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fabbriche invisibili

Sociologia dell'Organizzazione (Università degli Studi di Padova)

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Capitolo 3
1.Evoluzione e diffusione del lavoro a domicilio in Italia
I contesti nei quali si sviluppa il lavoro a domicilio sono caratterizzati da una cultura patriarcale, ostacolo al
lavoro retribuito per una forza-lavoro femminile, e ad altri fattori come la carenza di servizi sociali per la
riduzione di lavoro di cura.
Il settore dell’abbigliamento è tra i settori manifatturieri maggiormente interessati al decentramento
domestico.
Mentre la produzione meccanizzata nelle fabbriche è orientata alla realizzazione di volumi elevati, la
produzione domestica punta all’elevata qualità, alla cura dei dettagli che accrescono il valore di mercato
della merce.
Contestuale aumento della meccanizzazione e del lavoro a domicilio, contemporaneamente alla
diminuzione del numero di imprese e dei minori impiegati nella produzione industriale (1876-1903).
In epoca fascista, il ricorso al lavoro a domicilio avviene in misura sempre maggiore da parte delle imprese
operanti nell’industria dell’abbigliamento mentre la meccanizzazione dell’industria tessile rende
progressivamente marginale l’utilizzo di questa forma di produzione.
In Italia il lavoro a domicilio si espande proprio in relazione alla diffusione della macchina da cucire.
Maggiore è stata la funzionalità del lavoro a domicilio all’interno dello sviluppo capitalistico, maggiore è
stato il suo occultamento nelle statistiche ufficiali
Il settore tessile è quello maggiormente interessato al decentramento a domicilio, poi il settore meccanico e
quello chimico.
La diffusione del lavoro a domicilio è causata dall’aumento della produzione di confezioni in serie che
innesca un riassetto del processo produttivo: servono meno macchine e quelle che vengono messe da parte
all’interno delle aziende sono poi trasferite a domicilio, incrementando l’espansione di questa forma di
produzione.
Negli anni 50 si ha una nuova fase del lavoro a domicilio: la lavorante a domicilio diventa anche portatrice di
capitale in quanto è costretta a pagare le macchine che dalla fabbrica vengono trasferite al domicilio. Si crea
una nuova condizione di dipendenza e sfruttamento delle lavoranti a domicilio.
L’aumento della produzione in serie e la contestuale scomposizione del processo produttivo sollecitano la
nascita di molte piccole imprese specializzate in una o più fasi.
Il lavoro a domicilio permette una cospicua riduzione del costo del lavoro soprattutto per le imprese
committenti di piccole dimensioni e prive di tecnologia avanzata.
In questi anni le lavoratrici godono di scarsa tutela previdenziale e assicurativa e frequenti irregolarità
contrattuali non permettono di maturare i requisiti pensionistici.
Difficoltà nell’analizzare l’effettiva entità del lavoro a domicilio a causa della mancanza di controlli ispettivi
nelle abitazioni e per le irregolarità. Le diverse indagini hanno evidenziato che non è sul livello tecnologico
del processo produttivo nella fabbrica che si gioca il decentramento a domicilio ma sulla scomponibilità
dello stesso processo.
L’attività a domicilio diventa funzionale sia per produzioni che richiedono l’apporto di valore aggiunto,
attraverso la lavorazione della merce, sia per lavorazioni parzialmente meccanizzate e sia per lavorazioni di
merce interamente prodotta in serie ma composta di diversi pezzi assemblati. Lavorazioni che richiedono
abilità manuali, precisione e capacità di concentrazione riconosciute come parte del corredo femminile.

2. L'articolazione su base regionale del lavoro a domicilio


Si osservano alcuni casi regionali per tentare di ricostruire la dinamica del lavoro a domicilio in Italia.
Il contributo maggiore per quanto concerne la quantificazione economica di questa forma di produzione e
l’analisi delle condizioni di lavoro presenti nell’ambito del decentramento produttivo è contenuto nel
volume di Frey: “lavoro a domicilio e decentramento dell’attività produttiva nei settori tessile e
dell’abbigliamento in Italia” (1975). L’indagine curata da Frey si svolge tra la fine del ‘73 e l’inizio del ‘74 in
tutta Italia. Essa pone in evidenza la struttura manifatturiera nel tessile-abbigliamento e il sistema di
gerarchie e dipendenze che lo caratterizza.
In Piemonte sono 17mila le unità di lavoro a domicilio, in tutte le attività manifatturiere. L'indagine svolta

