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Freud incomincia la propria carriera nell’ambito della cura dei disturbi psichici
come allievo di Charcot. Tuttavia, come si vedrà, il modo in cui è impostato il suo
apprendistato tiene conto primariamente della clinica: quando dialoga con Charcot non
abbiamo solo Freud e Charcot, ma c’è anche la clinica che fa da bussola a entrambi.
Si può dire che egli si situa all’interno dell’ambito psichiatrico, ma già con
un’inclinazione alla ricerca che lo porta ad approcciare il suo oggetto in un modo
particolare. Di fatto, è proprio come se Freud mettesse in moto una dialettica di questo
tipo: c’è una tradizione che ha sedimentato dei metodi con cui ci si occupa di un oggetto,
metodi che rientrano nella psichiatria, poi c’è l’oggetto, e cioè la clinica; ci si può
occupare dell’oggetto ridisegnando un metodo che sia più rispettoso dell’oggetto di
quanto non sia la psichiatria. Si può anche descrivere la cosa in termini di precedenza:
Freud dà precedenza alla clinica: è da questa che fa discendere la teoria e il metodo;
perciò, il metodo che ne risulta è nuovo, dal momento che si attaglia al suo oggetto, alla
sua specificità. Il passaggio dalla pratica alla teoria però non è affatto una questione di
esclusione dei sedimenti della teoria, perché Freud dialoga con la psichiatria del suo
tempo, si pone al suo interno e da lì opera la sua ricerca. Inoltre, non si tratta neppure di
un processo unidirezionale che vada dalla clinica alla teorizzazione senza ritorni: vi è
piuttosto un andirivieni continuo, quasi un’indistinzione, tra questi due versanti (Freud,
come vedremo più avanti, parlerà di coincidenza tra indagine e trattamento per delineare
l’aspetto essenziale della psicoanalisi rispetto ad altri metodi di cura): per cui un elemento
clinico può darsi all’osservazione solo a partire da un accorgimento tecnico, il quale però
nasce daccapo dall’esigenza di delineare proprio quella porzione di clinica.
Per Freud però si trattava proprio di ascoltare quel che arrivava dalla clinica, e
quindi certamente, impostate le cose in questi termini, si vede bene quello che potrebbe
sembrare ovvio, ossia che quel che Freud ascolterà non sarà alcunché di primigenio
bensì, appunto, un ritorno, il risultato di un processo in cui un sapere, quello medico,
aveva già messo mano per ritagliare, seppure nei termini di rimasugli, un oggetto. Ecco,
appunto, il modo in cui Freud si implica nel discorso del suo tempo: il suo oggetto, la sua
clinica, era già intrisa di teoria. Bisognava immergersi in questa dialettica per
riconquistare un oggetto e una teoria adeguati l’uno all’altra. Egli non disconosce il
discorso in cui è immerso, ma dialoga con esso di fronte al testimone della clinica. Si
tratta di una questione che potrebbe sembrare quasi di contorno rispetto al tema di
questa tesi, che concerne la diagnosi e il transfert, ma ne è proprio il centro: in una specie
di esperimento controfattuale, ci si potrebbe chiedere cosa sarebbe stato un movimento
diverso da quello intrapreso da Freud: applicazione senza implicazione.
Nel rilevare la serie di “pregiudizi” attraverso i quali doveva esser vista l’isteria dal
mondo scientifico del suo tempo, Freud si esprime così:
“Negli ultimi decenni un’isterica poteva essere altrettanto sicura di venire trattata da simulatrice
quanto ne avrebbe avuta nei secoli precedenti di essere giudicata e condannata come strega o come
ossessa. Da un altro punto di vista si può anzi dire che si è fatto un passo indietro nella conoscenza
dell’isteria: il medioevo conosceva assai bene le stigmate, cioè i contrassegni somatici dell’isteria, che
interpretava e usava a modo suo. Al Policlinico di Berlino invece io ho potuto riscontrare come questi
contrassegni somatici dell’isteria fossero pressoché sconosciuti, e come, pronunciando la diagnosi
d’isteria, ci sembrasse sopprimere praticamente ogni inclinazione a occuparsi ulteriormente del malato”.
(Vol 1, p10)
Tra le altre cose, è interessante in questo passo sottolineare come ci possa essere
un tipo di diagnosi che porti un certo orientamento della cura. Innanzitutto, si tratta non
tanto di una questione diagnostica in termini puramente psichiatrici, ma piuttosto in
termini di uso della diagnosi nella cura. Quel che qui interessa Freud non è soltanto come
si sia arrivati ad una diagnosi di isteria, ma che posto ha la diagnosi all’interno di una
cura.
Nella fattispecie qui c’è una diagnosi che viene usata per chiudere non soltanto
qualsiasi indagine ulteriore, ma anche qualsiasi trattamento; quasi come fosse la fine e
l’unico fine di tutto il processo che coinvolge medico e paziente. Non è tanto che il
medico in questo modo di procedere sarebbe asettico, disinteressato, e così via;
piuttosto l’accento va posto su quella specie di trattamento della temporalità che viene
così messo in opera: vi è una suddivisione in fasi nette: prima della diagnosi e dopo la
diagnosi.
Inoltre, che tipo di rapporto con il sapere è messo qui in evidenza? C’è un sapere
già dato, che viene calato su un oggetto il quale da quel momento in poi non sarà altro
che un ulteriore già dato. La diagnosi non produce alcun sapere. Evidentemente è molto
forte, in questa impostazione, la distinzione tra diagnosi e trattamento. Quando finisce il
processo di diagnosi può iniziare quello di cura, senza interferenze dell’uno sull’altro. Ma
in quanto Freud scrive che il pronunciamento della diagnosi di isteria garantiva la chiusura
di qualsiasi ulteriore inclinazione ad occuparsi del malato, potrebbero esserci almeno due
modi di interpretare questa chiusura: che non vi fosse in effetti alcun trattamento di fatto,
o di diritto. È una lettura un po’ capricciosa del passo freudiano, ma sembra comunque in
linea con quel che l’autore afferma in diversi punti dei suoi scritti e che verranno presi in
esame in seguito in questo lavoro: come a dire, cioè, che anche se alla diagnosi di isteria
fosse seguito un trattamento, in quell’impostazione non vi sarebbe stato comunque alcun
trattamento; o anche, il trattamento messo in atto sarebbe stato, di nuovo, di chiusura, di
applicazione, di riduzione al già saputo.
