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Freud e la psichiatria del suo tempo.

Freud incomincia la propria carriera nell’ambito della cura dei disturbi psichici
come allievo di Charcot. Tuttavia, come si vedrà, il modo in cui è impostato il suo
apprendistato tiene conto primariamente della clinica: quando dialoga con Charcot non
abbiamo solo Freud e Charcot, ma c’è anche la clinica che fa da bussola a entrambi.

Si può dire che egli si situa all’interno dell’ambito psichiatrico, ma già con
un’inclinazione alla ricerca che lo porta ad approcciare il suo oggetto in un modo
particolare. Di fatto, è proprio come se Freud mettesse in moto una dialettica di questo
tipo: c’è una tradizione che ha sedimentato dei metodi con cui ci si occupa di un oggetto,
metodi che rientrano nella psichiatria, poi c’è l’oggetto, e cioè la clinica; ci si può
occupare dell’oggetto ridisegnando un metodo che sia più rispettoso dell’oggetto di
quanto non sia la psichiatria. Si può anche descrivere la cosa in termini di precedenza:
Freud dà precedenza alla clinica: è da questa che fa discendere la teoria e il metodo;
perciò, il metodo che ne risulta è nuovo, dal momento che si attaglia al suo oggetto, alla
sua specificità. Il passaggio dalla pratica alla teoria però non è affatto una questione di
esclusione dei sedimenti della teoria, perché Freud dialoga con la psichiatria del suo
tempo, si pone al suo interno e da lì opera la sua ricerca. Inoltre, non si tratta neppure di
un processo unidirezionale che vada dalla clinica alla teorizzazione senza ritorni: vi è
piuttosto un andirivieni continuo, quasi un’indistinzione, tra questi due versanti (Freud,
come vedremo più avanti, parlerà di coincidenza tra indagine e trattamento per delineare
l’aspetto essenziale della psicoanalisi rispetto ad altri metodi di cura): per cui un elemento
clinico può darsi all’osservazione solo a partire da un accorgimento tecnico, il quale però
nasce daccapo dall’esigenza di delineare proprio quella porzione di clinica.

Il campo clinico che si dispiega davanti a Freud è quello dell’isteria. In un certo


senso si tratta già qui, fin dall’inizio, di una questione diagnostica. L’isteria era da
diagnosticare nel senso fondamentale di dargli uno statuto, di farla esistere in quanto tale
a dispetto di una medicina che non ne rilevava alcuna traccia se non nei termini negativi
della simulazione e dell’assenza di riscontri somatici: il rimasuglio dell’operazione di
classificazione e descrizione della diagnostica medica. Già qui si può vedere all’opera la
questione della precedenza che si richiamava poco fa: il sapere medico parte da se
stesso come sapere depositato e la sua applicazione alla clinica produce qualcosa di
inassimilabile, di assolutamente estraneo al sapere, incomprensibile se non nei termini di
una simulazione. È importante la questione della simulazione: la simulazione non è un
elemento clinico, perché è presa come un rimando a qualcosa che è simulato, in questo
caso l’elemento somatico. Questo rimando non è per nulla interrogato. La simulazione,
anche fosse tale, non diviene comunque, essa stessa, un oggetto della clinica, perché
non è rilevabile dal radar della classificazione e descrizione di un sapere che può solo
essere applicato senza ritorno. Quel che ritorna dall’applicazione di questo sapere non
può che farlo a lato, nella forma dell’incomprensibile o appunto del falso, del simulato: è
un rimosso che non ritorna, o che ritorna ma senza poter essere ascoltato.

Per Freud però si trattava proprio di ascoltare quel che arrivava dalla clinica, e
quindi certamente, impostate le cose in questi termini, si vede bene quello che potrebbe
sembrare ovvio, ossia che quel che Freud ascolterà non sarà alcunché di primigenio
bensì, appunto, un ritorno, il risultato di un processo in cui un sapere, quello medico,
aveva già messo mano per ritagliare, seppure nei termini di rimasugli, un oggetto. Ecco,
appunto, il modo in cui Freud si implica nel discorso del suo tempo: il suo oggetto, la sua
clinica, era già intrisa di teoria. Bisognava immergersi in questa dialettica per
riconquistare un oggetto e una teoria adeguati l’uno all’altra. Egli non disconosce il
discorso in cui è immerso, ma dialoga con esso di fronte al testimone della clinica. Si
tratta di una questione che potrebbe sembrare quasi di contorno rispetto al tema di
questa tesi, che concerne la diagnosi e il transfert, ma ne è proprio il centro: in una specie
di esperimento controfattuale, ci si potrebbe chiedere cosa sarebbe stato un movimento
diverso da quello intrapreso da Freud: applicazione senza implicazione.

Nel rilevare la serie di “pregiudizi” attraverso i quali doveva esser vista l’isteria dal
mondo scientifico del suo tempo, Freud si esprime così:

“Negli ultimi decenni un’isterica poteva essere altrettanto sicura di venire trattata da simulatrice
quanto ne avrebbe avuta nei secoli precedenti di essere giudicata e condannata come strega o come
ossessa. Da un altro punto di vista si può anzi dire che si è fatto un passo indietro nella conoscenza
dell’isteria: il medioevo conosceva assai bene le stigmate, cioè i contrassegni somatici dell’isteria, che
interpretava e usava a modo suo. Al Policlinico di Berlino invece io ho potuto riscontrare come questi
contrassegni somatici dell’isteria fossero pressoché sconosciuti, e come, pronunciando la diagnosi
d’isteria, ci sembrasse sopprimere praticamente ogni inclinazione a occuparsi ulteriormente del malato”.
(Vol 1, p10)

Tra le altre cose, è interessante in questo passo sottolineare come ci possa essere
un tipo di diagnosi che porti un certo orientamento della cura. Innanzitutto, si tratta non
tanto di una questione diagnostica in termini puramente psichiatrici, ma piuttosto in
termini di uso della diagnosi nella cura. Quel che qui interessa Freud non è soltanto come
si sia arrivati ad una diagnosi di isteria, ma che posto ha la diagnosi all’interno di una
cura.

Nella fattispecie qui c’è una diagnosi che viene usata per chiudere non soltanto
qualsiasi indagine ulteriore, ma anche qualsiasi trattamento; quasi come fosse la fine e
l’unico fine di tutto il processo che coinvolge medico e paziente. Non è tanto che il
medico in questo modo di procedere sarebbe asettico, disinteressato, e così via;
piuttosto l’accento va posto su quella specie di trattamento della temporalità che viene
così messo in opera: vi è una suddivisione in fasi nette: prima della diagnosi e dopo la
diagnosi.

Inoltre, che tipo di rapporto con il sapere è messo qui in evidenza? C’è un sapere
già dato, che viene calato su un oggetto il quale da quel momento in poi non sarà altro
che un ulteriore già dato. La diagnosi non produce alcun sapere. Evidentemente è molto
forte, in questa impostazione, la distinzione tra diagnosi e trattamento. Quando finisce il
processo di diagnosi può iniziare quello di cura, senza interferenze dell’uno sull’altro. Ma
in quanto Freud scrive che il pronunciamento della diagnosi di isteria garantiva la chiusura
di qualsiasi ulteriore inclinazione ad occuparsi del malato, potrebbero esserci almeno due
modi di interpretare questa chiusura: che non vi fosse in effetti alcun trattamento di fatto,
o di diritto. È una lettura un po’ capricciosa del passo freudiano, ma sembra comunque in
linea con quel che l’autore afferma in diversi punti dei suoi scritti e che verranno presi in
esame in seguito in questo lavoro: come a dire, cioè, che anche se alla diagnosi di isteria
fosse seguito un trattamento, in quell’impostazione non vi sarebbe stato comunque alcun
trattamento; o anche, il trattamento messo in atto sarebbe stato, di nuovo, di chiusura, di
applicazione, di riduzione al già saputo.

In ogni caso anche già in questo semplice passo di un suo resoconto, Freud
mostra, criticandone il negativo, in che modo intende la clinica: la diagnosi non esclude
assolutamente che ci si occupi del malato.

Il senso del sintomo: la concezione dinamica

Facendo ora un salto di ((((…)))))) anni, possiamo vedere come Freud continui, nelle
lezioni della Introduzione alla psicoanalisi, a caratterizzare e mettere a confronto il lavoro
della psicoanalisi con quello della psichiatria. Viene riportato in quella sede un frammento
di un caso clinico che gli servirà per poi esemplificare le differenze tra i due approcci.

Si tratta di una donna di cinquantatré anni con una vita familiare apparentemente
felice e che, un giorno, parlando di tradimenti con la sua cameriera, disse: “La cosa più
terribile per me sarebbe venire a sapere che anche il mio caro marito ha una relazione.”
Ricevette il giorno successivo una lettera anonima in cui le si spiegava come il marito la
tradisse con una donna la quale era peraltro la nemica principale della sua cameriera.
Dopo di ciò, la vita di questa donna fu dominata interamente da quest’idea, anche se
riconosciuta da lei stessa come insostenibile: si rendeva conto che si trattava con ogni
probabilità di una lettera scritta dalla sua cameriera, ma ciò nonostante continuava a star
male al solo sentir nominare la persona con la quale si pretendeva nella lettera che il
marito la tradisse.

