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TEMPO ED ETERNITÀ
Norme di sapienza cristiana
______________________________________
Unica versione integrale eseguita sulla prima edizione spagnola dal Sac. Dott. GUALTIERO DISLER O.S.C.
L. I. C. E. - ROBERTO BERRUTI & C. TORINO - Via S. Dalmazzo, 24
Visto nulla osta alla stampa: Torino, 24 Giugno 1933 - Sac. LUIGI CARNINO, Rev. Deleg.
Imprimatur - Taurini, die 24 Junii 1933 - Can. FRANCISCUS PALEARI. Provic. Gen.
INDICE
Prefazione del Traduttore
LIBRO PRIMO.
La natura del tempo e dell'eternità.
CAPITOLO 1. — L'ignoranza riguardo ai beni eterni e temporali 11
CAPITOLO 2. — Quanto sia efficace la considerazione dell'eternità. 17
CAPITOLO 3. — Il ricordo dell'eternità è per sé più efficace di quello della morte. 22
CAPITOLO 4. — Il miserando oblio dell'eternità che hanno gli uomini in questa vita. 28
CAPITOLO 5. – Che cosa sia l'eternità secondo l'insegnamento di S. Gregorio Nazianzeno e di S.
Dionigi. 35
CAPITOLO 6 — Che cosa sia l'eternità secondo Boezio e Plotino. 39
CAPITOLO 7 — Che cosa sia l'eternità secondo S. Bernardo 43
CAPITOLO 8. — L'eternità è senza fine. 51
CAPITOLO 9. — L'eternità è senza mutazione. 63
CAPITOLO 10. — L'eternità è senza confronto. 71
CAPITOLO 11. — Che cosa sia il tempo secondo Aristotele ed altri filosofi. 79
CAPITOLO 12. — Quanto sia breve la vita. 85
CAPITOLO 13. — Che cosa è il tempo secondo S. Agostino. 93
CAPITOLO 14. — Il tempo è l'occasione dell'eternità. 101
CAPITOLO 15. — Che cosa è il tempo secondo Platone e Plotino. 111
LIBRO SECONDO.
La fine del tempo.
CAPITOLO I. — La fine della vita temporale. 117
CAPITOLO 2. — Notabili proprietà della fine della vita temporale. 134
CAPITOLO 3. — Del momento che sta tra il tempo e l'eternità. 154
CAPITOLO 4. — Perché è terribile la fine della vita temporale. 160
CAPITOLO 5. — Dio fa già in questa vita rigorosissimo giudizio. 186
CAPITOLO 6. — La fine di tutto il tempo. 193
CAPITOLO 7. — Come si altereranno gli elementi ed il cielo al termine del tempo. 198
CAPITOLO 8. — Il giudizio universale. 217
CAPITOLO 9. — L'ultimo giorno dei tempi. 225
LIBRO TERZO.
La miseria delle cose temporali.
CAPITOLO I. — La mutazione delle cose temporali le rende degne di disprezzo. 241
CAPITOLO 2. — I mali temporali per grandi e disprezzati che siano possono essere alleggeriti dalla
speranza. 252
CAPITOLO 3. — Si deve considerare a quale stato ciascuno può venire. 257
CAPITOLO 4. — Quanto siano degne di disprezzo le cose temporali. 268
CAPITOLO 5. — La viltà ed il disordine delle cose temporali. 276
CAPITOLO 6. — La piccolezza delle cose temporali. 285
CAPITOLO 7. — Quanto sia miserabile la vita temporale. 300
CAPITOLO 8. — Il poco che è l'uomo nella vita mortale. 323
CAPITOLO 9 — Quanto è ingannevole tutto ciò che è temporale. 333
CAPITOLO 10. — I pericoli e i danni delle cose temporali. 342
LIBRO QUARTO
La grandezza delle cose eterne.
CAPITOLO 1. — Della grandezza delle cose eterne. 353
CAPITOLO 2. — La grandezza dell'onore eterno dei giusti. 363
CAPITOLO 3. — Le ricchezze e il Regno eterno dei cieli. 376
CAPITOLO 4. — La grandezza dei gaudi eterni. 387
CAPITOLO 5. — Quanto sia fortunata la vita dei giusti. 398
CAPITOLO 6. — L'eccellenza e perfezione dei corpi dei Santi nella vita eterna. 411
CAPITOLO 7. — Come si ha da preferire il cielo a tutti i beni della terra. 421
CAPITOLO 8. — Dei mali eterni dei dannati. 433
CAPITOLO 9. — Pene dei dannati riguardo al luogo. 444
CAPITOLO 10. — La pena della schiavitù e la pena del senso. 453
CAPITOLO 11. — Della morte eterna e pena del taglione. 475
CAPITOLO 12. — Frutti che si possono cavare dalla considerazione del mali eterni. 484
CAPITOLO 13. — L'infinita gravità del peccato mortale. 492
LIBRO QUINTO.
Il temporale e l'eterno nelle loro circostanze estrinseche.
CAPITOLO 1. — L'eterno è fine, il temporale è mezzo al fine. 516
CAPITOLO 2. — Dal proprio conoscimento si può conoscere l'uso delle cose temporali ed il poco conto
che dobbiamo farne. 535
CAPITOLO 3. — L'Incarnazione del Figlio di Dio ci convince della stima dei beni eterni. 546
CAPITOLO 4. — La viltà dei beni temporali si scorge dalla Passione e Morte di Gesù Cristo. 556
CAPITOLO 5. — L'importanza dell'eternità per essersi Dio fatto mezzo di acquistarla e per aver di ciò
lasciato in pegno il suo santissimo Corpo. 572
CAPITOLO 6. — L'oggetto delle nostre orazioni siano i beni eterni. 584
CAPITOLO 7. — Quanto fortunati sono coloro che rinunciano a tutti i beni eterni. 594
CAPITOLO 8. — Molti disprezzarono tutto il temporale e vi rinunciarono. 602
CAPITOLO 9. — L'amore che dobbiamo a Dio non deve lasciar luogo né potere all'anima per amare ciò
che è temporale. 610
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PREFAZIONE DEL TRADUTTORE
Una parola di prefazione, per dare la ragione di questa operetta, non mi pare di presentarla
meglio, se non dicendo che Autore ne è il P. Giovanni Eusebio Nieremberg, della Compagnia
di Gesù, il quale in modo veramente meraviglioso riuniva ricchissimo sapere sacro e profano
con grande pietà e zelantissima attività pastorale, e dalla sua penna uscivano sempre unite
prove evidenti di sublimità d'ingegno e di santità di vita.
Giovanni Eusebio Nieremberg fu l'ultimo figlio di nobili e virtuosi genitori. Il padre Goffredo
era tirolese; la madre, Regina Otin, di origine bavarese, era dama di corte dell'imperatrice
Maria d'Austria, figlia di Carlo V e vedova dell'imperatore Massimiliano II. I genitori vennero
a Madrid al seguito dell'imperatrice.
Ivi nacque nel 1590 Giovanni Eusebio, il quale fin dalla sua prima infanzia mostrò singolare
amore alle cose religiose: era di grande mansuetudine ed aveva una grande bontà di cuore.
Fece i suoi studi a Madrid, Alcalà e nell'Università di Salamanca. Studiando ivi lettere e
giurisprudenza, visse insieme con altri giovani virtuosi una vita tutta dedita allo studio e alla
pietà. Sempre più si svegliò in lui la vocazione alla vita religiosa e, corrispondendo alla grazia
divina, con risoluzione decisa ed allegra, entrò nella Compagnia di Gesù nel 1614. Avendo il
padre carpito al Nunzio Apostolico uno scritto con cui si ordinava ai Gesuiti la restituzione del
giovane, questi dovette ritornare alla casa paterna. Ma non potendo i genitori resistere a lungo
alla sua vocazione ardente, ben presto egli poté rientrare nella Compagnia e fu ricevuto nella
Casa di Madrid, dove tosto si distinse per i suoi progressi nella vita spirituale. Dopo i due anni
di Noviziato studiò per otto anni Filosofia e Teologia nel Collegio di Alcalà, insegnando pure
in qualità di scolastico.
Ordinato sacerdote, venne mandata fra i monti della provincia di Toledo a spezzare il pane
della vita e della verità, dove svolse un'attività fecondissima di missionario. Nei suoi viaggi
apostolici si diede pure a studi di scienze naturali, specializzandosi nella botanica e
mineralogia. Si era già acquistato fama come missionario e scienziato, quando fu chiamato a
Madrid per assumere l'insegnamento nelle Scuole Superiori. In un primo tempo insegnò
scienze naturali e filosofia, più tardi anche esegesi. Ma soprattutto egli si diede alla vita di
pietà ed alla direzione delle anime. Durante il suo insegnamento, fu colpito da apoplessia, per
cui perdette l'uso della mano. Ma non per questo si arrestò la sua meravigliosa attività. Il re
Filippo IV lo nominò rettore della Commissione che doveva studiare il mezzo di accelerare la
definizione dogmatica della “pia credenza”, ora dogma, della Immacolata Concezione. Fu per
molti anni Rettore del Collegio Imperiale, poco prima costruito da Filippo IV. Già quasi
nell'agonia e soffrendo dolori orribili nella sua ultima malattia, dettava vari scritti ai suoi
amanuensi, mentre un sacerdote si preparava a leggergli la raccomandazione dell'anima.
La sua erudizione in ogni materia fu prodigiosa e il numero delle opere che lasciò scritte è
quasi incredibile; ma questa stessa fecondità lo rende alquanto diffuso e disordinato nei suoi
scritti. La nota pia caratteristica del P. Nieremberg è l'unzione cristiana delle sue opere, tutte
nate da una profonda meditazione di asceta severo e penitente, come difatti fu durante la sua
austerissima vita.
I titoli delle sue opere possono dare un'idea della sua meravigliosa fecondità (omissis).
Di tutte le sue opere furono pubblicate varie collezioni intere, la prima nel 1651 a Madrid col
titolo “Obras cristianas espirituales y filosóficas”, l'altra a Siviglia nel 1686 ed un'altra a
Madrid nel 1892 in sei volumi. Quasi tutte queste opere videro edizioni nelle lingue pia
diverse del mondo.
Quella però che fra tutte le sue opere ebbe la maggior diffusione per il suo valore intrinseco è
Diferencia entre lo temporal y eterno, pubblicata per la prima volta a Madrid nel 1640.
Quest'opera ebbe un numero rilevantissimo di edizioni. Fino al 1675 se ne contarono già 11,
altre 16 edizioni furono pubblicate in vari tempi fino al 1847 in diverse città della Spagna, di
cui recenti frequentissime si ebbero in Ispagna a Madrid e Barcellona, e nell'America del Sud,
a Buenos Aires, Bogotà, Santiago del Cile. Le edizioni spagnole più recenti sono quelle del
“Apostolado de la Prensa" di Madrid del 1920 e 1927.
Questo libro, comunemente noto sotto il nome di “El Eusebio”, è il più conosciuto fra tutti i
libri del Padre Nieremberg. Poche opere della antica ascetica hanno ottenuto una popolarità
così grande come questa. Molte persone pie non conoscono del P. Nieremberg altro libro che
La diferencia. Questo sogliono leggere spesso e fino ai nostri giorni abbiamo visto molti
parroci che credono compiere il loro sacro dovere della predicazione leggendo al popolo alcuni
capitoli di El Eusebio. Il libro è certamente di molto merito. Le grandi verità soprattutto quelle
che generano il santo timore di Dio, sono dichiarate non solo con esattezza, ma ancora con
una certa energia e solenne eloquenza, che produce un ammirabile effetto nell'animo di tatti i
credenti” (ASTRAIN, Historia de la Comp. de Jesus en la Asistencia de Espana, tom. V, pag.
96-98).
E' un'opera di singolare efficacia ed unzione spirituale che in ogni tempo ha formato fervorosi
asceti ed ha determinato molti ad abbracciare lo stato religioso. A quest'opera si deve la
concezione del poema spagnolo La Atlantida, nel cui prologo l’autore Verdaguer dice che
l'idea gli fu suggerita dalla lettura di quest'opera. Un editore di una delle più recenti edizioni
non esita a dire che è quell'opera che forse ha convertito più anime che lettere che contiene.
In italiano si ebbero solo pochissime edizioni, delle quali la prima fu curata dal P. Brignole
Sale S. J. Ed uscì nell'anno 1657 a Venezia. La medesima fu ristampata senza alcun
cambiamento negli anni 1665, 1672, 1715 (inserita nelle Opere Spirituali) a Venezia, e nel 1681
a Bologna. L'edizione più recente italiana fu, pubblicata nel 1845 dalla Propaganda Fide.
Di tutte queste edizioni italiane è per altro da dirsi che nessuna dà al completo l'originale
spagnolo. Tutte le edizioni posteriori al 1657 non sono altro che una ristampa della prima
traduzione italiana, fatta dal P. Brignole Sale, il quale, ben accorgendosi della verbosità, ed
ampiezza dell'autore, dice che Gli Spagnoli avanzano nella flemma gli Italiani; perciò fanno
per loro libri più lunghi. Gli Italiani nella curiosità superano gli Spagnoli; perciò conviene che
i modi del dire le cose siano talvolta un poco più ricercati. Per il che egli domanda perdono per
aver varcato qualche volta i confini di semplice traduttore, avendo tolto ciò che era già stato
detto, e variato, non per migliorare il cibo, ma per accomodarsi al palato (Prefazione alla
prima edizione italiana).
A differenza delle edizioni italiane finora pubblicate, la presente non è una semplice ristampa,
né un semplice compendio come quelle, ma è una traduzione nuova, fatta sì in lingua corrente
per accomodarsi al palato della maggior parte, senza però, tralasciare nulla di quanto ho
potuto di prezioso ricavare dalla prima edizione spagnola, trovata nella Biblioteca Vaticana.
Sebbene molte cose, si potessero dire più in breve, altre anche tralasciare, come già state dette
prima in altra forma, non mi è sembrato opportuno nascondere ai pii lettori ciò che più volte
ripetuto resta meglio impresso nella mente ed esercita più grande efficacia sul cuore. Non è
questo un libro di lettura che, una volta scorso superficialmente, si abbia a mettere in disparte
per non rivederlo più. Esso tratta dei Novissimi, per spiegare, ponderare ed illustrare i quali
non si spenderà mai tempo soverchio, né basteranno giammai parole, similitudini e
ripetizioni.
Per scendere a qualche punta particolare di quest'opera, conviene fare qui qualche avvertenza,
perché alcuni fatti, affermazioni e narrazioni non cagionino sorpresa al pio lettore. La scienza
ascetica e teologica del P. Nieremberg finisce abbondante e solida come fiume da ogni parte
dell'opera. Egli fu ottimo teologo e nel corso dei secoli non c'è stato nulla da correggere in cose
dogmatiche. Ma è in materia di esempi e narrazioni, addotti per illustrare gli argomenti, dove
s'incontrano qualche volta detti e fatti poco credibili. È questa una caratteristica della
letteratura ascetica spagnola del sec. XVII.
La semplicità ed il pio desiderio d'influire salutarmente sul cuore dei lettori muoveva gli
scrittori dell'epoca a dar di mano a cose che oggigiorno una critica sana non accetterebbe se
non in parte e solo una credulità più che mediocre lascerebbe passare. Ma il P. Nieremberg
non è del secolo XX e nel leggerlo — in materia di tradizioni, racconti ecc. — il pio lettore
dovrà riportarsi con lui al secolo XVII.
Non mancheranno coloro che vorrebbero veder uscire questo libro purgato da tutto ciò che
una sana critica odierna non può più ammettere; ma in cambio sono molto più quelli che
hanno il parere contrario, pensando essi, non doversi mutilare le opere classiche per tali cose.
Mi sono tenuto sulla via di mezzo, togliendo soltanto in pochissimi casi certe interpretazioni
dei titoli dei Salmi, che oggi non si sostengono più, e qualche racconto poco conveniente ad un
libro destinato a tutti.
Unicamente nel desiderio che quest'opera sia di giovamento spirituale alle anime, in vita e
soprattutto nel momento in cui dovranno varcare la soglia dell'eternità, la Pia Unione
Primaria del Transito di San Giuseppe per la salvezza degli agonizzanti ne assunse il compito
della traduzione e pubblicazione, nella sentita convinzione di corrispondere in tal guisa alla
sua nobile missione di contribuire, secondo le sue deboli forze, al bene e alla salvezza delle
anime
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P. G. E. NIEREMBERG S. J.
LIBRO PRIMO
CAPITOLO PRIMO
All’uso delle cose deve precedere la stima di esse, e alla stima la loro cognizione; la quale in
questo mondo è tanto manchevole che non si eleva a considerare le cose celesti ed eterne, per
le quali siamo stati creati. Non fa tuttavia meraviglia che conosciamo queste così poco,
essendo esse tanto inaccessibili al nostro senso. Anzi le stesse cose che vediamo e tocchiamo
sono da noi molto ignorate. Come possiamo comprendere le cose dell'altro mondo, mentre
non conosciamo neppure quelle di questo mondo, in cui ci troviamo? A tal punto arriva
l'ignoranza dell'uomo da non conoscere ciò che crede di saper meglio.
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si trova in tale casa non può vedere né ciò che sta fuori, né ciò che sta dentro perché il fumo gli
impedisce di veder chiaro ogni cosa; così alla stessa guisa succede a coloro che stanno in
questo mondo, i quali non conoscono né ciò che sta fuori del mondo, né ciò che sta dentro di
esso e non intendono né la grandezza delle cose eterne, né la viltà delle cose temporali,
ignorando ugualmente le cose del cielo come quelle della terra. Per mancanza di conoscenza
diminuiscono la stima delle prime, dando alle cose temporali la stima che meritano le cose
celesti e tenendo in tal poco conto queste, come si dovrebbe fare delle cose transitorie e
caduche. Sono essi, dice San Gregorio, tanto lontani dalla verità, che tengono per patria l'esilio
di questa vita, per luce le tenebre della sapienza umana e per soggiorno e dimora il corso di
questo pellegrinaggio. Causa di tutto questo è l'ignoranza della verità e la poca riflessione su
ciò che è eterno, per cui qualifichiamo i mali per beni ed i beni per mali. Per questa confusione
del giudizio umano Davide pregò il Signore di dargli un maestro che gli insegnasse quali siano
i veri beni, dicendo: Chi mi mostrerà i veri beni? (Ps. 4, 6)
Giacché gli uomini ignorano tutto e perfino gli stessi beni del mondo e tutto ciò che tengono di
più fra le mani, ci succede quello che toccò ai figli d'Israele, i quali, vedendo la manna e
tenendola fra le mani, non la conoscevano e si domandavano a vicenda che cosa fosse. A noi
però manca perfino questa curiosità, perché non ci domandiamo neppure che cosa siano le
ricchezze per le quali i mortali si espongono a tanti pericoli di morte.
Che cosa sono gli onori, per i quali i cuori umani si lacerano d'invidia e di ambizione? Che
cosa sono i piaceri per i quali si sciupa tanta salute e si viene a perdere la vita? Che cosa sono
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i beni della terra che possiamo godere solo nel pellegrinaggio d'esilio di questa vita e che
devono scomparire all'entrare nell'altra, come scomparve la manna all'entrare nella terra
promessa? Con ragione Cristo Nostro Redentore nell'Apocalisse chiamò la manna una cosa
nascosta, perché gli Ebrei, pur tenendola nelle loro mani, non la conoscevano. Così sono le
cose di questa vita, nascoste cioè al senso, poiché sebbene le tocchiamo, tuttavia non le
conosciamo. Ne confondiamo la stima, facendo temporali quelle che dovremmo tenere per
eterne e, meno apprezzando queste, per stimare quelle che dovrebbero essere disprezzate.
Mancando la conoscenza delle cose, ne mancherà pure la stima e per conseguenza si sbaglierà
nel loro uso.
Ciò che succede nell'uso delle cose temporali si può riscontrare pure in coloro che mangiavano
la manna. Infatti agli uni essa riusciva disgustosa e provocava il vomito; per altri essa aveva
un sapore dolce ed era il cibo che più desideravano; tanta differenza v'è tra l'uso buono e
cattivo delle cose. E il buon uso di tutte le cose dipende dalla loro conoscenza.
Il viatico sconosciuto.
Si sveglino ed aprano i loro occhi alfine i mortali e conoscano la differenza che esiste tra le
cose temporali e quelle eterne, perché ad ogni cosa diano la dovuta stima, disprezzando tutto
ciò che il tempo distrugge e stimando solo quello che l'eternità conserva; eternità che devono
cercare nel tempo di questa vita e coltivare per mezzo delle stesse cose temporali, il che non
potranno mai conseguire senza la conoscenza delle une e delle altre. In tal guisa, fissando lo
sguardo nell'eterno, che è degno della stima maggiore, conserveranno le cose temporali,
benché queste per sé non meritino alcuna stima, e da caduche e passeggere che
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La vana parvenza.
Alcuni filosofi che considerarono meglio le cose della vita, anche senza riguardo all'eternità,
trovarono in esse molte manchevolezze, che dal sapiente imperatore e filosofo Marco Aurelio
Antonino furono compendiate in tre e cioè nell'essere, fino al raggiungimento del proprio fine,
piccole, mutabili e corruttibili.
Tutte queste condizioni troviamo disegnate nella manna. Infatti la sua piccolezza era tanta,
che, come dice la Sacra Scrittura era minuscola e piccola come una cosa macinata in un
mortaio quando si fa polvere; la sua varietà e mutabilità era tanto
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notevole che, portata dal campo dove si raccoglieva fino al posto dei Duci, se al principio
pesava un quintale, diminuiva e si riduceva ad una piccola misura; per gli uni si condensava,
per gli altri si dilatava; la sua durata era tanto corta che non passava un giorno senza che si
riempisse di vermi e si corrompesse del tutto. Date tutte queste condizioni, costava molta
fatica godere di essa e mangiarla, perché si stancavano nel macinarla bene, nel cuocerla e
assoggettarla ad altri trattamenti. Nella stessa maniera i beni di questa vita, con tutte le loro
manchevolezze, non si ottengono né si godono senza molta macinatura e fatica.
Con tutto questo non tutti gustavano delle qualità che aveva la manna per natura sua, perché
non cercavano di conoscerle. I peccatori infatti ne avevano un gusto limitato e menomato.
Così noi diminuiamo anche il gusto naturale coi nostri vizi, come vedremo a suo luogo. È vero
che essa aveva una buona apparenza, perché, come dicono i Settanta Interpreti, essa era
simile al cristallo, trasparente e lucido, ma questa è pure la condizione dei beni di questo
mondo. Essi hanno cioè splendore ed apparenza, però sono più fragili del vetro; essi sono
menomati, variabili ed incostanti ed hanno mille mutamenti; sono corruttibili, caduchi e
mortali e solo per lo splendore che mostrano al senso, noi li cerchiamo come eterni e grandi.
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giudicò che questo solo fosse sufficiente a stabilire una distanza immensa. Dice infatti:
Immenso è ciò che seguirà senza fine, mentre poco è tutto ciò che finisce. (Lib. Mor. VII, cap.
22) Il medesimo Santo notò che la poca conoscenza e memoria dell'eternità è la causa
dell'inganno degli uomini, i quali stimano i beni falsi di questa vita, mentre non stimano i beni
spirituali ed eterni dell'altra. E dice così: Il pensiero dei predestinati è sempre fisso verso
l'eternità; questi, pur possedendo gran felicità in questa vita, benché non siano in pencolo di
morte, sempre la guardano come presente. (Lib. Mor. VIII, cap. 12) Contrariamente agiscono
le anime ostinate che amano la vita temporale come cosa permanente, perché non intendono
quanto gran cosa sia l'eternità della vita futura.
E siccome non considerano la stabilità di ciò che è perpetuo, tengono l'esilio per patria, le
tenebre per luce e l'albergo terreno per dimora. Coloro infatti che non conoscono le cose
maggiori, non possono neppure giudicare delle cose minori.
Per questo cominceremo ad alzare il velo e a scoprire la distanza che esiste tra i beni della
terra e quelli del cielo per mezzo della considerazione dell'eternità e della misera condizione
del tempo. Di poi passeremo a trattare della viltà di ciò che è temporale e della grandezza delle
cose eterne; poiché, come diceva un filosofo che non vi ha cosa più chiara, né più oscura della
luce, così si può dire lo stesso di altre cose ritenute per molto chiare, le quali non sono
comprese, sebbene siano meno oscure dell'eternità e del tempo. Procureremo quindi di farle
conoscere meglio, aiutati dal lume della fede, dalla dottrina dei santi e dai disinganni dei
filosofi.
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CAPITOLO SECONDO.
S. Agostino chiama quello dell’eternità un gran pensiero, (Enarratio in Ps. 76) perché la
memoria essa è di grande gaudio ai santi, di grande orrore ai peccatori, agli uni e agli altri di
gran giovamento; essa fa operare cose grandi e mostra la piccolezza delle cose passeggere e
caduche di questa terra. Pertanto intendo dar principio con questo lume per scoprire il campo
della meschinità, dell'inganno e della viltà delle cose temporali e raccomandare la
considerazione delle cose eterne, essendo quella che dovrebbe essere maggiormente fissa nella
nostra mente, come la riteneva sua propria Davide, al quale, quando era peccatore, cagionava
orrore e spavento e, quando era santo, lo incoraggiava ad esserlo ancora di più, ricavando
dalla meditazione di essa incomparabile vantaggio per il suo spirito. L'aveva così scolpito nella
memoria che nei suoi Salmi ad ogni istante lo sentiamo ripetere; per sempre, ... eternamente.
... per i secoli dei secoli.
Timore salutare.
A questa eternità il Profeta pensava di giorno e la meditava di notte, questa lo forzava a
gridare al cielo e ad invocare Dio; questa lo rendeva muto dinanzi agli uomini; l'intimoriva, al
solo pensiero, fino allo spasimo, gli amareggiava tutte le gioie della vita, gli faceva conoscere la
miseria dei beni temporali: e, costringendolo a rientrare in sé e ad esaminare la sua coscienza,
lo indusse ad un
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miracoloso mutamento di vita, cominciando a servire il Signore con più fervore. Tutti questi
effetti della memoria dell'eternità si riscontrano già nel solo Salmo 76° dove Davide fra altre
cose dice: I miei occhi prevennero le veglie; io fui turbato e non proferii parola. (Sal.76, 5) E
la ragione di questo è indicata subito dopo: Ripensai ai giorni antichi ed ebbi in mente gli
anni eterni (Sal.76, 6) Questo pensiero era la causa del suo frequente svegliarsi, perché
all'eternità pensava prima che sorgesse il sole e ancora stava pensando ad essa per molte ore
dopo il suo tramonto, con tanto stupore che gli mancava il respiro, come dice lui stesso, e si
commuoveva per il vivo concetto che si formava al pensare che cosa voglia dire perdersi
eternamente nell’inferno o godere della felicità per sempre.
Non reca meraviglia che questo gran pensiero intimorisse un re tanto santo, poiché dice il
profeta Abacuc, che coloro i quali sono collocati più in alto nel mondo, s'incurvano sul
cammino verso l'eternità. Furono depressi i colli del mondo dai passi dell'eternità (Ab 3, 6). Il
santo giovane Giosafat, quando gli si raffigurava l'eternità, posto da una parte l'inferno,
dall'altra il cielo, restava attonito e senza forze, tanto da non poter alzarsi di letto, come se
avesse una malattia mortale.
I filosofi più barbari, con meno luce, si intimorivano alla stessa maniera, e per raffigurare
l'eternità escogitavano cose spaventevoli. Gli uni la dipingevano in forma di basilisco, che è il
serpente più da temersi, perché atterrisce già la sola vista di esso. Non ha infatti cosa
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che più deve spaventarci che l'eternità dei tormenti, nella quale uno può cadere.
Conformemente a questo San Giovanni Damasceno rappresentò la durata eterna in forma di
dragone feroce, che con la bocca aperta stava in agguato per inghiottire vivi gli uomini.
Altri la dipingevano come una caverna orribile e profonda, alla cui entrata vi erano quattro
gradini, uno di ferro, il secondo di bronzo, il terzo d'argento e il quarto d'oro. Su questi gradini
stavano giocando in diverse maniere molti bambini, senza badare al pericolo di poter cadere
in quella profondissima prigione. Finsero essi quest'ombra di eternità, non tanto perché era
degna di timore e spavento, quanto piuttosto perché essi stessi erano spaventati dinanzi alla
stoltezza degli uomini che ridono e si divertono con le cose di questa vita, senza ricordarsi che
devono morire e che possono cadere nel profondo dell'inferno. Quei bambini che giocavano
all'entrata della caverna orrenda ed oscura non erano altro infatti se non gli uomini, le cui
occupazioni, mentre vivono in questo mondo, sono da bambini, e pur stando tanto vicini alla
morte ed all’eternità, non provano né spavento, né preoccupazione, né lasciano i loro
divertimenti, né le loro vane occupazioni della terra.
Ed in verità è spaventoso davvero che attendendoci tali estremi, quali sono o la gloria eterna o
i tormenti senza fine, viviamo tanto senza timore e senza preoccupazione delle cose eterne,
cagione di questo è che gli uomini non si mettono a considerare ciò che è l'eternità, ciò che è
l'inferno, mentre Dio è Dio e gloria senza fine. Per questo essi stanno tanto fermi ed ostinati
nei loro beni passeggeri, quasi fossero immortali, ciò che appunto significavano quei durissimi
gradini.
A Davide però, la meditazione e il ricordo dell'eternità cagionò tale spavento e gli destò tale
preoccupazione da deciderlo ad un radicale mutamento di vita, dicendo fra sé con grande
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risoluzione: Ora incomincio: questa è una mutazione della destra dell'Altissimo. Ora
incomincio, spiega San Dionigi, a vivere spiritualmente, a comprendere saviamente, a
conoscere veramente, vedendo la vanità di questo mondo presente e la felicità del futuro,
reputando per nulla tutta la mia vita passata, il mio profitto e la mia perfezione; prenderò a
cuore con nuovo proposito, con più fervore, con studio più diligente, i sentieri di una vita
migliore, entrando nelle vie del profitto spirituale e incominciando ogni giorno di nuovo. E
conoscendo egli stesso quanto restio fosse il suo cuore, confessò che quella era una risoluzione
miracolosa, dicendo: Questo è un mutamento della mano dell'Altissimo, (Sal.76, 11) come a
dire, secondo San Dionigi: L'essermi cambiato di questa maniera, dalle tenebre
dell'ignoranza allo splendore della sapienza, dai vizi alle virtù, dall'uomo carnale allo
spirituale, si deve attribuire all'aiuto e alla misericordiosa assistenza di Dio, il quale per
mezzo di questa conoscenza dell'eternità ha dato tanto notevole mutamento al mio cuore.
Questo pensiero dell'eternità illumina fortemente e fa conoscere veramente le cose.
Le due sorti.
