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Filosofia, cioè vita…

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Filosofia, cioè vita…


Emidio Spinelli

1. Ci sono libri che lasciano il segno, che non possono non stimolare ri-
flessioni, che suscitano e alimentano la discussione, non solo fra e per gli
addetti ai lavori, ma anche per chi ama coltivare una sana curiositas per il
passato, se non addirittura e perfino per quell’invenzione anglofona del
general reader, di cui tanto oggi si auspicherebbe l’esistenza e anzi la dif-
fusione capillare. E questo testo di Giuseppe Cambiano, riproposizione
attesa e benvenuta de La filosofia in Grecia e a Roma (dopo tanti, troppi
anni dalla prima edizione Laterza, nel lontano 1983), merita di essere col-
locato in una categoria così utile e importante1.
Non è infatti un resoconto piatto di un sapere cruciale come quello
dell’antichità classica, ma una presentazione attenta, in più punti vivace
e insieme trasversale di temi centrali delle filosofie antiche. Cambiano
colloca subito la sua posizione in discontinuità rispetto a modelli di let-
tura del mondo antico di grande impatto, primo fra tutti quello di Pierre
Hadot2. Nonostante gli indubbi meriti dello studioso francese, Cam-
biano mette in guardia dal rischio di cadere in analisi evanescenti, anzi
perfino edificanti, troppo debitrici di posizioni storicamente circoscritte
(quelle di Seneca, Epitteto e Marco Aurelio) poi estese quasi come una
chiave di ricerca universale a tutte le correnti filosofiche antiche, ma
soprattutto ancorate a un’immagine di fondo sostanzialmente religiosa.
Cambiano non vuole istituire linee di continuità automatiche fra dog-
mi filosofici e comandamenti della tradizione monastica, perché ciò fa
perdere di vista la pluralità delle opzioni antiche, il loro carattere com-
petitivo e soprattutto la dimensione argomentativa, la forza dei lógoi o
discorsi. Porre attenzione all’aspetto argomentativo significa rompere
ogni forzata «patina di uniformità» alla Hadot (p. 10) e scoprire che il
discorso filosofico antico si rivela coessenziale alla pratica di vita, che

1
G. Cambiano, I filosofi in Grecia e a Roma. Quando pensare era un modo di vivere,
Bologna, Il Mulino, 2013.
2
Per analoghe osservazioni critiche sulla lettura di Hadot, cfr. anche C. Horn, L’arte
della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici, a cura di E. Spinelli,
Roma, Carocci, 2004.
«Iride», a. XXVII, n. 73, settembre-dicembre 2014 / «Iride», v. 27, issue 73, September-December 2014
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la filosofia è in quei contesti bíos, appunto, pur nella prolifica diversità


delle soluzioni proposte.

2. Date queste premesse e fissati questi obiettivi – perseguiti in tutto il


libro con una dovizia di rinvii testuali e di precisi elementi di dettaglio,
estesi anche a filosofi e pensatori spesso considerati minori, se non mini-
mi –, Cambiano si preoccupa nel capitolo I di seguire con cura Le meta-
morfosi del filosofo. Fatte salve le difficoltà classificatorie di stabilire se
i primi (cosiddetti) filosofi siano davvero tali e riconosciuta la centralità
di Aristotele quale primo autore preoccupato di definirli tali alla luce
di un suo personalissimo concetto di filosofia (senza alcuna presunta e
anacronistica pretesa di oggettività storiografica)3, Cambiano individua,
al di là e anzi contro un uso impersonale o perfino «commerciale» del
sapere da parte dei sofisti, un vero punto di svolta: Socrate. Il ritratto
che ne danno Senofonte (almeno in parte) e soprattutto Platone con-
sente di individuare in lui la nascita del bíos filosofico, di un modo di
vita che nella ricostruzione platonica si alimenta di tappe successive e
coordinate: dall’élenchos confutatorio come liberazione dall’ignoranza
all’apprendimento di nozioni basilari (alimenti dell’anima o mathéma-
ta), sulla via che, grazie alla spinta dell’éros e alla potenza della dialetti-
ca, porta allo sforzo di assimilarsi a Dio. L’ipoteca platonica sulla figura
di Socrate si fa ancora più forte quando, con un gesto destinato ad avere
lunghissima posterità, egli fonda un luogo per la realizzazione di tale
bíos: l’Accademia, la scuola, non nel senso istituzionale, ma come condi-
zione di possibilità esistenziale per lo stare insieme, per la synousía che
diventa symphilosophéin, filosofare insieme in cerca della verità, senza
imposizioni dogmatiche4. Su queste basi e contro modelli concorrenti
forti e radicati in Atene, quale la scuola di Isocrate, si muove Aristote-
le. Egli pone la garanzia della felicità nella vita filosofica, esercitata in
un’autosufficiente scholé e comunque nella dimensione della pólis, dedi-
ta a quella theoría che si volge a oggetti divini e fa acquisire una scienza
che diviene habitus, da condividere sempre nell’atmosfera della scuola,
il Liceo. La superfetazione della theoría è invece il bersaglio della dottri-
na epicurea, che si preoccupa piuttosto della dimensione soteriologica
della vita filosofica. Essa è condotta non più entro le strutture (sempre
meno salde) della pólis, ma nella sicurezza della comunità degli amici o
phíloi; il suo fine è una forma raffinata di piacere, inteso come assenza di
dolore, garantito da una corretta scienza della natura e dall’eliminazione