A proposito di come in psichiatria vengono considerate le idee deliranti, Freud


scrive:

“Idee di questa specie, che sono inaccessibili ad argomenti logici e basati sulla realtà, si è
convenuto di chiamarle idee deliranti. La buona signora soffre dunque di un delirio di gelosia. Questa è
senza dubbio la caratteristica essenziale del caso clinico descritto.” (Vol 8 p 413)

E questo perché “Lo psichiatra cerca anzitutto di caratterizzare il sintomo con una
qualità essenziale.” Su cosa voglia dire precisamente l’espressione “qualità essenziale”
Freud non si esprime direttamente, ma forse si può cogliere qualcosa nel seguito del
testo, dove la questione è che vi sono tante cose lasciate fuori dalla dicitura “delirio di
gelosia”, ma che lo psichiatra non può prendere in considerazione poiché “deve
accontentarsi di questa diagnosi e, circa il decorso ulteriore, di una prognosi che è incerta
nonostante la ricca esperienza di cui dispone.” (414)

Il passaggio successivo consiste nel modo di procedere della psicoanalisi, e Freud


lo introduce in un modo molto particolare, perché invita gli ascoltatori a soffermarsi su “un
dettaglio poco appariscente”. Questo modo di introdurre la cosa potrebbe sembrare a
sua volta nient’altro che un modo di introdurre una questione, ma forse non lo è.

Innanzitutto, qui si potrebbe in un certo senso trovare qualcosa per chiarire cosa
intendesse Freud nel definire il modo di procedere psichiatrico come una ricerca di
“qualità essenziali”: una qualità essenziale pare essere tutto fuorché qualcosa di poco
appariscente; piuttosto, dovrebbe essere quel che più appare, quel che si pone in misura
maggiore al centro di un agglomerato di fenomeni; al centro, cioè nella posizione di
qualcosa di essenziale versus qualcos’altro di più inessenziale e periferico, ricalcando in
qualche modo la rappresentazione che si fa del campo visivo quando lo si suddivide in
campo foveale (centrale, nitido, importante perché in qualche modo corrispondente di
volta in volta alla volontà del soggetto che guarda quel determinato punto) e campo
periferico (sfocato, grossolano, in gran parte inconsapevole).

Dunque oltre ad essere un modo di introdurre la questione, questa è anche la


questione stessa. Forse lo è, anzi, proprio in quanto “modo” di introdurre. Si sta
sostenendo che ancora una volta quel che fa la specificità di un approccio analitico sta in
questa attenzione, ad esempio, per il modo in cui un contenuto è espresso; e questo vale
sia dal lato di ciò che viene portato dal paziente, sia dal lato di ciò che l’analista fa
quando costruisce il caso o fa un’ipotesi diagnostica. E questi aspetti apparentemente di
contorno, di uso, di modo, non di contenuto, sono ascrivibili alla questione del transfert,
come si vedrà più precisamente mano a mano che si proseguirà in questo lavoro.

Il dettaglio poco appariscente a cui Freud si riferisce è il fatto che la signora abbia
in qualche modo causato il presentarsi di quella lettera anonima, dicendo quella frase alla
sua cameriera. Questo fa sì che l’arrivo della lettera possa esser letto in modo un po’
diverso da un semplice verificarsi di un evento oggettivo indipendente dal soggetto. È un
evento che è incluso nella vita psichica del soggetto, che in esso trova un posto e che
magari aveva già un posto prima dell’accadimento dell’event. In effetti Freud prosegue
rilevando che l’idea delirante è indipendente dalla lettera, e che quindi doveva essere in
una certa forma già presente prima del suo arrivo; e in che forma, “di timore (o di
desiderio?)”?

Abbiamo un elemento per così dire esterno, che si può prendere come oggettivo e
indipendente dal soggetto, e abbiamo un desiderio o un timore che tuttavia, in modo
“poco appariscente”, suggerisce, provoca l’accadere di quel fatto esterno. Quel desiderio
o timore esiste già: trova solo il modo di farsi presente in una situazione concreta; il che
vuol dire che trova il modo di presentarsi nascondendosi in quanto desiderio o timore, in
quanto già presente. Il già-presente, si potrebbe dire, si nasconde nel presente-solo-ora.
È evidente che già qui ci si sta avvicinando, quasi senza accorgersene, alla stessa logica
che presiede alla concezione del transfert nel senso freudiano della ripetizione, del farsi
presente che prende il posto del ricordo, e del transfert come falso nesso.

In che modo quindi si tratterebbe di qualcosa di poco appariscente? Allo psichiatra


sfuggirebbe, sembra voler intendere Freud. C’è un contenuto, che è il timore espresso in
questo caso dalla frase che la signora dice alla cameriera, e poi c’è il fatto che la signora
lo dica alla cameriera, in quel momento, in quel modo. Questo modo in cui arriva un
contenuto, si occulta nel contenuto. Poi ci sarà anche il fatto che la signora racconta
questo a qualcuno, nello specifico a Freud, in un dato momento, ecc. E possiamo vedere
quale uso ne faccia l’analista:

“La paziente manifestò un forte rifiuto quando, dopo la narrazione della sua storia, venne invitata a
comunicare i suoi ulteriori pensieri, idee e ricordi. Affermava che non le veniva in mente nulla, che aveva già
detto tutto, e in capo a due sedute il tentativo dovette realmente venire interrotto, dal momento che la
paziente dichiarò di sentirsi già guarita e di essere sicura che l’idea morbosa non le sarebbe tornata.
Questo, naturalmente, lo disse solo per resistenza e per timore di proseguire l’analisi.”

La resistenza è qualcosa che ha luogo nell’analisi, non fuori, e soprattutto non


trova posto nel contenuto della narrazione; piuttosto, ne è una delle forme. Anzi, Freud
specifica che la resistenza si manifesta dapprima con il fatto che la paziente dicesse che
non le veniva in mente nulla, e in seguito con qualcosa di più concreto, come
l’interruzione della cura stessa. In altri testi, e già negli Studi sull’isteria, Freud nota come
uno dei modi in cui si manifesta l’ostacolo del transfert è proprio il blocco delle
associazioni.

Quel che accade quindi è che l’analista si occupa di quel che succede all’interno
della cura, e non soltanto di ciò che viene narrato. Quel che accade nella cura accade
all’interno quindi di un legame dove è implicata la figura dell’analista. Nel modo di
procedere della psichiatria si trattava invece, secondo Freud, di una diagnosi fatta su
qualità essenziali (potremmo dire astratte da qualsiasi implicazione nella cura?) che non
permette nient’altro che una prognosi indipendente da qualsiasi intervento. Sembra un
po’ quel che veniva annotato riguardo al policlinico di Berlino, dove la diagnosi era posta
come conclusione di un trattamento mai iniziato.

Senso e sintomo

A detta dello stesso Freud, a differenza della psichiatria, la psicoanalisi “ha stabilito
innanzitutto che il sintomo è dotato di senso ed è connesso con l’esperienza vissuta del
paziente.” (420)

Il sintomo ha un senso come ce l’hanno i sogni e gli atti mancati (421). Quel che la
psicoanalisi fa per il sintomo è lo stesso che fa per quelle “piccole cose” che fanno parte
della Psicopatologia della vita quotidiana. Il titolo di questa celebre opera freudiana ci fa
cogliere che vi sarebbe una specie di apparente antinomia nel mettere insieme questi due
termini: psicopatologia e vita quotidiana, come se il quotidiano escludesse il patologico o
forse anche semplicemente lo psichico. Ancora una volta, si può riprendere quel che
Freud dice della psichiatria, la quale, ad esempio, riguardo all’”atto sintomatico” di non
chiudere la porta dello studio dell’analista, “dichiara che si tratta di un evento casuale
privo di interesse psicologico, del quale non val la pena di occuparsi.”

Caso e quotidiano vanno di pari passo, in un certo senso. L’atteggiamento


quotidiano, sembra presupporre Freud, non è quello analitico: gran parte delle cose
accade in maniera casuale, soprattutto quando non se ne conosce immediatamente la
causa. Ci sono eventi per i quali la coscienza rintraccia subito e senza difficoltà una
causa, ed eventi (tutti gli altri) per i quali questo non è possibile e di cui si dice che siano
casuali, o comunque non dipendenti in alcun modo dal soggetto. Lo psichiatra, da questo
punto di vista, non si discosta molto dalla posizione che la coscienza solitamente ha nel
quotidiano.