Coll'esperienza di ciò che passò nell'anima sua lo stesso Profeta esorta tutti a meditare con
calma e tranquillità il carattere eterno delle due sorti che li aspettano, affinché non solo
corrano, ma volino nel loro profitto e sopportino tutte le difficoltà delle virtù. Così, con
profondo significato, egli promette da parte di Dio a coloro i quali dormono tra le due sorti
(Sal.67,14), cioè a quelli che nella quiete dell'orazione meditano l'eternità della gloria e
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dell'inferno, le ali di colombe argentate e spalle dorate, il che vorrebbe dire che la vita
spirituale non solo consiste nel compimento delle opere buone proprie, ma altresì nella
pazienza e nella sofferenza delle opere cattive altrui. Il levarsi dal fango della terra per
camminare verso il cielo è operare atti di virtù molto eroiche e preziose senza lasciarsi
opprimere da fatiche e pene, che ci pesino sopra. Quando ciò si fa con viva comprensione
dell'eterno, tutto avviene con maggior merito, con più sollecitudine e perfezione.
Per questo il Profeta lo spiegò con la similitudine delle cose che gli uomini apprezzano di più,
ossia con l'oro e l'argento. Siccome però comunemente è più difficile, e quindi più meritorio, il
soffrire che il fare, benché ambedue siano preziosissimi, per questo disse che le spalle saranno
d'oro e le ali d'argento.
Anche il Patriarca Giacobbe stimò ciò per un bene tanto singolare che lo diede per
benedizione a suo figlio Issacar, dicendogli che riposerebbe fra due termini (Gen.. XLIX, 14),
che avrebbe considerato cioè ponderatamente i due estremi della felicità o della miseria
eterna, chiamandolo, per questo, giumento forte, per la fortezza d'animo che ha per vincere le
difficoltà della virtù, per sopportare le fatiche e le incombenze di questa vita, per soffrire i
disprezzi del mondo e far grandi penitenze.
Però non solo nei santi, ma altresì nei filosofi la considerazione tranquilla e calma delle cose
eterne, pur guardandole senza badare ai due estremi tanto diversi che ci propone la religione
cristiana, cagionò particolare effetto e disprezzo delle cose temporali. Seneca si lagnò molto
perché l'avevano disturbato nella meditazione dell'eternità, nella quale stava immerso come in
dolce sogno, sospesi e legati i sensi, provando molto gusto in questa
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considerazione: Mi piaceva, disse fra altre cose, di indagare nell'eternità delle anime e vi
credeva in essa con certezza.- mi dava tutto a questa speranza e già mi nauseava di me
stesso, disprezzava tutto ciò che restava dell'età, pur piena di salute, dovendo passare a quel
tempo immenso e al possesso di tutti secoli (SENECA, Epist. .22). Tanto poté in questo
filosofo la considerazione delle cose eterne, che gli fece disprezzare la cosa più preziosa di ciò
ch'è temporale, cioè la vita. Nei cristiani essa deve produrre un effetto maggiore, perché sanno
che non solo possono vivere eternamente, ma che possono pure godere o penare per sempre,
conforme alle opere della loro vita.
CAPITOLO TERZO.
I filosofi, sebbene non attendessero all'immortalità dell'altra vita come noi, con la sola
memoria della morte, si ritiravano dalla vanità del mondo, disprezzavano le loro grandezze e
regolavano la loro vita secondo la ragione e la virtù. Epiteto consigliava di tenere sempre la
morte presente al pensiero: In questa maniera, dice, non avrai un pensiero basso, né
desidererai nulla con ansia. (Epitect., cap. 28). Platone diceva che uno sarà tanto più sapiente,
quanto più vivamente penserà alla morte. Così comandava ai suoi discepoli che camminando
andassero sempre a piedi nudi, volendo far intendere con questo che nel cammino di questa
vita dobbiamo tenere sempre scoperta la nostra estremità, ossia la fine, cioè la morte (Apud S.
Hieronym., cap. 10 in Matth).
Ma i cristiani che hanno fede nell'altra vita devono aggiungere il ricordo dell'eternità. Per i
vantaggi che avrà questo ricordo sopra quello della morte, si potrà vedere la differenza tra
l'eternità e le cose temporali. I filosofi erano tanto tocchi dalla morte, perché con essa si
dovevano staccare da tutte le cose della vita mortale. Quello infatti è il termine fino al quale gli
uomini possono godere delle ricchezze, dei piaceri e degli onori e con esso ha da cessare tutto.
Se altri desideravano morire, era perché con la morte dovevano finire tutti i mali. Se quindi
tanto spaventa la morte, solo perché toglie i beni della vita — beni che possono mancare già
per altre mille maniere e sono passeggeri per sé già prima della morte del loro padrone e sono
in se stessi tanto corti, minuti, pericolosi e pieni di preoccupazioni e di ansietà — e se altri
attendevano solo perché toglie i mali temporali, pur tanto piccoli, come sono quelli di questo
mondo, come non ha da toccarci l'eternità, la quale non
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solo ci assicura beni eterni ed immensi, ma ci minaccia pure mali senza fine?
Senza dubbio, se si forma un concetto esatto dell'eternità, è molto più potente il suo ricordo
che quello della morte. Se di questa uomini tanto sapienti ebbero così profondo ricordo e lo
consigliarono ad altri, più ancora si deve averlo dell'eternità. Zenone, desiderando conoscere
un mezzo efficacissimo per ordinare la sua vita, frenare gli appetiti della carne ed osservare la
legge della virtù, consultò in proposito un oracolo, il quale lo rimise col ricordo della morte
dicendogli: Va' ai morti e consultali; da essi imparerai come devi ordinare la tua vita. Vedendo
che i morti non posseggono più nulla di ciò che avevano e che con la loro vita finirono pure
tutte le loro felicità, egli non le avrebbe più stimate, né si sarebbe più insuperbito per esse.
Per la medesima ragione alcuni filosofi, sia pure esagerando, bevevano e mangiavano nel
cranio di uomini morti per ricordarsi sempre che avevano da morire e che non dovevano
attaccarsi a questa vita.
Così pure grandi monarchi si servivano del ricordo della morte come antidoto della loro
fortuna, affinché la loro vita non fosse peggiore della loro fortuna. Filippo, re di Macedonia,
aveva comandato ad un suo paggio che ogni mattina gli dicesse tre volte: Filippo, sei uomo,
ricordandogli così che aveva da morire e da lasciar tutto. E l'imperatore Massimiliano I,
quattro anni prima di morire, comandò che gli si facesse la sua cassa da morto, ch'egli portava
poi con sé dovunque andava, perché sempre gli rammentasse, nel suo muto linguaggio:
Massimiliano, pensa che hai da morire e devi lasciare tutto. Anche gli imperatori d'Oriente,
fra altre insegne della loro maestà, portavano nella sinistra un libro dai fogli d'oro, chiamato
innocenza, ma tutto lordo di polvere e terra, con cui volevano significare la mortalità umana e
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rammentare quell'antica sentenza: Sei polvere ed in polvere ritornerai (Gen.. 3, 19). Questo
ricordo della morte in forma di libro era convenientissimo, per far comprendere di quanto
insegnamento e dottrina sia il ricordo della morte e che questo solo è una scuola di
disinganno.
Anche i fogli d'oro e l'essere portato nella mano sinistra aveva il suo significato, e voleva dire
che, essendo la mano sinistra più vicina al cuore, tenessimo bene scolpito nell'animo nostro
quanto sia prezioso questo disinganno. Con ragione poi quel libro si chiama Innocenza, poiché
chi oserà peccare, sapendo che ha da morire? Neppure gli imperatori dell'Abissinia si
allontanavano da questo uso. Infatti nella loro incoronazione, fra le altre cerimonie, si
portavano ad essi un vaso pieno di terra ed il cranio di un morto, avvertendoli, fin dal
principio del loro regno, come questo doveva aver fine. Finalmente tutti i filosofi convennero
in questo che tutta la loro filosofia era nient'altro che la meditazione della morte.
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che posseggono perché, tolti gli impedimenti alla perfezione cristiana, essi si impieghino in
sante opere e nell'esercizio delle virtù, considerando e ricordando l'eternità che li aspetta in
premio di quelli.
Deve risuonare nel nostro cuore molte volte questo orrendo grido; Eternità, eternità; non
soltanto: hai da morire; ma che dopo la morte t'aspetta un'eternità. Ricordati che esiste un
inferno senza fine e rammenta che vi è pure una gloria per sempre. È più efficace, per
osservare la legge di Dio, ricordarsi che, se la trasgredisci, l'hai da pagare con dolori senza
fine, che non il sapere che con te hanno da finire tutti i beni e mali di questa vita.
Ricordati dunque dell'eternità e risuoni nel più intimo dell’anima tua: Eternità, eternità.
Per questo la Chiesa, quando consacra i Vescovi ricorda loro questa efficace e forte verità
dell'eternità: Siano nel tuo pensiero gli anni eterni, come fece Davide. E nell'assunzione e
coronazione del Sommo Pontefice bruciano dinanzi ai suoi occhi un poco di stoppa,
pronunciando queste parole; Padre santo, così passa la gloria del mondo (Pater sancte, sic
transit gloria mundi); e ciò, affinché alla vista di questo splendore breve e passeggero si
ricordi del fuoco eterno. Martino V prese per stemma un falò acceso che in breve arrivava a
bruciare una tiara di Pontefice, un diadema imperiale, una corona di re ed un cappello
cardinalizio, per ricordarsi sempre, per mezzo di quel simbolo utilissimo, che anche i grandi
se non compiono fedelmente gli obblighi del proprio ufficio, dovranno dopo la morte per tutta
l'eternità bruciare nell'inferno.
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significare queste due cose: colui che ha memoria e anche l'uomo del premio o della paga,
inculcandoci con questo mistero lo Spirito Santo la memoria dei premi eterni. E per
dimostrare quanto sia prezioso questo ricordo agli occhi del Signore e quanto utile per noi,
ordinò che si scolpisse il nome di Issacar in una preziosa ametista che portava il sommo
sacerdote nell'Ephod, o razionale: la qual pietra, come venne rivelato a S. Giovanni, è una
delle basi della città di Dio, e per essa, ci dice S. Anselmo, ci viene ricordata l'eternità. Ed oh!
qual gran vigilanza deve produrre in noi il pensiero dell'eternità! Che cosa ce la può tenere
desta meglio, che il correre il pericolo di cadere nell'inferno? Come potrebbe dormire
tranquillamente chi, per passare da un monte all'altro, dovesse servirsi per ponte di un legno
della larghezza di mezzo piede, al soffiare di un vento furioso e sopra un abisso
profondissimo?
Non è minore il pericolo di questa vita, perché il cammino verso la vita eterna è strettissimo, i
venti della tentazione sono veementissimi, i rischi delle occasioni sono frequentissimi,
gl'inganni dei consiglieri perversi moltissimi. Ci troviamo fra pericoli evidentissimi; come
potrà un cristiano dormire e non preoccuparsi? Senza dubbio, guardando alla nostra natura
depravata ed alle insidie del demonio, nessuna cosa è più difficile che il salvarsi, come il
salvarsi di un uomo molto pesante sopra una barchetta sconquassata in un fiume abbondante
d'acqua e precipitoso.
Il pensiero dell'eternità è pure un antidoto efficace contro il veleno della colpa. Infatti, con
quanta cura procurerà di liberarsi dalla colpa chi abbia considerato bene che per un solo
peccato mortale merita una eternità di pene!
Il pensiero dell'eternità è pure un mezzo lenitivo, il più soave, contro la furia delle passioni
disordinate. Come vorrà infatti vendicarsi del suo nemico colui che con questo può incorrere
nell'odio
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eterno di Dio? Chi può darsi all'avarizia e all'ambizione, se considera che per i beni passeggeri
di questa vita si patisce miseria eterna nell'altra? Chi potrà darsi ai piaceri mondani, se
consideri che per i piaceri di un momento si danno nell'inferno tormenti senza fine?
Questo pensiero dell’eternità finalmente è fecondo di tante opere, perché chi pensa con viva
fede che per una cosa momentanea e lieve si dà il peso della gloria eterna, si farà animo ad
operare il bene quanto più può, a patire e soffrire per Dio. Oh quanto fecondo di opere eroiche
è questo santo pensiero; Mi attende una gloria eterna! I trionfi dei martiri, le vittorie delle
vergini, le penitenze dei confessori sono effetti di questa considerazione. Oh santo pensiero,
che fai vigili ed attenti i negligenti, che guarisci i più incancreniti e corrotti dal veleno del
peccato, mitighi i tormenti più forti della nostra concupiscenza e fecondi di sante opere i più
tiepidi e sterili di virtù! Chi è colui che non procurerà di tenerlo saldo nell'animo suo? Oh se i
cristiani lo scolpissero bene nel loro cuore per non cancellarlo, né mai scacciarlo più da sé!
Quanto diversamente vivrebbero! Come brillerebbero per le loro opere! Perché, sebbene il
ricordo dei quattro Novissimi sia molto efficace per mutare vita, quello dell'eternità è come la
quintessenza che virtualmente contiene tutti i Novissimi.
CAPITOLO QUARTO.
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l'inganno miserando in cui i figli di Adamo tengono una cosa tanto importante. Vivono essi
infatti del tutto dimentichi dell'eternità, la quale ad ogni momento li minaccia e da cui non
distano che due dita, come disse un filosofo.
Che cosa vi ha tra i naviganti e la morte, se non lo spessore di una tavola? Che cosa vi ha tra il
collerico e l'eternità, se non il filo di una spada; tra il soldato e la sua fine, se non essere
colpito da una palla; tra un ladro e la forca, se non la distanza tra essa e il carcere? Finalmente
che distanza v'è tra l'uomo più sano e robusto e l'eternità, se non quella che esiste tra la vita e
la morte? Questa è una distanza immediata, e perciò si deve aspettarla da un momento
all'altro. La vita dell'uomo non è che un cammino pericoloso che conduce alla sponda
dell'eternità, con la certezza di cadervi dentro. Come possiamo vivere trascurati? Come
terrebbe aperti gli occhi e con quale precauzione porrebbe i suoi piedi chi camminasse
sull'orlo di un grande precipizio non più largo del piede stesso ed anche quello pieno
d'inciampi? E allora, come mai coloro che vanno lungo il precipizio dell'eternità, non
attendono al loro pericolo?
San Giovanni Damasceno spiegò molto bene questo rischio ed inganno degli uomini con una
ingegnosa parabola, nella quale ci propone al vivo lo stato di questa vita. Dice che un uomo
andava fuggendo da un furioso unicorno, che col solo suo bramito faceva tremare i monti e
risonare le valli; e fuggendo in tal guisa, senza badare dove andasse, cadde in una fossa
profonda; cadendo però distese le mani per attaccarsi dove meglio poteva; e trovò dei rami di
un albero e s'attaccò ad essi fortissimamente, ben contento di poter ivi fermarsi pensando di
aver con questo scampato il suo pericolo. Mirando però alla radice dell'albero, vide due grandi
sorci, uno nero e l'altro bianco, che continuamente e con molta fretta l'andavano
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rodendo, sicché già stava per cadere. Guardando poi al fondo dell'abisso, vi scorse un dragone
deforme, dai cui occhi si sprigionava fuoco e lo stava fissando con aspetto terribile e con la
bocca spalancata, aspettando che cadesse per inghiottirlo. Guardando poi alla parete
dell'abisso dal lato dell'albero, vide che quattro velenosi serpenti sporgevano la loro testa per
morderlo mortalmente. Osservando però anche le foglie dell'albero, avvertì che alcune di esse
stillavano alcune gocce di miele. Per questo, egli, molto contento, dimentico degli altri pericoli
che da tante parti lo minacciavano, si divertiva a cogliere goccia per goccia il miele, senza più
badare, né far caso della furiosa voracità dell'unicorno che stava in alto, né al dragone terribile
che stava di sotto, né ai serpenti velenosi che gli stavano al lato, né alla fragilità dell'albero che
stava per cadere, né al pericolo di perdere il sostegno dei piedi e di precipitare, perché una
goccia di miele, alla cui raccolta era tutto intento, gli faceva dimenticare tutto questo.
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divertimenti di questa vita; e ne sono così avidi gli uomini, che per un breve piacere non
avvertono i gravissimi pericoli a cui sono esposti!
Pur vedendosi accerchiati da tutte le parti da tanti pericoli di morte, quanti sono i modi e le
cause del morire, infiniti e sempre aperti come altrettante bocche dell'eternità, essi stanno
assaporando in una goccia di miele un piacere momentaneo, che li farà poi soffrire per tutta
l'eternità.
Spaventosa dimenticanza questa, ma anche più incomprensibile che non ci atterrisca un tanto
rischio. E come! in ogni momento ci minaccia un'eternità, eppure ci trascuriamo per tanti
giorni e mesi? Qual uomo anche il più forte e vigoroso può dire di aver un anno in cui non lo
raggiunga la morte, che lo lanci di botto nell'abisso dell'eternità? Ma che dico un anno? un
mese dell'anno? una settimana del mese, un giorno della settimana, un'ora del giorno, un
istante di ogni ora? E allora come possiamo mangiar senza preoccupazione, come dormire
sicuri, come godere con gusto di questo mondo?
Se uno, entrato in un campo pieno di pericoli e trappole segrete, sì che ponendo il piede in una
di queste abbia da cadere sopra alabarde e lance o nella bocca di un dragone, e vedendo che
altri uomini, entrati con lui nel campo, vanno cadendo e scomparendo in queste trappole, egli
andasse ballando e correndo in quel campo senza badare a nulla, chi non direbbe che
quell'uomo è pazzo? Certamente più stolto sei tu, poiché, vedendo che il tuo amico è caduto
nella trappola della morte, che l'eternità ha già inghiottito il tuo vicino e che tuo fratello è
disceso già nella tomba, tu te ne stai tanto sicuro, come se non ti aspettasse altrettanto.
Sebbene sia incerto il tempo del morire, ti dovresti svegliare al solo dubbio o pericolo della
morte. Essendo certo che presto o tardi devi cadere nella bocca dell'eternità, che cosa devi
fare?
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Stupisce vedere come gli uomini sanno prevenire i pericoli anche incerti. Se sentono dire che
vi sono per una strada degli assassini che derubano la gente, nessuno vi passa da solo e senza
armarsi; se uno viene a sapere che vi sono delle pestilenze, cerca degli antidoti e rimedi contro
la peste; se sospetta che dovrà patire la fame, si provvede per tempo di frumento. E allora,
sapendo noi che la morte viene, che c'è un giudizio di Dio, che esiste l'inferno, l'eternità,
perché non stiamo all'erta e non ci apparecchiamo?
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passo! Come non si preparano ad essa i mortali e come non la temono? Non v'è pericolo
maggiore che quello dell'eternità, né rischio più certo che quello della morte. Perché non ci
prepariamo e ci armiamo per essa? Perché non ci preoccupiamo di ciò che sarà di noi? Questa
vita dovrà durare ben poco, le forze ci verranno a mancare, i sensi si turberanno, le ricchezze
ci verranno tolte, le comodità finiranno ed il mondo ci scaccerà. Perché allora non
consideriamo ciò che dopo sarà di noi? In altra regione saremo mandati per sempre; perché
non pensiamo che cosa dovremo fare colà?
Acciocché dunque conosciamo questa nostra sorte e perché sappiamo essere prudenti,
racconterò un'altra parabola del medesimo San Giovanni Damasceno. V'era una città molto
grande e popolatissima, i cui abitanti avevano l'usanza di eleggere per loro re uno straniero,
che non avesse conoscenza alcuna del loro regno o stato. Per un anno gli lasciavano fare
liberamente tutto ciò che voleva. Ma dopo, quando egli se ne stava sicuro e senza sospetto,
pensando di poter regnare per tutta la vita, essi arrivavano improvvisamente, lo spogliavano
delle sue vesti regali e trascinandolo nudo per la città lo portavano ad un'isola molto lontana,
dove aveva da soffrire estrema povertà, senza aver di che mangiare, né di che vestirsi. Così
impensatamente si cambiava la sua fortuna in tutto l'opposto: le sue ricchezze in povertà, la
sua gioia in tristezza, i suoi diletti in fame, la sua porpora in nudità.
Avvenne però una volta che fu eletto re un uomo molto prudente ed astuto. Questi, avendo
sentito da uno dei suoi consiglieri di quella usanza dei cittadini e della loro notoria incostanza,
non s'inorgoglì della sua dignità del regno che gli avevano affidato, soltanto curava come
doveva pensare per sé, affinché, nel temuto prossimo esilio, privo del regno e relegato in
quella isola, non dovesse
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perire di povertà e di fame. Il divisamento che attuò fu questo: mentre durava il regno fece
passare con gran segreto, tutti i tesori di quella città, che erano molto grandi, a quella isola
dove doveva poi andare a finire. Fatto questo, vennero alla fine dell'anno con grande tumulto i
cittadini per deporlo dalla sua dignità e dal suo ufficio di re, come avevano fatto coi suoi
predecessori, e mandarlo in esilio. Egli partì per quella destinazione senza pena alcuna,
perché aveva mandato avanti grandi tesori, con i quali visse in abbondanza e splendore
mentre gli altri re vi perivano di fame.
Questo è ciò che avviene nel mondo e ciò che deve fare colui che vuole essere prudente. Quella
città infatti significa questo mondo pazzo, vano ed incostante, nel quale, mentre uno pensa di
poter regnare, in un momento viene spogliato di tutto e nudo va a finire nel sepolcro, proprio
quando meno lo aspettava e più era intento a godere dei suoi beni passeggeri e caduchi, come
se fossero immortali e perpetui; senza rammentarsi affatto dell'eternità, dove in breve sarà
esiliato; regione tanto lontana ed estranea al suo pensiero, dove va senza pensarci, nudo e
solo, per perdersi nella morte eterna; solo vive per andare a penare in quella terra di morti
scura e tenebrosa, dove non entra luce, ma orrore e tenebre sempiterne.
Il prudente invece è colui che, considerando ciò che ha da accadergli tra breve, di uscire cioè
spogliato di tutto da questo mondo, si prepara per l'altro, utilizzando il tempo di questa vita
per trovarlo nell'eternità. Con opere sante di penitenza, di carità e di elemosine fa passare i
suoi tesori a quella regione dove ha da abitare per sempre, ordinando qui bene tutta la vita.
Pensiamo dunque all'eterno, perché ordinando bene qui le cose temporali, acquistiamo là
quelle temporali e quelle eterne.
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San Gregorio (S. GREG., in Cant.. 2.) riteneva che la considerazione dell'eternità era
raffigurata in quella dispensa ben provvista di vino prezioso, nella quale la sposa dice di essere
stata introdotta dallo sposo e di aver quivi dato ordine alla carità. Dice infatti che chiunque
consideri nell'animo suo con attenzione alquanto profonda l'eternità, potrà gloriarsi dicendo:
ordinò in me la carità: perché amerà meno se stesso e più Dio e per Dio, e solo per l'eternità
farà uso delle cose temporali anche le più necessario.
CAPITOLO QUINTO,
Che cosa sia l'eternità secondo l'insegnamento di San Gregorio Nazianzeno e San
Dionigi.
Cominciamo dunque a dare una qualche spiegazione di ciò che è inesplicabile, per formarci un
qualche concetto di ciò che è incomprensibile, affinché i cristiani, conoscendo meglio o
ignorando meno ciò che è eterno, temano di commettere una colpa o di lasciare un'opera di
virtù, tremando al pensiero che in cambio di beni tanto da poco, come sono quelli della terra,
si sperperino beni tanto grandi, come sono quelli del cielo.
Vedendo Agrippina Romana lo sperpero di suo figlio, che profondeva oro e argento come se
fosse acqua volle correggere la sua prodigalità. Una volta che il figlio aveva ordinato di
preparargli la quarta parte circa di un milione, la madre fece mettere insieme altrettanto
danaro, lo fece stendere su vari tavoli, per mostrarlo tutto insieme al figlio,
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perché questi, vedendo coi suoi occhi la somma che così temerariamente aveva sprecato, si
moderasse nella sua prodigalità.
Lo spreco e la pazzia degli uomini non trovano altri rimedi; bisogna mettere dinanzi ai loro
occhi ciò che perdono per un piacere contro la legge di Dio.
Infatti per una cosa molto piccola perdono ciò che è senza fine, ciò che deve durare sempre,
insomma ciò che è eterno. Però chi potrà spiegare questo? L'eternità è un oceano immenso di
cui non si può trovare il fondo; è un abisso oscurissimo nel quale si perde ogni intelletto
umano; è un labirinto intricato donde nessuno può uscire; è uno stato perpetuo senza passato
e senza futuro; è un circolo continuo il cui centro sta in tutte le parti e la circonferenza in
nessuna; è un anno grande che sempre incomincia e mai tocca la fine; e ciò che non si può
comprendere e sempre si deve conoscere e pensare. Ma perché possiamo dirne qualcosa ed
apprendiamo ciò che è incomprensibile, sentiamo come la definiscono i santi.
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principio ci pareva nuovo perdiamo poi la sensazione. L'eternità invece è sempre intera, è
sempre la stessa, nulla si cambia. I dolori con i quali comincia il dannato, dopo mille secoli
sono ancora fiammanti e nuovi, la gloria che nel primo istante riceve chi si salva gli sembra
sempre recente. L'eternità non ha parti, è tutta d'un pezzo, non si dà in essa né diminuzione,
né difetto. Benché i piaceri di questa vita, che vanno col tempo, siano di tale natura da
diminuire col tempo, sì da non avervi in questo mondo piacere che col lungo andare non si
cangi in pena, così per il contrario, le pene col tempo diminuiscono e si curano. L'eternità ha
una tela ben differente; tutto è uniforme, non vi è gioia che stanchi, né pena che scemi.
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ai mali eterni, i quali non avranno mai il sollievo del loro mutarsi, né il rimedio del loro finire,
né la consolazione del loro diminuire. Mutare il lavoro suole essere un riposo. Un malato per
quanto sia angosciato, si solleva col voltarsi da un Iato all'altro. I mali eterni invece in un
medesimo punto e con la medesima intensità dureranno, finché Dio sarà Dio, senza modo
alcuno di mutarsi. Se il cibo più gustoso e salutare del mondo, che fu la manna, solo perché fu
continuo, causò nausea e vomito, quale tormento causeranno le pene che continueranno
sempre e rimarranno sempre le medesime?
Il mare ha il suo flusso e riflusso, i fiumi hanno le loro piene, i pianeti le loro posizioni diverse,
l'anno ha le sue stagioni, le febbri maggiori hanno la loro decrescenza, ed anche i dolori,
arrivati al sommo dell'acutezza, diminuiscono. Solo le pene eterne non avranno
decrescimento e non vedranno mutazione.
L'andar per una strada tutta piana, che sembra la meno faticosa, suole stancare, perché manca
la varietà; quanto stancheranno il cammino dell'eternità quei dolori perpetui che non possono
mutarsi né arrivare alla fine, né subire diminuzioni? Quelli che furono i tormenti di Caino
tanti mila anni fa, lo sono ancora oggi, e ciò che sono oggi, lo saranno per altrettanti anni. Le
frazioni del tempo si computano coll'eternità di Dio, e la durata della infelicità con quella della
gloria di Dio. E finché Dio vive, essi lotteranno con la morte e moriranno in tutti gl'istanti.
Quella morte dura eternamente e quella vita miserabile uccide, perché ha tutto il peggiore
della vita e della morte. Vivono questi miserabili per patire e muoiono per non godere; non
hanno il riposo della vita, né il termine della morte, ma per maggior tormento proprio hanno
il tormento della morte e la durata della vita.
Guarda invece quanto felice è la sorte di coloro che muoiono in grazia di Dio. La loro gloria
sarà
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immortale, senza timore che abbia a terminare. La loro fortuna sarà immutabile e non potrà
invecchiare; la loro corona sarà incorruttibile e non potrà marcire. Non passerà giorno senza
godere, e sempre la contentezza sarà nuova e la loro gloria rinverdirà sempre per tutta
l'eternità. Perciò la felicità sarà sempre nuova; onde la gloria che San Michele aveva tante
migliaia d'anni fa, è oggi ancora la stessa, e quella che oggi ha, sarà ancora nuova, dopo sei
milioni di anni, come oggi.
CAPITOLO SESTO.
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Dice ancora che questo possesso è totale, in quanto e possesso di tutti i beni senza eccezione
ed è di tutti i beni uniti, senza aver bisogno per goderli, di goderne uno dopo l'altro, giacché si
possono godere tutti insieme. I beni di questa vita non hanno questa natura. Se uno avesse
anche tutti i beni di essa, non potrebbe goderli tutti insieme, ma soltanto gli uni dopo gli altri,
Eliogabalo, che più di ogni altro volle e cercò di godere di essi, per quanto impiegasse
diligenza e sveltezza, solo una volta poté appena godere di due o tre beni insieme. Mentre era
al banchetto non poteva attendere alla musica da ballo; mentre partecipava ai balli non poteva
intervenire alle feste degli spettacoli; mentre si occupava con queste non poteva intrattenersi
con la musica; mentre attendeva alla musica non poteva andare a caccia in montagna e
mentre si dilettava in ascensioni sulle montagne non poteva allettare la sua sensualità. Per
provare certi piaceri doveva lasciarne altri, di modo che, sebbene non li avesse mai tutti,
giacché gli mancavano quelli di cui godevano altri uomini, anche di quelli che poté godere non
li godette tutti insieme. Al giusto in cielo invece non manca bene alcuno ed avendo tutti i beni
non ha bisogno di passare dall'uno all'altro per goderli, perché gode di essi tutti uniti.
Il possesso della felicità è pure perfetto, prima di tutto per la sua sicurezza cui nessuno può
disturbare, Nessuno glielo può contendere, nessuno lo può rubare, nessuno lo può turbare.
Il possesso della felicità eterna è in secondo luogo perfetto, perché si gode interamente, non
come i beni della terra, i quali non si possono godere in tal modo, o per la distanza del luogo o
per l'imperfezione del senso, o per la mescolanza loro con qualche dolore, o per lo meno per la
moltitudine degli oggetti e la loro opposizione. Ma quella felicità eterna si possiede tutta, e
perfettamente se ne assapora tutto il piacere, si percepisce tutto il suo
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gaudio e l'anima resta penetrata ed imbevuta di tutta l'essenza della sua dolcezza. Questa non
può essere diminuita da mescolanza di pene, né da cure improvvise, né da incapacità di
soggetto, né da distanze locali, né da grandezza di oggetto. Ivi infatti non si dà luogo a dolore e
preoccupazione; il soggetto si eleva, l'oggetto si accomoda ed il gaudio eterno non ha
proporzione con distanze o spazi locali.
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più questo possesso così totale, così pieno e perfetto è per tutta una vita senza morte, per uno
spazio senza termine, per un giorno che è eterno e vale per tutti i giorni, comprendendo tutti
gli anni ed abbracciando tutti i secoli, superando anzi tutti i tempi sicché in essa nulla passò e
nulla passerà.
