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P. Gian Eusebio NIEREMBERG S. J.

TEMPO ED ETERNITÀ
Norme di sapienza cristiana

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GRANDI MAESTRI DI VITA SPIRITUALE


OPERE SPIRITUALI

Unica versione integrale eseguita sulla prima edizione spagnola dal Sac. Dott. GUALTIERO DISLER O.S.C.
L. I. C. E. - ROBERTO BERRUTI & C. TORINO - Via S. Dalmazzo, 24
Visto nulla osta alla stampa: Torino, 24 Giugno 1933 - Sac. LUIGI CARNINO, Rev. Deleg.
Imprimatur - Taurini, die 24 Junii 1933 - Can. FRANCISCUS PALEARI. Provic. Gen.

Cum opus, cui titulus Tempo ed eternità auctoris


P. JOAHNIS E. NIEREMBERG, S. J. a Patre Gualterio Disler, nostrae Congregationis, ex hispanico in italicum
idioma translatum, recognoverimus et in iucem edi posse probaverimus, facultatem concedimus ut typis
mandetur, si lis, ad quos pertinet, videbitur.

Datum Romae, 25 lunii 1932.


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INDICE
Prefazione del Traduttore

LIBRO PRIMO.
La natura del tempo e dell'eternità.
CAPITOLO 1. — L'ignoranza riguardo ai beni eterni e temporali 11
CAPITOLO 2. — Quanto sia efficace la considerazione dell'eternità. 17
CAPITOLO 3. — Il ricordo dell'eternità è per sé più efficace di quello della morte. 22
CAPITOLO 4. — Il miserando oblio dell'eternità che hanno gli uomini in questa vita. 28
CAPITOLO 5. – Che cosa sia l'eternità secondo l'insegnamento di S. Gregorio Nazianzeno e di S.
Dionigi. 35
CAPITOLO 6 — Che cosa sia l'eternità secondo Boezio e Plotino. 39
CAPITOLO 7 — Che cosa sia l'eternità secondo S. Bernardo 43
CAPITOLO 8. — L'eternità è senza fine. 51
CAPITOLO 9. — L'eternità è senza mutazione. 63
CAPITOLO 10. — L'eternità è senza confronto. 71
CAPITOLO 11. — Che cosa sia il tempo secondo Aristotele ed altri filosofi. 79
CAPITOLO 12. — Quanto sia breve la vita. 85
CAPITOLO 13. — Che cosa è il tempo secondo S. Agostino. 93
CAPITOLO 14. — Il tempo è l'occasione dell'eternità. 101
CAPITOLO 15. — Che cosa è il tempo secondo Platone e Plotino. 111

LIBRO SECONDO.
La fine del tempo.
CAPITOLO I. — La fine della vita temporale. 117
CAPITOLO 2. — Notabili proprietà della fine della vita temporale. 134
CAPITOLO 3. — Del momento che sta tra il tempo e l'eternità. 154
CAPITOLO 4. — Perché è terribile la fine della vita temporale. 160
CAPITOLO 5. — Dio fa già in questa vita rigorosissimo giudizio. 186
CAPITOLO 6. — La fine di tutto il tempo. 193
CAPITOLO 7. — Come si altereranno gli elementi ed il cielo al termine del tempo. 198
CAPITOLO 8. — Il giudizio universale. 217
CAPITOLO 9. — L'ultimo giorno dei tempi. 225

LIBRO TERZO.
La miseria delle cose temporali.
CAPITOLO I. — La mutazione delle cose temporali le rende degne di disprezzo. 241
CAPITOLO 2. — I mali temporali per grandi e disprezzati che siano possono essere alleggeriti dalla
speranza. 252
CAPITOLO 3. — Si deve considerare a quale stato ciascuno può venire. 257
CAPITOLO 4. — Quanto siano degne di disprezzo le cose temporali. 268
CAPITOLO 5. — La viltà ed il disordine delle cose temporali. 276
CAPITOLO 6. — La piccolezza delle cose temporali. 285
CAPITOLO 7. — Quanto sia miserabile la vita temporale. 300
CAPITOLO 8. — Il poco che è l'uomo nella vita mortale. 323
CAPITOLO 9 — Quanto è ingannevole tutto ciò che è temporale. 333
CAPITOLO 10. — I pericoli e i danni delle cose temporali. 342