Questo riguarda il procedere generale della psicoanalisi davanti ai fenomeni, ed è


un procedere che deriva dal fatto di aver introdotto l’elemento dell’inconscio; ma per
quanto riguarda specificamente il sintomo, si può osservare principalmente che si tratta di
qualcosa di ripetuto, che quindi si è costruito una storia (breve o lunga che sia) nella vita
del soggetto. Inoltre, il sintomo è spesso portato come qualcosa che fa soffrire. Ecco che
ci sono nuovi motivi per considerare il sintomo in termini di senso o non-senso: come può
essere qualcosa di indipendente dal soggetto, o comunque di slegato da qualsiasi scopo,
qualsiasi senso, qualcosa che fa soffrire e nonostante questo si ripete? Già che un evento
si ripeta fino a far parte della storia di una persona, è un indizio a sfavore del “puro caso”.
Il compito dell’analisi, quindi, su questo punto, per Freud sarà, “semplicemente, di
rintracciare, per un’idea senza senso e per un’azione senza scopo, quella situazione
passata nella quale l’idea era giustificata e l’azione rispondeva a un fine.” (432)

Forse usare esclusivamente il termine “senso”, per riferirsi a quel che Freud
intende per “senso del sintomo” può fuorviare. Innanzitutto è utile ricordare che potrebbe
sembrare quasi scontato, oggi, sostenere che il sintomo possa avere un senso; affermare
che il sintomo abbia un senso quindi è in primo luogo un modo per negare che non ne
abbia, vuol dire aprire lo spazio all’indagine di qualcosa di ulteriore rispetto all’aspetto
fenomenico di un sintomo, e quindi vuol dire aprire la prospettiva all’inconscio, all’”altra
scena”; questa è ciò che Freud definisce “concezione dinamica”:

“Noi non vogliamo semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di
un gioco di forze che si svolge nella psiche, come l’espressione di tendenze orientate verso un fine, che
operano insieme o l’una contro l’altra. Ciò che ci sforziamo di raggiungere è una concezione dinamica dei
fenomeni psichici.”

Ecco che considerare i sintomi come indizi di qualcos’altro è innanzitutto qualcosa


che si oppone alla mera descrizione e classificazione dei fenomeni.

Qui siamo in grado dunque di riprendere la questione della diagnosi: questa non
può essere soltanto il prodotto di una classificazione e di descrizione di fenomeni.
Probabilmente non è nemmeno da considerarsi semplicemente come un prodotto, dal
momento che stiamo vedendo, e vedremo meglio in seguito, come essa non debba
venire a chiudere un processo o a dargli semplicemente inizio. Certamente c’è anche
questo, dato che un’ipotesi diagnostica è importante per l’impostazione di una cura. Ma
non si tratta evidentemente di una questione che si possa esaurire totalmente nell’ambito
di una concezione cronologica di separazione di fasi nette e gerarchicamente organizzate
all’interno di una cura. Che si parli, nella citazione, di “indizi”, non vuol dire che ci si trovi
puramente e semplicemente nell’ambito di un’indagine come qualcosa di separato
nettamente dal trattamento per via di una qualche propedeutica – propedeutica che pure
in una certa forma, si sta sostenendo, ha la sua ragion d’essere.

Indagine e trattamento coincidono

Nello scritto Tecnica della psicoanalisi, Freud afferma qualcosa che suona come un
paradosso, ovvero che “È invero uno dei titoli di gloria del lavoro analitico che in esso
indagine e trattamento coincidano.”, per poi aggiungere che da un certo momento in poi
quel che serve per mettere in atto l’indagine si contrappone al trattamento. Infatti,
consiglia di non “elaborare scientificamente” il caso contemporaneamente allo
svolgimento del trattamento, ecc. Anzi viene suggerito un atteggiamento tale per cui
l’analista debba trovarsi a farsi sorprendere ogni volta, per poi elaborare a cose fatte il
caso, non lasciarsi andare alle sintesi ed esser liberi da concettualizzazioni aprioristiche.

Ecco che qui ci si trova davanti ad un’altra distinzione: precedentemente si era alle
prese con la distinzione classificazione versus dinamica, ora si sta trattando della
distinzione tra un trattamento in cui ha luogo una teorizzazione, e uno in cui
apparentemente questa non c’è per ricomparire solo in seguito. Ma dunque non aveva
Freud appena affermato la coincidenza tra indagine e trattamento? Come è possibile
allora concepirle un attimo dopo così nettamente separate, anzi consigliandone
caldamente la separazione? Forse il punto è ancora più paradossale, possibilmente, e
cioè che se non ci fosse questa separazione non vi sarebbe né vero trattamento né vera
indagine né un’addizione di qualche tipo fra le due. Se l’analista si mantiene invece in
questa modalità in cui “si procede senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad
ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti.”,
lì trattamento e indagine coincidono: proprio perché non si può scorgere in questo modo
di procedere nessuna indagine e nessun trattamento presi in modo astratto e applicativo.

Un altro e per certi versi curioso modo che Freud trova per esemplificare questo
consiglio tecnico è quello di raccomandare di fare come il chirurgo: questo mette da parte
qualsiasi affetto e soprattutto la pietà, mentre esegue un intervento. Leguil (p38) vede in
questo richiamo alla chirurgia qualcosa di ulteriore, che ha a che fare con la coincidenza
di indagine e trattamento: “Il chirurgo è colui che isola la lesione nel tempo stesso in cui la
cura, il suo intervento è quello in cui il riconoscimento del tumore corrisponde alla sua
exeresi.” In effetti Freud prosegue osservando che la cosa che più interferisce con una
cura è “l’ambizione terapeutica”, nello specifico quella di riuscire a suggestionare il
paziente. Il chirurgo quindi, almeno come modello, oltre a mettere da parte gli affetti
metterebbe da parte le sue cognizioni a priori, i suoi pregiudizi, le sue ambizioni che
darebbero uno scopo a priori alle sue azioni, per stare concretamente e “con la mente
sgombra” all’interno della pratica, in quel preciso momento: se il clinico avesse in mente
la questione della diagnosi, ad esempio, non vi sarebbe nulla di quella coincidenza tra
indagine e trattamento di cui parla Freud. La diagnosi, quindi, si dà in atto.

Ma già ai tempi della psicoterapia catartica, negli Studi sull’isteria, Freud metteva
in piedi questo parallelo con interventi chirurgici quali ad esempio il raschiamento di
un’area purulenta: “Un’analogia simile trova la sua giustificazione non tanto
nell’allontanamento degli elementi morbosi, quanto nella produzione di condizioni di
risanamento migliori per l’ulteriore decorso del processo.”

Un intervento chirurgico (abbastanza controintuitivamente), non serve


semplicemente ad allontanare i sintomi, ma a fare qualcosa che abbia effetti strutturali;
così come, si potrebbe aggiungere, una diagnosi non è solo la registrazione di elementi
morbosi, ma è già una sorta di “spiegazione”, un approfondimento, un punto di vista
dinamico, e così via, ed è per questo che non è separabile così nettamente dal
trattamento. Registrare (classificare) e allontanare il sintomo sono due movimenti che
vanno di pari passo, rispecchiano lo stesso atteggiamento, lo stesso principio, così come
dal versante analitico sono congiunti il trattamento e l’indagine.

Transfert: ostacolo esteriore

Ora si tratterà di motivare più estesamente in che modo il transfert, nella


prospettiva freudiana, sarebbe anche alla base di quella particolare modalità d’uso del
sapere di cui si è parlato nell’introduzione, e che farebbe la specificità, tra le altre cose,
del modo di fare diagnosi nella psicoanalisi, ossia sotto-transfert.

C’è un senso in cui si potrebbe avere l’impressione che, in questi termini, sarebbe
possibile vedere il transfert dappertutto. Ma in base alle definizioni che ne dà Freud, è
effettivamente possibile estrarre degli elementi in base ai quali ci si rende conto
semplicemente che la questione del transfert non è, ovviamente, isolata da tutto il resto.
Ho richiamato poco fa quello che si era rilevato nell’introduzione riguardo al nesso tra
transfert e una certa modalità di uso del sapere (o di un certo “sapere d’uso”, forse): la
questione ruota intorno a un modo che Freud trova per descrivere il transfert negli studi
sull’isteria, quasi en passant, quando dice cioè che si tratta di un ostacolo non relativo al
contenuto, ma esteriore. Ma qui è necessario riportare interamente la citazione:

“È possibile, tuttavia, anche un terzo caso, che ha pure il significato di un ostacolo, non relativo
però al contenuto, ma esteriore. Questo caso si verifica quando è turbato il rapporto fra paziente e medico,
ed è l’ostacolo peggiore che si possa incontrare.” Vol 1 p 436

Freud sta elencando quelle che sono le questioni che fanno ostacolo alla cura. Sta
dicendo quindi che questo, il transfert, è l’ostacolo peggiore, e che non è un ostacolo
localizzato al livello del contenuto. L’ipotesi che sto facendo qui è che per Freud sia il
peggiore proprio perché è esteriore e non relativo al contenuto. Gli ostacoli nel contenuto
erano, stando al testo, relativi a situazioni dove il paziente non ha effettivamente nulla da
cercare, o dove egli non può accedere a un dato contenuto in quel momento specifico.
Ma tuttavia c’è appunto un terzo caso: il contenuto, qui, è nella forma, poiché si tratta di
un movimento in cui il paziente fa, ripete, invece di ricordare, quale che sia il contenuto. Il
ricordo potremmo dire che sia sul piano del contenuto: almeno, questo è quello che
accade quando il paziente parla di un suo ricordo. C’è un altro piano che è quello però
relativo al fatto che il paziente ne parla, c’è il suo parlarne, c’è il suo parlarne in un dato
momento e a una data persona, ecc. Questi sono tutti aspetti legati a quella che in modo
certamente non esente da ambiguità si potrebbe chiamare forma, come distinta dal
contenuto. In seguito verrà esplorata la possibilità di incrociare questa distinzione con la
distinzione lacaniana tra enunciato ed enunciazione.