In ogni caso anche già in questo semplice passo di un suo resoconto, Freud
mostra, criticandone il negativo, in che modo intende la clinica: la diagnosi non esclude
assolutamente che ci si occupi del malato.
Facendo ora un salto di ((((…)))))) anni, possiamo vedere come Freud continui, nelle
lezioni della Introduzione alla psicoanalisi, a caratterizzare e mettere a confronto il lavoro
della psicoanalisi con quello della psichiatria. Viene riportato in quella sede un frammento
di un caso clinico che gli servirà per poi esemplificare le differenze tra i due approcci.
Si tratta di una donna di cinquantatré anni con una vita familiare apparentemente
felice e che, un giorno, parlando di tradimenti con la sua cameriera, disse: “La cosa più
terribile per me sarebbe venire a sapere che anche il mio caro marito ha una relazione.”
Ricevette il giorno successivo una lettera anonima in cui le si spiegava come il marito la
tradisse con una donna la quale era peraltro la nemica principale della sua cameriera.
Dopo di ciò, la vita di questa donna fu dominata interamente da quest’idea, anche se
riconosciuta da lei stessa come insostenibile: si rendeva conto che si trattava con ogni
probabilità di una lettera scritta dalla sua cameriera, ma ciò nonostante continuava a star
male al solo sentir nominare la persona con la quale si pretendeva nella lettera che il
marito la tradisse.
“Idee di questa specie, che sono inaccessibili ad argomenti logici e basati sulla realtà, si è
convenuto di chiamarle idee deliranti. La buona signora soffre dunque di un delirio di gelosia. Questa è
senza dubbio la caratteristica essenziale del caso clinico descritto.” (Vol 8 p 413)
E questo perché “Lo psichiatra cerca anzitutto di caratterizzare il sintomo con una
qualità essenziale.” Su cosa voglia dire precisamente l’espressione “qualità essenziale”
Freud non si esprime direttamente, ma forse si può cogliere qualcosa nel seguito del
testo, dove la questione è che vi sono tante cose lasciate fuori dalla dicitura “delirio di
gelosia”, ma che lo psichiatra non può prendere in considerazione poiché “deve
accontentarsi di questa diagnosi e, circa il decorso ulteriore, di una prognosi che è incerta
nonostante la ricca esperienza di cui dispone.” (414)
Innanzitutto, qui si potrebbe in un certo senso trovare qualcosa per chiarire cosa
intendesse Freud nel definire il modo di procedere psichiatrico come una ricerca di
“qualità essenziali”: una qualità essenziale pare essere tutto fuorché qualcosa di poco
appariscente; piuttosto, dovrebbe essere quel che più appare, quel che si pone in misura
maggiore al centro di un agglomerato di fenomeni; al centro, cioè nella posizione di
qualcosa di essenziale versus qualcos’altro di più inessenziale e periferico, ricalcando in
qualche modo la rappresentazione che si fa del campo visivo quando lo si suddivide in
campo foveale (centrale, nitido, importante perché in qualche modo corrispondente di
volta in volta alla volontà del soggetto che guarda quel determinato punto) e campo
periferico (sfocato, grossolano, in gran parte inconsapevole).
Il dettaglio poco appariscente a cui Freud si riferisce è il fatto che la signora abbia
in qualche modo causato il presentarsi di quella lettera anonima, dicendo quella frase alla
sua cameriera. Questo fa sì che l’arrivo della lettera possa esser letto in modo un po’
diverso da un semplice verificarsi di un evento oggettivo indipendente dal soggetto. È un
evento che è incluso nella vita psichica del soggetto, che in esso trova un posto e che
magari aveva già un posto prima dell’accadimento dell’event. In effetti Freud prosegue
rilevando che l’idea delirante è indipendente dalla lettera, e che quindi doveva essere in
una certa forma già presente prima del suo arrivo; e in che forma, “di timore (o di
desiderio?)”?
Abbiamo un elemento per così dire esterno, che si può prendere come oggettivo e
indipendente dal soggetto, e abbiamo un desiderio o un timore che tuttavia, in modo
“poco appariscente”, suggerisce, provoca l’accadere di quel fatto esterno. Quel desiderio
o timore esiste già: trova solo il modo di farsi presente in una situazione concreta; il che
vuol dire che trova il modo di presentarsi nascondendosi in quanto desiderio o timore, in
quanto già presente. Il già-presente, si potrebbe dire, si nasconde nel presente-solo-ora.
È evidente che già qui ci si sta avvicinando, quasi senza accorgersene, alla stessa logica
che presiede alla concezione del transfert nel senso freudiano della ripetizione, del farsi
presente che prende il posto del ricordo, e del transfert come falso nesso.
“La paziente manifestò un forte rifiuto quando, dopo la narrazione della sua storia, venne invitata a
comunicare i suoi ulteriori pensieri, idee e ricordi. Affermava che non le veniva in mente nulla, che aveva già
detto tutto, e in capo a due sedute il tentativo dovette realmente venire interrotto, dal momento che la
paziente dichiarò di sentirsi già guarita e di essere sicura che l’idea morbosa non le sarebbe tornata.
Questo, naturalmente, lo disse solo per resistenza e per timore di proseguire l’analisi.”
Quel che accade quindi è che l’analista si occupa di quel che succede all’interno
della cura, e non soltanto di ciò che viene narrato. Quel che accade nella cura accade
all’interno quindi di un legame dove è implicata la figura dell’analista. Nel modo di
procedere della psichiatria si trattava invece, secondo Freud, di una diagnosi fatta su
qualità essenziali (potremmo dire astratte da qualsiasi implicazione nella cura?) che non
permette nient’altro che una prognosi indipendente da qualsiasi intervento. Sembra un
po’ quel che veniva annotato riguardo al policlinico di Berlino, dove la diagnosi era posta
come conclusione di un trattamento mai iniziato.