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pone in evidenza la presenza di una vasta area di lavoro sommerso delle lavoratrici a domicilio nel tessile,
non assorbibile all’interno delle fabbriche.
In Lombardia Frey indaga vari aspetti riguardanti questa forma di produzione (inchiesta poi compiuta su
tutto il territorio nazionale): il genere, la differenza retributiva rispetto al lavoro in fabbrica, copertura
assicurativa, i settori coinvolti nel decentramento a domicilio e la localizzazione delle lavoranti.
Frey individua 4 forme di lavoro a domicilio
1. sottoccupazione economica
2. Disoccupazione che diventa sottoccupazione
3. Offerta di lavoro potenziale che diventa offerta implicita
4. Lavoro straordinario non tutelato
L’indagine evidenzia un quadro molto differenziato nelle diverse province, anche a livello retributivo; la
retribuzione è differente tra le lavoranti in fabbrica e quelle a domicilio; nel tessile il ricorso al lavoro a
domicilio è molto vantaggioso per le imprese di medie e grandi dimensioni per il basso costo del lavoratore;
a domicilio anche lavorazioni commissionati da imprese dell’industria meccanica.  Dagli anni ‘70 la
scomposizione del processo produttivo e il decentramento a domicilio sono presenti in tutto il comporto
manifatturiero. Fry rileva che la mancata copertura assicurativa dell’infortunio e delle malattie professionali
è dannosa per i lavoratori a domicilio occupati nell’industria calzaturiera, a causa dei collanti nocivi utilizzati.
Negli anni ‘70 a Mantova vi è lo sviluppo industriale e nei comuni depressi (aree rurali) i finanziamenti agli
insediamenti produttivi favoriscono la frammentazione dell’attività imprenditoriale e la dispersione
territoriale delle imprese e della forza-lavoro in esse occupata. L'espansione del lavoro a domicilio in
quest’area è dovuta alla scarsità di servizi pubblici per la riduzione del lavoro di cura ma anche al generale
contenimento salariale che impone alle donne di lavorare da casa (attività fuori casa antieconomica).
In Veneto il lavoro a domicilio è diffuso in tutte le province specialmente Padova, Venezia, Vicenza e Treviso.
Le più interessate sono l’industria tessile, abbigliamento e calzaturiera. Il Veneto caratterizzato dalla stretta
prossimità tra insediamenti rurali e industriali e dalla scarsità di patrimoni da dedicare all’iniziativa
imprenditoriale, il decentramento di una o più fasi del processo produttivo a domicilio rappresenta un
elemento strutturale della dinamica manifatturiera. Meno meccanizzato è il processo produttivo, maggiore
è il ricorso al lavoro a domicilio.
In Emilia-Romagna: “modello Emilia” caratterizzato dalla compresenza di “disintegrazione produttiva e
integrazione sociale”. Mostra fratture riguardo alla condizione femminile: le donne sono occupate nelle
lavorazioni tipiche delle aree rurali e poi nei settori manifatturieri che vi si insediano. A mediare
tra le lavoratrici e l’impresa committente c’è spesso il gruppista che distribuisce il lavoro sulla base delle
diverse fasi di lavorazione e poi recupera i pezzi. Questa mediazione impedisce alle lavoratrici di contrattare
le tariffe di cottimo poiché manca un rapporto diretto con il committente. C’è un’elevata meccanizzazione:
l’investimento in macchinari grava totalmente sulle lavoratrici che devono farsi carico della loro rapida
obsolescenza. Stagionalità e moda causano la necessità del ricambio delle macchine che spesso non è
gestibile da parte delle lavoratrici se non attraverso l’indebitamento. L’UDI promuove un’inchiesta sul lavoro
a domicilio finalizzata ad indagare la condizione femminile in relazione all’attività lavorativa e ai servizi
pubblici. Emergono i limiti e le costrizioni che intervengono definire i percorsi di vita e di lavoro delle donne:
donne lavoro a domicilio perché in un futuro prossimo dovranno stare a casa ad accudire i figli e se lavori
fuori non vedi mai la famiglia.
In Toscana: ampia diffusione già dall’800 delle trecciaiole e anche le rivestitrici di fiaschi (tramandata da
madre in figlia e raramente contrattualizzata e adeguatamente retribuita). Costrette a farsi trovare davanti
alla fabbrica alle tre di mattina o passare la notte davanti ai cancelli per caricare i fiaschi su rudimentali
carretti e trasportarli fino a casa. Condizioni di lavoro snervanti e poco sostegno da parte sindacale sono
parte della quotidiana fatica ma sono anche stimolo all’autorganizzazione (dopoguerra le fiascaie formano
una lega di 2mila iscritte). Nel secondo dopoguerra si espanse la produzione di impermeabili tanto da
richiedere un massiccio ricorso al domicilio. L’ attività di mobilitazione si esercita attraverso scioperi per le
condizioni di lavoro e retribuzione. Nel ‘60 per il settore delle confezioni si fissa un accordo sul cottimo con
l’obbligo per i datori di assumere le lavoratrici a domicilio. Nel ‘63 tracollo della produzione di impermeabili,
licenziamenti e sospensione attività lavorativa, spesso senza retribuzione, diventa la norma. Nel ‘65

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sciopero generale delle confezioniste per imporre all’imprenditoria locale il rispetto di quanto stabilito dalla
legislazione in tema di tariffe di cottimo e di copertura contributiva e assicurativa. Negli anni ‘70 si approva
una legge sulla tutela del lavoro a domicilio che si espande e di conseguenza cresce anche l’economia
sommersa.
In Lazio all’inizio degli anni 70 le lavoranti a domicilio sono coinvolte nell’aggiustamento abiti confezionati.
Nell’area romana vi è un decentramento produttivo alimentato dallo Stato e dalla Chiesa cattolica che conta
un organico ingente. La maggior impresa tessile committente del Mezzogiorno decentra la produzione
militare a un’impresa romana che a sua volta spezza le diverse fasi di produzione alimentando imprese e
forza-lavoro a domicilio nei dintorni della città di Roma. Nelle Marche il lavoro a domicilio è ben presente e
integrato nel sistema manifatturiero regionale, nel settore calzaturiero e nelle confezioni. La con-fusione tra
famiglia e attività imprenditoriale legittima l’occultamento dell’occupazione femminile all’interno delle
abitazioni. Carico domestico e di cura, lavoro manifatturiero a domicilio e impegno nell’attività agricola
estendono la giornata lavorativa delle donne. Ci sono taciti accordi tra famiglia e imprenditore nella
gestione della forza lavoro femminile. L’apprendistato nato con finalità formative è utilizzato invece dalle
imprese per risparmiare su salari e contribuzioni. Nonostante l’incessante sfruttamento manca lo stimolo
alla mobilitazione da parte delle lavoratrici a causa del controllo familiare esercitato su di esse. Maggiore è
l’impeto a organizzare la produzione in termini capitalistici maggiore è il bisogno di avere sotto controllo la
forza-lavoro. La famiglia è l’istituzione che legittima l’occultamento del carattere necessario del lavoro di
riproduzione sociale e del ruolo svolto dalle donne.
In Umbria negli anni ‘70 vi è un’inchiesta che mostra la stretta relazione tra la vasta ristrutturazione
industriale in corso, l’aumento dell’area del sommerso e la diffusione del lavoro a domicilio. Le famiglie delle
intervistate a domicilio sono tutte mononucleari (assenza di rete parentale a cui affidare i figli è tra le
motivazioni del lavoro a domicilio).
In Campania il lavoro a domicilio è esteso a molti settori produttivi. Nel ‘74 a Napoli le lavoranti a domicilio
si organizzano e inviano al comitato direttivo della Filtea Cgil una lettera per chiedere un intervento per
contrastare l’offensiva padronale. Il sindacato prende posizione dimostrando una distanza dalla realtà
fattuale e questa inadeguata offensiva sindacale spinge i comitati verso la costituzione di una Lega unitaria
per il lavoro a domicilio. Vengono fatte altre inchieste sulle produzioni a domicilio, quelle di guanti
(decentrata anche la rifinitura dei guanti), la lavorazione del corallo liscio e il lavoro di bucatura,
sfruttamento durante l’apprendistato.
Il livello di istruzione delle lavoranti è molto basso ma non quello dei fratelli delle lavoranti che hanno tutti i
casi un grado di istruzione superiore, quasi sempre la licenza media inferiore o superiore, alcuni vanno
all’Università. È evidente la condizione di marginalità della donna nella famiglia: dovendo affrontare sacrifici
per mandare i figli a scuola, si preferisce mandarvi i maschi perché le femmine tanto si sposano.
Il lavoro in fabbrica non è considerato un’alternativa al lavoro a domicilio, le pessime condizioni di lavoro
presenti in fabbrica ma soprattutto per lo stigma che grava sulle donne che escono da casa per lavorare.
Questa dinamica riproduce la cultura patriarcale.
In Puglia il lavoro a domicilio si alterna all’attività nei campi.
La Sicilia è totalmente scollegata dai centri nazionali della struttura manifatturiera tessile e d’abbigliamento.
La produzione decentrata a domicilio è principalmente destinata al consumo locale. I prezzi di mercato delle
merci lavorate a domicilio sono 10 volte superiori al compenso erogato alle lavoranti. Catania eccelle nel
lavoro del ricamo del merletto, l’apprendistato inizia molto presto (8-10 anni) in famiglia, dalla madre. Nel
tempo il lavoro ha assunto i caratteri della produzione in serie, lavorazione standardizzata, ma le merci finite
sono commercializzate al prezzo delle produzioni artistico-artigianali; quindi alti i margini di profitto dei
committenti. Queste analisi trattano la parte visibile del lavoro a domicilio in Italia, indispensabile a
decostruire la rappresentazione storicizzata del lavoro per ricostruirla con uno sguardo più attento
all’integrazione tra produzione e riproduzione e all’inclusione di tutte quelle forme occupazionali
tradizionalmente considerate interstiziali ma del tutto funzionali allo sviluppo capitalistico. Dopo gli anni ‘70
il lavoro a domicilio è scomparso dal dibattito politico e sindacale ma non dai territori che lo hanno ospitato.
Dagli anni ‘90 è venuta meno la sua incidenza nel sistema manifatturiero, non più decentramento della fasi
della produzione: delocalizzazione della produzione in paesi a ridotte tutele accordate al lavoro