3
Per una serie di riflessioni interessanti sugli albori della filosofia in Grecia cfr. anche
M.M. Sassi, Gli inizi della filosofia: in Grecia, Torino, Bollati Boringhieri, 2009.
4
Ottime considerazioni al riguardo in E. Berti, Sumphilosophein. La vita nell’Accade-
mia di Platone, Roma - Bari, Laterza, 2010.
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di vuote opinioni e vani timori, secondo le scelte quotidiane di un sa-


piente che così vive «come un dio fra gli uomini»5. La saldatura so-
cratico-platonica fra virtù e scienza torna fortissima nello stoicismo e
nell’immagine infallibile e perfetta del sophós, modello e insieme figura
limite, che sa tenere tutto sotto controllo, disciplinare i beni esterni,
sempre e comunque stabile, di fronte a qualsiasi evento anche negativo,
vero erede della morale militare, poiché, come scrive Seneca, «vivere è
come fare il soldato. Pertanto quelli che corrono qua e là, e vanno su e
giù per luoghi faticosi e difficili e intraprendono pericolosissime impre-
se, sono uomini forti ed i primi dell’accampamento; invece coloro che si
abbandonano mollemente ad un’inerzia fastidiosa, mentre gli altri si af-
faticano, sono tortorelle, sicuri per il disprezzo di cui vengono coperti»6.
Contro questa «mitica» figura del sapiente stoico si muove la critica de-
gli scetticismi antichi – di marca tanto accademica che pirroniana, senza
dimenticare la verve letteraria di un Luciano, giustamente ricordata da
Cambiano alle pp. 35-36 –, accomunati da una cautela epistemologica
che, di fronte all’ugual forza dei discorsi dogmatici, vero bersaglio della
terapia scettica, impone alla vita filosofica la scelta della sospensione del
giudizio, salvo poi cercare una via d’uscita per la prassi affidata a cri-
teri «deboli», come quelli del ragionevole (Arcesilao) o del persuasivo
(Carneade) o di un’articolata osservanza delle norme della vita quotidia-
na (Sesto Empirico). Lo spostamento a Roma dell’asse filosofico antico
accentua ancor di più la dimensione della vita pratica7. La filosofia non
è vista come mera professione o vano esercizio intellettuale, ma come
impegno per la res publica (Cicerone) o come servizio da gladiatori, da
Seneca ad esempio, che tuttavia, dopo la rottura con Nerone, recupera
la dimensione dello «sguardo teoretico» rivolto tanto alla natura quanto
e soprattutto a una costante «auscultazione» del sé. La prospettiva della
scuola filosofica come «casa di cura», del resto, non manca neppure in
Epitteto, mentre più complessa e sofferta appare la riflessione di Marco
Aurelio, dedita a un sé visto nel suo legame con il cosmo e dunque infi-
nitamente piccolo, non ipertrofico e spesso solitario. L’io che in Plotino
si dedica a un’attività teoretica totalizzante, ma ancora sorretta dalla
forza della ragione, delinea un sapiente-filosofo che è altro e si sottrae