Senso e sintomo
A detta dello stesso Freud, a differenza della psichiatria, la psicoanalisi “ha stabilito
innanzitutto che il sintomo è dotato di senso ed è connesso con l’esperienza vissuta del
paziente.” (420)
Il sintomo ha un senso come ce l’hanno i sogni e gli atti mancati (421). Quel che la
psicoanalisi fa per il sintomo è lo stesso che fa per quelle “piccole cose” che fanno parte
della Psicopatologia della vita quotidiana. Il titolo di questa celebre opera freudiana ci fa
cogliere che vi sarebbe una specie di apparente antinomia nel mettere insieme questi due
termini: psicopatologia e vita quotidiana, come se il quotidiano escludesse il patologico o
forse anche semplicemente lo psichico. Ancora una volta, si può riprendere quel che
Freud dice della psichiatria, la quale, ad esempio, riguardo all’”atto sintomatico” di non
chiudere la porta dello studio dell’analista, “dichiara che si tratta di un evento casuale
privo di interesse psicologico, del quale non val la pena di occuparsi.”
Forse usare esclusivamente il termine “senso”, per riferirsi a quel che Freud
intende per “senso del sintomo” può fuorviare. Innanzitutto è utile ricordare che potrebbe
sembrare quasi scontato, oggi, sostenere che il sintomo possa avere un senso; affermare
che il sintomo abbia un senso quindi è in primo luogo un modo per negare che non ne
abbia, vuol dire aprire lo spazio all’indagine di qualcosa di ulteriore rispetto all’aspetto
fenomenico di un sintomo, e quindi vuol dire aprire la prospettiva all’inconscio, all’”altra
scena”; questa è ciò che Freud definisce “concezione dinamica”:
“Noi non vogliamo semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di
un gioco di forze che si svolge nella psiche, come l’espressione di tendenze orientate verso un fine, che
operano insieme o l’una contro l’altra. Ciò che ci sforziamo di raggiungere è una concezione dinamica dei
fenomeni psichici.”
Qui siamo in grado dunque di riprendere la questione della diagnosi: questa non
può essere soltanto il prodotto di una classificazione e di descrizione di fenomeni.
Probabilmente non è nemmeno da considerarsi semplicemente come un prodotto, dal
momento che stiamo vedendo, e vedremo meglio in seguito, come essa non debba
venire a chiudere un processo o a dargli semplicemente inizio. Certamente c’è anche
questo, dato che un’ipotesi diagnostica è importante per l’impostazione di una cura. Ma
non si tratta evidentemente di una questione che si possa esaurire totalmente nell’ambito
di una concezione cronologica di separazione di fasi nette e gerarchicamente organizzate
all’interno di una cura. Che si parli, nella citazione, di “indizi”, non vuol dire che ci si trovi
puramente e semplicemente nell’ambito di un’indagine come qualcosa di separato
nettamente dal trattamento per via di una qualche propedeutica – propedeutica che pure
in una certa forma, si sta sostenendo, ha la sua ragion d’essere.
Nello scritto Tecnica della psicoanalisi, Freud afferma qualcosa che suona come un
paradosso, ovvero che “È invero uno dei titoli di gloria del lavoro analitico che in esso
indagine e trattamento coincidano.”, per poi aggiungere che da un certo momento in poi
quel che serve per mettere in atto l’indagine si contrappone al trattamento. Infatti,
consiglia di non “elaborare scientificamente” il caso contemporaneamente allo
svolgimento del trattamento, ecc. Anzi viene suggerito un atteggiamento tale per cui
l’analista debba trovarsi a farsi sorprendere ogni volta, per poi elaborare a cose fatte il
caso, non lasciarsi andare alle sintesi ed esser liberi da concettualizzazioni aprioristiche.
Ecco che qui ci si trova davanti ad un’altra distinzione: precedentemente si era alle
prese con la distinzione classificazione versus dinamica, ora si sta trattando della
distinzione tra un trattamento in cui ha luogo una teorizzazione, e uno in cui
apparentemente questa non c’è per ricomparire solo in seguito. Ma dunque non aveva
Freud appena affermato la coincidenza tra indagine e trattamento? Come è possibile
allora concepirle un attimo dopo così nettamente separate, anzi consigliandone
caldamente la separazione? Forse il punto è ancora più paradossale, possibilmente, e
cioè che se non ci fosse questa separazione non vi sarebbe né vero trattamento né vera
indagine né un’addizione di qualche tipo fra le due. Se l’analista si mantiene invece in
questa modalità in cui “si procede senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad
ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti.”,
lì trattamento e indagine coincidono: proprio perché non si può scorgere in questo modo
di procedere nessuna indagine e nessun trattamento presi in modo astratto e applicativo.
Un altro e per certi versi curioso modo che Freud trova per esemplificare questo
consiglio tecnico è quello di raccomandare di fare come il chirurgo: questo mette da parte
qualsiasi affetto e soprattutto la pietà, mentre esegue un intervento. Leguil (p38) vede in
questo richiamo alla chirurgia qualcosa di ulteriore, che ha a che fare con la coincidenza
di indagine e trattamento: “Il chirurgo è colui che isola la lesione nel tempo stesso in cui la
cura, il suo intervento è quello in cui il riconoscimento del tumore corrisponde alla sua
exeresi.” In effetti Freud prosegue osservando che la cosa che più interferisce con una
cura è “l’ambizione terapeutica”, nello specifico quella di riuscire a suggestionare il
paziente. Il chirurgo quindi, almeno come modello, oltre a mettere da parte gli affetti
metterebbe da parte le sue cognizioni a priori, i suoi pregiudizi, le sue ambizioni che
darebbero uno scopo a priori alle sue azioni, per stare concretamente e “con la mente
sgombra” all’interno della pratica, in quel preciso momento: se il clinico avesse in mente
la questione della diagnosi, ad esempio, non vi sarebbe nulla di quella coincidenza tra
indagine e trattamento di cui parla Freud. La diagnosi, quindi, si dà in atto.
Ma già ai tempi della psicoterapia catartica, negli Studi sull’isteria, Freud metteva
in piedi questo parallelo con interventi chirurgici quali ad esempio il raschiamento di
un’area purulenta: “Un’analogia simile trova la sua giustificazione non tanto
nell’allontanamento degli elementi morbosi, quanto nella produzione di condizioni di
risanamento migliori per l’ulteriore decorso del processo.”
C’è un senso in cui si potrebbe avere l’impressione che, in questi termini, sarebbe
possibile vedere il transfert dappertutto. Ma in base alle definizioni che ne dà Freud, è
effettivamente possibile estrarre degli elementi in base ai quali ci si rende conto
semplicemente che la questione del transfert non è, ovviamente, isolata da tutto il resto.