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(sfruttamento forza-lavoro non sindacalizzata con ritmi intensi), immigrazione in alcune aree manifatturiere
italiane di imprenditori per la maggior parte provenienti dalla Cina che ha permesso una riduzione generale
dei prezzi, sostituendo sia la forza-lavoro a domicilio sia parte dei terzisti locali. Dopo il 2000 con il
pensionamento delle lavoratrici a domicilio che hanno iniziato a lavorare negli anni 60/70 è venuto meno il
ricambio generazionale. L’aumento di opportunità occupazionali nel settore terziario e la crescita dei livelli
di istruzione hanno riorientato i percorsi di vita e di lavoro delle donne in molte delle aree manifatturiere
esaminate. Negli anni 2000 la presenza dei lavoranti a domicilio ha un rapido declino.

3. La nocività a domicilio: la polineuropatia da collanti


Negli anni ‘70 si tematizza la nocività che investe il lavoro a domicilio. Il controllo delle attività svolte a
domicilio, diventa un punto cadine della lotta per il varo di norme a tutela di questa forma di produzione.
Negli anni ‘50 insorgono gravi patologie tra i lavoratori dell’industria calzaturiera (indagini di medicina effetti
collanti). Una delle patologie più frequenti è la polineuropatia da collanti; l’utilizzo dei collanti produce la
maggior esposizione al rischio d’insorgenza della polineuropatia (prodotta dall’inalazione di diverse
sostanze nocive, il benzene). Nel 71 l’Oil adotta la Convenzione 136 sulla protezione contro i rischi di
intossicazione dovuti al benzene che impone agli Stati che la ratificano un rigido controllo sull’utilizzo del
prodotto tossico. Gli effetti prodotti dall’inalazione dei collanti è varia e non sempre immediatamente
riconducibile all’attività lavorativa. I sintomi sono: parestesie agli arti, anoressia, cefalea, dimagrimento…
dopo la riduzione della percentuale di benzene nei collanti sono isolati altri agenti nocivi, responsabili
dell’insorgenza di polineuriti, come l’n-esano (componente del petrolio greggio e gas naturale). Nel ‘73 si
forma un comitato delle famiglie delle ragazze paralizzate dai collanti. I comitati sono orientati a stimolare
iniziative di prevenzione, diagnosi precoce, cura, assistenza e reinserimento lavorativo. L’emersione di
questa patologia pone in luce la condizione di sfruttamento che sostiene l’intera economia territoriale. 
Attraverso i comitati prendono voce le donne, emerge così la precarizzazione dei loro percorsi lavorativi e i
nessi tra le pesanti condizioni di lavoro e la subalternità delle donne che si trovano in un contesto marcato
dalla cultura del patriarcato. Mancano controlli all’interno delle imprese del territorio e il bisogno di
lavorare spinge molte lavoratrici a sottovalutare i primi sintomi. La difficoltà a porre in relazione i malesseri
denunciati dalle lavoratrici e le condizioni di lavoro porta molti medici della zona a diagnosticare i casi meno
gravi come esaurimenti nervosi curati con Valium. Il dibattito che negli anni ‘70 si genera tra medici del
lavoro, organizzazioni sindacali e organi ispettivi spinge il Ministero del lavoro a emanare una circolare. Nel
‘76 a Padova i medici del lavoro organizzano un seminario scientifico dedicato alle polineuropatie
nell’industria calzaturiera. Sono presentate diverse ricerche sui lavoratori e casi di polineuropatie. Negli anni
successivi altri studi sono compiuti sulla forza-lavoro occupata nell’industria manifatturiera, uno di questi
effettuato negli anni ‘80 dai medici dell’istituto di medicina del lavoro dell’UniPd, sul rischio da solventi nel
lavoro calzaturiero a domicilio (inquinamento nelle abitazioni dove lavorano). Lavorazioni che sono svolte
nelle cucine in assenza di misure preventive, per cui l’esposizione al rischio non cessa con l’interruzione del
lavoro e coinvolge tutti i componenti della famiglia (inquinamento ambientale residuo). L’utilizzo dei collanti
nocivi è diffuso per lo più tra le lavoratrici senza copertura contrattuale (titolari imprese per non essere
sanzionati fanno acquistare alle lavoratrici i collanti, così l‘impresa non è perseguibile).