Tutto il contrario succede poi ai poveri peccatori, la cui miseria eterna è di natura simile nel
male a quella dell'eternità dei beati nel bene. Essi infatti posseggono i mali non in un modo
qualsiasi, bensì con tutto quello che sono, cioè con anima e corpo, con tutti i loro sensi, con
tutte le loro potenze. Quello infatti si dice possesso che si acquista col corpo presente. Questi
disgraziati, con tutto il corpo, con tutta la loro sostanza staranno in quei tormenti, non come
in cosa prestata, ma bensì come in cosa loro tanto propria, che non potranno mai alienarli,
perché non vi è cosa tanto propria e dovuta come la pena alla colpa. E non solo, ma di essi i
mali prenderanno pieno possesso, perché i sensi, le membra, le articolazioni del corpo, le
potenze dell'anima e le facoltà più spirituali saranno possedute dal fuoco, dall'amarezza, dal
dolore, dall'ira, dal dispetto, dalla miseria e dalla maledizione, per cui il possesso di questi
infelici sarà totale e di tutti i mali insieme. Non ne mancherà alcuno, perché si convergeranno
tutte le disgrazie e tutti i tormenti. Non mancherà nel gusto l'amarezza, nell'appetito la fame,
nella lingua la sete, nella vista l'orrore, nell'udito lo spavento, nell'olfatto il fetore, nel cuore la
pena, nell'immaginazione il terrore, né il dolore in ogni membro, né il fuoco nelle stesse
viscere. I dannati possederanno tutti, i mali e tutti, totalmente. Se anche potessero subirli uno
alla volta, sarebbe già tremenda la loro sorte, dato il numero immenso di anni che avrebbero a
soffrire, ma la massima loro infelicità è che devono patire i tormenti tutti insieme. Non speri il
dannato che per il dolore di una parte del corpo
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esso cessi in altra parte, né per la pena dello spirito finisca il fuoco che brucia la carne. Tutti i
mali piombano sul peccatore dannato; uno ad uno e tutti di un colpo cadono su di lui. La
goccia scava la pietra, e con quaranta giorni di pioggia Dio distrusse il mondo animato. Che
sarà poi quando la sua giustizia pioverà fuoco di zolfo e tempeste sopra un dannato non solo
per quaranta giorni, ma per tutta l'eternità?
Non soltanto i dannati possederanno i mali tutti e tutti insieme, ma eziandio li avranno in
modo perfetto ed intero. Non diminuirà il senso per la moltitudine ed il dolore, né si
ottunderà perla loro grandezza. Tanto sveglio e vivo sarà per tutti come se ne patisse uno solo.
Tanto perfettamente avranno da sentire il rigore intero di qualsiasi tormento, che il fuoco non
penetrerà solo le ossa, il cuore e le viscere, ma giungerà fino alla stessa anima cui crucierà
immediatamente col suo incendio, con tanti tormenti eterni. Il possesso della sua miseria sarà
totale, perfetto, pieno; totale perché patirà tutti i mali; perfetto perché li patirà totalmente,
pieno perché li patirà in tutti i sensi, in tutte le facoltà e potenze. Non è questa una morte per
vivere dipoi; vivrà questa morte nei dannati, finché vivrà Dio e la sua miseria durerà finché
Dio avrà la sua gloria.
CAPITOLO SETTIMO.
In un altro modo illustra San Bernardo (Sermo I in fest. omnium Sanctorum) l'eternità
dicendo: È la durata che abbraccia ogni tempo, il passato, il presente ed il futuro. Non v'è né
giorno, né anno, né secolo che eguaglino
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l'eternità. Questa sola assorbe tutti i tempi possibili ed immaginabili e il suo seno sarà mai
ricolmo.
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essa; così l'eternità corrisponde a tutto il tempo ed a tutti gli istanti del tempo e tiene presente
in modo meraviglioso ciò che avrà presente per tutti i secoli. È così un istante solo che
equivale a tempi infiniti, perché non v'è un prima ed un poi, ma bensì tutta l'estensione del
tempo sta raccolta in un istante, di modo che in ogni momento di tempo vi è tutto insieme ciò
che potrebbe estendersi per distanze infinite di tempo.
Come la immensità di Dio ha in un punto solo tutta la grandezza divina che senza termine e
senza limite si estende per ogni parte, sì da non aver meno in un punto che in milioni di leghe,
così l'eternità raccoglie in un istante tutta la durata divina, benché questa s'estenda per tempi
infiniti. A questa eternità partecipano le creature ragionevoli nell'altra vita in quel modo che
sono capaci quanto all'essenza della loro gloria o pena.
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scegliere tra lo starsi a bruciare vivo in un forno di calce, soffrendo nello stesso tempo tutte le
malattie ed i dolori che conosce la medicina e quanti generi di tormenti hanno patito i Martiri
e quanti sono i supplizi atroci che hanno subito i malfattori, e tutto questo per un tempo
lunghissimo, come sono duecento miliardi di anni; o d'altra parte patire un'emicrania od un
dolore di denti per tutta l'eternità senza aver mai fine; questi dovrebbe scegliere tutti quei
tormenti riuniti piuttosto che questo dolore solo, perché, sebbene quei tormenti siano più
grandi, questo unico dolore li eccede per la sua durata. Insomma, quelli, benché tanto
eccessivi, sarebbero temporali; questo, sebbene tanto minore, sarebbe eterno. L'eternità
aumenta il male infinitamente. In quei tormenti v'è la speranza che finiscano, in questo dolore
non v'è rimedio.
Io voglio immaginare che, se ai dannati, per il vivo concetto che hanno dell'eternità, si
concedesse di scegliere, o di alleviare i loro tormenti rimanendosi con un sol mal di testa
eternamente o di patire tutti i tormenti dei sensi riuniti in tutti i dannati per lo spazio
determinato di tanti miliardi di anni, preferirebbero questo secondo caso, perché, pur essendo
le pene tanto maggiori, avrebbero però fine, mentre il mal di testa, benché tanto minore,
sarebbe eterno.
Ci pensino un po' gli stimatori delle cose temporali. Se i tormenti dell'inferno, pur tanto
eccessivi, sono sopportabili per il solo supporli temporali, tanto che si sceglierebbero questi
piuttosto che un solo dolore eterno, benché leggero, come non soffriranno con pazienza un
solo male leggero per un tempo così breve, quale è quello della vita presente, pur di non
soffrire poi eternamente i tormenti dell'inferno? Come non ci muove un inferno eterno,
mentre temiamo un dolore temporale? Come non facciamo penitenza? Come non abbiamo
pazienza nei nostri mali? Come non soffriamo
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quanto c'è da soffrire in questa vita, per non soffrire un solo tormento nell'eternità? Non si
devono temere le pene di questa valle di lagrime, perché avranno fine, mentre sono da temersi
quelle che non avranno mai fine. Siamo dunque contenti di patire qui, dove si patisce poco e
per poco tempo, per non patire là, dove si patisce molto e per sempre.
La stessa considerazione reale, per i beni. Se uno, dopo aver goduto di tutti i tesori della terra
e tutti i piaceri dei sensi per miliardi di anni, sarebbe felice, alla fine, di poterli tutti cambiare
anche con un solo piacere eterno, come non cambieremmo noi tutti i gusti passeggeri della
terra coi beni immensi che possederemo eternamente nel cielo? Tutti i beni temporali del
mondo si possono spendere per un solo godimento eterno; perché allora talvolta non
rinunziamo ad un solo piacere temporale per assicurarci tutti i diletti eterni? Tutti i beni
temporali si dovrebbero dare in cambio di uno solo, del quale ci si assicuri che sia eterno.
Perché allora non ci assicuriamo tutti i beni eterni in cambio di un solo bene temporale? Uno
che fosse padrone di una casa per tutta l'eternità eccederebbe infinitamente colui che per
quanto tempo si voglia, possieda tutto il mondo.
Non v'è paragone fra il tempo e l'eternità. Ogni cosa temporale, per grande che sia, si deve
stimare bassamente; ogni cosa eterna, per piccola che possa sembrare, si deve stimare
grandemente. Perciò quello che è temporale, né per la sua grandezza, né per la sua durata ha
confronto con una cosa eterna, anche piccola. E per esagerare fino all'impossibile, lo stesso
essere di Dio, se fosse temporale, si potrebbe posporre ad un altro che fosse eterno.
Potrà l'avaro sembrare molto contento del suo piccolo tesoro che domani la morte, e forse già
oggi un ladro gli potrà togliere. E per questo bene
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egli disprezza i beni eterni del cielo. È certo che quantunque Dio non ci promettesse nell'altra
vita che un solo bene sensibile, ma eterno, dovremmo per meritarlo sacrificare tutti i piaceri
della terra: quale dunque è la nostra pazzia se, avendoci Dio promesso per tutta l'eternità gli
immensi gaudi del cielo, non abbiamo il coraggio, per meritarli, di abbandonare qualche
piacere terreno?
La seconda ragione per cui l'eternità rende il bene infinitamente migliore e il male
infinitamente peggiore, è perché essa raccoglie in un solo istante se stessa; di maniera che in
ogni istante possiede ciò che dura sempre. Come dura l'infinito, essa lo raccoglie in ogni
istante, sentendo di possedere in ogni istante ciò che possiede nel presente e possiederà nel
futuro. Dice un Dottore (LESSIO, De Perfectionibus divinis, lib. IV, cap. 3): Con l'eternità il
bene, che si può possedere in questa vita successivamente in tempo indefinito, si raccoglie in
un istante e si gode tutto unitamente, come se (tutto) il piacere che uno splendido pranzo può
offrire successivamente per parte, di tempo infinito, si godesse tutto simultaneamente, e
tutto si potesse godere per un tempo eterno, ciò che lo farebbe infinitamente migliore e di
maggior valore.
La medesima cosa fa l'eternità dei mali e delle pene, che riunisce in certo qual modo in uno e
fa sì che si sentano simultaneamente. Pur non essendo essi mali attualmente uniti, succede
però che si apprendano tutti riuniti e così causano nell'anima dolore senza confronto e senza
fine. Questi sono i veri mali, perché sono mali sotto ogni aspetto per la loro estensione e per la
loro intensità, per la loro durata e per la loro natura. In quanto alla durata non hanno fine e la
loro natura non ha limiti.
Chi è quel sofferente il quale, ben considerando questo, non avrà pazienza, mentre il suo
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dolore è limitato ed avrà termine? I maggiori mali temporali sono punture di mosche rispetto
al minimo male eterno, e così per sfuggire tutti i mali eterni è ben poca cosa il sopportarne
uno temporale. Tremiamo dinanzi a queste lance dell'eternità, queste due infinità con cui
aumenta i suoi mali, essendo due lance mortali che attraversano da parte a parte i dannati.
Tutto quaggiù è burla e bagatella rispetto all'eternità, la quale abbraccia tutti i tempi e con i
mali di tutti i tempi cade sopra i dannati ad ogni istante.
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molto fervore e lena? Scrive Rufino (Rufinus, num. 107; Pelag. libell. 7, n. 28.) che una volta
andò dall'Abate Aquilio un certo monaco, per raccontargli come nel custodire la cella sentiva
molto tedio e tristezza. Il prudente Abate gli rispose: “Ciò deriva da questo, figlio mio, che tu
non pensi ai tormenti eterni che temiamo, né al riposo e gaudio che speriamo, poiché, se tu vi
pensassi, anche se la tua cella fosse piena e pullulasse di vermi e ti arrivassero fino alla gola,
con tutto ciò tu rimarresti in mezzo ad essi e persevereresti nel tuo raccoglimento senza tedio
e noia”.
Il terzo si è che con lacrime e dolore dell'anima si deve procurare di risarcire per i peccati
passati e di soddisfare per essi con contrizione dolorosa e amarezza di cuore, perché l'eternità
dei beni che per causa di essi si è perduta si ricupera con la penitenza, essendo questa una
virtù tanto efficace da riparare il passato. Benché si dica che il fatto non ha rimedio e sul
passato non vi è potere alcuno, questa virtù ha tanto potere da disfare il fatto e da prevalere
sul passato, togliendo i peccati del passato, come se non fossero stati commessi.
CAPITOLO OTTAVO.
L'eternità è inscrutabile.
Tutte queste dichiarazioni e definizioni dell'eternità non sono ancora sufficienti per far
concepire al vivo la sua grandezza; né alcuno può intendere bene, come dice Plotino, ciò che
sentirono quelli che vollero definirla. Si potrebbe dir di essa ciò
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che disse Simonide, (CICERO, De natura deorum. Lib. II) quando Cerone, re di Sicilia,
l'interrogava: che cosa fosse Dio. Il filosofo si prese un giorno di tempo a rispondere, per poter
frattanto pensarci sopra. Passato quel giorno, disse di aver bisogno di maggior tempo e chiese
due altri giorni; passati quelli, ne chiese altri quattro: trascorsi questi, disse che più vi pensava
più doveva meditare e minor facilità trovava per rispondere.
Lo stesso si può dire dell'eternità, la quale è un abisso tanto profondo da non potersi scrutare
senza che il pensiero umano vi si affoghi. Così disse San Dionigi Areopagita, (De Myst.
Theologia) che Dio non poteva dirsi ciò che era, ma solamente ciò che non era e come a tutto
sovrasta. Similmente non può dichiararsi altro dell'eternità che ciò che essa non è e come
supera ogni comprensione. L'eternità non è tempo, non è spazio, non è secolo, non è milioni
di secoli; ma è sopra ogni tempo, sopra ogni secolo, sopra milioni di secoli. Non è eternità
questa vita che godi e presto ha da finire; non è eterna la salute che hai; non sono eterni i tuoi
divertimenti; non sono eterni i tuoi possedimenti; non sono eterni i tuoi tesori; non sono
eterni coloro nei quali confidi; non sono eterni i beni nei quali ti compiaci, poiché devi lasciare
tutto. Più gran cosa è l'eternità, e sopra i regni, sopra gli imperi e sopra ogni felicità sono le
cose eterne. Per questo Lattanzio (LACTANTIUS, De falsa Religione, lib. I, cap. 12) ed altri
autori dichiarano l'eternità per ciò che non è, dicendo gli uni che l'eternità è ciò che non ha
fine, altri ciò che non ha mutazione, altri ciò che non ha confronto, ossia ciò che non è
limitato, non è mutabile, non è paragonabile. Basta spiegare ed analizzare queste tre
condizioni dell'eternità, non per far comprendere
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cosa sia, ma per incuterci almeno spavento e stima di essa, che è quanto più ci conviene,
insieme a un gran disprezzo di tutto ciò che è temporale, limitato, mutabile e meschino.
In riguardo alla prima condizione, cioè del non aver fine, disse Cesario che l'eternità è un
giorno senza sera, perché l'eternità dei Santi non vedrà mai tramontare il sole della sua
chiarezza, Vespere carens et unicus dies est tota aeternitas, quoniam nulla sequente nocte,
ultra mundana lux excipitur (cap. 3), quella dei peccatori è una notte che non sarà giammai
illuminata dal sole. In un buio eterno devono stare i corpi ardendo e le anime degli infelici in
tormento. Se al febbricitante cui fugge il sonno, benché si trovi in un letto agiatissimo, un'ora
della notte sembra un secolo, e gli par mille anni che venga il mattino, che sarà lo stare senza
dormire una notte eterna, per coloro che dormirono in questa vita, quando era ora di stare
desti, e che sarà patire tanti strazi in un letto di fuoco, senza speranza mai del mattino?
Certamente, anche se non vi fosse nell'inferno altra pena fuor di quella di stare in
quell'oscurità senza fine, ciò sarebbe sufficiente per spaventarci.
Questo stesso carattere dell'eternità, cioè il non aver fine, vien simboleggiato dagli antichi
nella figura dell'anello, perché nell'anello non vi ha fine. Con più profondo significato Davide
la chiamò corona, la cui rotondità, secondo Dionisio Cartusiano, manca pure del termine, per
significare che l'eternità senza fine dev'essere il premio e la corona delle nostre buone opere e
la pena per le opere cattive. Dovremmo tremare sentendo questa voce: senza fine, per le opere
cattive. Dovremmo giubilare a questa parola senza fine, per le opere buone,
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se comprendiamo ciò che vuol dire durare senza fine, perché nessuno potrà mai esagerare nel
dire ciò che è, e sempre ne dirà di meno. Se un dannato, come riflette San Bonaventura, (De
Inferno, cap. 49) di cento in cento anni spargesse una lacrimuccia e si conservassero tutte,
finché dopo innumerevoli anni fossero tanto le raccolte da uguagliare i mari, quanti milioni di
anni sarebbero necessari per uguagliare, non dico un solo mare, ma un ruscello? Ora, dopo di
aver riempito un mare col corso di tanti milioni di secoli, si potrà forse dire: questa è
l'eternità, qui è il termine? No, anzi non è che l'inizio. Si torni a mettere insieme un'altra volta
le gocce delle lacrime di quel dannato, in uno spazio maggiore di tempo l'una dall'altra, e si
riempia un'altra volta l'oceano; dopo tanti anni passati a centinaia di milioni, finirebbe qui
l'eternità? No, anzi qui incomincerebbe, come se fosse il primo giorno. Si ripeta la stessa cosa
altre dieci, altre cento, altre centinaia di migliaia di volte e si riempiano altri centomila oceani
con gli intervalli e le distanze suddette, e maggiori ancora, si giungerebbe per ventura a
toccare il fondo dell'eternità?
No, anzi ci troveremmo sulla superficie, tanto è profonda ed inarrivabile l'eternità. Non v'è
numero, né algebra che possa comprendere gli anni dell'eternità, perché, se tutti i cieli fossero
tante pergamene, tutte scritte da una parte e dall'altra di figure aritmetiche, non arriverebbero
tutte a dire la minima parte dell'eternità. Essa non ha parte, ma è tutta intera; se anche vi
fosse oceano che tenesse innumerevoli gocce, o montagna composta di innumerevoli grani di
arena, non si potrebbero contare per mezzo di essi gli anni dell'eternità.
C'erano al tempo di Archimede certi filosofi che dicevano essere infinito il numero dei granelli
dell'arena del mare; altri, sebbene dicessero non
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essere infinito, pensavano però non potersi comprendere in numero alcuno. Per confutare gli
uni e gli altri Archimede compose un libro dotto e profondo, dedicandolo al re Cerone di
Siracusa, nel quale dimostrava con prove che, quando anche il mondo fosse pieno di arena e
fosse molto più grande di quello che è ora, tutta quella moltitudine di arena sarebbe limitata e
si potrebbe quindi ridurre ad un numero. Dopo questo filosofo, il P. Clavio contò con quanti
granelli di sabbia verrebbe a riempirsi tutto quanto lo spazio che sotto il firmamento è
occupato dall'acqua e dall'aria e dal fuoco ed i cieli, cioè lo spazio che si trova sotto le stelle
fisse, e supponendo ogni granello di arena così piccolo ed indivisibile che di diecimila di essi si
facesse un granello di papavero o di senapa, venne ad assommarne in così breve spazio la
quantità, che la strinse tutta in una riga, giacché il numero di essi non consta più che di
un'unità e cinquantuno zero. Supposto poi che tanta moltitudine di milioni di granelli si
contiene in una somma così breve, si pensi che cosa saranno gli anni infiniti dell'eternità.
Non dico solo una facciata di un libro, ma se tutto un libro fosse di algebra, e non solo un libro
ma quanta carta trovasi nel mondo e quantunque il mondo tutto, fino al firmamento, fosse
pieno di carta e il firmamento fosse tutto scritto di numeri: tutto questo non comprenderebbe
che una piccolissima parte dell'eternità. La moltiplicabilità è tanta che, aggiungendo ad ogni
numero uno zero, lo si moltiplica per dieci, se si aggiunge un altro, per cento e se si aggiunge
un terzo, per mille; in questo modo si hanno dei prodotti iperbolici, moltiplicando con tanta
velocità. Dalla qual cosa ognuno può considerare che, aggiungendo cento zeri, si ottiene un
tale numero quale nessuna immaginazione può concepire. Ed allora che sarebbe se si
aggiungessero tanti zeri quanti stanno in una pergamena grande
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come il cielo? Tutto questo numero non è tanto grande come la minima parte dell'eternità,
perché dopo passati tanti anni, quanti sono indicati da quel numero, l'eternità sarebbe ancora
al primo giorno, Tutti quegli anni verrebbero alla fine e altrettanti milioni di volte, mentre
l'eternità sempre sarà e continuerà dopo queste migliaia di secoli, come se incominciasse
allora.
Pensi il cristiano quanto sarebbe lunga la vita di centomila anni; eppure non avrebbe passato
nulla dell'eternità. Pensi dieci volte centomila anni: non ha fatto nulla. Pensi mille volte mille
milioni: ancora non ha fatto in questa cognizione nessun progresso. Pensi altri milioni di volte
altrettanto: ancora non ha toccato l'eternità, anzi essa starà sempre nel suo principio. Onde
disse ottimamente Lattanzio: Con quali anni si può saziare l'eternità, giacché non ha
fine? [Quibus annis satiarì potest aeternitas, cuius nullus est finis? (LACT., De falsa Relig.. lib.
1, cap. 12)] Si troverà sempre nel principio, perché tutto è principio. E veramente in questa
maniera si potrebbe definirla con profondo significato: "L'eternità è un perenne principio
senza fine". Perché sempre sta nel suo principio e non arriva alla fine; sempre è nuova,
sempre è intera e niente la può diminuire. Si tolgano dall'eternità tanti anni quante gocce di
acqua ha il mare, quanti atomi ha l'aria, quante foglie hanno le piante, quanti grani di arena
ha la terra, quante stelle sono in cielo; essa ancora resterà tutta intera. Le si aggiungano
altrettanti anni, non per questo essa diventa maggiore, né più lontana dalla sua fine, perché
essa è senza fine e senza principio. Mai, e poi mai essa avrà fine e sempre sarà nel principio.
Si immagini un monte di arena che dalla terra arrivi al cielo e che un angelo ne levi ogni mille
anni solamente un granello, quante migliaia di anni
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occorrerebbero per vedere quel monte spianato? Si ponga pure il più destro contabile a far i
conti: quanti anni passerebbero fino a ridurre alla metà quel monte, diminuendolo l'angelo
tanto adagio? Sembra che non sia possibile vederne la fine; eppure la nostra mente s'inganna,
poiché quel monte avrà fine e arriverà un tempo che si sarà consumata non solo la metà, ma
tutto il monte. Arriverà il tempo in cui sparirà anche l'ultimo granello; l'eternità invece non
arriverà mai alla fine e quando sarà consumato tutto quel monte di arena, nessuna
diminuzione avrà avuto luogo in essa, ma starà come al principio dopo aver passati milioni di
secoli. Dopo di aver consumati milioni di quei monti, le pene dei dannati saranno tanto intere,
fiammanti ed atroci come al principio. Questo pare che intendesse significare Abacuc quando
disse: Le montagne secolari furono stritolale.. dai passi della loro eternità. [Contriti sunt
montes saeculi, incurvati sunt colles ab itineribus aeternitatis eius (Habacuc., 3, 6).] Migliaia
di monti e di colli, grandi come tutto il mondo, potranno disfarsi mille volte mentre sopra di
essi passa l'eternità dei dannati e questa non finirà mai di passare. Così i miserabili dannati
passeranno in mezzo a quel fuoco vorace ed a quei tormenti eterni migliaia e milioni di anni
senza avvicinarsi mai alla fine più che il primo giorno.
L'eternità è immutabile.
Chi potrebbe tollerare che gli si abbrustolisse un fianco per un anno intero? Ma che dico?
Abbrustolirsi un fianco? anche solo star disteso sul medesimo fianco per un anno intero, senza
mai potersi voltare sull'altro? Questa fu una penitenza rigorosa fatta dal Profeta Ezechiele,
perché Dio gli aveva comandato di star giacente su un lato senza muoversi mai per lo spazio di
trecentonovanta giorni.
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Il santo Profeta compì ciò colla grazia di Dio, ma fu certamente una penitenza rigorosissima.
Infatti se soltanto lo star giacente da un solo fianco per un anno fa tanto soffrire, che sarà lo
star un'eternità, in quella notte oscura dell'inferno, steso in un letto di fuoco, sotto la pioggia
di tutti i mali senza termine? Qual cristiano ben considerando questo, sì da farsene un vivo
concetto, non si convertirebbe? Chi potrà permettersi un gusto illecito momentaneo della
terra, mentre corre rischio di cadere nei dolori eterni dell'inferno? Chi oserà peccare col
rischio di dover penare tanto? Oh quanto efficace rimedio sarebbe questo contro i costumi
scorretti dei peccatori, se essi pensassero che l'eternità non ha fine ed ha da durare sempre!
Oh se ogni giorno, o almeno ogni settimana si pensasse un po' a questo, come ciascuno
migliorerebbe la propria vita!
Non si deve però pensare a questo solo di corsa, ma adagio, con attenzione, ben ponderando
tutto, ben riflettendo nel proprio animo che cosa sia l'eternità, in quanto non ha fine, mai,
mai, mai. Come non masticando bene e digerendo male il cibo, esso non torna a profitto, così
l'eternità, solo quando è ben pensata, ruminata e digerita, sarà di grande utilità alle anime
nostre.
La forza di questa considerazione ben ponderata apparisce nel caso riferito da Benedetto
Renato (BENED. RENATO, lib. V Magn. Ordo Cist) di un uomo mondano, molto svagato e
vizioso, il quale si chiamava Fulcòn. Questi, essendosi dato ad ogni genere di piaceri, non
voleva che gli mancasse quello del letto morbido e del sonno lungamente protratto. Una notte
però, non riuscendogli di pigliare sonno, la passò tutta in voltarsi e rivoltarsi, ora su un fianco
ora sull'altro, sospirando ogni momento che si facesse giorno. Mentre così vegliava gli si
presentò questa considerazione:
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“Purché soffri tanto nello stare in questa guisa? Che sarebbe poi se tu dovessi stare così per
due o tre anni in tenebre senza conversare coi tuoi amici e senza il divertimento dei tuoi
giuochi, pur stando in un letto così molle di piume? Certamente sarebbe questa una pena
insopportabile. Orbene hai da sapere che ti capiterà qualche cosa di simile. Per ben che vada,
avrai da cadere infermo in un letto, dove dovrai passare delle notti pessime, se non muori
improvvisamente, il che sarebbe ancora peggio. All'uscire dal tuo letto di morte sai tu che letto
t'aspetta? Sai di qual letto la morte ti rende ospite? Il tuo corpo avrà per materasso la dura
terra e sarà divorato dai vermi; ma dell'anima tua che potrai tu dir di sicuro? Sai dove deve
andare? Certamente conforme alla tua vita presente hai da andare all'inferno. Quivi, che
terribile letto di fuoco ti aspetta, dove non due o tre anni, ma un'intera eternità avrai da star in
tenebre e tormenti perpetui! Mille ed altre migliaia e milioni di anni non basteranno a
scontare uno solo dei tuoi piaceri illeciti. Là non vedrai mai più né il sole, né il cielo, né Dio.
Oh me miserabile, oh povero me! se non posso soffrire questa breve veglia agitatissima, come
potrò soffrire gli eterni tormenti? Quel che è necessario dunque è il cambiare vita, perché per
questa si va nella perdizione",
Con queste considerazioni egli si fece un tal concetto vivo dell'eternità che non poteva cacciare
da sé questo pensiero, finché si decise di entrare come religioso in un convento, dicendo tra sé
molte volte: "Che faccio qui, io miserabile? Godo del mondo e non ne piglio gusto; soffro
molte cose che non vorrei; manco di molte altre che desidererei; mi affanno per le cose di
questa vita, ma che premio riceverò per questa fatica vana? Non ho godimento completo; ma
se anche lo avessi, quanto potrebbe durare? Non vedo ogni giorno coloro che muoiono ed
entrano nell'eternità? O eternità, o
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eternità! Se non sei nel cielo, ovunque tu possa essere, sarai penosa, anche se io fossi in un
letto morbidissimo. Assicuriamoci il cielo e non perdiamo il molto per il poco, né l'eterno per
il temporale”. Così disse e fece, entrando in un monastero dell'Ordine dei Cistercensi.
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disse che per far cento versi gli bastava un giorno e senza difficoltà. Gli replicò Euripide: “Non
fa meraviglia, perché i tuoi versi non hanno vita che per tre giorni, mentre i miei sono per
l'eternità”.
Nella stessa maniera Zeusi, pittore famoso, ma lentissimo, interrogato perché tanto tardasse a
terminare le sue tele, rispose: “Dipingo adagio perché dipingo per l'eternità". S'ingannò
certamente questi, poiché non vi ha traccia di sua pittura e di Euripide si sono perdute molte
opere, mentre nessuna opera del giusto si perderà.
Per guadagnare un'eternità non c'è bisogno di spendere un giorno, perché con un atto di
contrizione che si fa in un momento guadagnarne il gaudio senza fine. Perciò dobbiamo far
profitto della considerazione di Euripide e di Zeusi, non solamente per fare opere buone, ma
per compierle bene, giacché non operiamo soltanto per questa vita, bensì per l'eternità, che
sempre deve stare nella nostra memoria.
Il profitto che la considerazione dell'eternità produsse nel reale Profeta Davide fu la
risoluzione di cambiare vita, mutandosi in un altro uomo, animandosi alla più esatta
osservanza e alla più alta e celestiale perfezione. Così in quel salmo in cui dice che pensava ai
giorni antichi e agli anni eterni, aggiunge subito l'effetto della sua meditazione, dicendo che
aveva da incominciare di nuovo, perché la mutazione che sperimentò nel suo cuore, era effetto
della potentissima mano di Dio. Considerando che l'eternità non finisce mai e sempre
incomincia e tutto è principio senza fine, si decise di dare tale principio a nuovo fervore e vita
più perfetta, che giammai venisse meno nel suo proposito, volendo in questo imitare
l'eternità. Come questa sempre incomincia, così egli voleva sempre incominciare a meritarla.
Come si ha sempre da incominciare da principio ciò che abbiamo da godere o da soffrire, così
sempre principiamo a
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meritare l'uno e a Subire l'altro. Il riposo non avrà mai fine ed il merito deve sempre essere
come nel suo principio. Di questa considerazione fece molto tesoro Sant'Arsenio, facendo
conto anche dopo moltissimi anni di vita santissima, che allora incominciava, ripetendo il
detto di Davide: Dissi, ora comincio. [Ego dixi, nunc coepi (Ps. 76, 11)] Non dobbiamo voltare
gli occhi a quello in cui ci siamo affaticati, ma animarci a lavorare sempre più per Dio, come
faceva l'Apostolo San Paolo (Ad Philipp. 3) il quale disse di sé che si dimenticava di tutto il
passato ed allargava il suo cuore stendendolo nell'avvenire.
Ciò disse l'Apostolo quando già aveva fatto tanto progresso e dopo aver sostenuto tante fatiche
nel servizio di Dio e per il bene delle anime, più che non tutti gli altri Apostoli insieme,
affrontando tanti pericoli di vita e soffrendo tale persecuzione a Damasco, che, se non si fosse
fatto calare dalle mura, lo avrebbero ucciso; dopo che in Arabia aveva convertito molta gente,
dopo aver convertito molti a Tarso ed Antiochia, dopo esser stato rapito fin al terzo cielo, dopo
esser stato scelto dallo Spirito Santo per Apostolo ed aver fatto grandi miracoli e grandi
prodigi, dopo aver perlustrato più volte l'Asia Minore, tutta fa Grecia e la miglior parte
dell'Europa, dopo aver fatto grandi elemosine, raccogliendole con gran fatica sua e portandole
ai poveri di Gerusalemme, dopo aver patito innumerevoli persecuzioni ed essere stato
depredato molte volte, dopo essere stato flagellato e fatto prigioniero più volte, dopo aver reso
infiniti servizi alla Chiesa; dopo tutto questo gli sembrava di non aver fatto nulla per Cristo. Di
tutto dimenticandosi, si comportava come il primo giorno della sua conversione ed era deciso
di far di più, di soffrire di più, di faticare maggiormente e di cominciare di nuovo,
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ritenendosi dopo tante fatiche e tanti servizi per servo inutile, come ci consigliò Cristo quando
disse: Dopo di aver fatto tutto quello che vi ho comandato, dite: Siamo servi mutili, abbiamo
fatto ciò che dovevamo fare (Lc 17, 10). Paragoni uno i suoi lavori, il suo zelo, la sua
predicazione, la sua carità con quelli dell'Apostolo, e troverà di non aver neppure cominciato.