5
Cfr. la chiusa dell’Epistola a Meneceo, 135, nonché, su questa forma speciale di
«assimilazione a Dio», le considerazioni di M. Erler, Epicurus as deus mortalis. Homoiosis
theoi and Epicurean Self-Cultivation, in D. Frede e A. Laks (a cura di), Traditions of Theo-
logy. Studies in Hellenistic Theology, Its Background and Aftermath, Leiden - Boston, Brill,
2002, pp. 159-181.
6
Seneca, Epistola 96, 5 (Lucio Anneo Seneca. Lettere a Lucilio, a cura di U. Boella,
Milano, TEA, 1994, p. 765).
7
Per alcuni spunti interessanti si veda S. Maso, Filosofia a Roma. Dalla riflessione sui
principi all’arte della vita, Roma, Carocci, 2012.
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al «sortilegio» del mondo sensibile, in una fuga dalle cose che pone la
felicità unicamente nell’anima (non discesa) e nel suo ritorno all’Uno,
in un’estasi «da solo a solo». A questo spazio plotiniano ancora e solo
filosofico si aggiunge e forse perfino si sostituisce, nel successivo neo-
platonismo, ad esempio in Giamblico e Proclo, una svolta teurgica, che
sposta il baricentro della vita del sapiente verso la magia, la preghiera,
le pratiche religiose, mezzi privilegiati per il contatto con la divinità, fin
quasi all’equiparazione fra il filosofo pagano e il santo cristiano8. Come
sottolinea giustamente Cambiano, però, «il cristianesimo segnò la fine
della figura del filosofo e della pretesa del primato avanzata dalla vita
filosofica» (p. 46), in quanto faccenda solo umana, legata al peccato su-
perbo di una curiosità inopportuna, vana, che disconosce Dio, come
mostra Paolo, e, come dice Clemente Alessandrino (che pure reinte-
gra buona parte della filosofia pagana, cristianizzandola), ignora la vera,
nuova «dieta dell’anima» rivelata da Cristo, unico vero maestro interio-
re, in una prospettiva di didattica dell’interiorità fortemente ribadita an-
che da Agostino e destinata a far sì che «il monaco eremita diventava il
vero erede del filosofo puramente ideale del Teeteto platonico» (p. 51).

3. La lunga vicenda del pensiero antico viene analizzata da Cambiano


secondo una prospettiva di attenta contestualizzazione storica, sociale e
politica nel capitolo II: I filosofi nelle città e nell’impero. Ciò che viene
ben evidenziato è la relazione dialettica (non sempre pacifica né positi-
va: si pensi paradigmaticamente all’ostentata marginalità dei cinici9) fra
l’eccezionalità del bíos filosofico e la normatività della condotta entro gli
apparati istituzionali delle póleis prima e della compagine imperiale poi.
Cambiano si concentra sul «caso Socrate» e sulla complessa reazione
di Platone, che si trasforma in una «vocazione al potere» sorretto dal
possesso di un sapere sommo che attinge all’idea del Bene; soprattutto,
però, Cambiano coglie nel segno quando, valutando a dovere la novità
della soluzione di chi era meteco e non cittadino a pieno diritto, affer-
ma che «l’opera di Aristotele può anche essere letta come un grandioso
tentativo di disinnescare le micce del platonismo e di costruire i linea-
menti di un filosofo che non intende porsi in competizione con la città

8
Per un panorama aggiornato e tematicamente esaustivo delle tendenze sviluppatesi
all’interno del neoplatonismo antico, cfr. ora R. Chiaradonna (a cura di), Filosofia tardoan-
tica, Roma, Carocci, 2012.
9
Per una rilettura del cinismo antico originale e politicamente orientata alla rivaluta-
zione del sé – soprattutto alla luce dello strumento dirompente della «licenza nel parlare»
o parrhesía, legata alla volontà di costruire il proprio bíos come una forma di vraie vie –,
cfr. la riflessione dell’ultimo Foucault: M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al
Collège de France (1982-1983), Milano, Feltrinelli, 2009 e Id., Il coraggio della verità. Il
governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Milano, Feltrinelli, 2011.
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storicamente esistente, ma coesistere pacificamente con essa» (p. 75). Se