4. Il dibattito politico e sindacale sul lavoro a domicilio tra la fine degli anni 60 e gli anni 70
Prima del varo della legge del ‘73 si apre discussione sul lavoro a domicilio: l’Udi (Unione donne italiane) attacca
lo sfruttamento padronale, il Partito comunista italiano, riconosce la mancanza di tutele accordate alle lavoratrici
a domicilio e guarda alle misure di contrasto, senza però alterare gli equilibri esistenti. Tra la seconda metà degli
anni 50 e gli anni 60 il lavoro a domicilio si diffonde nel settore delle confezioni e della maglieria. All’aumento del
numero di imprese corrisponde un aumento del lavoro a domicilio. La crescita della domanda internazionale
spinge molti operai a mettersi in proprio. Il tessuto imprenditoriale si diversifica ma la capacità più richiesta non è
di innovazione ma di lavorare intensamente e produrre quantitativi finalizzati a soddisfare la domanda di
mercato. Il ricorso al lavoro a domicilio e il decentramento a imprese artigiane o industriali specializzate in una o
più fasi della produzione costituiscono le modalità più adottate dall’imprenditoria del settore. Le lavoratrici a
domicilio devono acquistare i macchinari per lavorare e in più (per ridurre i costi del lavoro) e alcuni

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imprenditori impongono alle lavoratrici l’iscrizione all’Albo degli artigiani. Verso la fine degli anni 60 l’Udi
organizza delle iniziative per porre al centro del dibattito il lavoro a domicilio. Sono avanzate rivendicazioni
per regolare le modalità di esercizio del lavoro a domicilio. Le organizzazioni sindacali chiedono che la
lavoratrice sia considerata a tutti gli effetti dipendente e non lavoratrice autonoma. Esse chiedono che siano
attribuiti ai comuni poteri di controllo sulle imprese committenti, la contrattazione delle tariffe di cottimo e
il pieno riconoscimento delle tutele previdenziali e mutualistiche. Secondo i sindacati bisogna rendere
costoso il ricorso del lavoro a domicilio da parte delle imprese e iniziare a organizzare le lavoratrici. Le
rivendicazioni avanzate richiedono la mobilitazione delle lavoratrici a domicilio che rappresenta un
problema : l'atomizzazione della forza-lavoro dispersa a livello territoriale, divisa e separata dalla fabbrica.
La soluzione: la creazione di leghe delle lavoratrici a domicilio su base comunale.
La necessità di costruire un rapporto organico tra lavoratrici a domicilio e operai interni alla fabbrica si
relaziona ai processi di ristrutturazione che maturano in quegli anni, che agiscono con la messa in
competizione della forza lavoro interna con quella esterna alla fabbrica. Tra il 69 e il 73 si realizza il ricorso
sistematico al decentramento produttivo. Esso interessa i grandi complessi industriali ad alto investimento
tecnologico del settore chimico e siderurgico, attraverso la dislocazione territoriale degli investimenti delle
imprese del Nord verso le aree del Mezzogiorno d'Italia. All’interno del PCI e con la mediazione dell’Udi si fa
un'analisi critica sulla funzione del lavoro a domicilio all’interno della struttura socio-economica italiana.
Le analisi guardano limitatamente alle relazioni di genere e al ruolo della donna all’interno dello spazio
sociale ed economico indagato e non tematizzano il nesso esistente tra il lavoro manifatturiero a domicilio e
il lavoro riproduttivo e, il carattere coercitivo del lavoro a domicilio.
Anche all’interno dei sindacati manca una strategia condivisa sul tema del lavoro a domicilio, in più la
frammentazione del tessuto imprenditoriale rende difficoltoso il controllo delle condizioni di lavoro da parte
del sindacato, e la parcellizzazione del tessuto manifatturiero rende difficile anche la mobilitazione delle
lavoratrici (e quindi all’azione rivendicativa del sindacato).

5. Limiti e dilemmi della legislazione sul lavoro a domicilio

Il primo tentativo di regolare il lavoro a domicilio si colloca in epoca fascista.


Nel '23 attraverso la previsione dell'assicurazione obbligatoria contro l'invalidità e la vecchiaia. Nel '27 con
l'approvazione della Carta del lavoro che estende formalmente l'applicazione del contratto collettivo di
lavoro ai lavoratori a domicilio, e con il decreto del '32 si introducono due tipologie distinte di lavoratore a
domicilio (lavoratori in senso stretto e altri lavoratori che pur lavorando in luogo di loro pertinenza possono
servirsi dell'aiuto di dipendenti estranei ai familiari). Questo decreto finisce per favorire la diffusione del
lavoro irregolare. Nel '58 è stata varata la prima legge per disciplinare il lavoro a domicilio che però priva i
lavoratori delle tutele che hanno invece i dipendenti nelle imprese. Nel '73 la legge n.877 che definisce e
regola il lavoro a domicilio. L'obiettivo della normativa è quello di superare l’ambiguità della posizione
giuridica del lavoratore a domicilio, equidistante dal lavoratore autonomo e da quello dipendente. La nuova
legge vieta l’esecuzione a domicilio delle attività che comportano l’uso di sostanze tossiche. Il divieto di
commissionare lavorazioni a domicilio è stato applicato anche alle imprese che hanno licenziato personale
interno, così da impedire che il ricorso alla manodopera a domicilio sia operato per risparmiare sul costo del
lavoro. I titolari delle imprese committenti sono obbligati ad iscriversi in un apposito registro che li classifica
in base alla tipologia delle mansioni affidate a domicilio. Dopo l’iscrizione non esiste forma di controllo che
verifichi l’effettiva cessazione del rapporto lavorativo così diventa impossibile la quantificazione della forza
lavoro occupata a domicilio . Con il decreto del 2008 non c’è più bisogno di iscriversi nel registro dei
committenti per i datori di lavoro che decentrano a domicilio e, sono soppressi gli adempimenti connessi al
registro dei lavoratori a domicilio . Sul piano retributivo la determinazione del salario è effettuata sulla base
della somma dei pezzi prodotti o lavorati, ai quali sono assegnate delle tariffe di cottimo pieno nei Contratti
di categoria dei lavoratori interni alle aziende. Ai lavoratori a domicilio si applicano le norme vigenti per i
lavoratori subordinati in materia di assicurazioni sociali e di assegni familiari. La legge del '73 ha previsto
l’istituzione di commissioni con il compito di accertare le condizioni di svolgimento del lavoro a domicilio.
Nonostante la previsione di strumenti normativi la distanza tra la condizione dei lavoratori a domicilio e

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quella degli occupati interni resta siderale.