La forma è in un certo senso “esteriore”, come dice Freud, al contenuto. È il


peggiore ostacolo, forse, perché si tratta di ciò che non è per così dire frontale
nell’osservazione. La forma non è ciò che sta davanti: quello è il contenuto. Nella forma si
sta immersi. Una modalità della forma potrebbe essere ad esempio la cosiddetta
situazione, o molti altri aspetti che si tende a dar per scontati, che fanno da sfondo, ma
che sono in realtà in primo piano. Perché il paziente dice una data cosa proprio in quel
momento, proprio a quella persona, al di là dei contenuti? O cosa fanno, quei particolari
contenuti, se non assumere una rilevanza specifica proprio per il fatto di essere detti in
quel luogo e a quella persona? Un dato contenuto, ad esempio, che sembrerebbe
un’affermazione, può essere, nel contesto, una domanda rivolta all’analista. Per l’analista
è difficile scorgere il contenuto della forma perché egli vi è dentro, vi è implicato.

Analizziamo a tal proposito un passo di Freud in cui vengono usati i termini “forma”
e “contenuto”:

“Vi ho spiegato che la psichiatria clinica si cura poco della forma esteriore e del contenuto del
singolo sintomo, e che la psicoanalisi è partita invece proprio da lì e ha stabilito innanzitutto che il sintomo è
dotato di senso ed è connesso con l’esperienza vissuta del paziente.”P 420

Qui si incontra il paradosso di ogni tentativo di formalizzazione della semiotica del


linguaggio: l’uso linguistico in senso lato va oltre e include in sé, come specificazioni e
limitazioni, le definizioni formalizzanti. Qui Freud qualifica come forma esteriore e
contenuto, (mettendoli insieme!), ciò che finora ho reso con il termine forma (opposta
però al contenuto). Il contesto mostra che si tratta dello stesso (grosso modo) concetto o
agglomerato di concetti, o dello stesso oggetto: la psicoanalisi è partita proprio da ciò
che la psichiatria ha trascurato, arrivando quindi al senso del sintomo e alla connessione
di questo con l’esperienza del paziente. La “connessione” può essere intesa come il
posto che ha il sintomo nel complesso della storia del paziente, l’uso che di esso è stato
fatto nell’economia psichica del soggetto. Ci si potrebbe allora chiedere: se poniamo
forma esteriore, contenuto, senso e uso del sintomo all’interno dello stesso insieme, cosa
rimane fuori di esso? Ossia, per fare una sorta di indagine al contrario, di cosa si
occupava la psichiatria di cui parlava Freud? È qualcosa che precedentemente, cioè
prima di prendere in considerazione il passo freudiano in questione, avevo qualificato
come “contenuto”. Ma non è difficile rendersi conto che la psicoanalisi tratta essa stessa
il contenuto: lo tratta però in un modo specifico. È un modo supportato da una logica
(quella che prima ho richiamato usando l’espressione “metapsicologia”) dove il sapere è
in un determinato posto, non è dato, non è comunicato, non è applicato, e così via. Su
questa logica, dove il sapere è messo diciamo in movimento, in atto, nella forma,
nell’enunciazione, il contenuto non è fine a se stesso; esso è sotto-transfert.

Che il contenuto sia sotto-transfert vuol dire anche che il senso non è
immediatamente generalizzabile:

“Il senso di un sintomo deriva, come abbiamo appreso, da una relazione con le esperienze del
malato. Quanto più individualizzata è la forma del sintomo, tanto più possiamo sperare di riuscire a stabilire
questa connessione. Sarà allora nostro compito, semplicemente, di rintracciare, per un’idea senza senso e
per un’azione senza scopo, quella situazione passata nella quale l’idea era giustificata e l’azione rispondeva
a un fine.” 432

Che il sintomo sia sensato a partire dalla relazione che esso ha con le esperienze
del malato è in un certo senso la controparte del fatto che il sintomo acquisirà senso nel
transfert proprio perché verrà collegato alla persona dell’analista, avrà con esso una
relazione, appunto. È come dire che il sintomo sotto-transfert, in quanto tale, cioè in
quanto connesso alla cura, è isomorfo al sintomo connesso alla storia e all’esperienza del
malato - anche l’esperienza presente: il transfert infatti è caratterizzato da Freud come
quel che accade in seduta, al presente; è il farsi presente di qualcosa. Questo
isomorfismo è quanto viene espresso quando si dice che “diagnosi e trattamento
coincidono”.

E quel che è fatto presente (che è già appunto un rintracciamento) non può mai
essere una generalità, ma sempre qualcosa di “individualizzato”, cioè particolare e
praticamente non confrontabile. Per questo una diagnosi in psicoanalisi, cioè una
diagnosi sotto-transfert, non può essere oggetto di una statistica, non è mai la stessa
diagnosi per due pazienti diversi, anche se può essere espressa in forma abbreviata con
la stessa etichetta strutturale.

Modi, forme, usi del sapere e diagnosi in Freud

In un certo senso il passo che finora è stato fatto, è quello di diluire la questione
della diagnosi in quella più ampia del “sapere”. Questo perché quando Freud parla di
diagnosi spesso non si spinge oltre gli aspetti formali attraverso i quali nel discorso entro
il quale egli si trovava a lavorare ci si esprimeva, ma nel modo, appunto, in cui vi fa
riferimento, si può cogliere qualcosa di come egli ne intendesse l’utilizzo. Di nuovo, e si è
nel centro della questione, Freud parla esplicitamente di diagnosi ma la posizione in cui
egli la mette, il modo in cui la usa, si può rilevare a partire non dai contenuti diretti, ma da
ciò che è presupposto, da quel che viene prima e che viene dopo. Dunque questo
accostamento, questa riduzione reciproca, tra diagnosi e sapere aiuta a fare questa
operazione di cui il transfert è il punto di congiunzione.

Si può a questo punto fare un parallelo tra la differenza tra “saperi” che c’è
all’interno di un’analisi e quella che c’è tra psicoanalisi e psichiatria; questo perché,
appunto, Freud si esprime maggiormente sulla prima. Ma questo è un parallelo che in
qualche modo fa Freud stesso quando tratta dell’interpretazione, o meglio del suo
utilizzo: in che modo un’interpretazione può avere o non avere degli effetti. “Tra sapere e
sapere passa differenza; vi sono tipi diversi di sapere, che non sono affatto
psicologicamente equivalenti” (lezione 18, p 442). Qui si riferisce specificamente alla
differenza tra il sapere del medico e quella del paziente. Questo si collega alla questione
tecnica del momento opportuno in cui fornire l’interpretazione: in un testo di tecnica
psicoanalitica (((((…))))), l’autore di fatto mette in risalto come “le comunicazioni al
paziente” possono avere effetti solo quando egli stesso è sul punto di fornirle. È molto
interessante incrociare quest’ultima esposizione freudiana con quella appena citata, per
vedere come le due modalità siano in effetti collegate o collegabili: dato che tra sapere e
sapere passa differenza, l’interpretazione tempestiva è quella che va ad agire su questa
differenza. Se il paziente è sul punto di arrivare a quell’interpretazione, questa non arriverà
a lui come il sapere del medico, ma come il suo sapere, un sapere tuttavia che ancora
non è cosciente: dunque un sapere suo ma che non è del tutto suo, e che è quindi ancora
più suo: un sapere inconscio.