la prospettiva aristotelica è un’effettiva apertura alle credenze dei più,
la soluzione stoica all’opposto segna una dicotomia insanabile fra gli
stolti e la figura del saggio, eccezionale, capace di un totale dominio di
sé, che, affrancandosi interiormente, fa a meno delle strutture istituzio-
nali. Questa linea di «rimozione del politico», sentito come «carcere»
da evitare, Cambiano la vede realizzarsi massimamente nella filosofia
epicurea10. Essa cerca un porto sicuro non negli affanni della vita politi-
ca, ma nel clima di amicizia condivisa dalla comunità del Giardino, se-
condo una tendenza inevitabilmente in rotta di collisione con la volontà
di attiva partecipazione del civis Romanus o degli intellettuali operanti
nelle province, tanto di età repubblicana (Cicerone) quanto di epoca
imperiale, come mostrano exempla rilevanti: Seneca e Marco Aurelio o,
nell’epoca felice di Nerva e Traiano, Dione di Prusa e ancor più Plutar-
co. Vengono intanto a incrociarsi e sovrapporsi due fenomeni distinti:
da una parte, la crescente professionalizzazione dell’insegnamento fi-
losofico e, dall’altra, la comparsa di figure nuove di itineranti uomini
divini (Apollonio di Tiana), frutto di una progressiva affermazione della
dimensione magica, teurgica, religiosa a scapito di quella stricto sensu
filosofico-razionale, che pure era stata ancora il nerbo dell’esegesi di un
«Platone senza politica» offerta da Plotino, modello di una marginalità
segnata dal desiderio, già centrale nel Fedone, di «dischiodarsi dal corpo
per inchiodarsi a Dio» (p. 98). Sarà il peso crescente della predicazio-
ne cristiana a segnare infine un discrimine radicale rispetto alle pretese
di eccezionalità dei filosofi pagani, poiché «diventare cristiani significa-
va anche annullarsi come minoranza eccezionale per confondersi nella
moltitudine indifferenziata del volgo» (p. 101), seguendo quella apertu-
ra alle genti già propria della predicazione paolina.

4. Gli strumenti dei filosofi: oralità e scrittura: è questo il capitolo III,


completamente nuovo rispetto all’edizione del 1983; esso contiene con-
siderazioni interessanti sugli strumenti mediante cui la filosofia si è fatta
ascoltare e leggere nel mondo antico. Cambiano analizza infatti la doppia
dimensione dell’oralità e della scrittura, ben consapevole, tuttavia, che la
prima rappresentò sempre e comunque una componente diacronicamen-
te forte dell’attività dei filosofi in Grecia e a Roma. Ciò è vero per le ri-
flessioni dei cosiddetti presocratici, che, pur nella frammentarietà estrema
del poco che ci è restato, mettono se stessi al centro della vicenda filoso-
fica o anche dei sofisti, che usano sì la scrittura come strumento di azione

10
Si tratta di un’immagine tradizionalmente legata all’epicureismo, ma forse da ricon-
siderare e ripensare, alla luce ad esempio delle conclusioni di G. Roskam, Live Unnoticed
(Lathe biosas). On the Vicissitudes of an Epicurean Doctrine, Leiden - Boston, Brill, 2007.
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retorico-politica, ma che non rinunciano allo sfoggio dell’esibizione orale