LIBRO QUARTO
La grandezza delle cose eterne.
CAPITOLO 1. — Della grandezza delle cose eterne. 353
CAPITOLO 2. — La grandezza dell'onore eterno dei giusti. 363
CAPITOLO 3. — Le ricchezze e il Regno eterno dei cieli. 376
CAPITOLO 4. — La grandezza dei gaudi eterni. 387
CAPITOLO 5. — Quanto sia fortunata la vita dei giusti. 398
CAPITOLO 6. — L'eccellenza e perfezione dei corpi dei Santi nella vita eterna. 411
CAPITOLO 7. — Come si ha da preferire il cielo a tutti i beni della terra. 421
CAPITOLO 8. — Dei mali eterni dei dannati. 433
CAPITOLO 9. — Pene dei dannati riguardo al luogo. 444
CAPITOLO 10. — La pena della schiavitù e la pena del senso. 453
CAPITOLO 11. — Della morte eterna e pena del taglione. 475
CAPITOLO 12. — Frutti che si possono cavare dalla considerazione del mali eterni. 484
CAPITOLO 13. — L'infinita gravità del peccato mortale. 492

LIBRO QUINTO.
Il temporale e l'eterno nelle loro circostanze estrinseche.
CAPITOLO 1. — L'eterno è fine, il temporale è mezzo al fine. 516
CAPITOLO 2. — Dal proprio conoscimento si può conoscere l'uso delle cose temporali ed il poco conto
che dobbiamo farne. 535
CAPITOLO 3. — L'Incarnazione del Figlio di Dio ci convince della stima dei beni eterni. 546
CAPITOLO 4. — La viltà dei beni temporali si scorge dalla Passione e Morte di Gesù Cristo. 556
CAPITOLO 5. — L'importanza dell'eternità per essersi Dio fatto mezzo di acquistarla e per aver di ciò
lasciato in pegno il suo santissimo Corpo. 572
CAPITOLO 6. — L'oggetto delle nostre orazioni siano i beni eterni. 584
CAPITOLO 7. — Quanto fortunati sono coloro che rinunciano a tutti i beni eterni. 594
CAPITOLO 8. — Molti disprezzarono tutto il temporale e vi rinunciarono. 602
CAPITOLO 9. — L'amore che dobbiamo a Dio non deve lasciar luogo né potere all'anima per amare ciò
che è temporale. 610
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PREFAZIONE DEL TRADUTTORE