Transfert e diagnosi

(dove in generale si arriverà alla questione di quello che riesco a rintracciare della
diagnosi sotto-transfert in Freud. Declinato ulteriormente:)

Abbiamo dunque tre differenze tra saperi: 1) il sapere dell’analista vs quello del
paziente; 2) quello della psichiatria vs quello della psicoanalisi; 3) quello dell’io vs quello
dell’inconscio. Quest’ultima è ciò a cui in fondo si può ridurre la prima differenza, ma solo
per il tramite del transfert; questo lo si vedrà ulteriormente declinato nei termini lacaniani
della supposizione di sapere, nel capitolo successivo. Per rimanere su Freud, è
necessario a questo punto fare una precisazione che è rimasta finora implicita: si sta
cercando, qui, tra le altre cose, di rintracciare in Freud la questione della diagnosi sotto-
transfert; questione che sappiamo essere tematizzata esplicitamente e in questi termini
non in Freud. Tuttavia è chiaro che anche e soprattutto per Freud la questione si pone,
aldilà della dicitura che egli utilizza. Analizziamo ad esempio il seguente passo:

“La nostra conoscenza dell’inconscio non ha lo stesso valore della sua conoscenza; se noi
comunichiamo al paziente la nostra conoscenza, egli non la pone al posto del suo inconscio, ma accanto a
questo; e il cambiamento che ne risulta è minimo. Quel che dobbiamo fare è rappresentarci questo
inconscio topicamente.”

È interessante osservare come la questione affrontata da Freud, anche a partire


dalla terminologia che egli usa, possa essere letta in termini di posizione,
rappresentandocela appunto “topicamente”: il sapere (la conoscenza, per Freud) può
essere collocato (“posto”) o “al posto” dell’inconscio oppure “accanto” ad esso. In
questo senso, quindi, la questione della diagnosi sta qui diventando quasi una questione
di metapsicologia: qualcosa che ha a che fare con una lettura topica, strutturale, logica, in
cui ciò che importa ai fini dell’uso della diagnosi nella cura (e non ai fini della diagnosi tout
court, come se la diagnosi fosse un fine) è relativo alla posizione reciproca di alcune
istanze quali ad esempio il sapere, l’inconscio e l’altro, (altro che in questo caso è
l’analista come colui che interpreta). La domanda che Freud si sta facendo, quando si
interroga su dove la conoscenza venga posta dal paziente, può essere ricondotta a quella
sul transfert: dove il paziente pone l’analista?

E, a proposito di come sia proprio il transfert a fare da snodo, da giuntura, in


questa questione di differenza tra saperi, la tempistica dell’interpretazione viene espressa
da Freud anche nei termini seguenti: le comunicazioni al paziente non possono essere
date prima che sia instaurato il transfert ((((…))))

Questo vuole anche dire che l’altro non è semplicemente l’analista come colui che
interpreta, come riportato qualche riga fa, ma è l’altro come inconscio, da interpretare ma
che interpreta a sua volta. Questa dimensione del transfert è essenziale e sarà sviluppata
più estesamente nel capitolo sulla clinica di Lacan: all’interno di questa, infatti, la
supposizione di sapere va in contro ad una dialettica del transfert nella cura, dove la
questione è che posto viene assegnato al sapere.

La nevrosi di transfert e la diagnosi sotto-transfert

Attraverso la questione della nevrosi di transfert si può forse dire, trasversalmente,


per negazione, qualcosa anche sulla psicosi, nel senso che Freud sembra fare della
“capacità di transfert” l’elemento di diagnosi differenziale tra nevrosi e psicosi. Dunque
questo è un altro senso in cui diagnosi e transfert sono intrecciati.

Questa però è l’occasione di sviluppare meglio in che senso il transfert e la


diagnosi sono elementi di cui si compone una cura, cioè in che modo con essi si opera,
come li si colloca, e come si è da essi collocati. Appunto, per Freud si parla di nevrosi di
transfert, dunque di qualcosa che grazie alla ripetizione entra a far parte della cura e delle
sue strategie: si parla di “nevrosi artificiale”, attraverso la quale combattere contro il
nemico che fino a quel momento era preso solo in absentia, ecc. (la terminologia bellica è
di Freud).

Dunque anche qui c’è quella diluizione di concetti clinici all’interno del loro
intrecciarsi concreto nell’uso, nella cura. Ad esempio, una difficoltà che si incontra è che
la conduzione della cura per Freud è a doppia direzione: il transfert fa sì che dal ricordo si
passi al mettere in atto, ma la cura consiste nel passare dal mettere in atto al ricordare, o
comunque nel ristabilire qualche connessione rispetto a questo. Ma tuttavia Freud dice
chiaramente che senza la via del transfert non è possibile una cura. Quel falso nesso
dunque è un falso necessario, quella difficoltà, quella complicazione è necessaria, non è
solo un ostacolo ma anche un alleato; soprattutto, non è qualcosa che vada eliminato, o
via via ridotto.

Ecco cosa scrive Freud sull’uso del transfert come nevrosi di transfert, nella cura:

“Siamo riusciti a riaccendere il vecchio conflitto che ha portato alla rimozione, a sottoporre a
revisione il processo a suo tempo concluso.” 587

Si tratta di riportare in vita qualcosa di rimosso. Il transfert è la riaccensione di un


vecchio conflitto, ma una riaccensione che può essere una revisione.

“Possiamo così lusingarci di guidare il conflitto rianimato a un esito migliore di quello della
rimozione, e, come abbiamo detto, in linea di massima il risultato ci dà ragione nell’isteria, nella nevrosi
d’angoscia e nella nevrosi ossessiva.

vi sono però altre forme di malattia… (senza rimozione…)” 588 (diagnosi e transfert)

Qui compare la traccia della diagnosi differenziale operata per mezzo del transfert.
Bisogna cercare di elaborare in che senso questo modo di utilizzo del transfert sarebbe lo
stesso modo di cui si è trattato finora in questo lavoro.

È vero che il sintagma “nevrosi di transfert” è usato per denotare sia quel processo
di riedizione, di utilizzo del transfert che ha luogo nella cura, sia una sorta di categoria
nosologica, di quelle nevrosi cioè dove vi sia “capacità di transfert” o “inclinazione alla
traslazione” (594):

“La traslazione ha questa importanza straordinaria (che per la cura è addirittura fondamentale) nelle
isterie, nelle isterie d’angoscia e nelle nevrosi ossessive, le quali perciò vengono raggruppate, a ragione,
sotto la comune denominazione di ‘nevrosi di traslazione’.” (593-594)

Qui Freud prosegue facendo notare come grazie allo studio del fenomeno del
transfert si sia dimostrata la teoria dei “sintomi come soddisfacimenti libidici sostitutivi”: è
l’aspetto libidico a far sì che il transfert sia un fenomeno così ben intrecciato, così nodale
in tutta la cura: la libido va incontro alla dinamica della liberazione e dell’investimento,
alternativamente liberando e investendo oggetti quali l’analista e altre figure concrete o
meno concrete, ricordando o mettendo in atto.

L’aspetto libidico è anche quello che per Freud rende il transfert un elemento
diagnostico differenziale. In questo lavoro sto sostenendo che la diagnosi psicoanalitica
sia una diagnosi sotto-transfert nel senso che tale è la clinica psicoanalitica, e che la
diagnosi non è altro che un elemento della cura: in questo senso, sostenere, come fa
Freud, che il transfert è essenzialmente un processo libidico (come pure la formazione dei
sintomi, ecc.), vuol dire anche disporre i termini della questione in modo tale che una
diagnosi possa essere un nome che nomina il modo in cui si svolge una specifica cura: è
il nome degli spostamenti, della logica in cui avvengono gli spostamenti e gli
assestamenti di elementi quali l’oggetto, ad esempio, l’oggetto in quanto altro rispetto al
soggetto, verso cui la libido può protendere. Ecco che il transfert mantiene certamente la
sua specificità ma perde anche quell’incomprensibilità che aveva prima di averne trovato
la radice comune nell’esperienza analitica e forse nell’esperienza in generale.

In seguito a ciò si può dire che, a partire da quell’esperienza, e su quell’esperienza,


si forma una classificazione per cui la nevrosi di transfert sarebbe una categoria
nosografica, un raggruppamento. La domanda che mi sto ponendo è: che differenza c’è
tra diagnosi sotto-transfert e quella che si potrebbe indicare con “diagnosi-tramite
-transfert”?

D’altra parte “nevrosi di transfert” è anche il nome di una “malattia” nuova.


L’analista, Freud, crea un nome per un disturbo, ma solo dopo aver creato il disturbo
stesso: questo è il baricentro dell’intera struttura messa qui in luce. È il nome ed è anche
l’oggetto che il nome denoterebbe. Per il lavoro che si sta svolgendo qui, l’importante è
questo: indagine e trattamento coincidono, non vi è una diagnosi esterna al trattamento,
essa si riferisce sempre alla cosiddetta nevrosi di transfert o, per rendere la cosa meno
restrittiva a livello terminologico, “disturbo di transfert”. (Trovare punto in cui Freud parla
del fatto che la nevrosi non si ferma) (implicazione).

Dunque, “diagnosi sotto-transfert” vuol dire “disturbo sotto-transfert”. Si capisce


bene, ora, in che senso una diagnosi sotto-transfert è parte del trattamento: è una
definizione operativa nella stessa misura in cui è una operazione definitoria.