Molteplici fattori sono intervenuti a ostacolare la protezione legale del lavoro a domicilio:
1.Di ordine economico, non si volevano eliminare i vantaggi offerti da questa manodopera, che
consentivano ai datori di lavoro di rispondere al potere d'acquisto della classe operaia.
2.Di ordine ideologico, mito liberale, per il quale il lavoro svolto in casa poteva offrire una maggiore
autonomia, dignità e libertà all’operaio, e per le donne nell’ideologia cattolica garantiva la presenza in
famiglia e ne tutelava la moralità
3.La difficoltà della individuazione della figura del lavoratore a domicilio subordinato, distinta da quella del
lavoratore autonomo e dell’artigiano

La negligenza dimostrata dalle istituzioni nell’esigere il rispetto della legge sono riconducibili alla peculiarità
della manodopera a domicilio soprattutto di sesso femminile, poco costosa e precaria, priva di riferimenti
anche dal punto di vista sindacale. Anche con l'entrata in vigore della legge del '73, nonostante il
riconoscimento della coincidenza tra la subordinazione nel lavoro a domicilio e la subordinazione ordinaria,
è rimasta una libertà interpretativa a proposito dei diritti e delle tutele da attribuire alla figura del lavoratore
a domicilio. Poi è calato il silenzio sulla questione fino a metà degli anni '90. Nel '96 alcuni parlamentari
italiani presentano una proposta di legge per la modifica della normativa vigente che consiste
nell'integrazione salariale nei periodi di minore lavoro. Solo dal 2000 ai lavoratori a domicilio sono offerte
delle coperture reddituali in assenza di lavoro, ma giungono in ritardo, quando ormai il lavoro a domicilio
rappresenta un segmento della forza-lavoro marginale nel sistema sociale ed economico.

Capitolo 4
1. Profilo dell'area indagata

L'analisi ha preso in esame le lavoratrici a domicilio residenti all'interno dei comuni della Riviera
del Brenta maggiormente interessati alla produzione calzaturiera, in relazione sia al numero di
imprese e al numero di addetti, sia al rapporto tra la popolazione attiva e quella occupata nel settore.
L'area si estende per 300 km quadrati, lungo l’ultimo tratto del fiume Brenta. L’industria della
calzatura si è configurata come una monocoltura produttiva che si è insediata in modo disperso
assecondando la vicinanza tra imprese e abitazioni e non l’aspetto funzionale alla produzione.
L’industrializzazione non ha intaccato i centri comunali, ma ha generato un generale disequilibrio
nella distribuzione delle attività produttive. Le zone industriali sono ampie ma poco popolate, i
centri si sono modificati in senso disarmonico all’insegna della funzionalità produttiva. La
prossimità delle abitazioni alle fabbriche porta buona parte degli operai e delle operaie a recarsi a
lavoro a piedi, in bicicletta o in motorino. Questa zona calzaturiera è caratterizzata da un’elevata
percentuale di esportazioni: fin dagli anni 70 oltre il 70% della produzione è indirizzata all’export.
Sin dagli anni '20 le lavoratrici a domicilio hanno contribuito in modo silenzioso e invisibile alla
crescita economica, in assenza di riconoscimenti materiali e simbolici, coerentemente con la
divisione di genere imposta dalla cultura patriarcale territorialmente radicata.
Le orlatrici a domicilio della Riviera del Brenta sono denominate “mistre” (versione femminile di
mastro , ovvero una persona esperta che sovrintende la corretta esecuzione di un lavoro fatto da altri
operai). Il lavoro a domicilio accompagna l’intero sviluppo dell’area sin dall’insediamento delle
prime fabbriche ma è solamente dopo la Seconda guerra mondiale che diventa parte strutturale del
sistema manifatturiero locale. L'industria della calzatura si espande fino a diventare una
monocoltura produttiva.

2. Produrre scarpe o emigrare

Per tutto il XIX secolo e fino a metà del XX secolo è il lavoro nei campi l'attività economica
prevalente nell'area che occupa l'attuale distretto calzaturiero (agricoltura di sussistenza).
Il primo calzaturificio è fondato nel 1904 da Voltan, è il primo a introdurre la produzione in serie,
meccanizzata che permette di produrre 1000 paia di scarpe al giorno.

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Durante la prima guerra mondiale, la produzione di calzature non si ferma (scarponi militari
garanzia principale all'espansione del settore). Dopo gli anni '50 ci sono più espatri ma il rientro non
apporta industrializzazione dell'area. L'imprenditoria calzaturiera sembra aver tratto risorse dalla
famiglia, dalla pluralità di redditi convergenti nel bilancio familiare più che dall'espatrio.
Ruolo cruciale per l’industrializzazione dell’area:
a) Disponibilità di manodopera scarsamente qualificata o non qualificata, in condizioni
economicamente incerte e con redditi appena sufficienti alla sussistenza
b) presenza di individui già socializzati alla produzione calzaturiera e con forti motivazioni a
iniziare un’attività imprenditoriale per sfuggire alla fabbrica
c) assenza di barriere all’avvio dell’intrapresa economica
d) povertà dei fondi agricoli che non permette la stessa sussistenza e assenza di sbocchi
occupazionali alternativi all’agricoltura
L'elemento cruciale è l'elevata disponibilità di forza-lavoro (e non i capitali o la tecnologia) per
l'avvio e la continuità delle imprese del settore.
Dal secondo dopoguerra agli anni '60 la produzione dell’area è principalmente rivolta al mercato
interno. Si registra una riorganizzazione della struttura produttiva a livello nazionale.
Negli anni '50 la forza-lavoro inizia a entrare nelle fabbriche (macchine per la cucitura della tomaia
e la manovia) dove la progressiva meccanizzazione permette l’aumento dei volumi produttivi e
spinge l’imprenditoria locale a organizzare la propria rappresentanza.
Nel '61 nasce l'Associazione calzaturieri della Riviera del Brenta (Acrib) destinata a costituire il
principale strumento di rappresentanza delle imprese calzaturiere. L'altro elemento cruciale è il
ruolo svolto dall'alleanza tra Chiesa cattolica, interessi imprenditoriali e politici a livello locale,
combinati con la cultura di matrice patriarcale. Questa alleanza struttura il sistema occupazionale e
disegna le politiche a livello territoriale. Il potenziale di forza-lavoro femminile converge nel lavoro
domestico e di cura a tempo pieno e nel lavoro a domicilio, così da permettere alla forza-lavoro
maschile la piena disponibilità nell’attività lavorativa nell'industria calzaturiera. È su questo
squilibrio è decollata l’area calzaturiera della Riviera del Brenta.
Negli anni '50 il livello di sindacalizzazione dell'area è molto basso, così come il livello di
conflittualità sociale presente. Il livello di politicizzazione è elevato ma non sfocia in rivolta,
nonostante le condizioni di lavoro siano intollerabili.
Nella Riviera del Brenta (Gottardi '78) nascono molte imprese specializzate in una o più fasi di
produzione o di lavorazione, grazie alla struttura del processo produttivo composto da diverse micro
fasi, facilmente, scomponibili e decentrabili in più unità produttive.
Nel '68 si arresta il periodo di crescita occupazionale e dimensionale delle imprese.