Infatti, se l'Apostolo, dopo di essere giunto a meriti così sublimi, si dimenticò di essi e giudicò
di non aver fatto nulla, noi che non ancora abbiamo incominciato, perché abbiamo da
stancarci prima d'incominciare? Cominciamo sempre di nuovo, giacché l'eternità che ci
aspetta è sempre nuova e sempre sull’incominciare [Non gloriemur in meritis vitae prioria,
nec aliquid aestimemus nosmetipsos, sed quotidie tam recenter tamque frequenter agamus,
ac si eodem die primum inchoaremus, atque morituri essemus (DIONYS. CARTH., in Ps. 76)].
CAPITOLO NONO.
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si rappresenta Dio eterno, chiamandolo l'antico dei giorni lo vede coi capelli bianchi e seduto.
Per la stessa considerazione i Nasamoni, popolo dell'Africa, quando qualcuno doveva morire,
lo mettevano a sedere, perché così seduto spirasse, volendo significare con questa positura del
corpo lo stato nel quale entra l'anima, cioè quello dell'eternità, e sotterravano i morti seduti,
facendo così intendere che il riposo non si ha da cercare in questa vita, ma solo dopo la morte,
quando entriamo per la porta dell'eternità.
Non è questa vita destinata al riposo, né dobbiamo in essa fermarci. Le miserie che in essa si
trovano danno abbastanza a conoscere che Dio non l'ha fatta perché mettiamo in essa il cuore,
ma essa è in esilio e vi dobbiamo camminare a lunghi passi verso il monte dell'eternità. Vita
così miserabile mostra bene da se stessa che ce n'è un'altra, perché qui invano si cerca la
quiete. Nel cielo finiranno tutte le nostre miserie: ivi si asciugheranno le lacrime di questa
valle; ivi troveranno conforto i nostri affanni; ivi si trova il centro dove cessa l'inquietudine del
nostro cuore. Non si dà modo di vita, né sorte di stato, né condizione di uomo, né grandezza di
dignità, né abbondanza di ricchezza, né felicità di fortuna che abbia dato riposo in questo
mondo. Per questo i Romani, quando innalzavano a qualche imperatore defunto una statua,
non lo mettevano seduto, volendo così significare che tutta la felicità ch'egli godeva nel mondo
non aveva potuto dare alla sua vita vera pace, perché l'uomo nacque per la fatica, come disse
Giobbe. Fino alla morte non si potrà trovare riposo, né noi vogliamo cercarlo, anzi poniamo il
trono del nostro gaudio in parte ferma e stabile, cioè nell'eternità, non nell'inquietudine delle
cose temporali, perché per lo meno la morte lo getterà a terra.
Altri dipingevano l'eternità in figure di serpenti per denotare questa medesima condizione
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di immutabilità. Questo animale non ha piedi, i quali sono le estremità degli animali, alla
stessa guisa che l'eternità difetta di estremità e termine. Inoltre i serpenti, benché siano privi
di piedi, di ali, di squame e di ogni altro organo estrinseco naturale, come li hanno gli altri
animali, si muovono nondimeno leggerissimamente e vincono nella corsa gli altri animali che
pure ne sono provvisti. Tutto questo lo devono alla loro vivacità. Così l'eternità, sebbene senza
giorni, senza notti, senza vicende, che sono in certo qual modo i suoi piedi, vince ogni tempo.
In più i serpenti hanno tale vivacità e vita così lunga che, dice Filone Biblio, se non sono uccisi
non muoiono, sì da aver raramente morte naturale, perché non hanno la mutazione degli altri
animali, dalla gioventù alla vecchiaia, dalla salute alla malattia sapendo sempre conservare la
propria giovinezza, rinnovandosi di frequente con lasciare la scorza vecchia.
Oltre a ciò i serpenti non hanno, come gli altri animali, un termine fisso della loro grandezza,
ma sempre vanno crescendo più e più, come l'eternità, la quale non ha alcun termine, né
declinazione, né alterazione. Questa circostanza dell'eternità è molto terribile ai rei i quali
dovranno dimorare nei tormenti, senza aver sollievo di mutare un tormento nell'altro, né
potersi voltare all'altro Iato. San Paolino disse di San Martino che il suo riposo consisteva in
cambiare fatica. Ed invero, sebbene non si cessi dal faticare, il cambiare una fatica nell'altra,
anche se non è minore, è un sollievo. Tale sollievo non avranno i dannati, né sarà loro
permesso di mutare di lato.
Cosa spaventevole è questa: dopo che cadde nell'inferno il primo uomo dannato, sono già
trascorsi più di cinquemila anni, senza che a lui una sola mutazione abbia fino ad ora arrecato
alcun sollievo. Eppure quante mutazioni si ebbero in questo mondo d'allora ad oggi! Mentre
quel
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miserabile è rimasto senza mutarsi nelle sue atrocissime pene, sono passate nel mondo
alterazioni grandissime.
Una volta fu tutto distrutto col diluvio, non restando vive che otto persone. Di poi lungo
tempo tiranneggiarono il mondo gli Assiri, facendosi monarchi di tutto. Passò poi ai
Babilonesi l'impero, cosicché in 1240 anni si succedettero trentasei re nel governo. Dipoi si
trasferì tutta la potenza della monarchia ai Medi con lo scompiglio di tutta l'Asia. Dopo
trecento anni passò ai Persiani; da questi ai Greci, andando il mondo un'altra volta sottosopra.
Quindi passò ai Romani che fu una mutazione maggiore di tutte le altre già passate. Ma anche
la monarchia dei Romani ha avuto la sua fine. Durante tutte queste rivoluzioni e mutazioni del
mondo quel miserabile dannato non ne ha provato veruna.
Inoltre che alterazione non ha patita la natura in questo corso di tempo? Quante isole non ha
inghiottito il mare? Dice Platone di una di esse, sommersa nelle acque, che era maggiore
dell'Africa e dell'Europa. Altre il mare ne ha balzato fuori. I terremoti che edifici hanno
lasciato sicuri, o per meglio dire, che monti? Quante città si sono sprofondate! Quanti fiumi si
sono asciugati o per differenti letti sviati! Quante torri non sono cadute, e mura non si sono
disfatte, e memorie non sì sono disperse! Quante cose non hanno mutato aspetto, quante volte
ha girato l'anno e quanti regni potenti non si sono rivoluzionati! Quante primavere e quanti
autunni sono passati! Quante notti, quanti giorni! E il povero dannato sta ancora in quella
notte oscura come il primo giorno! Mentre il sole ha roteato attorno a lui milioni di volte, il
povero dannato non si è mutato neppure una volta e non ha fatto neppure un passo fuori del
luogo dov'è caduto.
Quante fatiche non hanno compiuto fino a
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questo punto innumerevoli uomini, già trapassati! Quante infermità hanno patito, quanti
tormenti hanno sofferti, quanti dolori hanno provati? Tutti questi sono già dimenticati, ma
nessun dolore, nessun tormento di quel miserabile ha potuto passare in cinquemila anni e
neppure s'è in alcun modo alterato. Tolomeo urlava per la sua gotta, Aristarco era molestato
dalla sua idropisia, Cambise pativa della sua sincope, Teopompo era afflitto per la sua etisia,
Tobia per la sua cecità e il santo Giobbe soffriva la lebbra. Tutte queste infermità però ebbero
fine; ma non l'hanno e non l'avranno giammai tutti i mali di quel miserabile.
Gli abitanti di Rabath furono segati per mezzo, altri arsi vivi nelle fornaci, altri fatti a pezzi;
ma tali tormenti già non sono più; Anassarco fu stritolato in un mortaio, ma già è passato quel
dolore; Perillo fu arrostito in un bue di bronzo, ma già è passata quella pena terribile; quel
povero miserabile invece non ha cessato e neppur ha cominciato a passare attraverso a quegli
orribili tormenti. Da qui a centomila anni questi saranno tanto vivi come al principio. Che
disperazione sarà la sua, vedendo tanta mutazione nelle cose e nessuna nelle sue pene e nei
suoi tormenti! Se gli stessi diletti di questa vita non variassero, si convertirebbero in tante
pene, e come si soffriranno tante pene senza mutazione? Che dispetto sarà per lui vedere che
le fiamme di San Lorenzo, le flagellazioni di San Clemente d'Andrà, la croce di Sant'Andrea, i
digiuni di Sant'Ilarione, il cilicio di San Simeone Stilita, le discipline di San Domenico, tutte le
torture dei Martiri e le penitenze dei Confessori già sono passati e si sono cambiati nei gaudi
eterni, mentre le sue pene non passano, non si mutano, né c'è speranza che finiscano in
eterno. Questi sono mali da temersi, non i temporali, che si cambiano e sono di sollievo e
finiscono, se non in vita, certamente almeno con la morte.
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Speranza e disperazione.
Non dispera l'infermo nella sua malattia, né il povero nella sua necessità, né l'afflitto nella sua
tribolazione, perché i mali di questa vita mutano col tempo, o si alleggeriscono con le
consolazioni, o finiscono con la morte. I poveri dannati invece non possono consolarsi
neppure con la speranza della morte. Se fra tanta moltitudine di pene acerbissime vi fosse
alcuna speranza della loro fine, sarebbe questo già un gran sollievo. Ma non è così, perché da
ogni parte sono chiuse le porte della consolazione. La speranza è quella che rende ingannevoli
i mali e toglie gran parte della loro pena e non v'è fatica che con essa non sia tollerabile. I più
afflitti respirano al solo pensare alla fine delle loro miserie o al cambiamento dei loro mali;
però quale sollievo può avere un dannato, mentre il suo miserabile stato non avrà mai fine, né
saranno i suoi dolori modificati un solo momento?
Avrebbe gran consolazione, se potesse sperare che dopo mille anni gli sarebbe data quella
goccia di acqua che domandò il ricco Epulone. Che dico da qui a mille anni? No, da qui a
centomila anni, da qui a mille volte centomila anni, come se gli dessero un termine
determinato ed aprissero la porta ad una leggera speranza. Se tutto lo spazio occupato dalla
terra e coperto dall'acqua e pieno dell'aria e per cui si estendono tutti i cieli, fosse zeppo di
grani di frumento e dicessero ad un dannato che, quando un uccelletto, che ogni centomila
milioni di anni viene a pigliare un solo granellino, avrà mangiato tutto e porterà via l'ultimo
granello, gli sarebbe data la goccia che il ricco Epulone domandò a Lazzaro, si consolerebbe
nel vedere tanto diminuito il rigore della sua pena per questa sola mutazione. Però non l'avrà
e dopo tanti milioni di migliaia di anni sarà ancora come al principio, tanto crucciato, tanto
rabbioso e senza consolazione come sempre. È questo che spezza il cuore al dannato:
69
il vedersi senza rimedio ed impossibilitato a far ciò che prima gli sarebbe stato tanto facile;
poiché con alcune briciole di pane che cadevano dalla mensa, avrebbe quel ricco potuto
procacciarsi i gaudi eterni, mentre adesso gli è impossibile aver il sollievo di una goccia di
acqua. Qual rancore avranno contro se stessi i dannati, ricordandosi che col privarsi di un
gusto momentaneo avrebbero potuto sfuggire ai tormenti eterni! Quanta rabbia sentiranno
nel cuore, considerando che avrebbero potuto aver sì facilmente un rimedio ed ora penano
senza rimedio alcuno!
Apra dunque gli occhi il cristiano e voglia rimediare adesso mentre può, a ciò che non potrà,
quando vorrà. Adesso è il tempo del perdono, ora è il tempo della salvezza. [Ecce nunc tempus
acceptabile, ecce nunc dies salutis (2Cor., 6, 2)] Che altro ci significano quelle fiamme della
fornace di Babilonia, delle quali dice la Sacra Scrittura che salirono 49 cubiti in alto? (Dan., 3,
47) Perché non dice 50? E chi arrivò a misurare tanto esattamente questa fiamma che con
tanta velocità saliva nell'aria, da poter discernere che la sua altezza era di 49 cubiti e non di
50? Ecco il mistero. Il numero 50 era numero di giubileo e significava indulgenza e perdono;
ma le fiamme dell'inferno, simboleggiate da quella fornace, per quanto eccedano i tormenti di
questa vita, non raggiungeranno mai il giubileo e la remissione della pena per milioni di secoli
che possano durare. Adesso sì che è tempo di perdono ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni
ora ed ogni momento.
Dei giorni interi e delle settimane intere che perdono gli uomini in questa vita, quanto
darebbe un dannato per aver un solo quarto d'ora di tempo per poter fare penitenza! Non
siamo prodighi di cosa tanto preziosa e non perdiamo tempo, col
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rischio di cadere nell'inferno e perdere la gloria eterna. Il tempo di questa vita è tanto prezioso
che poté scrivere San Bernardo: Il tempo vale quanto Dio, perché con esso si guadagna Dio.
Non scialacquiamo cosa di tanto valore, anzi godiamo di poter così a buon mercato
guadagnare con il tempo l'eternità. Onoriamo in tal guisa In stesso Dio, Signore dell'eternità,
compiendo ciò che disse l'Ecclesiastico: C'è chi con poco prezzo redime molte cose (Eccl., 20,
12). Sopra le quali parole San Goffredo scrive: Se ti si deve un'amarezza eterna e tu puoi
sfuggire ad essa con soffrire una pena temporale, senza dubbio hai acquistato grandi cose
con poco prezzo. Anche nei beni eterni è una grande consolazione il fatto che essi non hanno
mutazione e che non solo non hanno da finire, ma neppure possono diminuire.
Consumandosi e mutandosi tutti i beni temporali, essi permangono sempre nel medesimo
stato.
Confronti il cristiano la brevità e la mutazione dei beni di questa vita con la immutabilità ed
eterna durata dei gaudi dell'altra vita. Rifletta sulla differenza che esiste tra queste due parole:
"Ora e sempre”. I malvagi dicono: “Godiamo adesso”. I saggi e virtuosi dicono: “E' meglio non
divertirci adesso, per godere sempre i beni eterni". I mondani dicono: “Viviamo regalmente
ora”. I servi di Cristo dicono: “Moriamo adesso alla carne, per vivere allo spirito per tutta
l'eternità”. I peccatori dicono: “Ingolfiamoci adesso nei piaceri del mondo”. I timorati di Dio
dicono: “Fuggiamo il mondo instabile, per godere poi sempre il cielo”. Si pensi chi è più
saggio, se chi mira a ciò che dura il momento dell'“adesso”, o chi attende all'eternità che dura
sempre; se chi vuole patire senza profitto pur tutta l'eternità o chi vuole patire ora per poco
tempo col gran lucro del regno dei cieli. Oh vita miserabile ed inconsolabile dei
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dannati, vita i cui tormenti non avranno mai fine, né mutazione i suoi dolori, né profitto le sue
pene! Tre cose solamente consolano le fatiche in questa vita: che avranno fine, o che
cambiandosi s'alleggeriranno, o saranno ricompensate con un premio. Tremenda cosa sarà
dover patire per tutta l'eternità senza utilità alcuna, per non aver voluto patire un momento di
tempo, quando lo si poteva, per la gloria di Dio e per guadagnare il regno dei cieli.
CAPITOLO DECIMO.
Dal detto fin qui si ricava la terza qualità dell'eternità ed è non aver essa alcun paragone.
Come non si dà paragone alcuno tra il finito e l'infinito, così neppure tra il tempo e l'eternità;
come è tanto lontano dalla grandezza di Dio un granello di arena, quanto il monte Olimpo,
così tanto sono distanti dalla eternità mille anni, quanto un batter d'occhio. Per ciò disse
Boezio che somiglia più un momento a diecimila anni che non diecimila anni all'eternità.
Non v'è accrescimento che ci dichiari la grandezza dell'eterno, né esagerazione che ci spieghi
la meschinità del temporale o la brevità del tempo. Per questo, Davide, pensando al tempo che
era passato dalla creazione, chiamò giorni i secoli che erano passati fino al suo tempo,
dicendo: Ripensai ai giorni antichi (Sal.76, 6). E non ha esagerato chiamando giorni i secoli,
giacché in altra parte aveva detto, che mille anni dinanzi a Dio erano come un giorno passato
ieri, sicut dies hesterna. Ancora più vivamente significò la stessa cosa San Giovanni, quando
chiamò ora miti gli anni che dovevano
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ancora trascorrere dal suo tempo fino alla fine del mondo. Per la stessa ragione il profeta
Daniele, volendo illustrare la gloria di cui godranno gli uomini apostolici, dice che
risplenderanno come stelle nelle perpetue eternità [In perpetuas aeternitates (Dan., 12, 3)].
Gli sembrava non bastasse il numero singolare per spiegare ciò che è l'eternità, per cui disse in
plurale “aeternitates”, aggiungendo ancora l'aggettivo “perpetuas”. Per quanto però si voglia
spiegare l'eternità, non la si potrà mai spiegare. Si facciano tutte lingue i Profeti e la chiamino
eternità delle eternità, la chiamino molti giorni, la chiamino secoli dei secoli, la chiamino
eternità e più ancora; tutto resta insufficiente per spiegare la sua eterna durata. Per cui disse
Elia che il numero degli anni di Dio era inestimabile, perché, per quanti anni si vogliano o si
possano immaginare, essi non si possono paragonare con la sola eternità. Più facilmente
avrebbe proporzione un minuto con centomila anni che non questi con l'eternità. Si potrà
bensì paragonare un quarto d'ora con centomila milioni di anni, ma questi non avranno mai
confronto alcuno con l'eternità dinanzi alla quale ogni tempo svanisce. In confronto con
questa non è più grande un tempo di milioni di anni che quello di un minuto; rispetto
all'eternità tutto è uguale, o per dir meglio, tutto è niente, tutto sparisce. Disse perciò
l'Ecclesiaste queste parole molto a proposito: Se l'uomo avesse vissuto molti anni ed avesse
goduto in essi molti piaceri, si ricordi poi del tempo tenebroso e dei molti giorni (così chiama
l'eternità), venendo i quali, tutto il passato si troverà essere vanità (Eccl., 11, 8) perché allora
tutto sparirà.
73
La pietra di paragone
Se Caino avesse vissuto e goduto tutta la felicità del mondo fino al giorno presente ed in
questo punto morisse, che cosa gli rimarrebbe? Che cosa gli resterebbe ancora dei suoi giorni?
Certamente niente più che il ricordo di suo fratello Abele, del quale egli fu omicida, già più di
cinquemilacinquecento anni fa. Questi anni ugualmente gli sarebbero venuti meno. E che cosa
avrebbe ancora dei suoi piaceri? Non altro che il dover scontare di più nel tempo tenebroso,
nei molti giorni dell'eternità, conforme a quanto dice l'Ecclesiastico: Il male di un'ora fa
dimenticare dei grandi piaceri (Eccl. 11, 29). Nel momento in cui finisce l'uomo, questi sarà
spogliato di tutto quello che avrà fatto, per assecondare il suo appetito ed i suoi gusti. Ora se
col male di un'ora i diletti di molti anni si dimenticano, come non si dileguerà il diletto di un
momento che ti ha precipitato nell'inferno? Se l'istante della morte di questo miserabile corpo
spoglia uno di ogni godimento, l'eternità della morte dell'anima che farà? come lo spoglierà?
Che cosa ebbe Eliogabalo nel punto di morte dei suoi passatempi e piaceri? Nulla. Ed ora,
dopo essere stato già per tanto tempo sepolto nell'inferno, che avrà? Tormenti sopra tormenti,
dolori sopra dolori, pene sopra pene e mali sopra mali ed un continuo lamento per tutta
l'eternità.
Gli uomini nel punto della loro morte sono tutti uguali, in ordine alle cose della loro vita;
tanto chi visse molto, quanto chi visse poco: chi si divertì molto e chi si divertì poco; chi passò
per grandi diletti e chi per grandi affanni, perché qui tutto è finito. Già l'uno non sente più le
gioie, né l'altro le pene. Nel momento in cui morì San
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Romualdo, dopo cento anni di vita penosissima, che cosa gli rimase dei suoi rigori? E
morendo il grande penitente Simeone Stilita, dopo ottant'anni di prodigiosa penitenza, che ne
sentì egli ancora? Che cosa gli rimase ancora della pena del cilizio ch'egli per sì lungo tempo
non levò mai, né di giorno, né di notte? Che cosa ebbe ancora dei suoi lunghi digiuni e delle
sue orazioni così incessantemente continuate? Certamente non ebbe più pena o affanno che se
avesse consumalo tutti i suoi anni in morbide delicatezze. Non ebbe più né dolore, né pena,
ma ricevette un gaudio eterno. Che ebbe ancora San Clemente d'Ancira delle pene che per
ventotto anni soffrì dai suoi crudelissimi tiranni? Certamente non più di dolore che se avesse
in essi goduto tutte le dolcezze terrene; ma ottenne un'eternità di gloria.
Se il male di un'ora fa dimenticare i piaceri di cento anni, molto più il gaudio e la felicità di
una eternità faranno dimenticare i dolori di ventotto anni. Oh prodigioso momento della
morte, con cui finisce lutto ciò che è temporale e passeggero e principia ciò che è eterno! Esso
impone fine ai piaceri dei peccatori e da inizio ai tormenti che non finiranno mai più; esso
impone fine alle pene e alle asprezze dei Santi e incomincia i gaudi eterni.
Veda dunque il cristiano ciò che sceglie. Ugualmente hanno da finire i piaceri con cui pecca e
le pene con le quali si soddisfa; ugualmente durano i tormenti che derivano dall'aver peccato
ed i gaudi provenienti dal merito. Scelga ciò che meglio gli starà; veda se sia meglio per lui
procacciarsi un pascolo eterno di gloria con un affanno leggero e momentaneo di penitenza,
perché quantunque durasse cento anni, sarebbe sempre, rispetto all'eternità, un momenti).
Nessun penitente si atterrisca per una vita lunga, perché nessuna vita è lunga rispetto
all'eternità. Disse bene
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Sant'Agostino: Ogni cosa che ha fine, è breve [Omnis res, quae finem habet, brevis est (In Ps.
45)]. Fine avranno mille anni, fine avranno centomila anni e fine avranno cento milioni di
anni. Così ogni tempo che sembra immenso è breve e rispetto all'eternità non più che un
istante. Della stessa maniera si ha da guardare a centomila anni come ad un'ora. Non si ha da
desiderare la vita lunga più che la vita breve, perché rispetto all'eternità è tutto uguale.
Siccome un corpo solido non ha maggior peso o volume, se è limitato da poche o da molte
superfici, perché queste per quanto numerose nulla gli aggiungono; così parimenti rispetto
all'eternità, un anno non è meno di centomila anni, né centomila sono più che un anno. Tutto
il tempo, benché sia di milioni di secoli, dev'essere ritenuto come un istante e tutto il
temporale, come una superficie o apparenza, non come cosa solida o di sostanza. Tutti i tempi,
con tutti i beni che in essi si trovano, non potranno fare un bene solo dell'incomprensibile
eternità.
Se tutta la terra si dice un punto rispetto al cielo, il quale è di grandezza finita e limitata, che
meraviglia che tutto il tempo sia come un istante rispetto all'eternità che è infinita? Dalla terra
al cielo ed anche tra un granello di arena ed il più alto dei cieli vi è proporzione, e ciò
nondimeno non è neppure un punto in suo paragone. Tra centomila anni però e l'eternità non
v'è proporzione e saranno quindi meno di un istante.
Oh cecità degli uomini, che fanno tanto conto del tempo, per procacciarsi diletti in vita e
memoria in morte, fama ed applausi in vita ed in morte! Perché? Per un momento? Per un
istante? Per godere nella vita che domani finirà? Per lasciare memoria vana e caduca dopo la
morte? Forse fino alla fine del mondo, la quale non tarderà
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molti anni? Che anche tardasse milioni di secoli, sarebbe sempre breve, dovendo finire. Tutto
è come un momento rispetto all'eternità.
Come la immensità di Dio è rispetto al luogo, così è l'eternità rispetto al tempo. Come rispetto
all'immensità di Dio tutto il mare non è più che una goccia di acqua e l'atomo dell'aria non è
meno che tutto il mondo, così rispetto all’eternità centomila secoli non sono più che un
istante. Se Dio ti desse solo un quarto d'ora di vita e tu sapessi, che dopo la tua morte, il
mondo entro un'ora dovesse finire, spenderesti quel tempo in procurarti fama dopo la tua
vita? Certamente non ti preoccuperesti d'altro che di prepararti alla morte e non ti
importerebbe nome vano e grande memoria di te. Sappi dunque che devi far lo stesso ora,
sebbene tu fossi certo di poter vivere cento anni e che il mondo non finisse prima di centomila
anni. Tutto ciò che ha fine è breve e tutto il tempo, rispetto all'eternità, è un'ora, un momento.
Disse S. Giovanni che al suo tempo il mondo era già arrivato all'ultima ora, benché
mancassero tanti anni, perché tutti questi anni non sono più che un'ora rispetto all'eternità.
Come tu non ti preoccuperesti di lasciare nome di te nel mondo, se mancasse soltanto un'ora
fino al suo termine, così non vi devi pensare ora, anche se vi mancano ancora molti secoli.
Se tu sapessi di dover vivere cent'anni ancora, ma non avessi che un'ora di tempo per estrarre
dal tesoro di un gran re il necessario nutrimento di tutta la vita, andresti forse a consumare
quell'ora baloccando o passeggiando, o ti intratterresti in vana conversazione o andresti a
cercare divertimenti? Certamente non smetteresti di lavorare e di farti premura a caricare
quei tesori. Ed allora, come ti trascuri, sapendo che la tua
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anima ha da vivere per un'eternità e non avrà se non quello che in questa vita avrai
guadagnato e meritato? Guarda il poco tempo che ti fu dato per guadagnarti l'eternità. Come
vivi senza pensiero? Come te ne vai passeggiando? Come puoi badare ai passatempi, come
puoi ridere, come non piangi e non fai a brani le tue carni con la penitenza e col rigore di vita?
Più è un'ora rispetto a cento e centomila anni che non centomila anni rispetto all'eternità. Se
in quell'ora, che ti sembra poco tempo, non riesci a tesoreggiare, come riuscirai a meritare
un'eternità nel tempo di questa vita, anche se fosse di cento anni, giacché è sempre un
momento rispetto all'eternità?
Pensa che cosa sono cento anni rispetto ad un milione di anni, e poi guarda che cosa sono
rispetto all'eternità. Se per cento anni di tormenti te ne dessero un milione di piaceri, ciò ti
verrebbe molto a buon mercato, giacché daresti diecimila volte meno di quello che ricevi; ma
non per cento anni ma per un'ora di mortificazione di un piacere Dio ti promette un'eternità
di gloria. Considera bene quanto meno dai di quello che ricevi, perché se una vita lunga di
fatiche fosse, rispetto ad un milione di anni, diecimila volte di meno, che sarà in confronto
all'eternità, rispetto alla quale milioni di secoli non sono neppure un istante?
Vedi quanto è breve lo spazio di questa vita per tesoreggiare quella eterna. Con ragione disse
Sant'Agostino: Per un riposo eterno sarebbe da sostenersi una fatica eterna; chi riceverà una
felicità eterna dovrebbe soffrire patimenti eterni (In Ps. 39). Infatti come ti può sembrare
lungo il tempo breve di questa vita? Non dubito che non v'è giusto nel cielo, né peccatore
nell'inferno che, tutte le volte che diriga gli occhi nell'eternità, non si meravigli e non
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stupisca che una cosa tanto breve com'è questa vita, sia la chiave del bene o del male eterno.
Considera quanto a buon mercato ti si dà l'eternità di gloria. Pesa mille anni in confronto
dell'eternità, pesa diecimila, pesa centomila, non fai nulla, tutto è fumo e paglia, perché non
v'è confronto ira l'infinito ed il finito, né tra il vivo ed il dipinto.
Disse Plotino che il tempo è immagine dell'eternità. e Davide che l'uomo si passa in immagine,
cioè nel tempo. Lo stesso che si dice del tempo si può dire di ciò che corre nel tempo. I mali ed
i beni temporali sono dipinti in confronto a quelli dell'eternità. Vedi ora quanto a buon
mercato si dà una gloria senza fine per una fatica tanto breve, una beatitudine vera per un
affanno dipinto, e tu vorresti disprezzarla per un piacere finto e momentaneo! Disse Salomone
che la Sapienza nella mano destra teneva l'eternità, nella sinistra le ricchezze e la gloria, per
significare che con più premura si deve cercare l'eterno che il temporale, che si deve preferire
la virtù alla ricchezza e agli onori, perché, come la mano destra ha più forza della sinistra, così
dobbiamo cercare e conservare l'eterno con tutte le nostre forze, non invece il temporale;
giacché anche i beni più grandi di questo mondo, anche la maggiore gloria di esso, non
essendo eterni, a che giovano?
Avendo fine le cose di questo mondo, si affondano nell'abisso del niente, come se non fossero
mai state. Non dico soltanto i piaceri della vita, ma anzi la vita stessa, la quale che cosa e altro
se non un'ombra di esistenza? Considera anzi un piacere goduto; questo per un'eternità non
fu piacere tuo, e, dopo che tu ne sia privo, vi sarà altra eternità in cui non sarà tuo; questo
equivale a non averlo mai avuto. Tutto ha principio e fine, fuorché l'eternità; tutto si affonda e
viene assorbito, come se non fosse mai stato. Così lutto ciò che è temporale non sarà di utilità
alcuna, se non ne caverai da esso alcun frutto eterno che dura.
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CAPITOLO UNDECIMO.
Quantunque da tutto ciò che si è detto fin qui si possa raccogliere ciò che sia il tempo e la vita
temporale; ciò nondimeno lo considereremo ora più particolarmente, dopo di aver trattato
dell'eternità, per formarci un concetto vivo della meschinità delle cose temporali e della
grandezza di quelle eterne, Aristotele definisce il tempo chiamandolo misura del moto. Dove
non v'è mutazione, né successione, non v'è tempo.
Il tempo è velocissimo.
Spiega ciò più chiaramente Eleusippo, aggiungendo che il tempo è la misura del corso del sole.
Proclo disse che era il numero delle corse e delle rivoluzioni dei corpi celesti. I Pitagorici
dissero che il tempo è l'ultima sfera, onde le altre vengano raggirate, cioè l'ultimo cielo, il cui
movimento è sopra ogni altro rapidissimo e leggero. Secondo la qual opinione anche
Sant'Alberto Magno (S. ALBERTO MAGNO, in III Phys.. tract. II, cap. 3) disse che il tempo è
misura del moto del primo movibile, di maniera che il tempo è un accidente di cosa tanto
incostante quanto il moto. Onde Avicenna: Il tempo è cosa più tenue che il moto.