La cura è sempre cura di un disturbo di transfert, così come la diagnosi è sempre


diagnosi sotto-transfert, perché è diagnosi di un disturbo di transfert. Non vi sono altri
disturbi di cui è possibile un trattamento. Questo è quel che si intende con l’implicazione
dell’analista nel processo anche diagnostico: egli non ha a che fare con “il disturbo” del
paziente, disturbo astratto, atemporale, eterno, il quale in qualche modo si sia attaccato
al soggetto come una malattia infettiva: no, l’analista ha a che fare con un disturbo che
include egli stesso in quanto analista, o meglio la sua posizione nel modo in cui viene
lavorata dal soggetto. Questo è il disturbo di transfert.

Senso e pulsione nella dinamica operativa del transfert.

La nuova forma del disturbo è una forma che include l’esperienza del soggetto,
come ogni disturbo, come ogni sintomo; soltanto che l’esperienza del soggetto in quel
momento include l’analisi e l’analista:

“Questa nuova edizione della vecchia malattia noi l’abbiamo seguita fin dall’inizio, l’abbiamo vista
nascere e crescere e in essa ci raccapezziamo particolarmente bene perché al suo centro, come oggetto,
stiamo noi stessi. Tutti i sintomi del paziente hanno abbandonato il loro significato originario e hanno
assunto un nuovo senso, che consiste in un rapporto con la traslazione” (diagnosi)

Curioso che in questo contesto Freud scriva che ci raccapezziamo bene in questa
malattia nuova (di transfert) perché come oggetto stiamo noi stessi al centro: questo è
proprio il motivo per cui invece è più difficile raccapezzarcisi. Semplicemente si tratta di
una questione nominale che in quanto tale non deve fuorviare: quando Freud scrive che ci
si raccapezza bene è forse perché dal centro, dalla posizione di oggetto, l’analista può
avere maggiore effetto.

I sintomi hanno assunto un nuovo senso; dunque, ora il loro senso è legato al
transfert, è mutato. Si potrebbe forse sostenere a questo punto che si è dimostrato che il
senso qui non ha poi molta importanza: l’importante è che esso venga usato, che esso
venga dirottato, rianimato (termine freudiano), reinvestito: è l’aspetto pulsionale che
ancora una volta si fa predominante, anche in relazione alla diagnosi:

“Possiamo dunque dire in generale che anche sotto il profilo intellettuale, l’uomo è accessibile solo
in quanto è capace di investimenti libidici oggettuali, e abbiamo valide ragioni per riconoscere e temere
nelle dimensioni del suo narcisismo una barriera alla sua influenzabilità, anche a petto della migliore tecnica
analitica.” (594)

Siamo dunque arrivati alla questione della psicosi e della sua difficoltà
nell’instaurarsi del transfert. Si tratta di un giudizio negativo da parte di Freud circa la
possibilità di un trattamento analitico, un trattamento cioè sotto-transfert, nell’ambito
della psicosi, e sarà uno dei punti in cui Lacan farà diversamente (vedi capitolo
successivo di questo lavoro): chi è affetto dalle cosiddette “nevrosi narcisistiche” (p594),
non sviluppa un transfert verso l’analista (per motivi di ordine pulsionale), e dunque non
può beneficiare della cura analitica; si potrebbe dire quindi, all’inverso, che affermare che
un soggetto non abbia inclinazione al transfert sia lo stesso che diagnosticare una nevrosi
narcisistica.

Per il resto, che il senso non sia il punto focale della questione del transfert, ma
che lo sia piuttosto quello pulsionale, è espresso ottimamente nel seguente paragrafo
freudiano:

“La traslazione paterna è solo il campo di battaglia sul quale ci impadroniamo della libido; la libido
dell’ammalato è stata ivi convogliata da altre posizioni.” (604)

Il senso, qui, è sul versante di quel che Freud definisce “paterno”; ma questo è
solo il campo di battaglia: quel che avviene è più importante: è un movimento di libido
che, veicolando qualsivoglia senso, si sposta sulla figura dell’analista e da lì può essere
manovrato, riposizionato, osservato. I movimenti per così dire economici sono la parte
essenziale della cura, per Freud; ma sono anche l’essenziale della diagnosi se, come
abbiamo visto, questa è in fondo il resoconto di quegli spostamenti e assestamenti
libidici:

“Soltanto dopo che si è dissolta la traslazione, si può ricostruire mentalmente il modo in cui la libido
era ripartita durante la malattia.” 604

C’è in campo anche il dissolvimento del transfert, a contribuire alla comprensione


di come il transfert sia un elemento mobile e che ha una posizione nella cura; essa ha un
decorso, per dire così, proprio come una malattia. Oltre a ciò, è interessante interrogarsi
sul perché di questa temporalità, questo a posteriori che ricorda la nottola di minerva, che
per Hegel poteva rappresentare il compito della filosofia nella storia: contemplazione di
quanto è accaduto. Certamente nella psicoanalisi è un’altra questione, dato che si sta
dicendo che si è implicati tanto nella ricostruzione quanto nella costruzione: è questa la
specificità del transfert su cui ruota tutta la questione del sapere e nello specifico della
diagnosi, in questo lavoro.

Per quale motivo si può ricostruire solo dopo che si sia dissolta la traslazione?
Freud risponde con una delle sue metafore belliche, riferendosi al campo di battaglia di
cui sopra:

“Questo campo di battaglia non necessariamente coincide con una delle principali roccaforti del
nemico, così come non occorre che la difesa della più importante città nemica avvenga proprio davanti alle
sue porte.” 604

Dunque quel che del transfert, dissolvendosi, lascia spazio per una ricostruzione è
il senso, al cui interno è delineato un campo di battaglia con delle gerarchie tra roccaforti,
città, dove sono specificate le proprietà di ciascuno, dove qualcuno è qualificato come
nemico, come padre, e così via. Tutto questo si dissolve nel senso che dalla messa in atto
si passa al ricordo e vice versa, fino a che i nessi di significazione tornano ad essere
meno univoci, come torna ad essere disponibile la libido: in quel momento si può
ricostruire la storia economica del soggetto, perché in quel momento una storia si è
conclusa, ha avuto luogo, è stata esperienza fatta in seduta, conflitto rianimato.

L’esperienza, la pratica, hanno questo di particolare: comportano un certo grado di


oblio del pensiero e quando viene recuperata nel ricordo può essere sì ripensata,
ricostruita, ma una parte essenziale rimane perduta.

Complicazioni dell’implicazione

Trattando il transfert e la diagnosi nei termini di uso, dunque nei termini


dell'implicazione dell’analista come oggetto che viene collocato in un determinato posto
dal paziente, e della difficoltà particolare che questa dinamica pone soprattutto al suo
reperimento, prenderò in considerazione alcuni aspetti del caso Dora e del caso
dell’uomo dei topi.

Questo capitolo ha preso vieppiù la forma di un’indagine sulla questione


dell’implicazione dell’analista nella cura e quindi nella diagnosi: partendo dalla
terminologia stessa della particella “in-” che comporta una logica posizionale dentro la
quale si può parlare di posizione dell’analista in quanto oggetto, fino al concetto di
nevrosi-di-transfert come crocevia in cui più regioni della questione possono incontrarsi:
indagine (diagnosi) e trattamento coincidono, dato che il disturbo trattato non può essere
che quello di transfert: trattamento e diagnosi sono dunque sotto-transfert, e l’analista in
quanto tale è implicato proprio perché è il disturbo che lo implica nel transfert. Il transfert
è il punto di confluenza, di legame, una giuntura spazio-temporale che esclude la
possibilità di una forma di trattamento e di conoscenza di stampo contemplativo-
positivista classico.

Si potrebbe dire quindi che è l’implicazione dell’analista, nell’impostazione


psicoanalitica, a far sì che indagine e trattamento coincidano.

Freud capitàno crudele

Nel caso dell’uomo dei topi, che per motivi di scorrevolezza non verrà qui
ricapitolato se non richiamando al fatto che si trattava per Freud di un caso di nevrosi
ossessiva molto grave in cui era centrale un ricordo traumatico riguardante una
particolare forma di tortura usata in oriente, che era stata raccontata al paziente da quello
che era il suo capitano, visto come una persona molto crudele. Il cosiddetto supplizio dei
topi consisteva nel far passare dei topi nell’ano del prigioniero.

Il transfert con l’uomo dei topi si sviluppa quindi nel senso dell’associazione di
Freud con la figura del capitano crudele, e del padre. Questo accade in modi molto
diversi, da un lapsus in cui il soggetto chiama Freud con un altro nome al momento in cui,
in una vera e propria messa in atto (nel senso della definizione freudiana del transfert
come momento in cui il ricordo non è ricordato ma messo in atto) del racconto del
supplizio dei topi, dove egli si alza temendo che Freud lo picchi, come si sarebbe
aspettato dal capitano.