o epídeixis. Chi invece per scelta non scrive nulla, con un gesto forte più
volte ripreso da filosofi successivi (si pensi solo a Pirrone, Arcesilao, Car-
neade), è Socrate, la cui prassi è orale, fatta di incalzanti domande e rispo-
ste. Si tratta però di una scelta che ha paradossalmente come conseguenza
la proliferazione di esempi di un nuovo genere letterario: quei lógoi Sokra-
tikói, che vogliono difendere l’immagine socratica e farne un exemplum,
ponendosi come alternativa ad altri strumenti comunicativi (non solo
poesia e prosa, ma anche la produzione teatrale). Se la dissimulazione
dialogica è cifra distintiva della scrittura di Platone, in lui resta costante
un atteggiamento di cautela, se non di diffidenza verso il libro, che non va
eliminato, ma di certo controllato: l’unica accettabile superficie scrittoria
è infatti l’anima, dove far agire la comunicazione orale. La diffidenza ver-
so lo scritto cade con Aristotele. Cambiano fa giustamente notare come
la biblioteca del sapere delle opere aristoteliche «di scuola» a noi giunte
si basi sul linguaggio della descrizione e della classificazione sistematiche,
affidate a canovacci di appunti per l’insegnamento orale. In età ellenistica
la scrittura, tranne il caso della diatriba cinica, si stacca dal modello dia-
logico e diventa sempre più il luogo o delle polemiche dottrinali o della
ripresa di antiche forme poetiche (come l’Inno a Zeus di Cleante) o, come
in Epicuro, della comunicazione differenziata del sapere filosofico, secon-
do il duplice registro della prosa tecnica (nei 37 libri Sulla natura) o della
divulgazione per tutti di epistole e massime. Sempre in ambito epicureo,
ma ora romano, la poesia con Lucrezio, fedele alle chartae del maestro11,
torna a essere il mezzo «dolce» con cui diffondere il verbo atomistico, me-
dicina di salvezza contro i vani timori della religio. Per Cicerone, invece, i
libri, i suoi molti libri hanno, da una parte, utilità pedagogica, sociale, «va-
loriale», in primis politica e, dall’altra, mirano, grazie a uno sforzo di in-
novazione terminologica, a traghettare la filosofia greca nel mondo latino,
senza rinunciare all’eleganza e al diletto, spesso con la ripresa di modelli
dialogici platonici (o aristotelici), ma debitamente riadattati all’esigenza
scettico-accademica di esporre tesi in utramque partem. Se è vero che lo
scritto filosofico si fa costruzione del sé e del proprio progresso morale,
come nel caso letterariamente eccezionale delle Epistole di Seneca, o testi-
monianza raffinata di un ripiegamento interiore (Marco Aurelio), altret-
tanto innegabile è che nei primi secoli dell’età imperiale esso assume an-
che la funzione di conservazione filologica di materiale antiquario e ancor
di più di trasmissione accurata del sapere originario delle scuole: nasce
così la grande età del commento, in cui «filosofare senza letture e senza

11
Fino all’eccesso di una sorta di integralismo dottrinale? Così sostiene, con forza,
D.N. Sedley, Lucretius and the Transformation of Greek Wisdom, Cambridge, Cambridge
University Press, 1998.
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libri era un’irrealtà» (p.  152)12. Questo elemento scolastico ed erudito,


evidente nella sistematizzazione che Porfirio dà della «filosofia parlata» di
Plotino, si salda in Giamblico alla rivalutazione della tradizione pitagorica
e all’esaltazione del sapere orientale/egizio, mentre l’esigenza di tradurre,
conservare, commentare, «tesaurizzare» il patrimonio greco si afferma in
ambito latino, con accenti diversi e più o meno enciclopedici, in Mario
Vittorino, Calcidio, Boezio, Macrobio. L’oralità non viene meno neppure
in ambito cristiano, dove tuttavia cruciale è il peso del libro, strumento
per veicolare e conservare la Rivelazione. Ciò alimenta la ricca letteratura
apologetica o eresiologica, ma serve anche alla costruzione di una teologia
cristiana, che non rifiuta l’apporto della filosofia pagana e delle sue forme
scrittorie (Giustino, Clemente Alessandrino, Origene). Un caso a parte,
per Cambiano, è forse (e giustamente) Agostino. Egli, spingendosi oltre
l’imitazione del dialogo platonico mediato dai correttivi ciceroniani, offre
con le sue Confessioni un unicum nel panorama letterario antico, a metà
fra diario intimo, dialogo con Dio ed elevata trattazione teorica, senza
tacere del primo esempio di teologia della storia affidato alle pagine de-
scrittive, valutative, spesso ironiche o sarcastiche della Città di Dio.