Considera dunque quanto hai da fidarti della vita umana, giacché essa è parte di cosa tanto
incostante, debole e veloce, che corre a passo col sole, colle stelle del firmamento, le quali
eccedono non solo gli uccelli velocissimi, ma il vento stesso. Sappi che la morte non viene
dietro di te con piedi
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di piombo; essa porta ali e volando ti viene a cercare con tanta celerità che non si può
immaginare maggiore. Non solo eccede gli uccelli dell'aria, ma non v'è proiettile d'artiglieria
che con furia più grande si muova di quello che essa corre per raggiungerti.
Considera le cose più veloci che tu conosci e pensa che tutte si muovono a passi di tartaruga in
confronto della morte. Rapidissimamente si scaglia un falco sulla pernice; però più lenta è la
sua velocità in confronto del tempo e della morte, che viene come un cavaliere per far preda di
te; ma più velocemente di un uccello va la saetta tirata dal cacciatore, che in mezzo all'aria
uccide il falco; ma lenta sempre è la saetta più veloce in confronto di quella che ha scoccato la
morte dal punto in cui nascesti.
Che cosa si può immaginare più veloce di un fulmine che cade dal cielo? Ciò nondimeno il suo
moto è ancor lento in confronto della velocità con cui corre la morte, perché va al pari del
movimento delle stelle del firmamento che più velocemente si muovono e la cui velocità è
tanto prodigiosa che percorrono in un giorno più di 1017 milioni di leghe e in un'ora più di
quarantadue milioni di leghe, secondo il computo del P. Clavio. Con questo passo viene la
morte dietro di te; come non temi? Viene più agile di un'aquila, più veloce che un fulmine, con
tale velocità che perfino il pensiero non la raggiunge; come non temi? Già è teso l'arco, già è
scoccata la saetta e già viene verso di te; come non abbassi neppure il capo e ti umili e ti
riconosci? Se tu sapessi che con un tiro di artiglieria ti vogliono colpire e tu non puoi fuggire, e
non sai che fare; se sentissi il comando di sparo, che sarebbe di te? Moriresti di solo spavento.
Sappi dunque che molto più precipitosamente e già avvenuta la saetta della morte e non v'è
quarto d'ora in cui non
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corra dieci milioni di leghe per raggiungerti e non sai da dove sia partita, né dove ora sia: se
anche fosse molto lontana da te, essa corre con tanta lestezza che non può che colpirti molto
presto. E non sapendo quando arriva devi starla aspettando ogni momento, perché ad ogni
momento ti può colpire.
Oltre la velocità devesi considerare del tempo quella qualità che notò Aristotele, dell'essere
misura del moto, in quanto ha un prima ed un poi, cioè in quanto con continua successione
una parte viene dopo l'altra, la quale circostanza, come avverte Averroè, è pure essenziale nel
tempo. Esso non può dare unite le cose, ma solo l'una dopo l'altra, cosicché non giungono le
seconde quando non siano passate le prime, morendo ogni momento le prime, perché
vengano le seconde.
I beni, dei quali può godere la vita nell'infanzia, si devono lasciare, quando vengono gli anni
della gioventù, questi quando vengono quelli della vecchiaia. L'ingenuità, la sicurezza e
l'innocenza dei bambini si perdono con la gioventù; le forze e il vigore della gioventù già non
stanno più con la vecchiaia, di maniera che non v'è tempo in cui sia dato tutto, innocenza,
vigore e prudenza. Bensì, essendo tanto limitati i beni della vita, ce li dà tanto limitatamente,
che la stessa vita c'è data in tante parti alternate ancora con altrettante di morte.
Prima che venga la fanciullezza deve morire l'età della prima infanzia; prima che venga la vita
puerile deve morire l'infanzia: prima che venga la gioventù deve finire l'età puerile; e la stessa
gioventù muore prima che venga lo stato della virilità, la quale pure deve spirare prima che
venga la vecchiaia, e perfino la stessa vecchiaia deve scomparire davanti all'età decrepita. Di
maniera che
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in una stessa vita uno troverà, prima di morire, che è morto già molte volte. E con tutto questo
non siamo ancora riusciti a persuaderci che dobbiamo morire una volta.
Guardiamo dunque alla nostra vita passata e consideriamo che cosa avvenne della nostra
fanciullezza, della nostra puerilità, della gioventù. Già morirono in noi, così nella stessa
maniera moriranno tutte le altre età e vite della nostra vita. Non solamente moriremo nei
tempi principali di essi, ma bensì ogni ora ed ogni momento, con una perpetua successione e
mutazione di cose. Quale contentezza v'ha nella vita che subito non muoia e le succeda un
dispiacere? Quale affetto non da pena, che non gli succeda altra con disinganno uguale o
maggiore? Per una cosa assente uno si rattrista, e se presente se ne infastidisce; ciò che aveva
desiderato lo affanna, posseduto gli dà preoccupazione e perduto gli dà pena.
Il breve lasso di tempo in cui si prova un godimento, non si può gustare tutto insieme, ma
bensì per parte, senza sentire il gusto dei primi istanti quando vengono i secondi, diminuendo
esso ogni istante e morendo noi insieme con esso ogni momento. Non v'è punto nella vita in
cui la morte non guadagni molto terreno. I movimenti del cielo non sono altro che un girare
vertiginoso, in cui si sta sempre avvolgendo il gomitolo della nostra vita; o un cavallo
velocissimo, il cui cavaliere è la morte.
Non v'è momento nella vita in cui la morte non eserciti uguale giurisdizione. Ben disse un
Filosofo, che non v'è momento di tempo, che non lo dividiamo con la morte. Se ben si
considera, non viviamo che un punto, perché non abbiamo della vita che un istante.
Gli anni passati sono già passati e di essi nulla più abbiamo, come se fossimo morti; gli anni
che hanno da venire ancora non li viviamo e nulla
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Marco Aurelio [Aevum fluctus est rapidus (Marco Ant. Aur., lib. IV).]. Come un'ondata
gagliarda ingoia in un momento la nave e non lascia che il navigante goda delle sue merci,
caricate sopra di essa, non altrimenti fa il tempo che con furia rovina e annega tutto. Questo
filosofo considerò tanta brevità nel tempo, che giudicò essere una medesima cosa vivere
lungamente che vivere poco.
Per questo aggiunse una sentenza che voglio riferire qui a nostro disinganno: “Se Dio ti
dicesse di dover morire domani o il giorno seguente e tu ne facessi molto caso per non dover
già morire domani ma il giorno seguente, ciò mostrerebbe che hai un animo dappoco e stolto:
perché qual differenza vi può essere tra l'uno e l'altro giorno, mentre v'è così poca distanza?
Ora della stessa maniera giudica tu, che non devi tenere per gran differenza morire dopo mille
anni o morire domani.
Considera minutamente quanti medici sono morti, i quali, esaminando il polso agli infermi
inarcavano le ciglia; quanti astrologi, i quali si lodarono per aver detto ad altri quando
dovevano morire; quanti filosofi che disputarono lungamente intorno alla morte ed alla
mortalità; quanti generali celeberrimi in guerra che hanno ucciso molti; quanti re e tiranni
che con grande insolenza usavano del loro potere: quante città intere sono, per così dire,
morte; Elice, Pompei e Ercolano e altre innumerevoli. Aggiungi a questi quanti hai conosciuti
ed hai accompagnati nelle loro esequie, i quali sono morti uno dietro all'altro, e quel che ieri fu
un uomo robusto, oggi è verme o cenere: momentaneo è tutto il tempo” (Ibidem). Tutto ciò
disse questo sapiente principe.
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CAPITOLO DODICESIMO,
Considera ora che cosa è il tempo e che cosa è la tua vita, e se si può dare una cosa più veloce
ed incostante. Confronta l'eternità, che sempre rimane nel suo sfato, col tempo che con tanta
precipitazione corre e si muta. Come l'eternità da una stima infinita alle cose che hanno
rapporto con essa, così il tempo toglie ogni valore alle cose che finiscono con esso. Devi
stimare infinitamente il gaudio più piccolo del cielo, perché durerà infinitamente: devi invece
ritenere per nulla la gioia più grande della terra, perché deve finire e ricadere nel nulla.
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calore in più la distrugge e un po' di vento che spira o il respiro d'un infermo o una stilla di
tossico, bastano per farla scomparire. Di maniera che, se ben la si consideri, non c'è vetro che
la pareggi. Il vetro, se non sì tocca dura, ma la nostra vita si consuma e finisce senza essere
toccata. Il vetro sollecitamente custodito starà intero per secoli, ma contro il consumarsi della
vita non si trova rimedio.
Tutto questo intese molto bene Davide, il quale fu il più fortunato e più potente principe che
ebbero gli Ebrei, e re di un regno così grande che abbracciava i due regni della Giudea e di
Israele e di quanto promise Dio agli Israeliti, i quali solo nel suo tempo ottennero di
possederlo, ed estese il suo impero a molte altre province con tanta abbondanza di ricchezza
che la sua corte riboccava di oro, lasciando perciò grandi tesori a suo figlio Salomone. Ora
questo principe così fortunato, pensando che tutta la sua grandezza doveva aver fine subito,
ritenne per nulla ogni cosa. Non solo ritenne per vanità i suoi regni e le sue ricchezze, ma la
stessa sua vita; onde disse: Ecco, a corta misura tu hai ridotto i miei giorni; e l'essere mio è
come nulla dinanzi a te [Ecce posuisti mensurabiles dies meos et substantiamea tamquam
nihilum ante te (Ps. 38, 6).]. Tutte le mie rendite, tutti i miei regni, tutti i miei trofei e tutte le
sostanze che io posseggo per essere re sì potente, tutto è nulla. Di poi aggiunse: Sopra tutto è
una vanità universale la vita stessa dell'uomo [Universa vanitas omnis homo vivens (Ps. 38,
6).], cioè tutta la mia vita, perché la vita dell'uomo è la cosa più fragile di quanto l'uomo
possegga. Questa bassa stima e questa vanità hanno le cose, anche se di esse potessimo godere
mille anni. Dovendo però finire tanto presto, e più presto di quello che pensiamo, che conto
possiamo tenere di esse? Oh se ci facessimo un concetto esatto di questo, quanto breve cioè sia
la
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vita, quanto si disprezzerebbero tutti i suoi piaceri! Questa è una cosa tanto importante, che
Dio comandò al più grande dei suoi Profeti di uscire perle vie e le piazze ad esclamare a voce
di tromba quanto sia fragile e breve la nostra vita.
Il profeta Isaia, annunciando il più grande mistero rivelato da Dio, cioè quello
dell'Incarnazione del Verbo eterno, udì tutto ad un tratto una voce del Signore che gli diceva:
Clama. Il Profeta rispose: Che cosa devo gridare e che vuoi che annunci con grida? Dio gli
disse: Ogni carne è fieno e la sua gloria è come un fiore del campo [Omnis caro foenum et
gloria eius sicut flos campi (Is., XL, 6)].
Come il fieno si taglia e secca dalla mattina alla sera ed il fiore in un momento appassisce, così
è la vita di tutta la carne; la sua bellezza e leggiadria passa e marcisce in un giorno.
Sopra questo passo dice San Gerolamo (Comm. in Is., cap. 40): “Chi veramente considerasse
la fragilità della carne e pensasse che in ogni ora cresciamo e decresciamo, e che questo stesso
che stiamo facendo, parlando, dettando, scrivendo, ci passa dinanzi quasi volando dalla nostra
vita, non dubiterebbe di dire che la nostra carne è fieno. Colui che ieri era bambino, in un
momento diventa giovinetto, questi presto si fa uomo e fino alla vecchiaia si va mutando:
prima ancora che si meravigli di non essere più giovane, già sente di essere diventato vecchio”.
Un'altra volta, considerando il medesimo Santo il suo discepolo Nepoziano, (In Epilaphio
Nepotiani) il quale mori nel fiore dell'età, disse: “O miserabile condizione della natura umana!
Vana è tutta la vita umana che spendiamo senza Cristo, tutta la carne è fieno e fior del fieno.
Dov'è ora quel volto bellissimo? Dove sta la dignità di tutto il suo corpo, che come un
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bell'abito rivestiva la bellezza della sua anima? O dolore! Si marci il giglio, ed il color di
porpora si mutò in giallo”.
Di poi aggiunge: "Dobbiamo quindi considerare ciò che saremo un giorno che, volenti o
nolenti, non può essere tanto lontano. Se la nostra vita oltrepassasse novecento anni e ci si
concedesse l'età di Matusalem, tutta la età vissuta non sarebbe nulla, perché dovrebbe finire.
Sarebbe tutta una medesima cosa il vivere dieci anni ed il vivere mille anni, quando è venuta
la fine della vita e la necessità della morte. Senonché il vecchio sarà caricato di un fardello più
pesante di peccati”.
Essendo la brevità e fragilità della vita umana tanto certa. Dio volle che il Profeta annunziasse
questa verità insieme con il mistero più nascosto e più ignorato dalla mente umana, cioè
quello dell'Incarnazione, la cui possibilità non conoscevano neppure i più alti Serafini. E
siccome gli uomini non riescono a persuadersi di questa verità ed a convincersi della brevità
della vita, e, pur vedendo che ad ogni ora si muore, s'illudono che per essi l'ora della morte
abbia a giungere mai, e, pur sentendone parlare ogni giorno, questa verità e per loro come un
mistero nascosto che non riescono ad intendere, così volle Iddio che il profeta Isaia ce lo
annunziasse ad alte grida, come cosa nuova e di grande importanza, perché penetrasse bene
nel cuore degli uomini. Ascoltiamo dunque Dio che ci rivela questa verità: Tutta la carne è
fieno, ogni vita è breve, tutto il tempo vola, ogni vita scompare ed una grande moltitudine di
anni è come un nulla.
Apprendi parimenti quanto ciò sia vero da quello che giudicano della vita gli uomini più
sperimentati nel vivere. Ti prometti tu forse cento anni di vita e credi che sia lunga? Ora
ascolta il santo Giobbe che visse 248 anni e poté essere ottimo giudice di ciò che sia il vivere,
sia nelle prosperità, sia nelle
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avversità, le quali sembrano allungare ancora di più il tempo: Niente, dice, sono i miei giorni
[Nihil enim sunt dies mei (JOB., 7, 16).], cioè quasi tre secoli di vita.
Molte altre volte Giobbe parla della brevità della vita, illustrandola con diverse comparazioni e
metafore. Una volta dice che i suoi giorni sono più veloci di un messaggero, o che passano
come una nave che divora il mare a vele gonfie, o come aquila reale che piomba
precipitosamente sulla preda. In altra parte dice che passano più presto di quel che un
tessitore dia una sforbiciata nella tela; un'altra volta paragona la vita umana con le foglie che
cadono dalle piante o con la paglia secca che viene portata via dal vento. Altra volta dice che la
vita dell'uomo è come un fiore, il quale appena spuntato viene calpestato, oppure che essa
fugge come un'ombra, senza rimanere in un medesimo stato.
Tanto poca cosa è la vita, che Giobbe la qualificò un'ombra, e questo in un tempo quando la
vita era tre o quattro volte più lunga di adesso; e non è meravigliato che uguale giudizio ne
diano quei disgraziati i quali, prima del diluvio, vissero più di novecento anni, ma essendosi
dannati, vanno esclamando, fra i loro tormenti: Che ci ha giovalo la superbia? E la ricchezza
con la boria che bene ci ha apportato? Tutto ciò è passato come ombra e come fugace
notizia. Come nave che fende l'onda agitata, di cui, passata che sia, non si scorge vestigio, né
solco della sua carena sui marosi; o come uccello che vola via per l'aria, del cui viaggio
nessuna traccia rimane: ma il vento leggero, battuto a colpi d'ala e rotto a forza con lo stridere
delle mosse penne, fu attraversato, né si trovò poi segno del passaggio per esso; o come
quando scagliata una freccia al bersaglio, l'aria divisa rifluisce subitamente in se stessa,
giacché nulla più si sappia
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del percorso di quella, così anche noi, dopo d'esser nati, abbiamo cessato di essere e nessun
segno di virtù potremmo mostrare, ma nella nostra iniquità ci siamo consumati (Sap 5, 8-13).
Queste sono parole dei miseri dannati, i quali vissero più di ottocento anni. Se una vita tanto
lunga tennero per ombra, quando morirono, che penserai tu di vivere molto, se nel nostro
tempo è tanto arrivare a sessantenni? La vita di ottocento anni non è più che lo svolazzare di
un passero o lo scoccare di una freccia od il passo dell'ombra. Ora, che pensi possano essere
cinquant'anni di vita?
Anche la vita più lunga che si voglia immaginare fu paragonata da Omero alle foglie d'albero
che tutto al più durano un'estate; e sembrando ciò molto ad Euripide, questi disse che la vita
umana bastava che avesse nome di un giorno. Demetrio Falereo, giudicando questo ancor
troppo, stimava doversi chiamare, non un'ora, ma un minuto. Platone era d'avviso che non le
si dovesse attribuire alcun essere, chiamandola sogno di uno desto. San Giovanni Crisostomo,
ritenendo ciò per molto, lo corresse dicendo che era, non sogno d'uno sveglio, ma di uno
dormente. Non sembra che i filosofi ed i santi abbiano trovato una spiegazione sufficiente
della brevità di questa vita, perché né corriere sopra la terra, né nave per il mare, né uccello
per l'aria passa con più velocità. Tutte queste cose ed altre che si tengono per veloci, non
hanno sempre la velocità nel loro essere, senza che una volta o l'altra vengano meno e si
fermino. Così la vita umana sembrava a Filemio tanto veloce che disse essere null'altro che
nascere e
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morire, e che nascendo usciamo da un sepolcro oscuro per entrare, morendo, in un altro più
triste e tenebroso. Infatti il tempo del sonno toglie alla vita, già tanto breve, la terza parte, e le
toglie ancora quello della fanciullezza; altra parte viene tolta da vari accidenti, che
impediscono il senso e il frutto del vivere. Ben presto resterai con la metà di quel nulla che
stimi molto. Nella vita si avvera bene ciò che disse Averroè (IV Phys., text. 13): che il tempo è
un essere diminuito in sé, perché questa vita è poca cosa e diminuisce tanto che le molte sue
parli si riducono a un punto rispetto all'eternità. Anzi questa stessa metà che ti pare di aver
messa in netto, pensi tu d'averla sicura? T'inganni, perché, al dire dell'Ecclesiastico: Non
conosce l'uomo la sua fine, (Eccl. 9. 12) come i pesci, gli uccelli, quando si credono più sicuri,
sono colti dall'amo o dal laccio, così la morte assalta gli uomini, quando essi meno vi pensano.
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di creta, e colpita che fu da un sassolino, andò in frantumi per terra. Tutte le grandezze e
ricchezze del mondo hanno per base la vita di quelli che le godono, la quale, non dico da un
sassolino, ma da un acino d'uva può essere disfatta.
Con ragione disse Davide che l'uomo, tutto quanto è e vive, è vanità universale, perché basta la
brevità della vita dell'uomo per rendere vili e vani quanti beni possano essere goduti
dall'uomo. Vani sono gli onori, vani sono gli applausi, vane le ricchezze, vani i piaceri della
vita, perché vana e fragile è la stessa vita. Che conto faresti di una torre costruita sopra arena
mobile? E quale sicurezza avresti della mercanzia portata in una nave avariata? Non devi
certamente far conto maggiore dei beni di questa vita, giacché anch'essi si basano in cosa
tanto instabile, quanto è essa medesima.
Che cosa potrà essere tutta la gloria umana, avendo la vita, a cui è appoggiata, la consistenza
del fumo, secondo Davide, o quella d'un vapore, secondo San Giacomo, che in un momento
scompare? Se anche fosse di mille anni, arrivando al suo termine, è uguale a quella che, durò
un giorno, perché tanto la felicità della vita lunga, quanto quella della vita corta, è fumo e
vanità. L'una e l'altra passano e finiscono con la morte.
Querrico, Domenicano, gran filosofo e medico prima, poi grande teologo, sentendo leggere il
capitolo quinto della Genesi, dove la Sacra Scrittura comincia la genealogia dei figli e
discendenti di Adamo, e prosegue con quel noto intercalare: Tutta la vira di Adamo fu di 930
anni e morì; la vita di Seth fu di 912 anni e mori ecc.; disse a se stesso: ma se tali e tanti
uomini, dopo una vita così lunga, alla fine morirono, e cosa giusta perdere più tempo nel
mondo, o non conviene piuttosto mettere la vita in salvo, sì da non perderla quando finirà?
Con questo pensiero egli si fece religioso di S. Domenico e condusse una vita santissima.
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Oh quanto forsennati sono gli uomini, che, pur essendo tanto breve la vita, sono solleciti di
vivere molto e non si preoccupano di vivere bene, essendo cosa assodata, come disse Seneca
(Epist. 22) che tutti possono vivere bene e che nessuno, per quanto viva, può vivere molto. Ciò
si può vedere meglio ancora in quel che dice Lattanzio (De Divinis Instit., lib. VI) che, essendo
tanto breve la vita, è necessario che i mali ed i beni che in essa si trovano siano brevi, come
sono eterni i mali ed i beni che si trovano nell'altra, Volendo Dio distribuire ugualmente
questi beni e mali, ordinò che ai beni brevi di questa vita, per chi ne abusa, succedano
nell'altra mali eterni, ed ai mali brevi che si soffrono qui per amore di Dio, succedano beni
eterni. Così, ponendoci Dio dinanzi ai beni ed ai mali e lasciandoci la libertà di scegliere
secondo il nostro beneplacito, è grande stoltezza per non voler soffrire i mali brevi perdere i
beni eremi, e per voler godere i beni tanto brevi, patire poi mali tanto lunghi che non avranno
fine.
CAPITOLO TREDICESIMO.
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Il più che riesce a sapere è che non si dà tempo lungo e che si può chiamare tempo solamente
ciò che è presente, che è solamente un momento. La medesima cosa sentì l'imperatore
Antonino il quale nella sua Filosofia (Lib. II, cap. 15) pronuncia questa sentenza: “Se tu avessi
anche a vivere 3000 anni e più, ricordati che la vita che si abbandona morendo è solo quella
che si vive nell'istante della morte. Così una stessa cosa sono uno spazio lunghissimo di vita ed
uno brevissimo, dato che uguale è il momento presente, anche se diverso fu il tempo passato.
E così pare che un solo punto esista nel tempo, perché nessuno può perdere né il passato, né il
futuro, giacché nessuno può perdere ciò che non ha. Per il che si devono tenere in mente
queste due cose; La prima, che fin dal loro principio tutte le cose hanno una medesima figura
e girano in un circolo e non v'è differenza tra quello che vive cento o duecento anni e quello
che vivesse un tempo infinito. L'altra è che chi visse moltissimo e chi tosto morì, perdono una
medesima cosa, perché sono privati soltanto di ciò che è presente, giacché solo questo hanno,
mentre ciò che non si ha non si può nemmeno perdere”. Tutto questo dice il saggio principe.
Non si trova nel tempo più sostanza di quella del momento che è presente. Avverte però S.
Agostino quanto poco si possiede questo medesimo momento presente, mentre non si può
affermare ciò che esso è, e dice: Il presente è tempo perché passa: però come può dirsi che è,
se la causa del suo essere è perché non sarà? Di modo che non lo potremo veramente dire
essere, se non perché cammina verso il non essere.
Ecco ora la base della tua felicità, la colonna di bronzo cui appoggi le tue speranze; in una cosa
così poco costante, che il cessare d'essere è la sua
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sola consistenza, e l'essere suo riceve, se pur ne ha, da l'andare al non essere. Quale essere può
avere ciò che è e non è, e che cessa di essere con tanto impeto e velocità che non lo potrai
fermare più d'un momento? Però neppure questo momento si ferma, perché il momento che
è, sta in una corsa perpetua e continua. Mi dica colui che sta nel fiore dell'età, se ha forze
sufficienti per fermare gli anni della sua vita, sicché questa non corra neppure un giorno? Che
potere avrà per far sì che un piacere vissuto per un'ora si fermi, sicché si possa dire che non
sia passato?
Se senti di afferrare il tempo, non troverai di che, perché non se ne conosce il volume, ma con
tutto questo esso corre con tanta forza che ti trascinerà dietro di sé senza che tu lo possa
fermare; poiché esso corre sempre verso il suo termine. Perciò, parlando della vita, il
medesimo Santo Dottore disse che il suo tempo era in correre alla morte, la quale è tanto
veloce e leggera e mescolata con tante morti di uomini, che gli viene il dubbio, se la vita dei
mortali non si debba chiamare piuttosto morte che vita e dice: Dal punto in cui uno comincia
a sfare in questo corpo, che ha da morire, in lui sta sempre venendo la morte. Ciò è opera della
sua mutabilità, per il tempo di questa vita, se pur può chiamarsi vita quella che non esiste se
non perché viene la morte. Non v'è nessuno che dopo un anno non sia più vicino alla morte
dell'anno prima, o domani più di ieri e adesso più di poco prima, perché tutto il tempo che si
vive, si toglie al tempo della vita ed ogni giorno diminuisce ciò che resta, di tal maniera che il
tempo di questa vita non è altra cosa che un correre verso la morte, nel quale corso non è
lecito fermarsi alcun poco, andare più adagio, ma tutti sono spinti ad andare con uguale
lestezza.
Poi aggiunge: Che altra cosa si fa ogni giorno e ogni momento, fino a quando avverrà la morte
e
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comincerà il tempo che segue dopo la morte, se non togliere qualche cosa alla vita, nella quale
stava già la morte? Da qui segue che l'uomo non sta mai nella vita e che, da quando sta in
questo corpo, muore piuttosto che vivere, se non può stare nello stesso tempo nella vita e nella
morte. Sta forse uno contemporaneamente in vita e in morte, cioè nella vita che vive, finché
tutto gli si tolga, e nella morte, giacché muore colui al quale gli si toglie la vita? Per questo
stesso disse Quintiliano: Momento per momento moriamo prima del tempo [Per exigua
festinantis aevi momenta praemorimur (In Mt. Cap. 55)].
E Seneca dice: Sbagliamo quando guardiamo alla morte che ha da seguire, mentre giù ci ha
preceduto e si deve seguirla: tutto ciò che fu e morto. E che importa che tu ora non cominci,
né finisci, poiché dell'uno e dell'altro il medesimo effetto è il non essere?
Moriamo ogni giorno; ogni giorno si toglie alcuna parte della vita e nello stesso nostro
crescere, la vita diminuisce e finisce, e questo medesimo giorno in cui viviamo, lo dividiamo
con la morte. Disse bene colui che chiamò questa vita un sogno di un'ombra. Si dice pure nel
libro della Sapienza che la nostra vita è un passo di ombra, perché l'ombra è come una miscela
di notte e di giorno: come l'ombra può dirsi una specie di notte, così la vita può dirsi una
specie di morte. Come l'ombra si mescola con un po' di luce, così la vita ha la sua parte di
morte e di vita, finché venga a finire nella morte pura e vera. Andando a finire nel nulla, la vita
umana, paragonata con quella eterna, sarà sempre poca cosa, perché quella ha da durare
sempre.
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questa ambasciata, che considerasse bene queste due cose: Oh che molto! oh che poco! Cioè a
dire il molto, che è nell'eternità senza fine, e il poco, che è il tempo della vita; il molto che è un
Dio posseduto per sempre, il poco, che è un contento della terra che si deve lasciare; il molto
che è regnare con Cristo ed il poco, che è il servire al nostro appetito; il molto che è gloria
eterna ed il poco che è vivere molto in questa valle di lagrime.
Per questo disse l'Ecclesiastico: Il numero dei giorni degli uomini, a dir molto, è di cento anni:
come una goccia d'acqua e come un granello d'arena del mare, così pochi sono gli anni nel
giorno dell'eternità [Numerus dierum hominum, ut multi centum (Eccli.. XVIII, 8)]. Poco
sembrerà qualsiasi tempo per meritare l'eternità. Con ragione San Bernardo ripeteva ai suoi
monaci quel detto di San Girolamo: Nessuna fatica sembri dura e nessun affanno lungo, col
quale si acquista la gloria dell'eternità. A Giacobbe sembravano pochi i venti anni che servi a
Labano per amore di Rachele: ed a noi, perché dovrebbe sembrare lungo qualunque tempo
che si spende nel servizio di Dio? Pensa a chi servi e perché; considera a chi serviva Giacobbe
e perché. Tu servi al vero Dio e per la gloria eterna; Giacobbe serviva ad un idolatra
fraudolento per una bellezza caduca. Confronta ora la tua servitù con quella di Giacobbe;
guarda se sono venti anni che tu servi a Dio nel modo che Giacobbe servi a Labano; rifletti, se
puoi dirgli con verità: Giorno e notte era arso dal caldo e dal gelo ed il sonno fuggiva dai miei
occhi. Ed in tal guisa t'ho servito in casa tua per venti anni [Die noctuque aestu urebar et gelu
fugebatque somnus ab oculis meis. Sicque per viginti annos in domo tua servivi tibi (Gen, 31,
40-41)]. Con questa fedeltà quel servo
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di Dio servì ad un pagano; come servirai tu a Dio, se desideri essere suo servo? Tutto ti ha a
parere poco, poiché servi ad un Signore tanto buono e per un premio così grande.
Vedi in che cosa impieghi i tuoi brevi anni, che, essendo brevi per meritare un'eternità, ti
passano fra le dita quasi senza alcun profitto. Disse S. Agostino (Contra Faustum, cap. 9) che
il tempo di questa vita viene raffigurato dalla filatura delle Parche, le quali dai sapienti antichi
erano tenute per filatrici della vita.
Il tempo passato era il filo già raccolto sul fuso, l'avvenire quello che rimaneva sulla conocchia
a filarsi, il presente quello che passava per le dita. In verità non sappiamo spendere il tempo,
occupando in esso le mani piene di opere sante, che anzi lo trascuriamo occupandoci in opere
di nessuna sostanza o di nessun profitto. Vedi ora che tela grossolana e vile riuscirà la tua vita,
poiché ti curi così poco di impiegare quel tempo che, passato una volta, non torna più.
Meglio dichiarò Davide questo cattivo impiego del tempo, quando disse che i nostri anni
mediteranno come le ragnatele [Anni nostri sicut aranea meditabuntur (Ps. 89, 9)]. Altra
lezione dice: Si eserciteranno, perché i ragni non filano lana o lino, ma gli escrementi delle
loro viscere, sviscerandosi per ordire la tela, che essi lavorano coi piedi, ma di sì poca durata
che in un momento si disfa e di sì poca utilità che non serve ad altro che a prendere mosche.
La vita dell'uomo è piena di fatiche vane, di pensieri, di sollecitudini, di progetti, di disegni,
che stranamente la esercitano, tessendo e concatenandosi con altre sollecitudini, affannandosi
sempre più per affannarsi, facendo della fine di un'occupazione il principio di un'altra, e tutte
fatte così malamente,
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come se si facessero coi piedi. Già pensiamo come raggiungere ciò che desideriamo, poi,
ottenutolo, come custodirlo, appresso come aumentarlo, quindi come difenderlo, di poi come
goderlo, proprio quando viene a dileguarcisi fra le mani, non meno del ragno infelice, le cui
fatiche vane, sebbene sudate, ad un colpo di scopa vanno disperse. Che fatica costa al ragno
l'ordire la tela! Va da una parte all'altra, si gira più volte in un medesimo punto, si consuma
per trarre più filo dalle sue viscere; per fissarlo in alto fa molto cammino ed avendo terminato
la sua opera lunga e larga, per una scopata cade in terra.