3. Decentramento produttivo e divisioni di genere

Le crisi energetiche degli anni '70 accentuano le difficoltà di tutto il comparto manifatturiero, a
causa del rialzo del prezzo delle materie prime. La locale industria calzaturiera a causa del calo di
consumi e della concorrenza italiana e straniera sperimenta una flessione negativa dell’occupazione.
Negli anni '70 la base manifatturiera del settore è interessata a due dinamiche interdipendenti:
1. decentramento di una o più fasi di produzione o di lavorazione da parte dei calzaturifici
2. nascita di nuove imprese specializzate nell’esecuzione di una o più fasi di produzione e nella
componentistica
Piccole imprese nate su base familiare che producono per conto delle imprese calzaturiere della
zona ma anche per committenti europei.
L’intero processo produttivo si presta ad essere frammentato e decentrato all’interno di diverse
imprese specializzate, giustificato dal fatto che negli anni '70 abbandonano la produzione
standardizzata favorendo una produzione di qualità medio-fine.
Negli anni '80 la produzione calzaturiera conosce un’elevata espansione, aumenta il fatturato delle
imprese. Questo periodo è concomitante con la crisi del fordismo e l'affermazione di nuovi modelli
produttivi con le politiche neoliberiste degli USA e UK che definiscono il nuovo paradigma di

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politica economica su scala globale.


L'industria della moda promuove nuovi stili di vita e influenza anche l'organizzazione del lavoro
delle imprese (collezioni pret-à-porter per allargare il numero di consumatori e aumentare i profitti).
La trasformazione dei consumi comporta una revisione dell’organizzazione del lavoro:
-impiego di forza-lavoro intensivo e flessibile (lavoro straordinario)
- espansione lavoro a domicilio
- risparmio sui costi interni per la variabilità della domanda a livello globale e aumento delle
imprese di fase e lavoratori autonomi
In questo periodo vi sono 5 tipi di imprese: calzaturifici con marchio proprio, calzaturifici operanti
con marchio proprio e contratti di licenza con le griffe, calzaturifici operanti solo con contratti di
licenza, imprese di fase, imprese di accessori e componenti commerciali.
Vi è una rigida divisione di genere nelle imprese e tra le diverse imprese di fase:
nei tomaifici lavorano solo donne mentre all'interno delle fabbriche le donne occupano i reparti di
orlatura e fissaggio. A domicilio lavorano solo le donne (cura dei particolari, orlatura..).
Il decentramento a domicilio si espande ulteriormente: alla manodopera occupata nelle abitazioni è
anche affidata la lavorazione di parti, che una volta avvenivano nei calzaturifici poi decentrata alle
imprese terziste che la commissionano alle lavoratrici a domicilio.
Il ricorso sistematico al lavoro a domicilio, attraverso un rapporto di committenza diretto o indiretto
(terzisti), garantisce all’imprenditoria calzaturiera la riduzione dei costi interni e la disponibilità di
manodopera flessibile ed altamente specializzata.

4. Delocalizzazione e ricomposizione del sistema occupazionale

Dagli anni '90 nascono le holding di lusso, destinate al controllo del mercato.
L'industria calzaturiera è meno interessata alla qualità delle materie prime e della lavorazione e fa
più attenzione al contenuto stilistico e al fattore moda, seguendo i dettami delle griffe internazionali.
Dopo l’espansione delle esportazioni, seguita alla svalutazione monetaria del '92, per avere
opportunità più vantaggiose (- costi + volumi) alcune imprese decentrano all’estero alcune fasi del
processo produttivo.
Competenze, mezzi e capitali sono trasferiti in alcuni paesi dell’ex blocco sovietico dove minori
sono i diritti accordati ai lavoratori e inferiore è il costo del lavoro.
Dagli anni 90 i flussi migratori portano all’aumento della popolazione straniera ma essi hanno solo
dei riflessi parziali sull’occupazione nell’industria calzaturiera; le giovani generazioni entrano
sempre meno nel settore.
La cultura imprenditoriale è rimasta però ancorata a schemi paternalistici e patriarcali e ostile
all’investimento nella formazione delle maestranze, alla sperimentazione di nuovi modelli di
organizzazione del lavoro e allo sviluppo di una visione strategica, funzionale all’attivazione di
politiche di valorizzazione della produzione locale.
Con l’inizio degli anni 2000, l’adozione dell’euro pregiudica, l’utilizzo della leva monetaria come
strumento di sostegno alle esportazioni. L'industria calzaturiera italiana si trova a concorrere con
nuovi produttori collocati nei paesi in fase di industrializzazione, avvantaggiati per le grandi riserve
di forza-lavoro sprovviste di coperture contrattuali.
Nell’area esaminata, l' insediamento di imprese avviate da imprenditori cinesi hanno ridotto il
numero dei tomaifici autoctoni. L’espansione dell’imprenditoria cinese è stata alimentata dalla
riduzione dei prezzi e dei tempi delle unità prodotte da parte dei titolari dei calzaturifici, sempre
però con sistemi di sfruttamento e autosfruttamento.