Ho richiamato poco fa quello che si era rilevato nell’introduzione riguardo al nesso tra
transfert e una certa modalità di uso del sapere (o di un certo “sapere d’uso”, forse): la
questione ruota intorno a un modo che Freud trova per descrivere il transfert negli studi
sull’isteria, quasi en passant, quando dice cioè che si tratta di un ostacolo non relativo al
contenuto, ma esteriore. Ma qui è necessario riportare interamente la citazione:
“È possibile, tuttavia, anche un terzo caso, che ha pure il significato di un ostacolo, non relativo
però al contenuto, ma esteriore. Questo caso si verifica quando è turbato il rapporto fra paziente e medico,
ed è l’ostacolo peggiore che si possa incontrare.” Vol 1 p 436
Freud sta elencando quelle che sono le questioni che fanno ostacolo alla cura. Sta
dicendo quindi che questo, il transfert, è l’ostacolo peggiore, e che non è un ostacolo
localizzato al livello del contenuto. L’ipotesi che sto facendo qui è che per Freud sia il
peggiore proprio perché è esteriore e non relativo al contenuto. Gli ostacoli nel contenuto
erano, stando al testo, relativi a situazioni dove il paziente non ha effettivamente nulla da
cercare, o dove egli non può accedere a un dato contenuto in quel momento specifico.
Ma tuttavia c’è appunto un terzo caso: il contenuto, qui, è nella forma, poiché si tratta di
un movimento in cui il paziente fa, ripete, invece di ricordare, quale che sia il contenuto. Il
ricordo potremmo dire che sia sul piano del contenuto: almeno, questo è quello che
accade quando il paziente parla di un suo ricordo. C’è un altro piano che è quello però
relativo al fatto che il paziente ne parla, c’è il suo parlarne, c’è il suo parlarne in un dato
momento e a una data persona, ecc. Questi sono tutti aspetti legati a quella che in modo
certamente non esente da ambiguità si potrebbe chiamare forma, come distinta dal
contenuto. In seguito verrà esplorata la possibilità di incrociare questa distinzione con la
distinzione lacaniana tra enunciato ed enunciazione.
Analizziamo a tal proposito un passo di Freud in cui vengono usati i termini “forma”
e “contenuto”:
“Vi ho spiegato che la psichiatria clinica si cura poco della forma esteriore e del contenuto del
singolo sintomo, e che la psicoanalisi è partita invece proprio da lì e ha stabilito innanzitutto che il sintomo è
dotato di senso ed è connesso con l’esperienza vissuta del paziente.”P 420
Che il contenuto sia sotto-transfert vuol dire anche che il senso non è
immediatamente generalizzabile:
“Il senso di un sintomo deriva, come abbiamo appreso, da una relazione con le esperienze del
malato. Quanto più individualizzata è la forma del sintomo, tanto più possiamo sperare di riuscire a stabilire
questa connessione. Sarà allora nostro compito, semplicemente, di rintracciare, per un’idea senza senso e
per un’azione senza scopo, quella situazione passata nella quale l’idea era giustificata e l’azione rispondeva
a un fine.” 432
Che il sintomo sia sensato a partire dalla relazione che esso ha con le esperienze
del malato è in un certo senso la controparte del fatto che il sintomo acquisirà senso nel
transfert proprio perché verrà collegato alla persona dell’analista, avrà con esso una
relazione, appunto. È come dire che il sintomo sotto-transfert, in quanto tale, cioè in
quanto connesso alla cura, è isomorfo al sintomo connesso alla storia e all’esperienza del
malato - anche l’esperienza presente: il transfert infatti è caratterizzato da Freud come
quel che accade in seduta, al presente; è il farsi presente di qualcosa. Questo
isomorfismo è quanto viene espresso quando si dice che “diagnosi e trattamento
coincidono”.
E quel che è fatto presente (che è già appunto un rintracciamento) non può mai
essere una generalità, ma sempre qualcosa di “individualizzato”, cioè particolare e
praticamente non confrontabile. Per questo una diagnosi in psicoanalisi, cioè una
diagnosi sotto-transfert, non può essere oggetto di una statistica, non è mai la stessa
diagnosi per due pazienti diversi, anche se può essere espressa in forma abbreviata con
la stessa etichetta strutturale.
In un certo senso il passo che finora è stato fatto, è quello di diluire la questione
della diagnosi in quella più ampia del “sapere”. Questo perché quando Freud parla di
diagnosi spesso non si spinge oltre gli aspetti formali attraverso i quali nel discorso entro
il quale egli si trovava a lavorare ci si esprimeva, ma nel modo, appunto, in cui vi fa
riferimento, si può cogliere qualcosa di come egli ne intendesse l’utilizzo. Di nuovo, e si è
nel centro della questione, Freud parla esplicitamente di diagnosi ma la posizione in cui
egli la mette, il modo in cui la usa, si può rilevare a partire non dai contenuti diretti, ma da
ciò che è presupposto, da quel che viene prima e che viene dopo. Dunque questo
accostamento, questa riduzione reciproca, tra diagnosi e sapere aiuta a fare questa
operazione di cui il transfert è il punto di congiunzione.
Si può a questo punto fare un parallelo tra la differenza tra “saperi” che c’è
all’interno di un’analisi e quella che c’è tra psicoanalisi e psichiatria; questo perché,
appunto, Freud si esprime maggiormente sulla prima. Ma questo è un parallelo che in
qualche modo fa Freud stesso quando tratta dell’interpretazione, o meglio del suo
utilizzo: in che modo un’interpretazione può avere o non avere degli effetti. “Tra sapere e
sapere passa differenza; vi sono tipi diversi di sapere, che non sono affatto
psicologicamente equivalenti” (lezione 18, p 442). Qui si riferisce specificamente alla
differenza tra il sapere del medico e quella del paziente. Questo si collega alla questione
tecnica del momento opportuno in cui fornire l’interpretazione: in un testo di tecnica
psicoanalitica (((((…))))), l’autore di fatto mette in risalto come “le comunicazioni al
paziente” possono avere effetti solo quando egli stesso è sul punto di fornirle. È molto
interessante incrociare quest’ultima esposizione freudiana con quella appena citata, per
vedere come le due modalità siano in effetti collegate o collegabili: dato che tra sapere e
sapere passa differenza, l’interpretazione tempestiva è quella che va ad agire su questa
differenza. Se il paziente è sul punto di arrivare a quell’interpretazione, questa non arriverà
a lui come il sapere del medico, ma come il suo sapere, un sapere tuttavia che ancora
non è cosciente: dunque un sapere suo ma che non è del tutto suo, e che è quindi ancora
più suo: un sapere inconscio.