Così è l'impiego della vita umana, di molto affanno e di poca stabilità, togliendo il sonno e
riempiendo la vita di preoccupazioni per disfarsene in un punto, spendendo la maggior parte
della vita in progetti e pensieri vani. Per questo disse Davide che gli anni della vita meditavano
o pensavano, alla stessa guisa che i ragni lavorano e si affannano tutto il giorno per formare la
loro tela. Così passa la vita dell'uomo in continui pensieri e preoccupazioni, intorno a ciò che
un giorno sarà o ciò che ha da procurare, o ciò che ha da raggiungere ed ecco tutto e vanità ed
afflizione di spirito (Eccl. 1, 14); soltanto nel servizio di Dio si hanno pensieri senza affanni.
Con molta ragione disse Aristotele, che la speranza della vita avvenire è un sogno di colui che
veglia. Nella stessa guisa Platone chiamò la vita passata sogno di gente desta, perché tanto la
speranza umana, quanto la vita sono in questo uguali al sogno, che non ha né consistenza, né
esistenza.
Non v'è nessuno il quale, dopo aver riflettuto sulla vita passata, non dica che sogno e realtà si
equivalgono, perché già non ha più né quello di cui
101
godette, né quello che sognò, sembrandogli tutti i suoi piaceri tanto brevi che si sono toccati i
termini estremi, il sogno e la vita.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO.
Il tempo è preziosissimo.
Essendo il tempo tanto corto e scorrevole, ha però una qualità preziosissima ed è: l'essere
occasione dell'eternità; poiché possiamo guadagnare in poco tempo ciò che dobbiamo godere
eternamente. Per questo esso è di valore inestimabile. Disse San Giovanni: Il tempo è vicino
(Apoc. 1, 3). Nel testo greco si dice: L'occasione è vicina, perché il tempo di questa vita è
l'occasione per guadagnare quella eterna e, passato che sia, non vi ha più rimedio, né
speranza.
Procuriamo dunque di impiegarlo bene e non perdiamo l'occasione di un bene tanto grande,
la cui perdita è irreparabile, e che dovremmo poi rimpiangere eternamente. Consideriamo
quanto quest'occasione nel tempo ci sia preziosa e qual pentimento ci può cagionare l'averla
perduta, affinché conosciamo come dobbiamo approfittarne per la nostra salvezza eterna e
perché non abbiamo poi il pentimento inconsolabile dei dannati di non averne approfittato.
La nostra salvezza è un gran negozio e dipende dalla velocità di questa vita, il cui termine è
irrevocabile e molto incerto. Così con cento occhi dobbiamo stare all'erta che non passi
102
103
Facciamo ora questa considerazione, che tutto il tempo di questa vita è breve per guadagnare
quella eterna. Non perdiamo quindi un tempo che non abbiamo sicuro. Se anche fossimo certi
di vivere cento anni, non dovremmo perdere un solo momento, con cui si può guadagnare
l'eternità. Essendo però incerti fino a quando vivremo, potendo morire domani, come
possiamo trascurarci, lasciando passare l'occasione di assicurarci la nostra gloria, non
offrendocisi altra occasione somigliante? Se ad un bravo artista un principe avesse ordinato,
pena la testa, di tenergli pronta un'opera di pregio, senza indicazione alcuna del tempo di
consegna, ma avvertendolo che, pure occorrendo un anno di lavoro per finirla, potrebbe anche
anticiparne la richiesta; come oserebbe quel povero artista perdere il tempo od occuparsi di
altro, mettendo così in gioco la sua stessa vita? Ora, se per noi ci va la vita eterna nel non stare
in grazia di Dio e non tenere viva la sua immagine nell'anima nostra, come potremo essere
trascurati, lasciando passare l'occasione della nostra salvezza?
Il tempo fu chiamato da Teofrasto e Democrito acquisto preziosissimo. Zenone diceva che agli
uomini nessuna cosa manca tanto quanto il tempo, né v'è per loro cosa tanto necessaria e
Plinio stimava tanto il tempo, che non voleva perdere neppure un momento.
Seneca stimava il tempo sopra ogni prezzo e disse: Chi è che sappia stimare il tempo? [Quis
est, qui pretium temporis ponat? (Lib. IV, Epist. 9).] "Fa così, raccogli il tempo e conservarlo,
perché: chi mi darà di ben apprezzare il tempo, di stimare il giorno? di intendere che ogni
giorno si muore?". Queste parole fanno intendere che cosa è il tempo e quanto deve essere
stimato sopra ogni prezzo e valore. Ora se i gentili, sebbene non guardassero
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il tempo come prezzo dell'eternità, lo stimavano tanto, che dobbiamo fare noi cristiani?
Ascoltiamo San Bernardo che dice a questo proposito: Non vi è cosa più preziosa del tempo:
ma ahimè! che cosa del giorno non si tiene più a vile? Si passano i giorni della salvezza
dell'anima e nessuno pensa a questo, nessuno dice a se stesso che il giorno ha da finire e non
ha da ritornare mai più.
Il medesimo Santo, dolendosi molto che si deprezzasse cosa tanto preziosa, dice (Sermo 75 in
Cant.): Nessuno stimi cosa da poco il tempo speso in parole oziose. Dicono alcuni: Ben
possiamo adesso parlare, finché passi questa ora. Oh che ragione futile! Ti contenti di passare
un'ora, quell'ora che ti fu data dalla misericordia del tuo Creatore per far penitenza, per
acquistare la grazia, per meritare la gloria.
Oh stolta parola: “Mentre passa il tempo!" in questo tu puoi guadagnare la pietà divina. In
altra parte dice, (Ibid.) il che è bene a proposito per approfittare dell'occasione del tempo di
questa vita: Meno abbiamo tempo, operiamo il bene, soprattutto perché il Signore disse
chiaramente che verrebbe la notte, nella quale nessuno può operare. Avrai tu forse, per
cercare Dio e operare il bene, altro tempo nei secoli futuri fuori di quello che ti assegnò Dio
nel ricordarsi di te? (Questo è quindi il giorno della salvezza, perché qui Dio ha operato la tua
salvezza prima dei secoli [Ecce nunc tempus acceplabile ecce nunc dies salutis (2Cor. 6, 3)].
Speri forse salvezza nel mezzo dell'inferno, mentre è stato deciso di doverla operare sopra la
terra? Come credi che sia possibile raggiungere il perdono fra gli ardori sempiterni, quando
già passò
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il tempo della misericordia? Essendo tu morto nel peccato, non ti resterà propiziazione per i
peccati; non si crocifiggerà un'altra volta il Figlio di Dio.
E' morto una volta e non morirà più. Non scenderà nell'inferno il sangue che ha versato sopra
la terra. Lo bevettero i peccatori della terra e non è possibile che vi partecipino i demoni per
spegnere le loro fiamme, né gli uomini compagni del demonio.
Scese una volta in quell'abisso, non il sangue di Cristo, bensì l'anima sua. Questo è ciò che
ricevettero quelli che stavano nel carcere: una sola visita dell'anima di Cristo, quando il corpo
pendeva esanime sulla croce sopra la terra. Il sangue irrigò la terra, il sangue si è versato sopra
la terra ed inzuppandola il sangue pacificò quelli della terra col cielo, non però quelli che
stanno sotto la terra nell'inferno. Una volta sola fu ivi l'anima, come dicemmo, e fece
redenzione in parte (per le anime dei santi Padri che stavano nel Limbo), perché neanche in
quel momento mancassero le opere di carità. Non passò però più avanti. Ecce nunc tempus
acceptabile; ecce nunc dies salutis: ora è il tempo a proposito per cercare Dio, tempo nel
quale certamente lo troverà chi lo cerca, se però lo cerca dove e come si conviene.
Inutile pentimento.
Considera che avrai pentimento eterno, se non approfitti dell'occasione di questo tempo per
meritare il regno dei Cieli, vedendo che con così poca diligenza lo potevi guadagnare e che per
un piacere tanto breve l'hai perduto. Che rabbia e furore erano quelli di Esau (Genesi, 27)
quando ritornò in sé e vide che suo fratello minore aveva rapita la benedizione di
primogenitura, ch'egli gli aveva venduto per un piatto di lenticchie! Ruggiva e si struggeva di
dispetto.
106
Specchiati in lui tu, che per un gusto vilissimo e brevissimo hai venduto il regno dei cieli. Che
faresti, se già fossi nell'inferno, se non lamentare con lacrime eterne ciò che hai perduto in un
tempo così breve? Quando Cam conobbe che egli e i suoi discendenti erano stati maledetti e
dichiarati infami per non aver saputo valersi dell'occasione, della quale s'erano approfittati i
suoi fratelli, pure essendo toccata prima a lui, qual sentimento aveva o doveva avere? Misura
da qui il sentimento che avrà un dannato il quale, non approfittando del tempo della sua vita,
si vede maledetto per tutta un'eternità, mentre altri che furono minori di lui sono benedetti e
premiati nel Cielo. I congiunti di Lot, (Genesi, 19.) che, da lui esortati ad andar seco,
avrebbero potuto sfuggire al fuoco, e non vollero, anzi si fecero beffe dei suoi consigli, come
rimasero, quando si videro riversare sopra quella pioggia di fiamme che mandava in cenere
tutta la città! Qual sentimento triste non dovevano avere per non aver approfittato di quella
occasione così buona, entrata loro in casa? Oh che pianto! Oh che pena! Oh che rabbia! Oh
che disperazione avrà un dannato, quando si ricorderà che, essendo stato invitato da Cristo,
che lo voleva salvo nel Cielo, vedrà invece cadere sopra di sé eternamente una tempesta di
fuoco, zolfo e tormenti!
Il re Hannone, il quale ebbe così opportuna comodità di far pace con Davide che gliela aveva
offerta, quando vide rovinare le sue città e bruciare i suoi abitanti come i mattoni nella
fornace, altri come bestie andar a macello, altri esser messi in pezzi, che cosa avrebbe mai
pagato per riafferrare la perduta occasione di stare in amicizia con un re così grande e
possedere in pace il suo regno? Però questo non ha paragone con ciò che sentirà il
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peccatore, quando si vedrà egli stesso bruciare nell'inferno ed essere nemico eterno del Re dei
Cieli, avendo perduto il Regno dei Santi. Quale dispetto e tristezza avrà!
Il cattivo ladrone, che fu crocifisso insieme con il Salvatore del mondo ed ebbe occasione tanto
felice per salvarsi, come il suo compagno, e non ne approfittò, quanto piangerà ora per questo!
E quale sarà il pentimento del ricco Epulone, per le cui porte entrò così buona occasione, con
cui avrebbe potuto riscattarsi dai suoi peccati, con un po' di liberalità ed elemosina verso
Lazzaro! Ma egli non la curò, comportandosi col mendico più inumanamente dei cani, i quali,
più pietosi del loro padrone, non lo lasciarono partire senza lambirgli le piaghe. Che dirà
adesso che gli manca ogni cosa, perfino una goccia di acqua, per non aver dato in elemosina
neppure una briciola di pane? Che dispetto, che rabbia! Quale disperazione avrà, per non
essersi servito di una occasione così buona per salvarsi!
Se è ben vero che tutto il tempo in cui viviamo è occasione per raggiungere la gloria eterna, vi
hanno però nel corso della vita congiunture particolari, dalle quali dipende di più la nostra
salvezza, ed in esse siamo maggiormente tenuti a Dio ed obbligati, come fece il santo
Giuseppe, quando, per non offendere il suo Creatore, fuggì dalla padrona, lasciandole fra le
mani il mantello. Questo fu un atto eccellente, che piacque molto a Dio e meritò che lo
favorisse tanto di poi.
In quella stessa maniera Susanna approfittò di una grande occasione per salvarsi con molti
meriti, quando scelse di morire piuttosto che di consentire a quell'infame delitto, al quale
t'invitavano i disonesti vegliardi.
108
Il dovere dei cristiani.
Non ci deve sfuggire congiuntura di usare finezze con Dio ed obbligarcelo con qualche atto
eroico che ci offrono le occasioni. A questo proposito disse il Savio: Non ti privare di un buon
giorno, non ti sfugga nessuna parte di un buon dono (Eccl. 14,14)
Marco Tullio definì l'occasione parte del tempo accomodato per far una cosa. Mitridate disse
che l'occasione è: La madre di tutte le cose che si devono fare (Mater omnium rerum
gerendarum), mentre Polibio disse che l'occasione signoreggia in tutte le cose umane. Non vi è
dubbio che vi sono delle circostanze che ci danno nelle mani grandi occasioni di meritare o di
operare virtù eccellenti ed atti eroici, circostanze che, se ne approfittiamo, assicurano la
nostra salvezza. Per questo alcuni le pongono fra i segni della predestinazione.
Guardiamo come alcuni hanno fatto profitto delle occasioni di cose temporali, affinché non
siamo meno solleciti e diligenti in quelle eterne. Con quanta diligenza Rachele corse a coprire
gl'idoli rubati a suo padre! Quanto diligentemente Abigaille procurò di andare incontro a
Davide, per non perdere l'occasione di placarlo! E senza dubbio, se avesse tardato, correva
rischio evidente la vita sua, quella del marito e di tutta la Famiglia. Ed Abramo, con quale
sollecitudine si mise a cercare i cinque re che conducevano prigioniero Lot, suo nipote, per
non perdere l'occasione di raggiungerli! Saulle, con quanta lestezza raccolse l'esercito, per
poter portare soccorso a Galaat!
Non c'importi meno il guadagnare il Cielo: non siamo più tardivi che nel guadagnare le cose
della
109
terra. Ascoltiamo con che diligenza e premura secondo il Savio, dobbiamo compiere la
promessa fatta ad un uomo: Figlio mio, che hai fatto garanzia per un amico... liberati da te
stesso, perché sei caduto nelle mani del tuo prossimo. Cammina lesto e sveglia il tuo amico;
non dar sonno ai tuoi occhi e non lasciar dormire le tue palpebre, fuggì dalla mano come la
capra selvatica e l'uccello dalla mano del cacciatore (Prov 6, 1-3).
Coloro che sono legati al demonio con i loro peccati, pensino con quale diligenza devono
scappare da lui, senza perdere tempo, né occasione. Coloro che stanno legati con Dio per i
benefici infiniti ricevuti e per la parola datagli, guardino come lo devono servire,
approfittando di tutte le occasioni.
Si affrettino, dice il Savio, non siano tiepidi e tardi, non diano sonno ai loro occhi, né chiudano
le palpebre, per scappare dall'inferno e dalla schiavitù di Satana, senza perdere l'occasione. È
peccato lasciarne passare una senza approfittarne. È miseria inconsolabile che si lasci passare
la vita in cose della terra, senza cercare quelle del Cielo, essendo essa tanto corta e breve per
meritare ciò che è tanto lungo da godere, come l'eternità. Con ragione ci ammonisce
l'Apostolo: lo dico dunque, fratelli: il tempo è breve (Cor. 7, 29). In questo resto di tempo
coloro che hanno moglie siano come se non la avessero, e coloro che piangono siano come se
non piangessero, coloro che comprano come se non possedessero, coloro che usano di questo
mondo siano come se non ne usassero, perché passa la figura di questo mondo. Considerando
l'Apostolo tanta brevità
110
del tempo, vuole che siamo molto diligenti nell'uso delle cose della nostra salvezza e dell'altra
vita e che in quelle di questo mondo siamo molto superficiali e quasi estranei ad esse,
possedendole ed usandole come se non le avessimo.
Riflettiamo che, se ci passa l'occasione del tempo di questa vita breve, ci mancherà pure
nell'altra la speranza del rimedio. Non manca d'insegnamento ciò che finse l'antichità, che
cioè Giove diede ad uno un vaso pieno di beni; questi, contentissimo di sì gran dono, poiché
esso conteneva quanto si poteva desiderare, volle goderne subito, pur potendo goderli con
agio e tempo, ed apri con imprudenza il vaso per vederli e gustarli tutti in un tempo. Appena
che l'ebbe scoperto, tutti i beni volarono per l'aria e scomparirono e per quanta fretta mettesse
a rinchiuderli, tutti erano già svaniti: gli restò solo la speranza.
Ben differente è l'occasione della nostra salvezza, perché, passando con essa i beni che reca,
non ci resta neppur la speranza, ma in suo luogo viene il pentimento ed il dolore eterno, tanto
più che è per colpa propria. Quando il re Joas ferì la terra tre volte ed il profeta Eliseo gli disse
che, se i colpi fossero stati sei o sette invece che tre, egli si sarebbe impadronito di tutta
quanta la Siria, quanto si sarà rammaricato per non averlo fatto!
Bastava a tormentarlo il pensiero di aver avuto l'occasione di tanta fortuna e non averla usata,
benché senza colpa propria. Ma quanto più atroce sarà lo strazio dei dannati, nel vedere che
unicamente per propria colpa è loro sfuggita l'occasione di conquistare beni così immenso
come i beni del Cielo!
111
CAPITOLO QUINDICESIMO.
L'instabile ombra.
Perché comprendiamo meglio la piccolezza e viltà di ogni cosa temporale, non voglio lasciar
passare sotto silenzio la descrizione che ne diede Plotino, insigne filosofo dei Platonici, il quale
disse che il tempo è l'immagine o l'ombra dell'eternità. Ciò è conforme alla Sacra Scrittura,
perché, oltre che Davide, il quale disse che l'uomo passa nell'immagine, cioè nel tempo, il
Savio definisce il tempo: Il passo di un'ombra (Sap.2, 5), il che non è altra cosa, se non
un'immagine imperfetta movibile e vana di una cosa consistente e solida. Anche Giobbe disse:
Come ombra sono i nostri giorni sopra la terra, (Gb.8, 9) e il santo profeta Davide: I miei
giorni si disfecero come ombra (Sal.101, 12). In molte altre parti della Sacra Scrittura si usa il
medesimo paragone per significare la velocità del tempo e la vanità della nostra vita: e ciò non
senza mistero. Veramente pochi sono i paragoni adatti per conoscere ciò che è eternità e
tempo, che quello di una statua con la sua ombra. Infatti, mentre la statua rimane ferma ed
immobile per molti secoli, senza crescere né diminuire, la sua ombra si sta continuamente
muovendo, facendosi ora maggiore, ora minore; così pure, confrontando il tempo con
l'eternità, questa sempre sta immobile, ferma e fissa, senza ricevere mai né più né meno,
112
mentre il tempo si sta sempre muovendo e mutando. Come l'ombra, che alla mattina è grande,
a mezzodì minore ed alla sera di nuovo cresce, senza avere un momento in cui non si muti,
non si muova né si alteri, or da un lato or dall'altro, alla stessa maniera la vita non ha punto
fisso, sempre va con mutazioni perpetue e nella maggior prosperità suole essere più corta.
Aman, (Est.8, 10) nello stesso giorno in cui credeva sedere a mensa col re Assuero, dal quale
era stato innalzato sopra tutti gli altri principi del regno, fu ignominiosamente mandato sulla
forca. Oloferne, (Gdt.13) quando pensava di aver il più bel giorno della sua vita, fu
miserabilmente decapitato. Il re Baldassarre, (Dan., 5) nel giorno più celebre che ebbe in tutto
il tempo del suo regno e nel quale fece ostentazione della magnificenza delle sue grandezze, fu
mandato a morte dai Persiani. Erode, (At 12, 23) quando mostrò di più la sua maestà,
vestendosi di broccato ricchissimo e di oro e fu acclamato quasi per un dio, fu ferito
mortalmente.
Non v'è cosa costante nella vita. La luna ha ogni mese le sue variazioni, però il tempo della vita
dell'uomo le ha ogni giorno ed ogni ora. Uno è ora infermo, ora sano; ora triste, ora collerico;
ora ardito, ora timido. Con ragione Sinesio (Hymn. 6) confronta la vita nostra con l'Euripo,
che è un braccio di mare che sette volte al giorno cresce e diminuisce, poiché il più costante
degli uomini del mondo, che è il giusto, cade sette volte al giorno.
L'ombra, per dove passa, non lascia traccia di sé, e finendo la loro vita, gli uomini più celebri
del mondo restano come se non fossero mai nati, né
113
vi avessero vissuto. Quanti imperatori precedettero nella monarchia degli Assiri, signori tanto
grandi come Alessandro, eppure delle loro ossa non si sa dove stanno, né si conoscono i loro
nomi. Del medesimo Alessandro Magno, che altro abbiamo se non il tintinnio della sua fama
vana? Ce lo dicano quei filosofi che si unirono attorno al suo sepolcro. Uno [PETRUS ALPH.
et DIONYSIUS CARTHUS., De Novissimis. art. 14] disse: “Ieri non bastò ad Alessandro tutta
la superficie della terra, ora invece gli bastano due cubiti di terra”. Altri si meravigliò dicendo:
“Ieri poté Alessandro liberare dalla morte popolazioni intere, ora non può liberare neppur se
stesso”. Un altro esclamò: “Ieri Alessandro oppresse tutta la terra, ora è la terra che opprime
fui e non vi ha traccia dove egli passò”. Oltre a questo, che differenza vi ha tra una statua di
marmo o di oro e la sua ombra? Quella è di una sostanza molto preziosa e solida, questa non
ha essere, né corpo, né consistenza.
Così pure la vita eterna è preziosissima e di grande importanza, ma la vita temporale è vana e
miserabile, senza aver sostanza in tutti i beni che possiede. L'ombra non ha dell'essere che la
privazione della qualità migliore che esiste nella natura e della cosa più bella del mondo, che è
la luce del sole, della quale è privata per sempre. Così pure questa vita, senza sostanza e senza
essere, è privazione di grandi beni, per cui disse Giobbe: I miei giorni fuggirono e i miei occhi
non videro il bene (Gb.9, 25).
Ciò disse colui che fu re e godette di grandi ricchezze, che ebbe molta servitù e numerosa
famiglia e tutto ciò che poteva desiderare il suo gusto; con tutto questo dice che nella sua vita
114
non vide alcun bene. E poté dire questo con molta verità, perché tutti i beni di questa vita non
si hanno da qualificare per tali; e se anche lo fossero, i loro gusti durano tanto poco che si può
dire che non li vediamo; e se anche durassero, poiché hanno fine, non sono più di quello che
non è mai stato. È quanto confessava quel cavaliere chiamato Rolando, il quale, dopo aver
partecipato ad una grande festa, con grande gala, bizzarrie e gioie di tutti, giunta la sera,
esclamò amaramente dicendo: “Dove sia la festa che oggi abbiamo fatto? Dove sta la gloria di
tutto questo giorno? Come questo giorno passò senza lasciare traccia di sé così passeranno gli
altri giorni e così sarà tutta la vita, non lasciando di sé, se non un eterno dolore”.
Gli bastò questa considerazione per cambiare vita ed entrare in convento.
Come nell'ombra non v'è luce, ma solo oscurità, così questa vita è piena di tenebre e d'inganni,
per cui disse Zaccaria che gli uomini stavano seduti nelle tenebre e nell'ombra della morte.
Viviamo molto ingannati, poiché questa vita, pure essendo breve, ci sembra lunga ed essendo
miserabile, pure siamo contenti di averla, ed essendo nulla, ci sembra tutto. Non vi ha infatti
fatica alla quale non si sobbarchino gli uomini per causa sua, anche con pericolo di perdere
l'eternità.
Questo senza dubbio è il peggio che ha la vita temporale. Essa ci dipinge molto bene i suoi
beni per perderci con essi, pur non avendo in sé sostanza alcuna. Perciò disse Eschilo, che la
vita non solo è un'ombra della vita, ma anzi ombra del fumo che acceca ed annerisce. Essa è
cosa molto incostante e vana, conforme a quello che disse Davide, che i suoi giorni svanirono
come fumo e declinarono come ombra, unendo insieme ombra e fumo, le due cose più vane
del mondo. Pindaro delineò il concetto ancor di più, aggiungendo che non è un'ombra, ma un
sogno di un'ombra.
115
Infatti: pensare che questa vita è lunga e sperare prosperità in essa, non è un sognare?
L'inganno fatale.
Questo è il maggior inganno degli uomini e la gran causa degli altri inganni; non riuscire a
persuadersi di quello che è la vita e la sua grande brevità, perché alla maniera che l'ombra, pur
essendo un nulla e meno che la statua di cui è ombra, somiglia però alla statua ed è immagine
sua, così pure, benché questa vita sia un nulla, ha tuttavia somiglianza con l'eternità, ci
sembra che sia eterna, mentre in verità è brevissima.
Questo è un inganno molto pregiudiziale. Se la vita sembrasse ciò che essa è e non ci
ingannasse, noi non ci fideremmo di essa, né stimeremmo alcunché di quei beni che essa ci
promette, perché sono così ingannevoli ed incerti. Siccome però è immagine ed ombra, tutte
le sue cose non sono altro che finzione e simulazione che ci promettono felicità, mentre essa
invece è piena di miserie, sebbene non le conosciamo.
Con quanta gioia va a nozze la giovane, ma quanto presto piange sul suo stato! Con qual gioia
occupa l'ambizioso il suo ufficio che gli procurerà mille dispiaceri; Che allegria danno le
ricchezze, le quali sono poi occasione di morte al loro proprietario. Tutto è inganno,
simulazione, falsità e danno. Ma patendo noi tanta frenesia, non sentiamo il nostro danno. A
quante infermità del corpo non sta esposto l'uomo, da quante immaginazioni è afflitto e
ingannato, con quante fatiche lotta, da quante aspirazioni è tormentato, quanti pericoli corre
nell'anima e nel corpo, quante ingiustizie tollera, quante ingiurie, quante necessità ed
afflizioni patisce!
Tale è tutta la vita, che sembrava a
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San Bernardo (Sermo de Ascensione Domini) poco peggiore della vita dell'inferno, se non
fosse per la speranza che abbiamo di un'altra migliore nel Cielo. L'infanzia è piena d'ignoranza
e di timore, la gioventù è piena di peccati, la vecchiaia di dolori, ed ogni età di pericoli; non v'è
chi sia contento del suo stato, se non chi desidera morire in vita, di modo che non può la vita
essere buona, se non quando più si assomiglia alla morte.
Finalmente come l'ombra di tal maniera è immagine che rappresenta tutte le cose a rovescio,
giacché chi si ponesse tra la statua e la sua ombra, vedrebbe che ciò che è alla destra della
statua, l'ombra lo rappresenta alla sinistra e ciò che sta alla sua sinistra, questa l'ha a destra;
così il tempo è di tal maniera immagine dell'eternità che ha tutte le sue proprietà a rovescio.
L'eternità non ha fine, mentre l'ha la vita e il tempo; l'eternità non è mutabile, mentre non
v'ha cosa più mutabile del tempo; l'eternità non ha comparazione per la sua infinita
grandezza, mentre la vita e tutti i suoi beni sono tanto corti e piccoli che non si elevano sopra
la terra più di un punto.
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LIBRO II
CAPITOLO PRIMO.
Consideriamo ora quante condizioni contrarie a quelle dell'eternità si trovano nella nostra vita
miserabile. E cominciando dalla prima, che è l'aver fine e limite, vi sono due cose da
considerare: una è la fine stessa, l'altra è il modo di essa; una il dover finire, l'altra la maniera
di finire, che forse è ancora miseria peggiore della stessa fine.
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durare (giacché potrebbe rompersi per alcuna disattenzione) gli toglie molto del suo valore.
Così è della nostra vita e più ancora, perché la somma fragilità sua è molto maggiore di quella
del vetro: ad ogni momento può venire spezzata da un accidente qualsiasi, ed a parte questo,
non può durare molto, perché da se stessa continuamente si va consumando, ciò che la rende
spregevole con tutti i suoi beni temporali. Considerando che la vita finisce con la morte,
preceduta da infermità e disgrazie che ne preparano il cammino, è da spaventarsi al pensiero
che esista uomo mortale, che apprezzi una felicità temporale, pur vedendo la miseria a cui va
incontro ogni prosperità del mondo e la maestà dei maggiori monarchi.
Dove andò a finire il re Antioco, (1Mac. 6.) signore di tante province? In una melanconia
inconsolabile e mortale, in una veglia che gli faceva perdere il senno, senza poter chiudere
palpebra, né giorno né notte, in un vomito che gli commuoveva le viscere, in uno slogamento
di ossa che lo rendeva inabile ad ogni altra cosa che al patire, e colui che sembrava essere
padrone delle onde del mare ed aver pendenti dalla sua mano i monti maggiori della terra,
non poteva reggersi in piedi, né dare un passo.
Colui che vestiva prima ricche sete e delicatissime tele ed emanava da le vesti i più soavi
profumi, esalava di poi tali fetori, che nessuno poteva per quell'intollerabile puzzo stargli
vicino, ed essendo ancor vivo, già gli pullulavano nel corpo miriadi di vermi, gli cadevano a
brandelli le carni, facendolo urlare di dolore e di disperazione. Se dopo aver pensato ad
Antioco quando più fulgido dell'oro, ricoperto di gemme e di lussuose vesti, cavalcando un
focoso destriero comandava ai suoi eserciti e faceva tremare la terra, lo si contempla
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poi, senza forze nel suo letto, pallido, fetente, fracido, fatto un brulicare di vermi, privo di ogni
assistenza dei suoi ridotto ad una morte disperata, chi può aver invidia dei suoi tesori?
Chi, vedendo questa morte, desidererebbe la felicità della sua vita? Chi poi, carico di tali
miserie, vorrebbe la sua fortuna? Rifletta, dove vanno a finire i beni della vita. Come le acque
chiare del Giordano vanno a finire nel fango pestilente del Mare Morto e si affondano in quel
liquido bituminoso, così il più grande splendore di questa vita va a finire nella morte e nel
lezzo delle infermità, che di solito l'accompagnano.
Pensino in quale fango ed in quale sudiciume finirono i due Erodi, Ascalonita e Agrippa, re
tanto potenti. Questi, vestendo di broccato ed ostentando maggior maestà di quel che si
convenga ad un uomo mortale, finì coll'esser cibo dei vermi che gli mangiavano le carni
ancora in vita, tutte corrotte ed infette, mandando puzza e materia orribile. E la maestà di
Ascalonita a che cosa giunse? Ad esser consumato da schifosi pidocchi che lo finirono a morsi.
Quell'Acabbo (1Re.20,22) vincitore del re della Siria e di altri trentadue re, come finì il suo
regno? Traversato il suo stomaco ed il polmone da una saetta, inondando tutto il carro reale
del suo sangue nero, per nutrimento dei cani che lo leccarono come se fosse di una fiera.