Una parola di prefazione, per dare la ragione di questa operetta, non mi pare di presentarla
meglio, se non dicendo che Autore ne è il P. Giovanni Eusebio Nieremberg, della Compagnia
di Gesù, il quale in modo veramente meraviglioso riuniva ricchissimo sapere sacro e profano
con grande pietà e zelantissima attività pastorale, e dalla sua penna uscivano sempre unite
prove evidenti di sublimità d'ingegno e di santità di vita.
Giovanni Eusebio Nieremberg fu l'ultimo figlio di nobili e virtuosi genitori. Il padre Goffredo
era tirolese; la madre, Regina Otin, di origine bavarese, era dama di corte dell'imperatrice
Maria d'Austria, figlia di Carlo V e vedova dell'imperatore Massimiliano II. I genitori vennero
a Madrid al seguito dell'imperatrice.
Ivi nacque nel 1590 Giovanni Eusebio, il quale fin dalla sua prima infanzia mostrò singolare
amore alle cose religiose: era di grande mansuetudine ed aveva una grande bontà di cuore.
Fece i suoi studi a Madrid, Alcalà e nell'Università di Salamanca. Studiando ivi lettere e
giurisprudenza, visse insieme con altri giovani virtuosi una vita tutta dedita allo studio e alla
pietà. Sempre più si svegliò in lui la vocazione alla vita religiosa e, corrispondendo alla grazia
divina, con risoluzione decisa ed allegra, entrò nella Compagnia di Gesù nel 1614. Avendo il
padre carpito al Nunzio Apostolico uno scritto con cui si ordinava ai Gesuiti la restituzione del
giovane, questi dovette ritornare alla casa paterna. Ma non potendo i genitori resistere a lungo
alla sua vocazione ardente, ben presto egli poté rientrare nella Compagnia e fu ricevuto nella
Casa di Madrid, dove tosto si distinse per i suoi progressi nella vita spirituale. Dopo i due anni
di Noviziato studiò per otto anni Filosofia e Teologia nel Collegio di Alcalà, insegnando pure
in qualità di scolastico.
Ordinato sacerdote, venne mandata fra i monti della provincia di Toledo a spezzare il pane
della vita e della verità, dove svolse un'attività fecondissima di missionario. Nei suoi viaggi
apostolici si diede pure a studi di scienze naturali, specializzandosi nella botanica e
mineralogia. Si era già acquistato fama come missionario e scienziato, quando fu chiamato a
Madrid per assumere l'insegnamento nelle Scuole Superiori. In un primo tempo insegnò
scienze naturali e filosofia, più tardi anche esegesi. Ma soprattutto egli si diede alla vita di
pietà ed alla direzione delle anime. Durante il suo insegnamento, fu colpito da apoplessia, per
cui perdette l'uso della mano. Ma non per questo si arrestò la sua meravigliosa attività. Il re
Filippo IV lo nominò rettore della Commissione che doveva studiare il mezzo di accelerare la
definizione dogmatica della “pia credenza”, ora dogma, della Immacolata Concezione. Fu per
molti anni Rettore del Collegio Imperiale, poco prima costruito da Filippo IV. Già quasi
nell'agonia e soffrendo dolori orribili nella sua ultima malattia, dettava vari scritti ai suoi
amanuensi, mentre un sacerdote si preparava a leggergli la raccomandazione dell'anima.
La sua erudizione in ogni materia fu prodigiosa e il numero delle opere che lasciò scritte è
quasi incredibile; ma questa stessa fecondità lo rende alquanto diffuso e disordinato nei suoi
scritti. La nota pia caratteristica del P. Nieremberg è l'unzione cristiana delle sue opere, tutte
nate da una profonda meditazione di asceta severo e penitente, come difatti fu durante la sua
austerissima vita.
I titoli delle sue opere possono dare un'idea della sua meravigliosa fecondità (omissis).
Di tutte le sue opere furono pubblicate varie collezioni intere, la prima nel 1651 a Madrid col
titolo “Obras cristianas espirituales y filosóficas”, l'altra a Siviglia nel 1686 ed un'altra a
Madrid nel 1892 in sei volumi. Quasi tutte queste opere videro edizioni nelle lingue pia
diverse del mondo.
Quella però che fra tutte le sue opere ebbe la maggior diffusione per il suo valore intrinseco è
Diferencia entre lo temporal y eterno, pubblicata per la prima volta a Madrid nel 1640.
Quest'opera ebbe un numero rilevantissimo di edizioni. Fino al 1675 se ne contarono già 11,
altre 16 edizioni furono pubblicate in vari tempi fino al 1847 in diverse città della Spagna, di
cui recenti frequentissime si ebbero in Ispagna a Madrid e Barcellona, e nell'America del Sud,
a Buenos Aires, Bogotà, Santiago del Cile. Le edizioni spagnole più recenti sono quelle del
“Apostolado de la Prensa" di Madrid del 1920 e 1927.
Questo libro, comunemente noto sotto il nome di “El Eusebio”, è il più conosciuto fra tutti i
libri del Padre Nieremberg. Poche opere della antica ascetica hanno ottenuto una popolarità
così grande come questa. Molte persone pie non conoscono del P. Nieremberg altro libro che
La diferencia. Questo sogliono leggere spesso e fino ai nostri giorni abbiamo visto molti
parroci che credono compiere il loro sacro dovere della predicazione leggendo al popolo alcuni
capitoli di El Eusebio. Il libro è certamente di molto merito. Le grandi verità soprattutto quelle
che generano il santo timore di Dio, sono dichiarate non solo con esattezza, ma ancora con
una certa energia e solenne eloquenza, che produce un ammirabile effetto nell'animo di tatti i
credenti” (ASTRAIN, Historia de la Comp. de Jesus en la Asistencia de Espana, tom. V, pag.
96-98).