Transfert e diagnosi
(dove in generale si arriverà alla questione di quello che riesco a rintracciare della
diagnosi sotto-transfert in Freud. Declinato ulteriormente:)
Abbiamo dunque tre differenze tra saperi: 1) il sapere dell’analista vs quello del
paziente; 2) quello della psichiatria vs quello della psicoanalisi; 3) quello dell’io vs quello
dell’inconscio. Quest’ultima è ciò a cui in fondo si può ridurre la prima differenza, ma solo
per il tramite del transfert; questo lo si vedrà ulteriormente declinato nei termini lacaniani
della supposizione di sapere, nel capitolo successivo. Per rimanere su Freud, è
necessario a questo punto fare una precisazione che è rimasta finora implicita: si sta
cercando, qui, tra le altre cose, di rintracciare in Freud la questione della diagnosi sotto-
transfert; questione che sappiamo essere tematizzata esplicitamente e in questi termini
non in Freud. Tuttavia è chiaro che anche e soprattutto per Freud la questione si pone,
aldilà della dicitura che egli utilizza. Analizziamo ad esempio il seguente passo:
“La nostra conoscenza dell’inconscio non ha lo stesso valore della sua conoscenza; se noi
comunichiamo al paziente la nostra conoscenza, egli non la pone al posto del suo inconscio, ma accanto a
questo; e il cambiamento che ne risulta è minimo. Quel che dobbiamo fare è rappresentarci questo
inconscio topicamente.”
Questo vuole anche dire che l’altro non è semplicemente l’analista come colui che
interpreta, come riportato qualche riga fa, ma è l’altro come inconscio, da interpretare ma
che interpreta a sua volta. Questa dimensione del transfert è essenziale e sarà sviluppata
più estesamente nel capitolo sulla clinica di Lacan: all’interno di questa, infatti, la
supposizione di sapere va in contro ad una dialettica del transfert nella cura, dove la
questione è che posto viene assegnato al sapere.
Dunque anche qui c’è quella diluizione di concetti clinici all’interno del loro
intrecciarsi concreto nell’uso, nella cura. Ad esempio, una difficoltà che si incontra è che
la conduzione della cura per Freud è a doppia direzione: il transfert fa sì che dal ricordo si
passi al mettere in atto, ma la cura consiste nel passare dal mettere in atto al ricordare, o
comunque nel ristabilire qualche connessione rispetto a questo. Ma tuttavia Freud dice
chiaramente che senza la via del transfert non è possibile una cura. Quel falso nesso
dunque è un falso necessario, quella difficoltà, quella complicazione è necessaria, non è
solo un ostacolo ma anche un alleato; soprattutto, non è qualcosa che vada eliminato, o
via via ridotto.
Ecco cosa scrive Freud sull’uso del transfert come nevrosi di transfert, nella cura:
“Siamo riusciti a riaccendere il vecchio conflitto che ha portato alla rimozione, a sottoporre a
revisione il processo a suo tempo concluso.” 587
“Possiamo così lusingarci di guidare il conflitto rianimato a un esito migliore di quello della
rimozione, e, come abbiamo detto, in linea di massima il risultato ci dà ragione nell’isteria, nella nevrosi
d’angoscia e nella nevrosi ossessiva.
vi sono però altre forme di malattia… (senza rimozione…)” 588 (diagnosi e transfert)
Qui compare la traccia della diagnosi differenziale operata per mezzo del transfert.
Bisogna cercare di elaborare in che senso questo modo di utilizzo del transfert sarebbe lo
stesso modo di cui si è trattato finora in questo lavoro.
È vero che il sintagma “nevrosi di transfert” è usato per denotare sia quel processo
di riedizione, di utilizzo del transfert che ha luogo nella cura, sia una sorta di categoria
nosologica, di quelle nevrosi cioè dove vi sia “capacità di transfert” o “inclinazione alla
traslazione” (594):
“La traslazione ha questa importanza straordinaria (che per la cura è addirittura fondamentale) nelle
isterie, nelle isterie d’angoscia e nelle nevrosi ossessive, le quali perciò vengono raggruppate, a ragione,
sotto la comune denominazione di ‘nevrosi di traslazione’.” (593-594)
Qui Freud prosegue facendo notare come grazie allo studio del fenomeno del
transfert si sia dimostrata la teoria dei “sintomi come soddisfacimenti libidici sostitutivi”: è
l’aspetto libidico a far sì che il transfert sia un fenomeno così ben intrecciato, così nodale
in tutta la cura: la libido va incontro alla dinamica della liberazione e dell’investimento,
alternativamente liberando e investendo oggetti quali l’analista e altre figure concrete o
meno concrete, ricordando o mettendo in atto.
L’aspetto libidico è anche quello che per Freud rende il transfert un elemento
diagnostico differenziale. In questo lavoro sto sostenendo che la diagnosi psicoanalitica
sia una diagnosi sotto-transfert nel senso che tale è la clinica psicoanalitica, e che la
diagnosi non è altro che un elemento della cura: in questo senso, sostenere, come fa
Freud, che il transfert è essenzialmente un processo libidico (come pure la formazione dei
sintomi, ecc.), vuol dire anche disporre i termini della questione in modo tale che una
diagnosi possa essere un nome che nomina il modo in cui si svolge una specifica cura: è
il nome degli spostamenti, della logica in cui avvengono gli spostamenti e gli
assestamenti di elementi quali l’oggetto, ad esempio, l’oggetto in quanto altro rispetto al
soggetto, verso cui la libido può protendere. Ecco che il transfert mantiene certamente la
sua specificità ma perde anche quell’incomprensibilità che aveva prima di averne trovato
la radice comune nell’esperienza analitica e forse nell’esperienza in generale.