Né la fortuna di suo figlio, re Jolan, fu maggiore, perché anch'egli, trafitto a tergo fino al
cuore, morì e divenne pasto dei corvi e dei cani, mancando perfino sette palmi di terra per la
sepoltura a colui che in vita era padrone di tanta. E Cesare? chi l'avrebbe riconosciuto, il
trionfatore del popolo che aveva vinto il mondo, quando, colpito da ventitré pugnalate,
agonizzava in un lago di sangue? E chi crederebbe che era il medesimo
120
Ciro colui che sottomise al suo scettro la Media, l'Assiria, la Caldea, colui che con trenta anni
di vittorie fece stupire il mondo, è colui che fu ignominioso trofeo di vendetta femminile? Solo
per finire così vergognosamente furono trent'anni di gloria? Chi crederebbe che era il
medesimo Alessandro (PLUTARCUS, in eius vita) quello che con la spada alla mano mise in
catena ed Indiani e Persiani ed il mondo intero, e quello che poi ad un colpo solo di una
febbriciattola non poteva tenersi sulla persona, fiacco, debole, squallido, assetato, nauseato,
privo di ogni conforto, con gli occhi affossati, con le narici affilate, il petto gonfio, senza poter
articolare parola? Cosa spaventevole questa: che il solo ardore di una febbre possa consumare
la potenza e la fortuna del mondo.
Cosa spaventevole, il vedere quanto grande mostro sia la vita umana, la quale ha estremi tanto
sproporzionati. La felicità incerta di tutta la vita finisce in una miseria certa. Un grande
mostro sarebbe, se uno avesse un braccio da uomo, l'altro di elefante, un piede di cavallo e
l'altro di orso.
Eppure la vita non ha meno parti sproporzionate. Chi mai vorrebbe sposarsi con una donna
dal corpo bellissimo, però con la testa di dragone mostruoso e schifoso? Certamente, se anche
portasse una grande dote, nessuno la desidererebbe. Ora, perché ci familiarizziamo con questa
vita? Benché sembri che ci porti molti beni, non è minor mostro perché, pure avendo bel
corpo, la sua fine è orribile. Bene disse un filosofo che la fine è la testa delle cose; e la verità è
che, come gli uomini si conoscono dalla faccia, così dobbiamo conoscere le cose dalla loro fine.
E per ciò, chi vuole conoscere la vita, guardi alla sua fine. Che fine di vita vi ha che non sia
miseria? Così tutta la vita deve ritenersi per miserabile.
121
Non s'inganni nessuno per il vigore della salute, per l'abbondanza delle ricchezze, per lo
splendore dell'autorità, per la grandezza della fortuna, perché quanto più ricca essa fu, tanto
essa sarà più miserabile, andando tutta la sua fortuna a finire nella miseria. Agesilao,
(PLUTARCUS, in eius vita) sentendo lodare il re di Persia per le sue grandi ricchezze, corresse
quei che lo lodavano, dicendo: "Fermatevi, poiché anche il re Priamo, la cui fine fu tanto
miserabile, non era sfortunato quando aveva l'età del re di Persia”, volendo così far capire che
anche i più ricchi non si dovevano invidiare, per la fine incerta che li aspetta. Quanti sono che
sembrano ricchissimi in questo mondo? In breve tempo però la morte dirà quale possa essere
la felicità di questa vita. Per questo Epaminonda, (PLUTARCUS, in Apoph. graecis) quando gli
domandarono chi dei due famosi capitani Cabria ed Inorate era il più valoroso rispose che:
“Mentre vivevano, questo non si poteva sapere, l'ultimo giorno di vita di ciascuno ne avrebbe
data la sentenza”.
Nessuno s'inganni vedendo la prosperità di un ricco, né misuri la sua felicità dal presente, ma
da ciò che l'attende a la fine; non dai grandi palazzi che possiede o dal lustro della sua dignità,
ma dal come andrà a finire tutto quello che più si ammira. Il meno male che gli possa capitare
è di finire in un letto di dolore, dove, fra gli spasimi dell'angoscia lotterà con la morte. E dico
meno male, perché potrebbe anche, quando meno se lo aspetti, cadere sotto il pugnale d'un
nemico, aggredito da una fiera, incenerito da un fulmine. Ciò detta la ragione anche se non vi
fosse esperienza, la quale però ci è testimone di tanti che ogni giorno cadono vittime della
morte.
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Nessuno conosce meglio questa vita, nessuno la considera meglio che chi le tiene voltate le
spalle.
Essendo Magone, (DIONYS. CARTHUS., De Novissimis, art. 5) celebre capitano dei
Cartaginesi e fratello di Annibale, mortalmente ferito, confessò queste verità a suo fratello:
“Oh quale è la fine della fortuna e della vita! Quale stoltezza è precipitarsi da un punto elevato!
Lo sfato dei potenti è soggetto ad innumerevoli burrasche, la cui soluzione è andare a picco ed
annegarsi. Oh quanto vertiginosa è la cima dei grandi onori! La speranza degli uomini è falsa;
vana e debolissima è tutta la sua gloria, ingannata da finte carezze. Oh vita incerta, esposta ad
un perpetuo affanno! Che mi giova aver fatto sorgere edifizi così riguardevoli per oro e
marmo, per vastità ed altezza, se ora debbo morire in aperta campagna? Quante imprese stai
pensando di compiere, ignorando qual fine amaro sia loro serbato! Vedi, fratello, come io sto
morendo, sappi che ben presto hai da seguirmi”.
123
le angustie del cuore che lo opprimono con mortale malinconia ed altre angoscio più
numerose ancora che le membra del corpo, non ultima quella delle medesime che talvolta
sono più penose degli stessi mali. Si aggiunga a questo lo strazio di dover abbandonare quanto
in vita si è così intensamente amato, e soprattutto il dubbio pauroso se andrà salvo in cielo, o
dannato all'inferno.
Se si dice amara la sola memoria della morte, che sarà la sua prova? Saulle, pure essendo
uomo di grande valore, quando gli venne detto che doveva morire all'indomani, cadde per lo
spavento tramortito a terra. Quale notizia più terribile per un peccatore di questa: che ha da
morire, lasciando tutti i suoi beni nella morte per dar conto a Dio della sua vita?
Se la sorte dovesse decidere per un uomo: o morire tra i più crudeli tormenti od essere
innalzato al trono, con quale timore starebbe aspettando il risultato? Come sarà uno che
agonizza, aspettando fra due ore il risultato della sorte, della gloria o dell'inferno, lottando
frattanto con tutta l'eternità che l'aspetta? Ora che vita può chiamarsi fortunata, se si tiene per
fortuna dover finire con questa miseria?
Se non vogliamo credere a queste cose, domandiamolo ad un povero moribondo, quando già
sta col petto sollevato, cogli occhi infossati, le narici affilate, i piedi morti, le ginocchia fredde,
il volto pallido, i polsi senza movimento, il respiro affannoso, quando già gli astanti
mormorano intorno al suo letto le ultime preghiere e lo invitano a raccomandarsi a Dio, a
chiedere perdono delle sue colpe, e ad invocare il nome di Gesù, che cosa potrà dire della sua
vita, sennonché, quanto più fu prospera, tanto più fu vana e la sua felicità ingannevole, se a tal
fine miseranda doveva condurlo?
Quanto volentieri cederebbe tutti gli onori del mondo! E non solo li darebbe volentieri, ma
quanto
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pagherebbe per non averli mai avuti, se gli furono occasione di dispiacere a Dio, e come tutto
sacrificherebbe volentieri per essere sicuro di aver fatto una buona confessione! Disse Filippo,
monarca degli spagnoli e signore di tanti regni in quattro parti del mondo, che ben volentieri
avrebbe cambiato la sua grandezza di re con le chiavi della portineria di un umile convento.
Ciò che uno vorrebbe allora essere stato, pur non potendolo più essere, lo sia ora, mentre può.
La morte è la gran luce dei disinganni. Pensa che cosa allora vorresti aver fatto e non lo potrai,
affinché lo faccia, mentre puoi. Stolto sarai se, quando puoi, non vuoi ciò che vorrai quando
non potrai. Se uno fino all'ora della morte avesse avuto i più grandi beni del mondo, che cosa
avrà in quel punto? Nulla, anzi, quanto maggiori beni tanto maggior tristezza. Che cosa avrà
uno delle penitenze e delle fatiche sopportate per Gesù Cristo, anche se avesse patito più di
tutti i Martiri? Certamente che allora non sentirà nessun dolore, né pena, ma molta
consolazione.
Le opere quindi che fai ora giudicale come allora le giudicherai, in quei momenti estremi.
Rifletti quanta poca sostanza avranno le cose temporali, quando ti si scoprirà la vista di quelle
eterne. Gli onori che ti fecero, già non li avrai più; i piaceri che hai gustato non li potrai avere;
le ricchezze tue dovrà averle un altro. Considera quale è la fortuna del mondo, e se merita che
per lei perdiamo la felicità eterna.
Ti prego di considerare ciò che è la vita e ciò che è la morte. La vita è il passaggio di un'ombra;
essa è breve, faticosa e pericolosa; è un'attesa che Dio ci concede nel tempo per meritare
l'eternità. Mettiti a considerare, perché Dio tracciò il giro di questa vita, mentre ci avrebbe
potuto mettere in un momento e di primo colpo nel cielo. Fu forse perché tu perdessi tempo
vivendo in questo mondo
125
come bestia, dandoti a tutti i piaceri viti del senso, inventando chimere di vani onori? o non
piuttosto perché tu esercitassi le virtù e raggiungessi per mezzo dei meriti il Cielo e
riconoscessi ciò che devi al tuo Creatore, perché fra le pene e gli affanni tu scoprissi quanto sei
fedele? Per questo egli ti pose nella lizza: per combattere per Lui e difendere il suo onore. La
vita dell'uomo su la terra, dice Giobbe, è una milizia: e così la volle Iddio per provare la tua
fedeltà alla sua bandiera, in mezzo ai nemici.
Starebbe bene che in tempo di battaglia un soldato stesse disarmato e si divertisse giocando ai
dadi? E non sarebbe ridicolo un gladiatore romano che, entrando nel luogo del
combattimento, si mettesse a sedere nell'arena e gettasse via le armi? Ciò fa chi cerca in
questa vita riposo e le cose della terra, non occupandosi di quelle del Cielo, né guardando alla
morte, ove ha da finire. Questa vita è un pellegrinaggio; e chi è quel passeggero che si diverta
tanto nel cammino, che si dimentichi per dove è diretto? Come ti dimentichi tu della morte,
verso la quale con grande lestezza ti sei incamminato? Per quanto tu voglia fermarti, il tempo
ti porterà con sé, anche se tu non vuoi!
126
avrebbe voglia di giocare nel luogo stesso del suo supplizio? Ora, se dal medesimo punto in cui
nasce l'uomo s'incammina come condannato verso la morte, come può rallegrarsi di un gusto
del suo appetito, ch'è un misero fiore o per meglio dire un poco di fieno, come dice il Profeta:
la gloria della carne non è che un po' di fieno che subito secca... e come può gioire fra le
ricchezze che agli uomini tante volte sono causa della morte? E come non riflettiamo a questo,
riconoscendo la vanità di tutto ciò che si fa nella vita, se non serve a prepararci alla morte?
Però ben lo vedremo allora, quando più non vi sarà rimedio, e ci vedremo abbandonati
necessariamente da quegli stessi beni che noi non abbiamo voluto liberamente e con merito
abbandonare.
La morte è una privazione generale di tutti i beni temporali, uno spoglio tanto rigoroso di
tutte le cose, che spoglia perfino il corpo dell'anima.
Che sentimento ha uno, al quale si tolgono tutti i suoi tesori e si confisca luna la sua sostanza?
Ciò fa la morte; per questo la si paragona al ladro, il quale però toglie solo la sostanza, mentre
questa ruba e l'anima e la vita. In fine hai da lasciare tutto, perché vai dunque caricalo e
affaticato invano? Chi è quel mercante che, sapendo che la nave arrivando al porto si deve
affondare, la carichi di molta mercanzia? Arrivando alla morte, se per te tutto ha da affondare,
perché ti carichi di ciò che non è necessario per salvarti, anzi ti è di impedimento? Quanti in
una gran tempesta per non volere gettare al mare la loro mercanzia, furono inghiottiti dal
mare non solo essi, ma tutte le loro sostanze? Quanti, tenendo molti beni temporali, si sono
perduti nell'ora della morte, per non averti voluti gettare nel mare; anche quando i beni
lasciano loro, essi non vogliono lasciare i beni, pensando più ad essi che alla salvezza
dell'anima.
127
Dice San Gregorio: Non si perde mai senza dolore ciò che con amore si possiede (Nunquam
sine dolore perditur, quod cum amore possidetur).
Scrive Humbert (HUMBERT, in tract. De Septemplici timore) che un uomo molto ricco, che
stava già per morire, si fece portare tutti i vasi e tesori di argento e oro e parlando con l'anima
sua le diceva: “O anima mia, tutto questo ti prometto e ne godrai, se non lasci il mio corpo, e ti
darò cose ancora più grandi, molte eredità e case sontuose, a condizione che tu resti con me".
Ma incalzando di più l'infermità, disse con grande rabbia: "Giacché non vuoi fare ciò che ti
domando, né rimanere con me, ti raccomando al diavolo".
Con queste parole spirò subito miserabilmente. Da questo fatto si può rilevare la vanità delle
cose temporali e il danno che portano a chi le possiede con esagerato affetto.
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diceva: "Povero me, povero me, perché ho faticato tanto per acquistare ricchezze ed ora, voglia
o non voglia, le devo lasciare e me le tolgono! O ricchezze mie! O miei denari! O mie gioie! Chi
vi possederà?". Fra queste voci morì senza far più caso dell'anima sua che se fosse quella di un
turco.
Scrive pure Vincenzo Beluacense (In speculo morali) di un tale che, avendo dato in prestito
quattro lire di moneta a condizione che dopo quattro anni gliene dovessero restituire dodici,
giunse fra tanto all'ultimo dei suoi giorni e gli fu accanto un Sacerdote, il quale lo esortava
perché si confessasse. Non poté cavar dall'infermo altre parole che queste: “Fulano deve
pagarmi dodici lire per le quattro lire prestate", e ripetendo questo, subito mori. Scrive pure
San Bernardino che, stando un confessore a persuadere un ricco, perché si confessasse, egli
non gli diceva altro che questo: "Quanto è stimata oggi la lana? Qual è il suo prezzo?". E
quando il Sacerdote gli disse: "Signore, per amor di Dio, lasci questo e pensi all'anima sua",
l'infermo proseguiva nel domandare informazioni di ciò che passava in cose da cui poteva
sperare guadagni e diceva: "Padre, quando verranno le navi? Sono già venute?". Essendo
tanto ingolfato nelle cose temporali e nei suoi guadagni, non poteva né di altro parlare, né
pensare ad altro. Però insistendo di più il confessore, perché riflettesse a se stesso e si
confessasse, il più che poté cavargli fu il dire: "Non posso". In questo morì senza confessione.
Questa è la mercede che i beni della terra sanno dare a chi più li ama: che se non si lasciano o
perdono prima della morte, essi lasciano i loro padroni e il più delle volte li mandano in
perdizione. O stolti figli di Adamo! Ci è data questa breve vita per acquistare i beni del Cielo,
che hanno da
129
durare eternamente, e ci logoriamo in cerca dei beni terreni che in un momento si hanno da
perdere! Perché perdiamo il tempo nelle cose temporali e non acquistiamo con l'impiego del
breve tempo un'eternità, dove non avremo più di quello che ci saremo meritato in questa vita,
la quale ci è data solo per lucrare la gloria per tutta l'eternità? Perché non fai nulla di questo e
solo ti occupi in cose temporali che presto hai da lasciare e negli affari di questo mondo, dai
quali presto dovrai uscire per entrare nella regione nuova dell'eternità?
Meno sarebbero mille anni rispetto all'eternità che un quarto d'ora in confronto a sessantenni.
Perché ci trascuriamo in un tempo tanto breve, nel quale si può acquistare ciò che ha da
durare per i secoli dei secoli? La morte è un momento fra il tempo e l'eternità. E poiché in
questa vita vi è tempo di acquistare l'eternità, non trascuriamolo.
Ricordiamoci quanto importa morire bene e che dobbiamo morire, affinché vivendo bene,
moriamo bene.
Per convincerci anche meglio della verità suddetta, guardiamo il cadavere di un uomo che sia
morto della morte più tranquilla... Quanto è brutto, deforme, spaventevole!
Anche i suoi amici più affezionati non se la sentono di star soli con lui una notte. I parenti più
vicini subito procurano di allontanarlo dalla casa avvolto in un lenzuolo mortuario; messo in
sepoltura, da lì a due giorni già si dimenticano di lui. E chi si sentiva come prigioniero in
grandi palazzi sta in una stanza tanto stretta come sono sette piedi di terra. Chi si coricava in
letti regali e ricchi avrà per letto il duro suolo; e, come dice Isaia, avrà per materasso i vermi e
per coperte le tignole; i cuscini saranno, quando molto, le ossa di altri morti e sarà coperto di
terra; con una lapide
130
scolpita lo onoreranno, pascendosi frattanto animali stomachevoli delle sue carni, mentre gli
ingrati eredi trionfano della sua sostanza. Colui che esercitò le armi e ballò nei festini, sarà ora
immobile e freddo, senza moto nelle mani e senza vita nei suoi sensi. Colui che col suo impero
e con la sua superbia padroneggiava su tutti, sarà allora calpestato da tutti.
Si contempli uno dopo otto giorni dalla morte come sarà, e quale orrendo spettacolo
apparirebbe, se si aprisse la sua sepoltura. In che sarebbe egli differente da un cane morto e
verminoso gettato in un immondezzaio? Rifletti dunque chi accarezzi: un corpo che entro
quattro giorni può essere che sia mangiato da schifosi vermi. Sopra che cosa fondi tante
fabbriche di vane pretese? Tutte sono torri senza basi, poiché si tendano sopra poca terra, che
convertendosi ben presto in polvere, farà cadere tutto l'edifizio che le stava sopra fabbricato.
Considera dove va a finire la grandezza umana e come non è meno miserabile e fetente la sua
fine che il suo principio. Ti serva questa considerazione per disprezzare tutte le cose della vita,
come ha servito a molti servi di Dio per cominciare ad esserlo. Scrive Alessandro Faya che,
essendosi aperto il sepolcro in cui era stata sepolta una persona di molto riguardo, i
circostanti videro sopra il volto del principe una gran quantità di vermi brutti e schifosi e
molte altre bestiole stomachevoli, che causavano tanto orrore che tutti si diedero alla fuga.
Venendo ciò a notizia del figlio, che stava allora nel fior della sua età, volle andare a vedere
questo spettacolo. Quando vide tanto marciume e tanti vermi disse: “Sono questi i nostri
amici che noi produciamo e sostentiamo con le nostre delizie? Sono questi che facciamo
riposare nei letti agiati e nelle stanze tappezzate e dipinte e ci studiamo di farli crescere con la
varietà dei manicaretti? Miglior cosa è trattarli male col digiuno
131
ed ucciderli colla penitenza, acciocché morendo essi, mentre viviamo noi, non abbiano a
perseguitarci dopo che saremo morti". Con questo, lasciando il suo grande stato e le vane
pompe del mondo, fuggì col solo vivo desiderio di essere povero per Cristo, reputando questo
per somma felicità. Venne a Roma, dove castigò il suo corpo rigorosamente, vivendo nel santo
timore di Dio ed esercitando l'ufficio di carbonaio, finché, venendo un giorno in città per
vendere il suo carbone, fu sorpreso da una gravissima infermità che, da lui sofferta con
pazienza meravigliosa, finalmente lo condusse a rendere la sua santissima anima nelle mani
del Signore. Nel punto in cui spirò suonarono da sé tutte le campane della città.
Non fu meno efficace nel cuore di San Francesco Borgia, allora Marchese di Lombay, la vista
dell'imperatrice Isabella, moglie di Carlo V, la cui salma gli venne affidata per trasportarla a
Granada nella tomba imperiale. Fece aprire la cassa di piombo per consegnarla, ma Isabella
era divenuta così abominevole in faccia e contraffatta, che gli astanti tutti inorridirono, e non
fu chi ardisse di affermare con giuramento che quella era l'imperatrice. Fu tanto veemente il
fetore che gettava da sé, che la maggior parte si ritirarono per non poterlo soffrire.
Chi non vede qui la vanità del mondo? Che cosa vi ha di maggior rispetto e stima che il corpo
di un gran re o regina quando vivono, e adesso fuggono da esso quanti sono le guardie ed i
cavalieri che l'accompagnano? Si tiene per felice chi ha la fortuna di star vicino ed anche di
parlare loro in ginocchio, come a divinità, ma dopo la morte, abbandonati dagli uomini, sono
lasciati alla discrezione dei vermi, dei rospi e dei cani. Una buona testimonianza di questo è la
regina Gezabele, il cui corpo, in vita così apprezzato, dopo la morte fu fatto a pezzi
ignominiosamente dai cani.
132
Ma, tornando alla nostra storia, al sepolcro rimase solo il marchese, considerando ivi ciò che
fu l'Imperatrice e ciò che allora vedeva, dicendo fra sé: “Dove è quella bellezza di volto ora
fatta putredine e vermi? Dove è quella maestà e gravita di sembiante che si faceva rispettare
da tutti e reputare per fortunati i popoli che la vedevano? Ora ha fatto fuggire i suoi intimi.
Dove è l'impero e lo scettro se non già disfatto in polvere e fango? Questa considerazione gli
toccò il cuore e gli fece disprezzare tutto ciò che è temporale per cercare solo l'Eterno,
determinandosi a non servire più a Signore che gli potesse morire.
Questa stessa memoria della bruttezza di un corpo morto deve servire per disprezzare la
bellezza del corpo vivo, come consiglia San Pietro Damiani, il quale dice: Se il nemico astuto ti
pone dinanzi la bellezza inconsistente della carne, vada subito il tuo pensiero a contemplare i
sepolcri dei morti e considera che cosa si potrà trovare ivi di soave al tatto e dilettevole alla
vista. Considera che quella fossa manda un fetore intollerabile, che quella putredine genera e
pasce dei vermi, che quanto ivi si trova di polvere e cenere fu prima bella carne, che nella sua
primavera era soggetta a passioni somiglianti. Si considerino i nervi secchi, i denti denudati,
disordinata la disposizione delle ossa e degli arti, tutta la composizione delle membra
enormemente disfatta. Questo mostro di figura informe e confusa toglierà dal cuore umano
ogni estasi ed incanto (In Gomorrhiano, cap. 23).
Tutto questo avverrà a te, anche nella miglior ipotesi. Perché non vi pensi? Perché non emendi
i tuoi costumi? Questa sarà la tua fine; indirizza dunque a questo la tua vita e le tue azioni. Da
ciò nascono tutti gli errori degli uomini; si dimenticano della fine della vita, mentre la
dovrebbero
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aver sempre davanti agli occhi per conformare la vita al compimento dei loro obblighi.
Con ragione certi filosofi, che si chiamano Bramini, avevano davanti alle porte delle loro case i
sepolcri aperti, perché entrando e uscendo sempre si ricordassero della morte per vivere bene.
In questo senso è molto vera e profonda la sentenza nota di Platone: la sapienza è la
meditazione della morte, perché questo salutare pensiero della morte ci disinganna delle
vanità della vita e ci dà forza per migliorarla, per il che tutti i Cristiani dovrebbero ricordarsi
della loro fine.
Scrivono alcuni autori che un confessore, non potendo riuscire a persuadere un suo penitente
a far penitenza dei suoi peccati, si accontentò che gli promettesse che un suo servo tutte le
sere nel momento in cui si coricava lo avvisasse che doveva morire, dicendogli queste parole:
"Pensa che devi morire". Avendo poi udito molte volte questo ricordo ed avendolo ruminato
profondamente dentro di sé durante la notte, si mostrò finalmente ben disposto ad accettare
qualsiasi penitenza. La medesima cosa successe ad un altro, il quale aveva confessato al Papa
colpe gravissime e, aggiungendo che non poteva digiunare, né portare cilizi, né far altra cosa
aspra. Sua Santità, dopo averlo raccomandato a Dio, gli diede un anello sul quale era scritto:
Memento mori, ricordati che devi morire, con l'incarico che sempre lo guardasse e leggesse
quelle lettere e si ricordasse della morte. Questo ricordo gli produsse in breve tempo tali e
tante risoluzioni al cuore, che si offerse al Papa a compiere quanto gli fosse per comandare.
Per lo stesso motivo, sembra che Dio, volendo parlare al Profeta Geremia, lo abbia mandato
da un vasaio: scendi in casa d'un vasaio e vi udirai le mie parole. Ben poteva il Signore
mandare il suo Profeta in qualche altro luogo più pulito e non così vicino al fango nel quale
stavano occupati molti uomini.
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Ma Egli fece questo con un mistero particolare: per farci comprendere che alla presenza dei
sepolcri dove sta il fango della nostra natura, come nella casa del vasaio, è molto acconcio che
Dio ci parli con la memoria della morte, per udire meglio la sua parola.
Per questo il demonio fa di tutto per farcela dimenticare. E infatti; com'è che mentre il solo
sospetto di alcuna perdita o di un danno basta a togliere agli uomini il sonno, non da
preoccupazione alcuna la stessa certezza della morte, che pure è la più terribile di tutte quante
le cose?
CAPITOLO SECONDO.
Oltre la miseria nella quale va a terminare ogni felicità del mondo, la fine della nostra ha
ancora altre notevoli proprietà degne di essere considerate, affinché disprezziamo tutti i suoi
beni. Ne enumeriamo tre principali: la prima, essere la morte certa, perché verrà senza
rimedio; la seconda è l'essere incerta, perché non si sa, né quando, né come verrà; la terza è
l'essere unica, perché non si può provare a morire una seconda volta, per correggere con la
seconda morte ciò che si fece malamente la prima volta.
La morte è certa.
Quanto alla certezza ed infallibilità della morte conviene mollo che noi ce ne convinciamo,
poiché, come è certo che l'altra vita non avrà mai fine, così è certo che questa l'avrà. Come i
miserabili dannati disperano che i loro tormenti abbiano termine, così praticamente
dobbiamo disperare che
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abbiano a durare i piaceri di questa vita. Iddio non ha fatto legge più inviolabile che quella
della morte. Pur avendo dispensato da altre leggi e violato più volte i precetti della natura, non
ha mai dispensato, né dispenserà dalle leggi della morte; anzi ha dispensato dalle altre leggi,
per non venire meno a questa. Ha dato esecuzione all'obbligo della morte non solamente in
quelli che devono morire, ma anche in quelli che non lo dovevano. Nella concezione di Cristo
si infransero leggi tanto radicate nella natura, come quella per es., del nascere gli uomini dalla
propagazione di altri uomini, rompendo la integrità delle madri. Ma perché questo non
succedesse in Cristo, Dio fece due stupendi miracoli sospendendo le leggi naturali, perché suo
Figlio nascesse da Madre vergine. Fu però tanto lontano dall'eccettuare il suo stesso Figlio
dalla legge della morte che, pur non toccando la morte a Lui, giacché era Signore della legge e
immune da ogni peccato, anche dell'originale, per il quale noi contraemmo la legge della
morte, anzi dovendosi al Suo Corpo Santissimo l'immortalità e le quattro doti della gloria,
perché l'anima sua godeva la visione chiara dell'essenza divina, ciò non di meno non volle
usare di questo diritto e fece miracoli, sospendendo con il suo braccio onnipotente le doti della
gloria del corpo, che gli dovevano risultare dalla gloria dell'anima, affinché potesse morire. Ed
ecco come conserva Dio la legge della morte, con tale rigore che mentre fa miracoli per
sospendere altre leggi di natura, non li fa per sospendere quella della morte nemmeno per chi
né la merita, né dovrebbe essere soggetto.
E poiché il Figlio di Dio prese sopra di sé la redenzione del genere umano, per cui conveniva al
suo grande amore morire di morte sulla croce, quantunque alla sua SS. Madre mancasse
questa ragione e neppure dovesse morire per causa del peccato originale, di cui era esente,
pure non volle eccettuarla dalla legge inviolabile della morte.
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Ora, qual mistero è questo che, essendo tanto certa la morte, non riusciamo ad intenderlo ed
a persuadercene? Devi morire, siine persuaso. La legge è irrevocabile, morirai senza rimedio.
Verrà tempo in cui i tuoi occhi ora così fulgidi, saranno spenti, le tue mani ora così agili
saranno senza moto, il tuo corpo ora pieno di vita e di brio sarà freddo ed inerte, la tua bocca
muta, le tue labbra livide, le tue carni che ora tanto accarezzi disfatte e pasto di vermi schifosi.
È cosa certa che verrà un tempo in cui starai coperto di terra, in cui sarà fetente il tuo corpo,
brulicante di vermi, più orribile a vedersi di un cane morto, putrefatto in una fossa. Verrà
tempo in cui sarai dimenticato dagli uomini, come se tu non fossi mai stato e ti calpesteranno
coloro che ti passeranno sopra, senza sapere che è nato un tal uomo.
Considera questo e persuaditi che hai da morire come tutti. Ciò che vedi che è toccato a tanti,
credi che toccherà anche a te. Tu, che ora hai paura dei morti, dovrai esser morto. Tu che hai
schifo di un sepolcro aperto, delle ossa di altri mezze putrefatte, sarai anche tu tutto coperto di
vermi e corrotto entro sette palmi di terra. Pensa un momento a questo, meditando
ponderatamente come sarai da morto, e ti servirà questa considerazione a disingannarti della
tua vita ed a farti disprezzare i tuoi beni presenti. In verità tale è la morte. Anche se fosse solo
contingente e non certa, ci dovrebbe far andare molto solleciti e guardinghi. Se Dio avesse
creato il mondo pieno di uomini e, prima che sapessero di dover morire, uno si fosse
improvvisamente ammalato di febbre perniciosa: chi può immaginare lo spavento che
avrebbero provato i suoi parenti e vicini alla vista dei suoi dolori e spasimi, al sentire i suoi
gemiti, all'assistere alla sua agonia e specialmente al vederlo morto... Spavento anche più
profondo quando, pochi giorni dopo avessero visto quel povero
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138
necessarie? Sii preoccupato dell'altra vita, dove hai da andare a finire. Tu, tu sei colui che Dio
ha determinato alla morte, perché non lo credi? E se lo credi, perché stai ozioso? Perché vivi
così ozioso dove non hai da rimanere? Lascia le preoccupazioni della terra e rifletti dove hai da
andare. Tu non dovevi vivere fra noi, ma andare in un deserto per disporti al passaggio
terribile che ti aspetta".
Si faccia poi ognuno questo conto: io sono colui che deve morire e ridurmi in polvere. Questo
mondo non ha che fare con me; l'altro mondo, sì, venne fatto per me; solo di quello debbo
adunque preoccuparmi.
Sono qui di passaggio, per il che devo guardare all'eterno, dove andrò a finire. È certo,
certissimo che verrà la morte a portarmi via; uno solo dev'essere quindi il mio compito;
prepararmi a così difficile passo; e poiché nessun uomo me ne potrà liberare, voglio servire a
quel Signore che solo potrà salvarmi in un pericolo così certo.
Viene a proposito per disingannarci la storia riferita da Giovanni Maggiore. Un soldato servì
fedelissimamente per molti anni ad un marchese, e perciò si era cattivato grandissimo affetto.