Quel che interessa qui è il modo in cui Freud utilizza il transfert per provocare una
svolta nella cura. Si può dire che ci sia del transfert, come si è richiamato, e si può dire
quindi che ci sia una nevrosi di transfert, ossia che l’analista è implicato nella cura, egli è
l’oggetto di quel “falso nesso” che secondo Freud è essenzialmente il transfert. Per
cogliere nitidamente la struttura delle mosse dell’analista in questo caso specifico, può
essere utile analizzare un frammento di teoria della clinica tratto dall’ Aldilà del principio di
piacere:

“Il medico si sforza di restringere al massimo l’ambito di questa nevrosi di traslazione, di


convogliare quanto più materiale possibile nella sfera dei ricordi e di fare in modo che una parte minima
riemerga sotto forma di ripetizione. […] Di regola il medico non può risparmiare al malato questa fase della
cura; deve consentire che il paziente rivivi una certa parte della sua vita passata, e provvedere, d’altro lato,
affinché egli conservi un certo grado di razionale distacco, che gli permetta di rendersi conto che quella che
gli appare come realtà è in effetti soltanto l’immagine riflessa di un passato dimenticato” (vol 9 p205)

Qui è espressa molto chiaramente una delle complicazioni che pone il transfert a
Freud: se si tratta di una messa in atto, come è possibile utilizzarla nell’analisi, dato che in
questa pratica è essenziale che al contrario non si metta in atto ma si ricordi, si elabori?
D’altra parte si pone questa questione proprio perché il transfert è una via obbligata, che
non si può “risparmiare” al paziente; dunque per Freud, una volta che il transfert si sia
instaurato, è necessario riportarlo al passato, producendo un distacco, e infine quel
dissolvimento di cui ha parlato più sopra.

Nel caso dell’uomo dei topi accade una cosa simile. Vi è un fatto che il paziente
non ricorda, ma che viene riferito spesso da suoi parenti, che lo vede ingiuriare suo padre
dopo essere stato punito. L’episodio viene commentato dal padre nel modo seguente:
"Questo bambino diventerà o un grand'uomo o un grande delinquente”.(6. 44)

Quel che Freud è intenzionato a fare è di far prendere coscienza al paziente


l’ostilità verso suo padre. Tuttavia come si è detto il soggetto non ricorda la scena, cosa
che secondo quest’ultimo sarebbe motivo di dubbi circa l’essere quella scena qualcosa
di realmente accaduto:

"Così arrivò a convincersi che il suo atteggiamento verso il padre rendeva necessario quell'apporto
supplementare proveniente dall'inconscio soltanto attraverso la penosa via della traslazione. Ben presto
infatti nei sogni, nelle fantasie diurne e nelle associazioni il paziente cominciò a indirizzare a me e ai miei le
ingiurie più sudice e volgari, anche se, deliberatamente, continuava a non manifestarmi altro che il più
grande rispetto. La sua condotta nel riferirmi queste ingiurie era quella di un uomo disperato: Come può, lei,
professore, lasciarsi insultare così da un sudicione, da un villanzone come me? Mi butti fuori, non merito
altro". (6 .45)

Qui si vede come Freud colga qualcosa della posizione in cui viene messo dal
paziente, ma lo fa a partire da aspetti laterali, non dal discorso frontale, esplicito del
paziente. Quella traspare nelle associazioni, nei sogni, indirettamente in forma invertita
negli insulti che indirizza a se stesso. La cosa importante è che Freud non chiude la
questione semplicemente facendo notare che, a partire dalla traslazione, tornando al
passato, si può reperire un’ostilità verso il padre: questo nuovo tassello, costruito per il
tramite della nevrosi di transfert, porta ad ulteriori associazioni, dove dal topo, dal ratto, il
paziente passa (per assonanza, nel tedesco), al denaro, alle rate, portando così alla luce
altri episodi relativi alla vita amorosa del paziente.

L’interruzione del trattamento nel caso Dora

Questa complicazione che Freud evita lasciando aperto lo spazio alle associazioni
ulteriori oltre quella del falso nesso transferale è qualcosa che invece lo aveva insidiato
maggiormente nel caso di Dora, dove un aspetto del transfert era stato fissato per
chiudere il giro delle associazioni e dare un significato univoco a quel che stava
accadendo alla sua paziente.

Freud, nel Poscritto al caso, ipotizza esplicitamente che l’interruzione della cura sia
da addebitare a qualcosa del transfert. Egli non si sarebbe accorto per tempo del posto in
cui era stato messo da Dora nel corso della dinamica della traslazione.

Freud certamente aveva notato che la sua paziente si dedicava a cercare prove
che egli non fosse assimilabile al padre in quanto a qualità negative (secondo lei, un
opportunista), dato che questa ricerca aveva la forma di confronti espliciti tra i due.
Qualcosa del transfert trapelava nei due sogni che fanno da colonne del caso: nel primo
sogno c’è la questione dell’abbandono della casa della famiglia K, parallela secondo
Freud all’abbandono della cura. È interessante seguire il modo in cui si interroga Freud:
se egli avesse interpretato l’associazione nella paziente tra il signor K e l’analista, cosa
sarebbe accaduto? Ci sarebbe stata una traslazione negativa? Il falso nesso tra le due
figure si sarebbe potuto sciogliere a favore di un ulteriore lavoro associativo? Di fatto,
quello che accade è, secondo Freud stesso, che il transfert lo ha colto impreparato, quel
falso nesso si è instaurato a sua insaputa e sulla base di questo, la paziente ha messo in
atto (nel senso del transfert) nei suoi confronti la vendetta (4, 391) che avrebbe voluto
attuare verso il signor K, proprio come quest’ultimo aveva fatto con lei.

Qui il transfert è una dinamica che evita un ricordo mettendolo in atto (4, 399). È
questa la complicazione di cui si sta facendo cenno in questo paragrafo: essendo
l’analista implicato in una dinamica in cui il ricordo, il ricordare, sono impliciti e assumono
la forma della messa in atto, egli non ha gioco facile nel reperirsi nel discorso del
paziente, il quale discorso è appunto in queste giunture un’azione. L’esperienza è fatta di
azioni, è un piano di cui si riesce a razionalizzare qualcosa, a tradurre in parole solo in
seguito, a cose fatte. È quel che capita a Freud, che infatti ritiene di essere stato colto di
sorpresa dal transfert; e scrive questo in un “poscritto”.

Surrealismo e paranoia

Aldilà del principio di realtà

Il titolo del primo paragrafo dello scritto lacaniano è: “La psicologia si costituisce
come scienza una volta posta da Freud la relatività del suo oggetto benché limitata ai fatti
di desiderio.”

La scienza ha dunque un oggetto che ha come predicato una certa relatività, la


quale è tuttavia limitata ai fatti di desiderio. Per rendere chiaro il contenuto di queste
affermazioni è necessario inoltrarsi dettagliatamente nelle argomentazioni dello scritto in
questione, analizzandolo passo passo.

“Non stiamo giocando al paradosso di negare che la scienza abbia di che


conoscere circa la verità. Ma noi non dimentichiamo che la verità è un valore che
risponde all’incertezza da cui l’esperienza vissuta dell’uomo è fonologicamente segnata,
e che la ricerca della verità anima storicamente, sotto la voce dello spirituale, gli slanci del
mistico e le regole del moralista, le vie dell’asceta e le trovate del mistagogo.” (73)

“Questa ricerca, imponendo a tutta una cultura la preminenza della verità nella
testimonianza, ha creato un atteggiamento morale che è stato e resta per la scienza una
condizione d’esistenza. Ma la verità nel suo valore specifico resta estranea all’ordine della
scienza; la scienza può onorarsi delle sue alleanze con la verità; può proporsi come
oggetto il suo fenomeno ed il suo valore; ma non può in alcun modo identificarla con il
fine che le è proprio.”

“In tal modo la scienza si trovava nella posizione di servire come ultimo oggetto
per la passione della verità, risvegliando nell’uomo comune quella prosternazione davanti
al nuovo idolo che s’è chiamato scientismo, e nell’uomo di chiesa quell’eterno
pedantissimo che, ignorando quanto la sua verità sia relativa alle muraglie della sua torre,
mutila ciò che del reale gli è dato di cogliere.” 74

“È proprio un punto di vista simile a imporre al medico quello sbalorditivo


disprezzo della realtà psichica il cui scandalo, perpetuato ai giorni nostri dalla
conservazione di tutta una formazione di scuola, si esprime tanto nella parzialità
dell’osservazione quanto nella bstardaggine di concezioni come quella del pitiatismo.”

“Ma appunto perché è nel medico, cioè nel professionista per eccellenza della vita
intima, che questo punto di vista appare nel modo già flagrante come una negazione
sistematica, è ancora da un medico che doveva venire la negazione del punto di vista
stesso.”