5. le orlatrici si raccontano
6.
L'attività lavorativa delle donne non è mai lineare, interseca i bisogni di cura altrui e i dettami
dell’ordine patriarcale. Le intervistate si definiscono a tutti gli effetti lavoratrici occupate in un
luogo di lavoro alternativo alla fabbrica, cioè la propria abitazione.

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Le interviste hanno portato in luce anche aspetti dell’esperienza di vita connesse agli imperativi
patriarcali e alla cultura basata sull’etica del lavoro e dell’arricchimento.
L'indagine composta da due fasi:
1° fase nel '98, i temi principali del questionario hanno riguardato la socializzazione e
l’apprendistato, la vita quotidiana, l’organizzazione della vita lavorativa e il bilanciamento
vita-lavoro, il trattamento retributivo, la nocività connessa all’attività e le aspettative personali.
Hanno esplorato gli elementi materiali di questa forma di produzione
2° fase tra il 2012 e il 2015, dieci interviste in profondità a lavoratrici a domicilio, indirizzata a
indagare quanto non sufficientemente emerso nel corso della prima fase, con attenzione alla
dimensione del genere e ad esplorare gli elementi di criticità connessi alla dinamica intercorsa nel
periodo che separa le due fasi.

6. Quantificare l'invisibile

L’entità e la localizzazione del lavoro a domicilio risultano di difficile configurazione a causa


dell'invisibilità intrinseca alla forza-lavoro occupata in questo segmento lavorativo. Nella Riviera
del Brenta, l’espansione più accentuata del lavoro a domicilio si colloca nei primi anni '70.
Tra il '69 e il '73 il settore calzaturiero conosce una profonda crisi e il sistema produttivo espelle
forza-lavoro dalle aziende e decentrano parte della produzione a imprese terziste e lavoratrici a
domicilio. Nel '73, nel settore calzaturiero, tra Padova e Venezia sono state stimate circa 1500
lavoratrici a domicilio, si tratta però di un dato parziale che non comprende le lavoratrici che
figurano, invece, iscritte nell’Albo degli artigiani.
Negli anni 2000 il numero di lavoranti a domicilio è gradualmente sceso, sia per l’avvio dei
tomaifici di imprenditori cinesi e sia il progressivo miglioramento nella gestione e nell’esecuzione
dell’orlatura nei paesi interessati alla delocalizzazione.
Da una stima dell’Acrib le lavoratrici a domicilio nel 2015 sono circa 200
Manca una sistematizzazione dei dati, funzionale a stabilire le unità lavorative interessate al lavoro
a domicilio, che possono essere solo stimate.

7. A casa, obtorto collo

Negli anni '70 la struttura produttiva si diversifica, seguendo una divisione del lavoro in base
all’appartenenza di genere. Il lavoro a tempo pieno non bilancia il carico del lavoro riproduttivo,
l’attività lavorativa a domicilio rappresenta l’unica fonte di sostentamento, per buona parte della
forza-lavoro femminile, poco qualificata e scolarizzata, residente all'interno dell’area.
Il lavoro a domicilio rappresenta un percorso obbligato per molte donne sposate e con figli.
Per le donne senza carico di lavoro di cura, la scelta del lavoro a domicilio rappresenta l’opzione
migliore alla fabbrica, in cui vi è insofferenza per i ritmi di lavoro e l’ambiente, ma in realtà non è
del tutto una scelta.
La mancanza di sbocchi occupazionali diversificati e le pressioni della famiglia, ostacolano la
partecipazione al mercato del lavoro, autonoma, disgiunta dagli imperativi patriarcali.
La lavoratrice a domicilio assicura la riproduzione della forza-lavoro, adeguando le proprie
aspettative alle esigenze del sistema produttivo che si conserva attraverso l’imposizione
dell’adeguamento ai modelli tipici della famiglia contadina, funzionali ai bisogni del mercato.
I fattori che condizionano l’inizio dell’attività lavorativa a domicilio sono riconducibili alla
socializzazione familiare dei ruoli. L’interdipendenza tra famiglia e industrializzazione ha
rappresentato uno degli elementi distintivi del contesto indagato: dagli anni '70 agli anni '90
l'industria calzaturiera ha costituito l'unica fonte di sostentamento per le famiglie.

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8. “Mistre” non si nasce, si diventa

Molte intervistate, fin da piccole hanno avuto modo di imparare le tecniche relative all'orlatura della
tomaia da qualche parente.
L'apprendistato dura da uno a tre anni. La lavorazione della tomaia richiede precisione e
dimestichezza da parte della lavoratrice. Durante l'apprendistato le lavoratrici sono socializzate alla
divisione del lavoro sulla base dell'appartenenza di genere.
L'inizio dell'attività lavorativa retribuita si colloca in un'età inferiore ai 20 anni, per tutte le
intervistate. Le giovani che si recano ad imparare il lavoro della mistra, non ricevono alcun
incentivo economico, spesso devono corrispondere un compenso all'orlatrice anziana.
Dopo l'apprendistato, vi è il reperimento dell'impresa committente. I contatti con le imprese si
acquisiscono grazie all'opera di mediazione di familiari, amici e conoscenti.

9. Tomaie, lavori domestici e cura dei familiari

L'attività di lavoro indagata riguarda la fase dell'orlatura della tomaia: 35 diverse operazioni, svolte
dalle lavoratrici a domicilio, con l'aiuto di macchine per cucire. Il basso investimento tecnologico
richiesto nella fase di lavorazione esaminata ne facilita il decentramento all'interno delle abitazioni.
Si inizia con lo studio del modello da lavorare, ed il tempo dedicato allo studio non è retribuito.
La lavoratrice è chiamata a rimborsare le tomaie (alta qualità) eventualmente danneggiate.
Le lavoratrici sono in continuo contatto con l'impresa committente per il reperimento del materiale
da lavorare e per la consegna di quello lavorato. Fino ai primi anni '80 è lo stesso titolare a curare la
distribuzione, inviando un addetto (figura poi scomparsa) a raccogliere le commesse lavorate.
Sulle lavoratrici a domicilio gravano i costi e i tempi relativi al trasporto e agli spostamenti tra
l'abitazione e l'impresa committente ed il costo delle attrezzature.