Una infermità colpì il povero soldato. Quando il suo signor marchese ne ebbe notizia, venne
subito a trovarlo, accompagnato da buoni medici, e gli domandò della sua salute, dicendogli
molte parole di conforto e di affetto e si offri a lui per quanto fosse necessario per il suo
sollievo e la sua salute, pregandolo che gli chiedesse tutto, perché, senza guardare né a spese
né a fatiche, gli sarebbe stato provveduto con ogni liberalità. E importunandolo perché gli
domandasse qualche cosa, l'infermo gli disse che lo ricompensasse con una di queste tre cose:
O che gli desse modo di sfuggire alla morte che già gli
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stava dinanzi, o che almeno in qualche modo alleviasse per lo spazio di un'ora i dolori
grandissimi che soffriva, o, se doveva morire, che almeno per una notte, non più, gli facesse
prendere un po' di riposo.
Gli rispose il marchese che questo era solo pertinenza di Dio; che gli domandasse cose fattibili
di questa terra e lo provvederebbe ben volentieri. In questo modo, replicò l'infermo, ho
perduto io ogni mia fatica; quanti servizi gli ho resi nel corso della mia vita e tutto questo
invano e con poco frutto! E voltandosi verso coloro che si trovavano presenti, disse loro con
grande sentimento e con le lacrime agli occhi: "Fratelli miei, guardate quanto inutilmente ho
speso il tempo, che pure è una gioia così preziosa, nel servizio di questo signore, obbedendo ai
suoi comandi con tanta cura e con grande pericolo della mia anima, il che è il dolore più
grande che in questo momento sente il mio cuore. Guardate quanto piccolo è il suo potere,
giacché non ha potere per aiutarmi in tante angustie e pene, neppure per un'ora. Per questo vi
ammonisco, fratelli miei, che abbiate ad aprire gli occhi per tempo: e il mio errore vi sia di
lezione, perché vi guardiate da un pericolo così grande e procuriate in questo mondo di servire
un tal signore, che non solo vi possa liberare dalle presenti angustie e custodirvi dai mali
futuri, ma sia ancora capace di coronarvi di gloria nell'altra vita. E se il Signore mosso dalle
vostre preghiere si degnasse di ridarmi la salute, prometto di non occuparmi più nel servizio
di un signore così debole e povero che non sa rimunerare i servizi che gli si fanno, ma tutto il
mio impegno e tutti i miei sforzi dovranno servire a chi è potente in porgere aiuto a me e al
mondo universo". Con questo grande sentimento morì, lasciandoci l'esempio di quanto
abbiamo da utilizzare quel tempo che Dio ci diede per meritare i beni eterni.
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La morte è incerta
Veniamo ora alle incertezze che ha la morte nelle sue circostanze. Quanto è certo che abbiamo
a morire, tanto è incerto il modo con cui morremo. Non vi ha cosa tanto sicura come questa,
che tutti colpirà la morte, ma non vi ha cosa meno incerta del quando e come ha da venire. Chi
sa, se avrò da morire vecchio o giovane, se d'infermità o per un fulmine, se di dispiacere o di
pugnalate, se repentinamente o adagio, se tra amici, o nella solitudine, se da qui a un anno od
ossi stesso. Sempre la morte ha aperta la porta, sempre sta questo nemico all'erta e quando
meno si pensa ci assalta. Non so come vi sia uomo che si trascuri nel prevenire questo pericolo
che sempre lo minaccia.
Guardiamo come si custodiscono le cose temporali, anche quando non si corre alcun rischio. I
pastori custodiscono sempre le pecorelle, accompagnati da cani da guardia, anche se non
credono che abbia da venire il lupo, ma solo perché può venire. Le città fortificate si
custodiscono con forti presidi anche in tempo di pace, quando non si teme nemico alcuno, ma
soltanto perché in un tempo è venuto o poteva venire. Però quando vi ha sicurezza dalla
morte? Quando possiamo dire: Adesso non verrà? Dunque, perché non preveniamo questo
pericolo tanto grande? Nelle città di frontiera vi sono sempre sentinelle che vegliano tutta la
notte, anche quando non si teme nessun assalto; perché allora non stiamo sempre vegliando,
giacché non ci possiamo mai assicurare dagli assalti della morte? Se uno sospettasse che
dovessero venire i ladri in casa, veglierebbe tutta la notte, acciocché in nessuna ora di essa lo
cogliessero dormendo. Ma non essendo sospetto, bensì evidenza e certezza, che hai da morire
e non sai quando, perché non vegli sempre? Vedi quanta distanza vi ha fra i tuoi negozi e
l'anima tua, fra le ricchezze temporali e quelle eterne, che perderai se la morte ti coglie
impreparato.
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Chi vi ha che, avvicinandosi al luogo del supplizio, vada dicendo facezie e si diverta per la
strada? Tutti noi uomini non siamo altro che condannati i quali vanno al supplizio per
differenti strade, che essi non conoscono, né sanno se vanno diritte o per giravolte. Tutti
andiamo a finire nella morte, ma chi sa se andrà per una via torta o per una diritta, se ha da
arrivare presto o se tarderà di più? Ciò che puoi sapere è che stai in cammino, però non sai se
stai lontano; così devi temere d'incontrarti presto con essa e star sempre apparecchiato e non
attaccarti a questa vita. Basta questo rischio di morir subito per non aver stima di alcun
piacere di questa terra.
Il re Dionisio di Sicilia, per disingannare un filosofo il quale si riteneva sommamente felice,
poiché non gli mancava nulla di piacere, lo invitò ad una mensa con piatti ricchissimi e tutti i
divertimenti che poteva desiderare e comandò che subito si mettesse da quella parte, dove
stava, pendente sopra di lui, una spada molto affilata e acuta, appesa ad un filo di crine di
cavallo. Bastò questo rischio solo, perché quel filosofo non potesse mangiare boccone alcuno,
né gustare cosa alcuna di tutta quella festa.
Non è più sicura la tua vita; come dunque puoi gustare i piaceri di questo mondo? Chi ogni
momento può morire, in nessun momento dovrebbe godere della vita. Certamente questa
considerazione sola basta, come avverte Riccardo, per togliere il gusto a tutti i piaceri della
terra. Un grande pericolo o timore basta per togliere l'attenzione ai più grandi diletti, perché
non si sentano. E qual maggior pericolo vi è di quello dell'eternità?
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Questa incertezza della morte è perché tu ti disponga a disprezzare questa vita per prepararti
all'altra. Il poter morire sempre è perché tu sii sempre preparato. Che altro è la morte, se non
il cammino per l'eternità? Grande giornata hai da compiere; perché non ti prepari a tempo,
non sapendo quando ti obbligheranno a partire? Così il popolo di Dio, non sapendo quando
doveva partire, stava sempre in procinto di partenza durante i quarant'anni che rimase nel
deserto. Sta sempre apparecchiato, perché non sai se partirai oggi. Rifletti che v'è molto da
fare in morte; disponiti per tempo per farlo bene, giacché per questo sarebbero bene spesi
molti anni; non sapendo quindi se avrai anche solo un giorno, perché non ti disponi oggi?
Se per il viaggio di un giorno, dopo aver preparato bene le cose, pure ordinariamente trovi che
ne hai dimenticato alcuna, come per una giornata tanto lunga, quale è quella dell'eternità,
pensi che sia ben fatto a non prepararti mai? Chi non desidera lo colga la morte almeno due
anni dopo di aver servito con fedeltà a Dio? Ora non ne hai sicuro neppur uno; perché non ci
pensi subito?
Non fidarti della salute o della gioventù, perché molte volte la morte viene a tradimento e
quando meno l'aspetti. Secondo Gesù Cristo, nostro Redentore, essa verrà nell'ora in cui non
la pensi, e l'Apostolo disse che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte, senza che
alcuno lo senta, e quando dorme sonno profondo il padrone della casa. Non prometterti il
giorno del domani, tu che non sai, se verrà la morte in questa notte.
Il giorno prima che uscissero i figli d'Israele dall'Egitto, quanti signori maggiori di quel regno
si promettevano di fare o conseguire cose grandi all'indomani o in quell'anno! Ma nessuno
arrivò vivo all'indomani. Da savio agiva Mesadamo, come scrive Guido Bituricense, il quale,
invitare da uno perché mangiasse all'indomani con lui, rispose: "Amico mio, perché inviti per
domani me, che già da molti anni non mi sono arrischiato a promettermi il giorno seguente,
ed ogni ora aspetto la morte? Non c'è da fidarsi delle forze del corpo
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ricchi vestiti che portavano con sé per farne regali. Però il giorno medesimo in cui questa
solenne ambasciata entrò in Parigi, mentre attendevano il re nella sala dove doveva aver luogo
il ricevimento, arrivò un corriere con la notizia della morte dello sposo. Fu tale il dolore che
ferì il cuore del re alla fatale notizia, da non aver più coraggio di ricevere l'ambasciata, né
parlare all'ambasciatore, né a quelli che lo accompagnavano. Così si ripartivano tristissimi da
Parigi e ognuno com'era venuto ritornò a casa. Di questa maniera sa Dio, per mezzo della
morte, riempire di tenebre la terra nel giorno del suo massimo splendore, come dice il suo
Profeta.
Poiché non sai quando hai da morire, pensa che può essere oggi, e sta sempre disposto, perché
sempre puoi morire. Confida nella misericordia di Dio invocandola subito, ma non voler
presumere col rimandare un momento la tua conversione. Che sai se ti darà tempo, perché la
possa invocare o se, dopo averla invocata, meriterai di essere esaudito? Sappi che la
misericordia di Dio non è promessa a coloro che si fidano di essa per peccare con la speranza
del perdono, ma solo a quelli i quali, temendo la giustizia divina, cessano di peccare, Dice San
Gregorio (In lib. Moralium): La misericordia di Dio Onnipotente si dimentica di colui che si
scorda della giustizia di Dio Onnipotente, perché non potrà trovare Dio misericordioso chi
non teme Dio giusto. Per questo si ripete tanto nella Sacra Scrittura che la misericordia di Dio
è per quelli che lo temono. In una parte si dice: La misericordia di Dio dall'eternità e per tutta
l'eternità è sopra coloro che lo temono. In altra parte: Nella stessa guisa che il padre ha
misericordia dei suoi figli, Dio ha misericordia di quelli che lo temono. Infine la stessa Madre
di misericordia cantò, nel
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Magnificat, che la misericordia del Signore sarebbe: Di generazione in generazione per quelli
che lo temono. Vedi come la misericordia divina non si promette a tutti e come resterai
escluso da essa, mentre presumi di essa e non temi la giustizia! Ma come può esserci in te
timore di giustizia, se, pulendo tu morire oggi, rimandi la tua conversione per anni ed anni,
quando cioè non tanto tu lasci i vizi, quanto piuttosto essi lasciano te?
Considera ciò che dice S. Agostino: La penitenza in morte è molto pericolosa, perché non si
trova nella Sacra Scrittura se non uno, cioè il buon ladrone, che in morte abbia avuto vera
penitenza. Questo vi si trova, perché nessuno disperi; ma questo solo si trova, perché nessuno
presuma. Nel sano la penitenza è sana, nell'infermo inferma, nel morto morta. Alcuni si
comportano con Dio come il re Dionisio con la statua di Apollo, alla quale egli tolse un
mantello d'oro che aveva, dicendo: "Questo mantello non è buono, né per l'inverno, né per
l'estate, perché per l'estate è pesante e per l'inverno è freddo e senza riparo". Così sono alcuni i
quali non trovano tempo acconcio per servire a Dio. Nella gioventù dicono che è molto presto
e che bisogna lasciare il tempo all'età, che quando saranno vecchi eserciteranno le virtù e che
non si deve indebolire con penitenze il vigore della gioventù, perché resterebbero sempre
infermi e senza utilità per tutta la vita. Arrivando però alla vecchiaia, se pur vi arrivano,
dicono che sono pieni di acciacchi e che non hanno forza per far penitenza, In questa maniera
vogliono ingannare Iddio; ma ingannano invece se stessi.
L'apostolo San Giacomo trova errato questo modo di parlare: Domani andremo alla tal città e
staremo lì un anno, perché non sappiamo ciò che sarà domani. Ora, se anche parlando delle
cose temporali non è bene dire: domani lo farò, domani procurerò di salvare l'anima; come
può dire
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uno: da qui a dieci o venti anni, quando sarò vecchio, poiché forse non lo sarà mai? Che serve
a rimandare al domani ciò che tanto importa sia fatto oggi, poiché importa molto che la cosa si
faccia, e se non si fa oggi, può essere che domani non si possa più fare? In questo inganno
stava S. Agostino il quale dice: Io sentiva di essere prigioniero e andavo ripetendo il
miserevole ritornello: miserabile, fino a quando? fino a quando? Domani e domani? Perché
non sarà in quest'ora la fine della mia turpitudine? Questo io dicevo e piangevo con
sentimento amaro del mio cuore.
La morte è unica.
Oltre ad esser incerta la morte, essa è anche unica. Non si può correggere l'errore della morte
cattiva con una morte buona. Dio diede all'uomo in abbondanza i sensi ed altre parti del
corpo; gli diede due occhi perché, se uno gli manca, resti l'altro di cui servirsi; gli diede due
orecchi perché insordendosi l'uno, l'altro possa supplire la sua mancanza; gli diede due mani
perché, perduta l'una, possa usare dell'altra: di morti però gliene diede una sola, e, se quella
riesce male, è tutto perduto.
Caso terribile questo! La cosa di maggiore importanza che abbiamo è quella del morire, e non
ha prova, né esperienza, né rimedio. Aver da morire una volta sola, in un momento, e
dipendere da esso l'eternità! Sicché, se si sbaglia la prima volta, non si può correggere il suo
errore! Scrive Plutarco di Lemaco centurione, che riprendendo un soldato di uno sbaglio,
questi gli promise di
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non farlo più. Gli rispose il savio centurione: "Bene sta questo, perché in guerra non si deve
errare due volte per il grande danno che da uno sbaglio può provenire". Però se nella guerra
non si può errare due volte, nella morte non si deve sbagliare neppure una volta, perché il suo
errore è irrimediabile. Supponete che ad un rustico, che non abbia mai preso in mano un arco,
venga intimato di tirare contro un bersaglio molto lontano, pena, se fallisce, di essere bruciato
vivo, ma con la promessa, se fa centro, di venire premiato con molti doni e ricchezze: chi può
dire l'afflizione e l'angoscia di quest'uomo che si vede costretto ad un atto così
compromettente e difficile per lui, affatto pratico di tiro, e non tiene che una sola freccia a
disposizione, cosicché fallito il colpo non gli è più possibile riparare! Ora questa è la nostra
sorte: come possiamo, quindi, ridere e scherzare?
Non siamo mai morti, non abbiamo esperienza della morte, né abilità per cosa tanto difficile.
Una volta sola dobbiamo morire e quella volta è in gioco l'eternità o della felicità o nei
tormenti infernali. Come viviamo tanto trascurati e dimentichi di morire bene, poiché per
questo siamo nati e si ha da fare una volta sola?
Quest'azione, che è la più importante della vita e che dobbiamo compiere innanzi agli Angeli e
dalla quale dipende l'eternità, e senza rimedio e correzione. Le azioni umane che si ripetono
sono di tale condizione che, se riuscirono male una volta, un'altra volta potranno riuscire
meglio e ciò che si perdette in una, si può guadagnare in un'altra.
Se ad un ricco mercante si affondò una nave nell'Oceano, può sperare che gliene arrivi un'altra
caricata di ricchezze che ricompensi la nave perduta. Se ad un grande oratore riuscì male una
predica e per questo perdette credito, con un'altra potrà rifarsi; riuscendo male la morte una
volta, non si può aver altra migliore, non si
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riparerà quella perduta. Ciò che è unico, è degno di maggior stima, perché la sua perdita sarà
irreparabile. Stimiamo dunque il tempo della vita, poiché non ne abbiamo un'altra nella quale
guadagnare l'eternità. Stimiamo quello con cui possiamo fare una morte preziosa o, per
meglio dire, vita e morte preziosissima, imparando nella vita a morire. Ben disse un pio
dottore: "Se tutti quelli che hanno da esercitare un ufficio o fare una cosa importante, anche di
solo gusto, come è il ballare, si studiano prima come lo dovranno fare, che ragione vi ha
perché non si studi di ben morire, essendo la cosa più difficile ed importante di quante vi
hanno nel mondo? Se un uomo fosse obbligato a fare un salto molto difficile, con questa
condizione che, se saltasse bene, gli dessero un regno fastoso e ricco, se saltasse male,
diventasse schiavo e rematore perpetuo, senza dubbio alcuno provvederebbe a far bene il salto
a forza di esercizi, prima del tempo destinato alla prova da cui dipendono sorti tanto diverse".
Quanto più differenti sono le sorti che aspettano il salto, che abbiamo da fare dalla vita alla
morte, pensando che i regni della terra, paragonati con quelli del Cielo, non sono che
immondezza e il remare nelle galere, paragonato con l'inferno, è onore e gloria?
Quando il salto è lungo e pericoloso, colui che lo deve eseguire, per farlo meglio, suole
pigliarlo a corsa e da lontano. Ora sappiamo che il salto dalla vita alla morte è tanto pericoloso
e lungo; è giusto dunque che, per farlo meglio, prendiamo la corsa fin dal principio, dalla
nostra vita breve, dal punto in cui comincia in noi l'uso della ragione. Per mezzo di essa
ragione conosciamo che la nostra vita è mortale e che, nel lasciarla, quando meno vi
pensiamo, dobbiamo pagare rendite e capitali.
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Gli antichi il giorno nel quale incoronavano l'imperatore, secondo quanto riferisce San
Giovanni Elemosinano, usavano presentargli, per mano degli architetti più celebri di quel
tempo, alcuni pezzi di marmi differenti, fra cui doveva scegliere quello preferito per la
costruzione dei suo sepolcro.
Volevano così fargli intendere che il suo impero doveva durare tanto poco, che era necessario
cominciare subito il suo sepolcro, per finirlo prima della sua morte, e ricordargli che non
avrebbe potuto governare bene i suoi sudditi, se non governava bene se stesso con la memoria
della morte. E questo deve servire di norma perché, quando comincia l'impero e il dominio
dell'anima nostra che è l'uso della ragione, trattiamo subito della nostra morte, intendendo
che nell'apparecchio della morte consiste il buon governo e la perfezione della vita.
La vita perfetta, dice San Gregorio, (Lib. XII Moralium) è la meditazione della morte. Colui ha
vita perfetta che la spende nello studiare la morte. Vive bene colui il quale studia ed apprende
come si ha da morire. Chi non sa questo non sa niente, né gli sono di giovamento le altre
scienze.
Che utilità apportò ad Aristotele tutto quanto studiò e seppe? Nulla. Così confessò vicino alla
morte, quando, pregato dai suoi discepoli che dicesse loro alcuna sentenza notevole, dopo che
tante ne aveva dette e scritte durante la sua vita, rispose: “Entrai povero in questo mondo;
vissi nella miseria e muoio nell'ignoranza di ciò che m'importava sapere". Disse bene, perché
non aveva studiato come doveva morire. Aristotele ebbe molti discepoli nelle scienze che
sapeva; molti lo seguono nelle sue opinioni, ma molti più lo imitano nella ignoranza che egli
ebbe della morte.
Guadagnarne il tempo nel quale possiamo guadagnare l'eternità, perché una volta perduto,
perderemo il tempo di questa vita e l'eternità dell'altra.
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Quanti milioni di uomini stanno nell'inferno, i quali disprezzarono il tempo, mentre stavano
nel mondo, ed ora sarebbero contenti di soffrire per un milione, anzi per milioni di milioni di
anni, tutti i tormenti dell'inferno, pur di avere un istante di tempo, nel quale potessero
guadagnare la vita eterna della gloria facendo penitenza, senza poterlo ottenere.
E tu perdi non istanti di tempo, ma ore, giorni ed anni interi. Considera ciò che darebbe un
dannato per questo lasso di tempo che tu stai perdendo, per poter uscire dall'inferno; guarda
bene che tu non ti trovi poi col medesimo dolore, quando non avrai più il rimedio del tempo
che ora stai sciupando. O stolti, quanti cercano vani divertimenti per passare il tempo, come
se il tempo non avesse questa premura di passare, anche se essi non volessero! Passa e vola il
tempo di questa vita e tu non vuoi lucrare la vita eterna? Rifletti che col tempo puoi
guadagnare l'eternità; non considerare la perdita del tempo solo come tale, bensì come perdita
dell'eternità, poiché in un istante di tempo puoi guadagnare infiniti istanti di quelli che godrai
per i secoli dei secoli. Per guadagnare il premio eterno è poco il tempo della vita, che passa più
veloce del vento.
Considera che il tempo non perde la velocità con cui la morte viene dietro a te correndo, anche
quando tu dormi; e tu arrischi a star ozioso? "Tu dormi, dice S. Ambrogio, ed il tempo
continua" [Tu dormis et tempus ambulat (In Ps. 1)]. Non star un momento fermo, perché in
esso puoi guadagnare più volte il Cielo. Il tempo è giorno di mercato e di fiera dell'eternità,
come dice il Nazianzeno. Non tralasciare di acquistare a buon mercato, perché, passata questa
vita, non vi è più occasione di meritare.
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Pensa che è corto il tempo in cui si può tesoreggiare ed il guadagno sarà eterno. Ascolta ciò
che t'insegna un gentile, il quale non conobbe questo bene del tempo di poter guadagnare in
esso l'eternità, e ciò non di meno dice (SENECA, Epist. 118): “Non ci diede la natura tanto
liberalmente il tempo che convenga perderne anche una sola particella; invece considera
quanto tempo perdono anche i più diligenti. Alcun tempo se ne va per la mancanza di salute
propria o dei suoi, altro tempo è occupato dagli affari necessari, altro dalle occupazioni
pubbliche, anche il sonno ci divide la vita. Ora di questo tempo tanto limitato e veloce, a che ci
serve lo spenderne invano la maggior parte? Il medesimo autore consiglia che abbiamo da
vincere la velocità del tempo con la diligenza nel suo buon uso ed impiego. Senza conoscenza
della lede disse questo Seneca, senza saper che con un istante di tempo si poteva tesoreggiare
un'eternità di gloria.
Che dobbiamo fare noi, con la luce del cielo che abbiamo e la conoscenza dei beni eterni e con
le minacce dell'inferno? Viviamo sempre morendo come se ogni istante di tempo fosse per noi
l'ultimo.
Con questo non perderemo il tempo tanto prezioso e guadagneremo quello eterno.
Conformiamoci a quello che disse San Giovanni Climaco (IO. CLIMACUS, Grad. 6): Non si
passa bene il giorno presente, se non si pensa che questa ora e l'ultima di tutta la nostra vita.
Colui è buono il quale ogni ora aspetta la morte, però colui è santo il quale ogni ora la
desidera.
Per lo meno consideriamoci come mortali, crediamo di esserlo e mostriamo con le opere
nostre che sappiamo di dover morire e che la nostra vita ha da arrivare alla fine.
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Domandiamo a Dio ciò che supplicava Davide: Signore fatemi conoscere la mia fine. È certo
che abbiamo da morire, certo che non sappiamo quando, certissimo che si muore una sola
volta. È già molto, come nota S. Ambrogio, che Dio ce lo dica e che noi ne discorriamo.
Persuadiamoci che abbiamo da morire e non sappiamo quando; che questo sarà una volta
sola, senza poter tornare a pigliare in mano il tempo che una volta ci sfuggì. Vergogniamoci di
quello che dice un gentile, che abbiamo da nascere con la memoria di questa notevole
condizione della morte, consigliandoci ad operare il bene. L'imperatore Marco Aurelio (Lib. II.
de vita sua) da questi ammirabili consigli nella sua filosofia: Rifletti alla fine del tempo che li e
assegnato, il quale, se non lo spendi in procurare la pace della tua anima, ti sfuggirà e non
ritornerà, tanto meno dopo che sarai morto. Ogni ora sollecita la tua anima a operare con
fortezza come si conviene ad un uomo, ad un Romano, con una perfetta e non finta gravità,
umanità, liberalità e giustizia. Nel frattempo tieni lontano dall'anima tua ogni altro pensiero,
il che farai se in tal maniera compi qualsiasi opera e negozio, come se fosse l'ultimo della tua
vita e così non ammetta vanità alcuna. Questo è un meraviglioso consiglio. Sai che hai da
morire e non sai quando, fa' ogni opera come se fosse l'ultima e terminandola tu avessi da
spirare. Soprattutto procura di togliere i peccati, le male inclinazioni, i pensieri della terra,
elevandoli al cielo insieme col cuore e l'affetto, che sempre dev'essere retto e posto in Dio. Un
albero inclinato, quando lo taglieranno, cadrà da quella parte dove sta inclinato. Se non è
inclinato alla destra quando vive, dove potrà cadere in morte? Temi che cada nell'inferno.
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CAPITOLO TERZO.
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Ammirabile è la somma sapienza di Dio, che pose un punto di mezzo fra il tempo e l'eternità,
al quale deve indirizzarsi tutto il tempo della vita, e da cui dipende tutta l'eternità! O
momento, che non sei né tempo, né eternità, ma solo l'orizzonte dell'uno e dell'altra, e
partecipi del tempo e dell'eternità! Oh qual momento breve e quale immenso spazio, in cui si
concludono tante cose e si dà stretto conto, dove si ode sentenza tanto rigorosa che si eseguirà
sempre! Caso strano! Che il negozio dell'eternità debba risolversi in un momento, senza dar
luogo a diligenza, quando non potrai ricorrere ai santi del cielo, né ai sacerdoti della terra! Né
quelli pregheranno per te, né questi ti daranno assoluzione, perché il rigore del Giudice nel
momento in cui spiri non darà luogo alla misericordia.
San Giovanni dice: Dalla presenza del Giudice fuggirà la terra ed il cielo (Ap 20, 11). Che farai
tu, non potendo fuggire, perché contro di te si farà il processo? Si dice che in quel momento
fuggirà il cielo e la terra, perché né i santi del cielo ci favoriranno con le loro intercessioni, né i
sacerdoti della terra potranno accorrere con i sacramenti della Chiesa; in nessun luogo vi sarà
chi ci aiuti. Che darebbe allora un peccatore per poter confessarsi! Ma non gli sarà più dato, e
ciò che allora ti farebbe bene ed ora disprezzi, non lo potrai avere. Previeni in tempo mentre ti
puoi aiutare e non differire al tempo in cui nessuno ti aiuterà. Adesso ti puoi aiutare, ora i
santi desiderano favorirti. Non differire al tempo nel quale né potrai tu, né vorranno i santi.
In quell'ora del giudizio di Dio, quale spavento e timore non proverà il povero peccatore,
quando,
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senza rimedio e senza speranza si troverà in potere dei dragoni internali che afferreranno la
sua anima e la porteranno nell'abisso dell'inferno? Ricordiamoci e temiamo ciò che temette e
disse del demonio il Profeta; affinché non rapisca qual Icone l'anima mia, mentre non vi lui
chi mi liberi, né chi mi salvi (Sal.7, 3). Oh che tremendo caso è vedersi in mano di lucifero,
non solo abbandonato dagli uomini, ma eziandio dagli angeli, dalla Regina degli uomini e
degli angeli e dal Padre delle misericordie.
Provvediamoci a tempo, perché ciò che si ha da fare in un punto dovrà durare per tutta
l'eternità. O momento! O momento terribile e spaventevole! O momento, nel quale si perderà
ogni tempo, e se in te uno si perde, resterà perduto eternamente! O momento, dal quale
dipende l'eternità, quanta è la tua importanza! Tu assicuri tutte le opere buone della vita e fai
dimenticare tutti i suoi piaceri, perché l'uomo non si diletti in essi, giacché non gli saranno
allora di alcun giovamento, e perseveri nella virtù, poiché non lo assicura, se egli non si
conserva in essa fino a quel punto.
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Che gioverebbero ad uno cento anni di servizio di Dio, con grande asprezza e penitenza, se alla
fine di essi commettesse in un momento un peccato grave e subito dopo lo cogliesse la morte?
Nessuno è assicurato dalle virtù passate; le continui fino a la morte perché, se non muore in
grazia, tutto sarà perduto e, se muore in grazia di Dio, che importa che abbia vissuto mille
anni negli affanni più grandi del mondo?
O momento, nel quale si dimentica il giusto di tutte le sue pene e si assicura di tutte le sue
virtù! O momento, nel quale il peccatore comincia le sue pene ed hanno fine tutti i suoi
piaceri! O momento, che è certo che verrà, ma incerto il suo quando, certissimo che non
ritornerà. Verrà una volta sola e non si potrà revocare in altro momento ciò che in uno si è
determinato!
O momento, quanto dovremmo ricordarti sempre in vita, per non aver poi da cadere in te, con
nostro danno! L'abate Elia (In Vita Patrum, lib. V, pag. 565 apud Rota) diceva: Io temo tre
cose la prima, quando mi si toglierà l'anima dal corpo; l'altra quando avrò a comparire dinanzi
a Dio per essere giudicato; la terza quando mi si darà la sentenza. Ora tutte queste tre cose
tanto terribili dovranno passare in questo momento, il quale per ciò appunto è così tremendo.
Si immagini sovente il cristiano di trovarsi in quel punto, in cui dovrà spirare, dove vedrà da
una parte il tempo della vita che lascia e dall'altra l'eternità in cui va a cadere, e confronti ivi
una cosa con l'altra; rifletta ciò che gli resterà della vita che se ne va e ciò che l'aspetta
nell'eternità in cui entra. Quanto brevi saranno sembrati a Matusalemme in quel punto i mille
anni della sua vita e quanto lungo gli sarà sembrato il solo giorno dell'eternità! In quel punto
mille anni della vita sembreranno al peccatore non più che un'ora, o per meglio dire, un
istante e un'ora di tormenti gli appariranno mille anni.
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Contempli il cristiano da questo faro ed orizzonte la vita e la misuri con l'eternità; non vedrà
in essa cosa di sostanza e di stima. Rifletta che cadrà nelle sue mani e non potrà mai più
sfuggirne! Provvediamoci a tempo, perché in questo momento non perdiamo l'eternità.
Questo momento è una margherita preziosa, per assicurare la quale dobbiamo dare tutto
quanto abbiamo e siamo. Resti nella nostra memoria momento tanto importante, perché a
questo sempre dobbiamo attendere. Siamo sempre solleciti, perché sempre può venire.
L'eternità dipende dalla morte, la morte dalla vita e la vita da un filo che in un istante si taglia
o si rompe o si brucia. Questo avviene quando meno si pensa, anzi quando più si spera o si
procura di allungare la vita. Di questo è buona testimonianza ciò che racconta Paolo Emilio di
Carlos, (PAULUS AEMILIUS. lib. IX; il fatto avvenne nel 1387) re di Navarra: avendo perduto
tutte le forze per l'esagerazione con cui si era abbandonato ad ogni sorta di piaceri, i medici
ordinarono di applicargli su le carni nude alcune lenzuola impregnate di acquavite. Colui il
quale gliele cuciva toccò una candela che stava vicino, ed essendo la tela impregnata di
quell'acqua, cominciò subito ad ardere con tale sveltezza che, prendendo fuoco le lenzuola,
bruciarono il re, che subito se ne morì. Da un filo dipese la vita di questo prin