La nuova forma del disturbo è una forma che include l’esperienza del soggetto,
come ogni disturbo, come ogni sintomo; soltanto che l’esperienza del soggetto in quel
momento include l’analisi e l’analista:
“Questa nuova edizione della vecchia malattia noi l’abbiamo seguita fin dall’inizio, l’abbiamo vista
nascere e crescere e in essa ci raccapezziamo particolarmente bene perché al suo centro, come oggetto,
stiamo noi stessi. Tutti i sintomi del paziente hanno abbandonato il loro significato originario e hanno
assunto un nuovo senso, che consiste in un rapporto con la traslazione” (diagnosi)
Curioso che in questo contesto Freud scriva che ci raccapezziamo bene in questa
malattia nuova (di transfert) perché come oggetto stiamo noi stessi al centro: questo è
proprio il motivo per cui invece è più difficile raccapezzarcisi. Semplicemente si tratta di
una questione nominale che in quanto tale non deve fuorviare: quando Freud scrive che ci
si raccapezza bene è forse perché dal centro, dalla posizione di oggetto, l’analista può
avere maggiore effetto.
I sintomi hanno assunto un nuovo senso; dunque, ora il loro senso è legato al
transfert, è mutato. Si potrebbe forse sostenere a questo punto che si è dimostrato che il
senso qui non ha poi molta importanza: l’importante è che esso venga usato, che esso
venga dirottato, rianimato (termine freudiano), reinvestito: è l’aspetto pulsionale che
ancora una volta si fa predominante, anche in relazione alla diagnosi:
“Possiamo dunque dire in generale che anche sotto il profilo intellettuale, l’uomo è accessibile solo
in quanto è capace di investimenti libidici oggettuali, e abbiamo valide ragioni per riconoscere e temere
nelle dimensioni del suo narcisismo una barriera alla sua influenzabilità, anche a petto della migliore tecnica
analitica.” (594)
Siamo dunque arrivati alla questione della psicosi e della sua difficoltà
nell’instaurarsi del transfert. Si tratta di un giudizio negativo da parte di Freud circa la
possibilità di un trattamento analitico, un trattamento cioè sotto-transfert, nell’ambito
della psicosi, e sarà uno dei punti in cui Lacan farà diversamente (vedi capitolo
successivo di questo lavoro): chi è affetto dalle cosiddette “nevrosi narcisistiche” (p594),
non sviluppa un transfert verso l’analista (per motivi di ordine pulsionale), e dunque non
può beneficiare della cura analitica; si potrebbe dire quindi, all’inverso, che affermare che
un soggetto non abbia inclinazione al transfert sia lo stesso che diagnosticare una nevrosi
narcisistica.
Per il resto, che il senso non sia il punto focale della questione del transfert, ma
che lo sia piuttosto quello pulsionale, è espresso ottimamente nel seguente paragrafo
freudiano:
“La traslazione paterna è solo il campo di battaglia sul quale ci impadroniamo della libido; la libido
dell’ammalato è stata ivi convogliata da altre posizioni.” (604)
Il senso, qui, è sul versante di quel che Freud definisce “paterno”; ma questo è
solo il campo di battaglia: quel che avviene è più importante: è un movimento di libido
che, veicolando qualsivoglia senso, si sposta sulla figura dell’analista e da lì può essere
manovrato, riposizionato, osservato. I movimenti per così dire economici sono la parte
essenziale della cura, per Freud; ma sono anche l’essenziale della diagnosi se, come
abbiamo visto, questa è in fondo il resoconto di quegli spostamenti e assestamenti
libidici:
“Soltanto dopo che si è dissolta la traslazione, si può ricostruire mentalmente il modo in cui la libido
era ripartita durante la malattia.” 604
Per quale motivo si può ricostruire solo dopo che si sia dissolta la traslazione?
Freud risponde con una delle sue metafore belliche, riferendosi al campo di battaglia di
cui sopra:
“Questo campo di battaglia non necessariamente coincide con una delle principali roccaforti del
nemico, così come non occorre che la difesa della più importante città nemica avvenga proprio davanti alle
sue porte.” 604
Dunque quel che del transfert, dissolvendosi, lascia spazio per una ricostruzione è
il senso, al cui interno è delineato un campo di battaglia con delle gerarchie tra roccaforti,
città, dove sono specificate le proprietà di ciascuno, dove qualcuno è qualificato come
nemico, come padre, e così via. Tutto questo si dissolve nel senso che dalla messa in atto
si passa al ricordo e vice versa, fino a che i nessi di significazione tornano ad essere
meno univoci, come torna ad essere disponibile la libido: in quel momento si può
ricostruire la storia economica del soggetto, perché in quel momento una storia si è
conclusa, ha avuto luogo, è stata esperienza fatta in seduta, conflitto rianimato.
Complicazioni dell’implicazione
Nel caso dell’uomo dei topi, che per motivi di scorrevolezza non verrà qui
ricapitolato se non richiamando al fatto che si trattava per Freud di un caso di nevrosi
ossessiva molto grave in cui era centrale un ricordo traumatico riguardante una
particolare forma di tortura usata in oriente, che era stata raccontata al paziente da quello
che era il suo capitano, visto come una persona molto crudele. Il cosiddetto supplizio dei
topi consisteva nel far passare dei topi nell’ano del prigioniero.
Il transfert con l’uomo dei topi si sviluppa quindi nel senso dell’associazione di
Freud con la figura del capitano crudele, e del padre. Questo accade in modi molto
diversi, da un lapsus in cui il soggetto chiama Freud con un altro nome al momento in cui,
in una vera e propria messa in atto (nel senso della definizione freudiana del transfert
come momento in cui il ricordo non è ricordato ma messo in atto) del racconto del
supplizio dei topi, dove egli si alza temendo che Freud lo picchi, come si sarebbe
aspettato dal capitano.
Quel che interessa qui è il modo in cui Freud utilizza il transfert per provocare una
svolta nella cura. Si può dire che ci sia del transfert, come si è richiamato, e si può dire
quindi che ci sia una nevrosi di transfert, ossia che l’analista è implicato nella cura, egli è
l’oggetto di quel “falso nesso” che secondo Freud è essenzialmente il transfert. Per
cogliere nitidamente la struttura delle mosse dell’analista in questo caso specifico, può
essere utile analizzare un frammento di teoria della clinica tratto dall’ Aldilà del principio di
piacere:
Qui è espressa molto chiaramente una delle complicazioni che pone il transfert a
Freud: se si tratta di una messa in atto, come è possibile utilizzarla nell’analisi, dato che in
questa pratica è essenziale che al contrario non si metta in atto ma si ricordi, si elabori?