“Il primo segno di questo atteggiamento di sottomissione al reale di Freud, è stato


quello di riconoscere che, dato che nell’uomo il maggior numero di fenomeni psichici si
riferisce apparentemente a una funzione di relazione sociale, non c’è modo di escludere
quella via che per ciò stesso apre ad essi il più comune degli accessi: cioè la
testimonianza dello stesso soggetto di tali fenomeni.” 75

“Ci si domanda del resto su che cosa il medico di allora fondasse l’ostracismo di
principio da cui ai suoi occhi è colpita la testimonianza del malato, se non nella sua stizza
di dovervi riconoscere come volgari i propri pregiudizi. Si tratta appunto
dell’atteggiamento comune a tutta una cultura che ha guidato l’astrazione analizzata più
sopra come quella dei dotti: per il malato come per il medico, la psicologia è l’ambito
dell’immaginario nel senso di illusorio; dunque, ciò che ha una significazione reale, e
quindi il sintomo, non può essere psicologico che in apparenza.”

“Freud comprende che proprio questa scelta rende senza valore la testimonianza
del malato. Se si vuole riconoscere una realtà propria alle reazioni psichiche, non bisogna
cominciare con lo scegliere fra di esse, ma bisogna cominciare dal non scegliere più. Per
misurare la loro efficienza bisogna rispettarne la successione. Certo non si tratta di
restituirne la catena per mezzo del racconto, ma il momento stesso della testimonianza
può costituirne un frammento significativo, a condizione che si esiga l’integralità del suo
testo e che lo si liberi dalle catene del racconto.”

“Si costituisce così ciò che si può chiamare esperienza analitica”

“… legge di non sistematizzazione, che, ponendo l’incoerenza come condizione


dell’esperienza, accorda una presunzione di significazione a tutto uno scarto della vita
menta, cioè non soltanto alle rappresentazione di cui la psicologia di scuola vede solo il
non-senso: scenario del sogno, presentimenti, fantasmi della fantasticheria, deliri confusi
o lucidi, ma anche a quei fenomeni che, essendo del tutto negativi, non hanno in essa,
per così dire, uno stato civile: lapsus del linguaggio e azioni mancate.”

“È questa stessa esperienza a costituire l’elemento della tecnica terapeutica, ma il


medico può proporsi, se ha un po’ il senso teorico, di definire ciò che essa apporta
all’osservazione. Avrà allora più di un’occasione per meravigliarsi, se è questa la forma di
stupore che nella ricerca risponde app’apparizione di un rapporto così semplice da
sembrare sottrarsi al pensiero.

“Il dato di questa esperienza è innanzitutto quello del linguaggio, un linguaggio, cioè un
segno. Il problema di ciò che significa è ben complesso, quando lo psicologo lo riferisce
al soggetto della conoscenza, cioè al pensiero del soggetto.” 76

“Ma lo psicoanalista, per il sol fatto di non staccare l’esperienza del linguaggio dalla
situazione che questa implica, quella dell’interlocutore, va a toccare il semplice fatto che il
linguaggio prima di significare qualcosa significa per qualcuno. Per il solo fatto che egli è
presente e ascolta, quest’ultimo che parla gli si rivolge, e dato che impone al suo
discorso di non volere dir nulla, resta ciò che quest’uomo gli vuol dire. Infatti, ciò che dice
può non avere alcun senso, ma ciò che gli dice ne nasconde uno.” (77. Corsivo a
segnalare il gli: transfert e enunciazione (gli dice: dire; dice: detto)

“Notiamo incidentalmente che questi rapporti, offerti dall’esperienza


dell’approfondimento fenomenologia, sono ricchi di direttive per ogni teoria della
coscienza, in speciale modo quella malata, mentre il loro incompleto riconoscimento
rende caduche la maggior parte di tali teorie.”

“Se il soggetto lo continua (il monologo), è in virtù della legge dell’esperienza; ma si


rivolge forse sempre all’uditore veramente presente, o piuttosto a qualcun’altra,
immaginario ma più reale: al fantasma del ricordo, al testimone della solitudine, alla statua
del dovere, al messaggero del destino?”

“Ma anche nella sua reazione al rifiuto dell’uditore, il soggetto tradirà l’immagine che gli
sostituisce.” 78

“Intanto, quanto più queste intenzioni diventano espresse nel discorso, esse si
mescolano con testimonianze su cui il soggetto le fa poggiare, le rinforza, fa loro riprender
lena: in esse egli formula ciò di cui soffre e ciò che ora vuol superare, confida il segreto
dei suoi scacchi e il successo dei suoi disegni, giudica il suo carattere e i suoi rapporti
altri. Egli informa così dell’insieme della sua condotta l’analista, che testimone egli stesso
di un suo momento, vi trova una base per la sua critica. Ora, ciò che con tale critica
questa condotta mostra all’analista, è che in essa agisce in permanenza quella stessa
immagine che vede sorgere nell’attuale.”

“Nella misura in cui la richiesta prende forma di arringa, la testimonianza si allarga nei suoi
appelli al testimone: sono dei puri racconti che appaiono “fuori dal soggetto”, quelli che il
soggetto getta ora nel fiotto del suo discorso, gli eventi senza intenzione e i frammenti dei
discorsi che costituiscono la sua storia, e fra più disgiunti, quelli che aggiorno dalla sua
infanzia … ma quella stessa immagine che il soggetto rende presente con la sua condotta
e che incessantemente vi si riproduce, il soggetto la ignora, nei due sensi della parola, e
cioè: non sa che ciò che ripete, lo consideri o no come suo, nella sua condotta, è
spiegato da tale i magie, - e misconosce questa importanza dell’immagine quando evoca
il ricordo che essa rappresenta.”

“Ora, mentre l’analista finisce di riconoscere questa immagine, il soggetto, attraverso il


dibattito che porta avanti, finisce di imporgliene il ruolo. Questa è la posizione da cui
l’analista trae la potenza di cui disporrà per la sua azione sul soggetto.” 79

“Egli (l’analista) opera sui due registri della delucidazione intellettuale per mezzo
dell’interpretazione, e della manovra affettiva per mezzo del transfert; ma il fissarne i
tempi spetta alla tecnica, che li definisce in funzione delle reazioni del soggetto; e il
regolarne la velocità spetta al tatto, che avverte l’analista del ritmo di tali reazioni.”

“Discussione del valore oggettivo dell’esperienza.”

“Lavoro da illusionista, si dirà, se appunto il suo frutto non fosse quello di risolvere
un’illusione. Al contrario la sua azione terapeutica va definita essenzialmente come il
doppio movimento per cui l’immagine, inizialmente diffusa e spezzata, è regressivamente
assimilata al reale, per essere progressivamente disassimilata dal reale, cioè ristabilita
nella realtà che le è propria. Azione che testimonia dell’efficienza di questa realtà.”

“Ma, si dirà, se non è lavoro illusorio è semplice tecnica e, come esperienza, la meno
favorevole all’osservazione scientifica perché fondata sulle condizioni più contrarie
all’oggettività. Infatti abbiamo appena descritto questa esperienza come una costante
interazione fra osservatore e oggetto: è appunto nel movimento che il soggetto gli
comunica tramite la sua intenzione, che l’osservatore è informato di quest’ultima, e
abbiamo anzi insistito sulla primordiali di questa via; inversamente l’osservatore, con
l’assimilazione che favorisce fra se stesso e l’immagine, sovverte dall’origine la funzione
di questa nel soggetto; ora, egli identifica l’immagine precisamente nel progresso di
questa sovversione; e non abbiamo neppure velato il carattere costitutivo di questo
processo.” 80

“Questa assenza di riferimento fisso nel sistema osservato, questo uso, per
l’osservazione, del movimento soggettivo stesso, che ovunque altrove è eliminato come
fonte dell’errore, ha l’aria di suonare come sfida al buon metodo.”

“E più ancora, ci si lasci dire la sfida che in ciò vediamo ai buoni usi e costumi.
Nell’osservazione che riferisce, l’osservatore può nascondere che cosa impegna della
propria persona: in altra sede le intuizioni delle sue scoperte portano il nome di delirio, e
noi soffriamo intravvedendo da quali esperienze proceda l’insistenza della sua
perspicacia. Senza dubbio le vie attraverso cui la verità si scopre sono insondabili, ed è
capitato di veder dei matematici confessare di averla vista in sogno, o di essersi imbattuti
in lei in qualche triviale collisione. Ma decenza vuole che se ne esponga la scoperta come
fosse venuta da un procedimento più conforme alla purezza dell’idea. La scienza, come la
moglie di Cesare, non va sospettata. Del resto, da tempo il buon nome dello scienziato
non corre più rischi; la natura non sa più svelarsi sotto figure umane, e ogni progresso
della scienza ha cancellato da sé un tratto antropomorfico.”

“Gli elementi di una determinazione positiva sono stati così introdotti fra le realtà
psichiche che una definizione relativistica ha permesso di oggettivare. Questa
determinazione è dinamica o relativa ai fatti di desiderio.” 85

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