5. Per costruire la propria identità occorre guardare indietro, che si voglia


abbracciare la continuità o cavalcare la diversità: i molti esempi antichi
di tale atteggiamento popolano le ricchissime pagine del capitolo IV: I
filosofi e l’uso del passato. Nonostante le oggettive difficoltà di circolazione
delle idee, polemica o accettazione di tesi dei predecessori si colgono sin
dall’epoca presocratica. Il rapporto con il passato diventa però elemento
stabile e strutturale quando la figura del filosofo si rende autonoma: dun-
que da e con Socrate, ma soprattutto con e per Platone. Egli rende sempre
più presente la discussione di teorie colte precedenti, magari raggruppa-
te e contrapposte secondo esigenze interne a questo o quel dialogo, ma
con la prospettiva di far emergere la soluzione propriamente platonica (si
pensi paradigmaticamente al Sofista), a sua volta soggetta a critica all’in-
terno dell’Accademia stessa. Una svolta nella relazione dialettica con il
passato si ha con Aristotele. Egli combatte sì alcune tesi filosofiche pa-
radossali, ma integra poi come punto di partenza ineludibile del proprio
pensiero gli éndoxa, opinioni non solo dei dotti, ma anche dei più, da cui
partire per giungere, quasi teleologicamente, alla soluzione (ovviamente
tutta aristotelica) dei problemi affrontati: così «più che uno strumento di

12
Per comprendere a fondo la svolta di pensiero segnata da questa nuova «età del
commento» basilari restano le pagine di P. Donini, Testi e commenti, manuali e insegna-
mento: la forma sistematica e i metodi della filosofia in età postellenistica, ora in Id., Com-
mentary and Tradition. Aristotelianism, Platonism, and Post-Hellenistic Philosophy, a cura
di M. Bonazzi, Berlin - New York, De Gruyter, 2011, pp. 211-281.
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controllo, il passato filosofico era per lui uno strumento di conferma, an-
che se solo parziale e limitato. Era infatti un passato segnato da equivoci,
ingenuità, soluzioni insufficienti» (p. 170). Questo atteggiamento di aper-
tura e selezione di posizioni precedenti si consolida in Teofrasto, in opere
perdute ma di cruciale importanza, come Sulle sensazioni e soprattutto
le Opinioni dei fisici, per non parlare della cristallizzazione di alcuni tipi
di abito morale da lui operata in un’operetta significativamente intitolata
Caratteri. Qui nasce la dossografia antica, che offre lunghi e utili elenchi
di problemi e soluzioni, di filosofi e non, contribuendo così alla formazio-
ne di un vocabolario di fondo e di un repertorio concettuale sempre più
condiviso. A questo filone s’intrecciano poi sia l’interesse per la biografia
degli autori, sia la classificazione delle scuole o hairéseis, utile a demarcare
scelte filosofiche di fondo più o meno dogmatiche, sia infine la ricostru-
zione «diadochistica» del passato mediante la successione delle cariche
istituzionali a capo delle scuole filosofiche. Qui Cambiano analizza con
cura autori forse minori, come ad esempio Sozione e le sue Successioni dei
filosofi, ma non meno cruciali per chiunque intenda occuparsi seriamen-
te del pensiero antico; né egli trascura i filoni polemici nei confronti del
passato filosofico, negato ad esempio nella netta, ma discutibile, rivendi-
cazione di indipendenza teorica sbandierata da Epicuro o «riaggiustato»,
parassitariamente e polemicamente, nelle reti di opposizioni dogmatiche
costruite dalla tradizione scettica e soprattutto da Sesto Empirico, pre-
occupato di salvaguardare l’originalità assoluta del proprio pirronismo e
pronto a riconoscere quale punto di riferimento debolmente normativo
solo le istanze della vita comune. Quando il sapere filosofico trasloca a
Roma il passato si popola di nuovi eroi: o campioni di una sapientia radi-
cata nelle leggi e nelle istituzioni (si pensi al ruolo di Scipione in Cicerone
o di Catone l’Uticense in Seneca, il quale si apre sì all’influsso del passato,
perfino epicureo, ma con la consapevolezza di avere di fronte delle guide
e non dei padroni); oppure grandi modelli greci di saldatura fra teoria
e prassi, contro ogni falso esibizionismo cinicheggiante, quali Socrate e
Diogene nelle Diatribe di Epitteto. Un altro Socrate, tuttavia, comincia
a farsi strada: quello ispirato dal demone, il cui recupero, da una parte si
lega al progetto ambizioso di Antioco, volto a ricostruire l’unità profon-
da della tradizione filosofica, da Platone agli Stoici, da cui viene espulsa,
oltre alla scuola epicurea, la «mala pianta» dello scetticismo accademico
e, dall’altra, sbiadisce di fronte alla celebrazione della potenza teorica del
«divino Platone», punto di partenza e di arrivo in Plotino, impegnato a
chiarificare il testo platonico e a liberarlo da false o pericolose interpre-
tazioni. Alla centralità platonica si affianca il ritorno a Pitagora e il pri-
mato di un sapere sacerdotale/religioso in Giamblico, mentre in Proclo è
il Platone teologo, scrittore ispirato e quasi oggetto di culto, a dominare
le fasi finali della vicenda del neoplatonismo, dopo l’ultimo, fallimentare
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tentativo messo in atto dall’imperatore Giuliano per arginare l’avanzata