D’altra parte si pone questa questione proprio perché il transfert è una via obbligata, che
non si può “risparmiare” al paziente; dunque per Freud, una volta che il transfert si sia
instaurato, è necessario riportarlo al passato, producendo un distacco, e infine quel
dissolvimento di cui ha parlato più sopra.
Nel caso dell’uomo dei topi accade una cosa simile. Vi è un fatto che il paziente
non ricorda, ma che viene riferito spesso da suoi parenti, che lo vede ingiuriare suo padre
dopo essere stato punito. L’episodio viene commentato dal padre nel modo seguente:
"Questo bambino diventerà o un grand'uomo o un grande delinquente”.(6. 44)
"Così arrivò a convincersi che il suo atteggiamento verso il padre rendeva necessario quell'apporto
supplementare proveniente dall'inconscio soltanto attraverso la penosa via della traslazione. Ben presto
infatti nei sogni, nelle fantasie diurne e nelle associazioni il paziente cominciò a indirizzare a me e ai miei le
ingiurie più sudice e volgari, anche se, deliberatamente, continuava a non manifestarmi altro che il più
grande rispetto. La sua condotta nel riferirmi queste ingiurie era quella di un uomo disperato: Come può, lei,
professore, lasciarsi insultare così da un sudicione, da un villanzone come me? Mi butti fuori, non merito
altro". (6 .45)
Qui si vede come Freud colga qualcosa della posizione in cui viene messo dal
paziente, ma lo fa a partire da aspetti laterali, non dal discorso frontale, esplicito del
paziente. Quella traspare nelle associazioni, nei sogni, indirettamente in forma invertita
negli insulti che indirizza a se stesso. La cosa importante è che Freud non chiude la
questione semplicemente facendo notare che, a partire dalla traslazione, tornando al
passato, si può reperire un’ostilità verso il padre: questo nuovo tassello, costruito per il
tramite della nevrosi di transfert, porta ad ulteriori associazioni, dove dal topo, dal ratto, il
paziente passa (per assonanza, nel tedesco), al denaro, alle rate, portando così alla luce
altri episodi relativi alla vita amorosa del paziente.
Questa complicazione che Freud evita lasciando aperto lo spazio alle associazioni
ulteriori oltre quella del falso nesso transferale è qualcosa che invece lo aveva insidiato
maggiormente nel caso di Dora, dove un aspetto del transfert era stato fissato per
chiudere il giro delle associazioni e dare un significato univoco a quel che stava
accadendo alla sua paziente.
Freud, nel Poscritto al caso, ipotizza esplicitamente che l’interruzione della cura sia
da addebitare a qualcosa del transfert. Egli non si sarebbe accorto per tempo del posto in
cui era stato messo da Dora nel corso della dinamica della traslazione.
Freud certamente aveva notato che la sua paziente si dedicava a cercare prove
che egli non fosse assimilabile al padre in quanto a qualità negative (secondo lei, un
opportunista), dato che questa ricerca aveva la forma di confronti espliciti tra i due.
Qualcosa del transfert trapelava nei due sogni che fanno da colonne del caso: nel primo
sogno c’è la questione dell’abbandono della casa della famiglia K, parallela secondo
Freud all’abbandono della cura. È interessante seguire il modo in cui si interroga Freud:
se egli avesse interpretato l’associazione nella paziente tra il signor K e l’analista, cosa
sarebbe accaduto? Ci sarebbe stata una traslazione negativa? Il falso nesso tra le due
figure si sarebbe potuto sciogliere a favore di un ulteriore lavoro associativo? Di fatto,
quello che accade è, secondo Freud stesso, che il transfert lo ha colto impreparato, quel
falso nesso si è instaurato a sua insaputa e sulla base di questo, la paziente ha messo in
atto (nel senso del transfert) nei suoi confronti la vendetta (4, 391) che avrebbe voluto
attuare verso il signor K, proprio come quest’ultimo aveva fatto con lei.
Qui il transfert è una dinamica che evita un ricordo mettendolo in atto (4, 399). È
questa la complicazione di cui si sta facendo cenno in questo paragrafo: essendo
l’analista implicato in una dinamica in cui il ricordo, il ricordare, sono impliciti e assumono
la forma della messa in atto, egli non ha gioco facile nel reperirsi nel discorso del
paziente, il quale discorso è appunto in queste giunture un’azione. L’esperienza è fatta di
azioni, è un piano di cui si riesce a razionalizzare qualcosa, a tradurre in parole solo in
seguito, a cose fatte. È quel che capita a Freud, che infatti ritiene di essere stato colto di
sorpresa dal transfert; e scrive questo in un “poscritto”.
Surrealismo e paranoia
Il titolo del primo paragrafo dello scritto lacaniano è: “La psicologia si costituisce
come scienza una volta posta da Freud la relatività del suo oggetto benché limitata ai fatti
di desiderio.”
“Questa ricerca, imponendo a tutta una cultura la preminenza della verità nella
testimonianza, ha creato un atteggiamento morale che è stato e resta per la scienza una
condizione d’esistenza. Ma la verità nel suo valore specifico resta estranea all’ordine della
scienza; la scienza può onorarsi delle sue alleanze con la verità; può proporsi come
oggetto il suo fenomeno ed il suo valore; ma non può in alcun modo identificarla con il
fine che le è proprio.”
“In tal modo la scienza si trovava nella posizione di servire come ultimo oggetto
per la passione della verità, risvegliando nell’uomo comune quella prosternazione davanti
al nuovo idolo che s’è chiamato scientismo, e nell’uomo di chiesa quell’eterno
pedantissimo che, ignorando quanto la sua verità sia relativa alle muraglie della sua torre,
mutila ciò che del reale gli è dato di cogliere.” 74
“Ma appunto perché è nel medico, cioè nel professionista per eccellenza della vita
intima, che questo punto di vista appare nel modo già flagrante come una negazione
sistematica, è ancora da un medico che doveva venire la negazione del punto di vista
stesso.”
“Ci si domanda del resto su che cosa il medico di allora fondasse l’ostracismo di
principio da cui ai suoi occhi è colpita la testimonianza del malato, se non nella sua stizza
di dovervi riconoscere come volgari i propri pregiudizi. Si tratta appunto
dell’atteggiamento comune a tutta una cultura che ha guidato l’astrazione analizzata più
sopra come quella dei dotti: per il malato come per il medico, la psicologia è l’ambito
dell’immaginario nel senso di illusorio; dunque, ciò che ha una significazione reale, e
quindi il sintomo, non può essere psicologico che in apparenza.”