10. Tempi di lavoro, e... di vita?

La coesistenza di lavoro salariato e riproduttivo impone alle orlatrici a domicilio una rigida
organizzazione dei tempi di vita: dalla gestione dell'organizzazione familiare a quella
manifatturiera.
Il vissuto familiare si sovrappone senza soluzione di continuità a quello lavorativo, all’interno della
stessa cornice di riferimento che è l’ambiente domestico
La perdita della cognizione del tempo lavorativo rappresenta un rischio sempre presente ed è
riconducibile alla familiarità del contesto riproduttivo che fonde nella stessa dimensione spaziale e
temporale l'attività manifatturiera e il lavoro domestico e di cura.
L’autogestione dei tempi di lavoro di chi produce a casa è più fittizio che reale: le esigenze familiari
e le scadenze per la consegna del materiale lavorato, impongono una scansione dei ritmi di vita
poco compatibile con una gestione autonoma della quotidianità.

11. In fabbrica...mai

Le lavoratrici non hanno intenzione di andare a lavorare in fabbrica.


Tante intervistate sono contro l’assoggettamento imposto dalla catena di montaggio, i ritmi
pressanti derivanti dal regime patriarcale che continua a ordinare gerarchie e riprodurre
discriminazioni e molestie.
A volte è il vissuto dei familiari ad alimentare il rifiuto all’omologazione del sistema-fabbrica.
Nonostante riconoscano la presenza di maggiori tutele previdenziali e un miglior trattamento
economico riservato alla manodopera interna, le intervistate si oppongono all’eventualità di
svolgere l’attività all’interno dell’azienda. Esse preferiscono la discontinuità reddituale e la
possibilità di adattare i propri tempi con quelli imposti dalla produzione manifatturiera e dalla
famiglia ma a casa, senza il controllo vigile di capi.

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12. Collanti e nocività dentro casa

Le lavoranti a domicilio effettuano l'orlatura delle tomaie all'interno della propria abitazione. Vi è
una notevole dispersione degli odori dei collanti nell'ambiente domestico, con conseguenze gravi
nel caso in cui il luogo di lavoro coincide con la sala da pranzo (poche intervistate), con il rischio di
incendio dei collanti e la commistione di alimenti e sostanze nocive.
Dal punto di vista giuridico, è vietato l'uso di sostanze nocive pericolose all'interno delle abitazioni.
Tra le stesse lavoratrici emerge una diffusa sottovalutazione del rischio derivante l'uso dei collanti a
base organica. Le intervistate non mostrano preoccupazione riguardo alla nocività dei collanti
utilizzati. L'assuefazione dei solventi è stata parte del loro vissuto.
La patologia riscontrata più frequente tra i lavoratori e le lavoratrici del settore calzaturiero è la
polineurite. Coinvolti anche bambini assuefatti all'inalazione dei collanti, e le gestanti che
utilizzavano i collanti hanno avuto aborti o parti prematuri -pratica vietata nelle aziende-(anni
86/87).
A partire dagli anni '90 la maggior consapevolezza delle lavoratrici ha portato a una riduzione del
fenomeno. Dalla seconda metà degli anni '90 si sono diffusi i collanti a base acquosa (allungamento
dei tempi di lavorazione, retribuzione a cottimo->vantaggio economico per lavoratrici).
Per molti anni, nonostante il divieto, sono state le imprese committenti a distribuire il collante
nocivo alle lavoratrici. Viene riscontrata un'altra patologia causata dall'uso dei collanti: la sindrome
del tunnel carpale e del canale cubitale. Svantaggio per le lavoratrici a domicilio: la loro salute e
quella dei loro familiari non è tutelata adeguatamente (assenza di controlli da parte dei funzionari
delle strutture sanitarie). Mancano o sono eseguiti in termini sporadici i controlli sulla condizione di
salute delle lavoratrici, a carico dell'impresa committente.
L’ambiente domestico occulta la nocività del lavoro al punto da sottovalutare anche visite e
controlli di routine.

13. Divise e contrattualmente deboli

Il rapporto di lavoro che s’instaura tra lavoratrice e titolare dell’impresa è tra compaesani.
Il vincolo di natura giuridica che lega le due parti è subordinato a elementi di natura simbolica
riconducibili a un comune vissuto. La familiarità che li lega rappresenta il principale ostacolo
all’adeguamento della retribuzione all’effettiva prestazione lavorativa.
Nel concreto, solo in pochi casi le tariffe di cottimo vengono stabilite mediante la misurazione dei
tempi di effettiva esecuzione, negli altri casi è il titolare a decidere. Contrariamente a quanto
previsto dalla legge, alle orlatrici non è dato sapere anticipatamente le tariffe di cottimo stabilite per
pezzo. La mancanza di adeguate tutele a sostegno del reddito della manodopera occupata a
domicilio è più evidente dagli anni '90.La divisione della manodopera accentua le difficoltà per
l’azione sindacale. L’isolamento della lavoratrice nel contesto abitativo allontana ogni eventuale
tentativo di ricomposizione degli interessi.

14. Passato presente e futuro

Per sintetizzare il vissuto, gli unici riferimenti sono la vita familiare e il lavoro a domicilio che sono
interconnessi, fino a fondersi in una sola dimensione. Tutte le intervistate sostengono l’istituzione
familiare ma ne riconoscono i limiti, hanno stimolato le proprie figlie ad emanciparsi da dipendenze
nel rapporto con il genere maschile, incoraggiate più dei figli maschi a studiare, a viaggiare e
confrontarsi con molteplici culture e condizioni di vita.
Nel lavoro lo spazio del dissenso è limitato, soprattutto se il reddito che ne deriva è indispensabile,
ci sono i figli da accudire e mancano sostegni per la cura.
Negli anni '80 vi è la trasformazione dell’industria manifatturiera: moda e finanza hanno imposto
tempi e modi di produzione inediti. Il tempo: risorsa cruciale del capitalismo, oggi più di ieri, segna
l’egemonia del contingente. Le imprese hanno alimentato una sorta di “isteria generalizzata” in

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relazione alla continua creazione di desideri di consumo.


Nel tempo, l’alleanza tra capitale, stato e patriarcato attraverso il ricorso e la diffusione del lavoro a
domicilio ha potuto coniugare un duplice sfruttamento nei confronti delle donne, occultando il
valore del lavoro espresso nella sfera produttiva e in quella riproduttiva.

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