del cristianesimo mediante l’esaltazione di una lontana e unitaria radi-
ce filosofica pagana, rintracciata addirittura in Apollo. Ancora una volta
sono i cristiani a cambiare le carte in tavola, definitivamente. Essi, infatti,
o fanno piazza pulita delle molteplici voci del passato filosofico pagano,
considerato un cumulo assurdo di errori di fronte all’unità assoluta della
verità rivelata, oppure ne tentano un recupero funzionale, disarticolando,
come fa Origene, «la compattezza dei corpi dottrinali delle scuole filo-
sofiche» (p. 205), presentando la fede cristiana come compimento degli
imperfetti tentativi di accostarsi al vero di certi autori pagani (Platone su
tutti, come mostra Agostino) e dunque aprendo la strada a una selezione
non certo disinteressata di questa o quella tesi, purché compatibile con il
messaggio cristiano. Insomma, frantumata l’unità del bíos filosofico pa-
gano, gli autori cristiani si sentono legittimati a isolarne le dottrine, «ma
senza implicare in alcun modo l’adesione a una scuola filosofica nella sua
globalità, neppure al platonismo» (ibidem).

6. La Conclusione del lungo periplo che, servendosi come bussola del-


la visione antica della filosofia come modo di vita, Cambiano compie
intorno e dentro il variegato panorama del pensiero antico difende in
primo luogo l’innegabile coloritura greca che segna il lessico, l’apparato
concettuale, gli snodi problematici, le strutture argomentative della tra-
dizione filosofica occidentale. Questa impostazione ripropone dunque
il tema, molto caro a Cambiano, del presentarsi a noi degli antichi e
del nostro volgerci verso di loro, secondo modalità di appropriazione
sempre diverse e molto spesso per nulla neutrali13. Si tratta però di un
influsso che ha progressivamente e poi definitivamente dimenticato la
scelta della vita filosofica come bíos totalizzante, avendo abbracciato
la strategia cristiana, all’opera sin dai Padri e poi rafforzata in età me-
dioevale in vista del primato della sola vita all’insegna del Cristo, di
disarticolazione fra filosofo, da una parte, e filosofia, dall’altra, con la
messa a disposizione di «un corpo impersonale di dottrine» cui attinge-
re con libertà per scopi ben diversi da quel coinvolgimento totalizzante
proprio del pensatore antico (e qui giustamente Cambiano richiama,
come caso paradigmatico, le varie «utilizzazioni cristiane dello scetti-
cismo antico»: p. 214). Poche sono state le eccezioni rispetto a questa
uniformizzazione della filosofia, ridotta a professione e confinata nelle

13
Basti pensare, nella sua produzione, a Il ritorno degli antichi, Roma - Bari, Laterza,
1988; Polis. Un modello per la cultura europea, Roma - Bari, Laterza, 2007; Perché leggere
i classici. Interpretazione e scrittura, Bologna, il Mulino, 2010. Per una recente (e «militan-
te») difesa, perfino sul piano didattico, del valore dell’antico, cfr. anche L. Canfora, Gli
antichi ci riguardano, Bologna, il Mulino, 2014.
652 Emidio Spinelli

