può trasformarla in un atteggiamento professionale che
porta ad affrontare i problemi in modo critico e riflessivo.
→insegnante come intellettuale (di matrice gramsciana) esposto nelle note dei “Quaderni del
carcere” (Gramsci, 1975). Secondo Gramsci:
1. tutti gli uomini sono intellettuali, nel senso che tutti pensano, anche se solo alcuni lo sono di
professione (così come tutti gli uomini cucinano, ma solo alcuni fanno il cuoco di mestiere).
2. in secondo luogo, egli considera come professioni intellettuali tutte quelle in cui vi è un rapporto
di persuasione e di direzione verso gli altri. Così, la categoria degli intellettuali si allarga in modo
inedito: non solo i filosofi, i letterati e gli scrittori, ma anche i giornalisti, i politici, gli imprenditori, i
sindacalisti, e – appunto – gli insegnanti.
3. Gramsci, inoltre, distingueva tra l’intellettuale come funzionario dell’egemonia vigente e
l’intellettuale democratico, che opera per un progresso culturale di massa. Il docente, per
indirizzare il processo formativo nella giusta direzione, deve possedere una consapevolezza della
problematica educativa, del modo come essa si dà nella sua epoca e nel suo paese. Una
problematica che comprende elementi come l’attuale condizione adolescenziale, l’odierna
dinamica sociale dei saperi e così via. In questo senso, il modello dell’insegnante come intellettuale
risulta complementare a quello che lo vede come un ricercatore. Secondo quest’ultimo, infatti, si
tratta di affrontare i problemi della pratica didattica con un atteggiamento scientifico (riflessivo,
critico ed empirico). Ma per comprendere pienamente il di tali problemi, occorre collocarli nel
quadro di una più ampia problematica formativa, e occorre perciò che l’insegnante vesta gli abiti
mentali dell’intellettuale. In entrambi i casi, al docente non è richiesto solo il mero possesso di
competenze, ma anche una consapevolezza critica (storica ed epistemologica) della problematica
formativa.
Altra fonte di informazioni e dati è rappresentata dai due recenti volumi del rapporto OECD-TALIS
(2019-2020). Nella Country Note italiana estratta dal volume del 2019, oltre alla maggiore
presenza femminile rispetto agli altri Paesi e all’età media per insegnanti e dirigenti scolastici più
alta della media, vi è la sottolineatura della minore diffusione di pratiche didattiche che implichino
l’attivazione cognitiva degli studenti e della scarsa propensione a favorire l’autovalutazione. È
facile collegare questo dato alla minore presenza, nella formazione iniziale, di un costante
intreccio tra contenuti disciplinari, scienze dell’educazione e tirocinio. Solo il 25% degli insegnanti
in Italia, inoltre, dichiara di aver partecipato a pratiche formali o informali d’inserimento nel
momento del reclutamento. Praticamente inesistente, per di più, la figura del mentor (5%) per chi
è all’inizio della carriera (meno di cinque anni di servizio). La mancanza di una solida preparazione
nelle scienze dell’educazione e di un efficace tirocinio come pratiche diffuse è spiegabile con l’età
media degli insegnanti molto alta e l’avvio tardivo di una preparazione universitaria non solo
disciplinare, iniziata solo con le SSIS e, poi, sviluppatasi con le ben note incertezze fino alla
situazione attuale.
IL CENTRO CRESPI
Presieduto da Ira Vannini, nasce all’interno del Dipartimento di scienze dell’educazione ‘’G.M.
Bertin” (università di Bologna) e si pone come obiettivo di collegare tra loro le molteplici linee di
ricerca sulla professionalità docente. Un obiettivo che accomuna ricercatrici e ricercatori
nell’individuare nella Ricerca-formazione un modo di fare ricerca empirica avvalendosi di
metodologie differenziate e proponendosi di promuovere la professionalità docente attraverso la
costruzione di percorsi comuni di ricerca, in un quadro di collaborazione tra scuola e università.