“Freud comprende che proprio questa scelta rende senza valore la testimonianza
del malato. Se si vuole riconoscere una realtà propria alle reazioni psichiche, non bisogna
cominciare con lo scegliere fra di esse, ma bisogna cominciare dal non scegliere più. Per
misurare la loro efficienza bisogna rispettarne la successione. Certo non si tratta di
restituirne la catena per mezzo del racconto, ma il momento stesso della testimonianza
può costituirne un frammento significativo, a condizione che si esiga l’integralità del suo
testo e che lo si liberi dalle catene del racconto.”
“Il dato di questa esperienza è innanzitutto quello del linguaggio, un linguaggio, cioè un
segno. Il problema di ciò che significa è ben complesso, quando lo psicologo lo riferisce
al soggetto della conoscenza, cioè al pensiero del soggetto.” 76
“Ma lo psicoanalista, per il sol fatto di non staccare l’esperienza del linguaggio dalla
situazione che questa implica, quella dell’interlocutore, va a toccare il semplice fatto che il
linguaggio prima di significare qualcosa significa per qualcuno. Per il solo fatto che egli è
presente e ascolta, quest’ultimo che parla gli si rivolge, e dato che impone al suo
discorso di non volere dir nulla, resta ciò che quest’uomo gli vuol dire. Infatti, ciò che dice
può non avere alcun senso, ma ciò che gli dice ne nasconde uno.” (77. Corsivo a
segnalare il gli: transfert e enunciazione (gli dice: dire; dice: detto)
“Ma anche nella sua reazione al rifiuto dell’uditore, il soggetto tradirà l’immagine che gli
sostituisce.” 78
“Intanto, quanto più queste intenzioni diventano espresse nel discorso, esse si
mescolano con testimonianze su cui il soggetto le fa poggiare, le rinforza, fa loro riprender
lena: in esse egli formula ciò di cui soffre e ciò che ora vuol superare, confida il segreto
dei suoi scacchi e il successo dei suoi disegni, giudica il suo carattere e i suoi rapporti
altri. Egli informa così dell’insieme della sua condotta l’analista, che testimone egli stesso
di un suo momento, vi trova una base per la sua critica. Ora, ciò che con tale critica
questa condotta mostra all’analista, è che in essa agisce in permanenza quella stessa
immagine che vede sorgere nell’attuale.”
“Nella misura in cui la richiesta prende forma di arringa, la testimonianza si allarga nei suoi
appelli al testimone: sono dei puri racconti che appaiono “fuori dal soggetto”, quelli che il
soggetto getta ora nel fiotto del suo discorso, gli eventi senza intenzione e i frammenti dei
discorsi che costituiscono la sua storia, e fra più disgiunti, quelli che aggiorno dalla sua
infanzia … ma quella stessa immagine che il soggetto rende presente con la sua condotta
e che incessantemente vi si riproduce, il soggetto la ignora, nei due sensi della parola, e
cioè: non sa che ciò che ripete, lo consideri o no come suo, nella sua condotta, è
spiegato da tale i magie, - e misconosce questa importanza dell’immagine quando evoca
il ricordo che essa rappresenta.”
“Egli (l’analista) opera sui due registri della delucidazione intellettuale per mezzo
dell’interpretazione, e della manovra affettiva per mezzo del transfert; ma il fissarne i
tempi spetta alla tecnica, che li definisce in funzione delle reazioni del soggetto; e il
regolarne la velocità spetta al tatto, che avverte l’analista del ritmo di tali reazioni.”
“Lavoro da illusionista, si dirà, se appunto il suo frutto non fosse quello di risolvere
un’illusione. Al contrario la sua azione terapeutica va definita essenzialmente come il
doppio movimento per cui l’immagine, inizialmente diffusa e spezzata, è regressivamente
assimilata al reale, per essere progressivamente disassimilata dal reale, cioè ristabilita
nella realtà che le è propria. Azione che testimonia dell’efficienza di questa realtà.”
“Ma, si dirà, se non è lavoro illusorio è semplice tecnica e, come esperienza, la meno
favorevole all’osservazione scientifica perché fondata sulle condizioni più contrarie
all’oggettività. Infatti abbiamo appena descritto questa esperienza come una costante
interazione fra osservatore e oggetto: è appunto nel movimento che il soggetto gli
comunica tramite la sua intenzione, che l’osservatore è informato di quest’ultima, e
abbiamo anzi insistito sulla primordiali di questa via; inversamente l’osservatore, con
l’assimilazione che favorisce fra se stesso e l’immagine, sovverte dall’origine la funzione
di questa nel soggetto; ora, egli identifica l’immagine precisamente nel progresso di
questa sovversione; e non abbiamo neppure velato il carattere costitutivo di questo
processo.” 80
“Questa assenza di riferimento fisso nel sistema osservato, questo uso, per
l’osservazione, del movimento soggettivo stesso, che ovunque altrove è eliminato come
fonte dell’errore, ha l’aria di suonare come sfida al buon metodo.”
“E più ancora, ci si lasci dire la sfida che in ciò vediamo ai buoni usi e costumi.
Nell’osservazione che riferisce, l’osservatore può nascondere che cosa impegna della
propria persona: in altra sede le intuizioni delle sue scoperte portano il nome di delirio, e
noi soffriamo intravvedendo da quali esperienze proceda l’insistenza della sua
perspicacia. Senza dubbio le vie attraverso cui la verità si scopre sono insondabili, ed è
capitato di veder dei matematici confessare di averla vista in sogno, o di essersi imbattuti
in lei in qualche triviale collisione. Ma decenza vuole che se ne esponga la scoperta come
fosse venuta da un procedimento più conforme alla purezza dell’idea. La scienza, come la
moglie di Cesare, non va sospettata. Del resto, da tempo il buon nome dello scienziato
non corre più rischi; la natura non sa più svelarsi sotto figure umane, e ogni progresso
della scienza ha cancellato da sé un tratto antropomorfico.”
“Gli elementi di una determinazione positiva sono stati così introdotti fra le realtà
psichiche che una definizione relativistica ha permesso di oggettivare. Questa
determinazione è dinamica o relativa ai fatti di desiderio.” 85