aule universitarie (colpevolmente, avrebbe aggiunto Schopenhauer): la


più evidente (ed etimologicamente eccentrica) è sicuramente rappresen-
tata da Nietzsche, cui Cambiano dedica pagine molto lucide. Nietzsche
è tornato a fare del filosofo un grande uomo, un individuo ecceziona-
le, non paragonabile ad alcuno e ad alcunché, non universalizzabile
dunque, pena un abbassamento della sua grandezza; e nel far questo
anch’egli ha guardato alla Grecia, ponendo specificamente come «stelle
di prima grandezza» e ancor di più come «tiranni dello spirito» soprat-
tutto i cosiddetti pensatori pre-platonici, loro sì modelli di quei «filosofi
dell’avvenire» capaci di dire sì alla vita e di superare così il decadimento
che platonismi e cristianesimi hanno imposto alla tradizione occidenta-
le. Il ritratto nietzscheano, per quanto affascinante, oltrepassa e tradisce
tuttavia, secondo Cambiano, il vero senso del bíos filosofico antico, che
celebra non il singolo, ma il tipo dell’individuo filosofo, esemplare e ri-
producibile grazie alla forza della sua universalità normativa: in Grecia
e a Roma, infatti, «sottolineare l’eccezionalità non equivale necessaria-
mente a rivendicare una singolarità irripetibile e radicalmente originale»
(p. 225). Questo tratto del pensatore antico – senza andare nella direzio-
ne opposta (e pure talvolta percorsa, secondo Cambiano, da Cartesio a
Feuerbach, da Croce e Gramsci all’etica della virtù di MacIntyre) di una
banalizzante estensione a tutte le attività e a tutti gli uomini delle capa-
cità filosofiche – sembra sfuggire tanto a Jaspers, preso dalla sua idea
di una vita filosofica intesa come irriducibilità dell’esistente, quanto a
Foucault, troppo legato all’irripetibilità della singolarità e a una sorta di
eccessivo «estetismo del sé»14. Il pensiero successivo, pur abbeverandosi
selettivamente alla grecità, insomma, avrebbe smarrito la vera compren-
sione del bíos filosofico antico, anche se, chiosa con una frecciata con-
clusiva Cambiano, «paradossalmente una parte dei filosofi moderni, che
ha preso le distanze dai modelli antichi di vita filosofica, è tornata però a
indossare le vesti dell’antico sofista capace di parlare di tutto» (p. 227).
Un’ultima considerazione, in chiusura: questo libro non è un vuoto
esercizio accademico, ma un esempio riuscito di come si possa coniu-
gare, da un’angolatura del tutto speciale, l’approccio problematico e
la riproposizione diacronicamente distesa di alcuni snodi centrali del
pensiero antico. Anzi, per dirla con le parole dell’autore, esso «non è
dunque una storia della filosofia antica, intesa come esposizione sistema-
tica delle principali dottrine enunciate dai filosofi antichi. È piuttosto il
tentativo di illustrare alcuni aspetti di un problema, che nella migliore

14
Qui Cambiano si rifà a un giudizio, per nulla tenero invero, sull’impostazione gene-
rale delle analisi di Foucault relative al mondo antico che Hadot esprime, individuando in
essa «una nuova forma di dandysmo versione fine Novecento» (P. Hadot, Esercizi spiritua-
li e filosofia antica, Torino, Einaudi, 2002, p. 176).
Filosofia, cioè vita… 653

delle ipotesi è trattato solo marginalmente nelle storie della filosofia,


ossia che cosa significava essere filosofi nel mondo greco e romano» (p.
11), con uno sguardo che non si muove dall’esterno, ma che sa entrare
dentro la concretezza del bíos.

Philosophy, i.e. Life…

By examining step by step the rich material provided by Giuseppe Cambiano’s


fine global reconstruction in his I filosofi in Grecia e a Roma. Quando pensare era
un modo di vivere, this paper aims to reinforce the idea that the main distinctive
feature of the ancient thought was not a mere and vain concept of philosophy as
a sort of exstrinsic or parochial job, but rather a deep and neverending work on
the self, that is, an all-inclusive «art of life».

Keywords: Ancient Philosophy, Art of Life, Philosophical Schools, Communica-


tive Skills, Use of the Past.

Emidio Spinelli, Dipartimento di Filosofia, Sapienza Università di Roma, Via Carlo Fea 2,
00161 Roma, emidio.spinelli@uniroma1.it.

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