E' un'opera di singolare efficacia ed unzione spirituale che in ogni tempo ha formato fervorosi
asceti ed ha determinato molti ad abbracciare lo stato religioso. A quest'opera si deve la
concezione del poema spagnolo La Atlantida, nel cui prologo l’autore Verdaguer dice che
l'idea gli fu suggerita dalla lettura di quest'opera. Un editore di una delle più recenti edizioni
non esita a dire che è quell'opera che forse ha convertito più anime che lettere che contiene.
In italiano si ebbero solo pochissime edizioni, delle quali la prima fu curata dal P. Brignole
Sale S. J. Ed uscì nell'anno 1657 a Venezia. La medesima fu ristampata senza alcun
cambiamento negli anni 1665, 1672, 1715 (inserita nelle Opere Spirituali) a Venezia, e nel 1681
a Bologna. L'edizione più recente italiana fu, pubblicata nel 1845 dalla Propaganda Fide.
Di tutte queste edizioni italiane è per altro da dirsi che nessuna dà al completo l'originale
spagnolo. Tutte le edizioni posteriori al 1657 non sono altro che una ristampa della prima
traduzione italiana, fatta dal P. Brignole Sale, il quale, ben accorgendosi della verbosità, ed
ampiezza dell'autore, dice che Gli Spagnoli avanzano nella flemma gli Italiani; perciò fanno
per loro libri più lunghi. Gli Italiani nella curiosità superano gli Spagnoli; perciò conviene che
i modi del dire le cose siano talvolta un poco più ricercati. Per il che egli domanda perdono per
aver varcato qualche volta i confini di semplice traduttore, avendo tolto ciò che era già stato
detto, e variato, non per migliorare il cibo, ma per accomodarsi al palato (Prefazione alla
prima edizione italiana).
A differenza delle edizioni italiane finora pubblicate, la presente non è una semplice ristampa,
né un semplice compendio come quelle, ma è una traduzione nuova, fatta sì in lingua corrente
per accomodarsi al palato della maggior parte, senza però, tralasciare nulla di quanto ho
potuto di prezioso ricavare dalla prima edizione spagnola, trovata nella Biblioteca Vaticana.
Sebbene molte cose, si potessero dire più in breve, altre anche tralasciare, come già state dette
prima in altra forma, non mi è sembrato opportuno nascondere ai pii lettori ciò che più volte
ripetuto resta meglio impresso nella mente ed esercita più grande efficacia sul cuore. Non è
questo un libro di lettura che, una volta scorso superficialmente, si abbia a mettere in disparte
per non rivederlo più. Esso tratta dei Novissimi, per spiegare, ponderare ed illustrare i quali
non si spenderà mai tempo soverchio, né basteranno giammai parole, similitudini e
ripetizioni.
Per scendere a qualche punta particolare di quest'opera, conviene fare qui qualche avvertenza,
perché alcuni fatti, affermazioni e narrazioni non cagionino sorpresa al pio lettore. La scienza
ascetica e teologica del P. Nieremberg finisce abbondante e solida come fiume da ogni parte
dell'opera. Egli fu ottimo teologo e nel corso dei secoli non c'è stato nulla da correggere in cose
dogmatiche. Ma è in materia di esempi e narrazioni, addotti per illustrare gli argomenti, dove
s'incontrano qualche volta detti e fatti poco credibili. È questa una caratteristica della
letteratura ascetica spagnola del sec. XVII.
La semplicità ed il pio desiderio d'influire salutarmente sul cuore dei lettori muoveva gli
scrittori dell'epoca a dar di mano a cose che oggigiorno una critica sana non accetterebbe se
non in parte e solo una credulità più che mediocre lascerebbe passare. Ma il P. Nieremberg
non è del secolo XX e nel leggerlo — in materia di tradizioni, racconti ecc. — il pio lettore
dovrà riportarsi con lui al secolo XVII.
Non mancheranno coloro che vorrebbero veder uscire questo libro purgato da tutto ciò che
una sana critica odierna non può più ammettere; ma in cambio sono molto più quelli che
hanno il parere contrario, pensando essi, non doversi mutilare le opere classiche per tali cose.
Mi sono tenuto sulla via di mezzo, togliendo soltanto in pochissimi casi certe interpretazioni
dei titoli dei Salmi, che oggi non si sostengono più, e qualche racconto poco conveniente ad un
libro destinato a tutti.
Unicamente nel desiderio che quest'opera sia di giovamento spirituale alle anime, in vita e
soprattutto nel momento in cui dovranno varcare la soglia dell'eternità, la Pia Unione
Primaria del Transito di San Giuseppe per la salvezza degli agonizzanti ne assunse il compito
della traduzione e pubblicazione, nella sentita convinzione di corrispondere in tal guisa alla
sua nobile missione di contribuire, secondo le sue deboli forze, al bene e alla salvezza delle
anime

Roma, 1° agosto 1932

Sac. Dott. GUALTIERO DISLER

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P. G. E. NIEREMBERG S. J.

LIBRO PRIMO

LA NATURA DEL TEMPO E DELL'ETERNITÀ

CAPITOLO PRIMO

L’ignoranza riguardo ai beni eterni e temporali

All’uso delle cose deve precedere la stima di esse, e alla stima la loro cognizione; la quale in
questo mondo è tanto manchevole che non si eleva a considerare le cose celesti ed eterne, per
le quali siamo stati creati. Non fa tuttavia meraviglia che conosciamo queste così poco,
essendo esse tanto inaccessibili al nostro senso. Anzi le stesse cose che vediamo e tocchiamo
sono da noi molto ignorate. Come possiamo comprendere le cose dell'altro mondo, mentre
non conosciamo neppure quelle di questo mondo, in cui ci troviamo? A tal punto arriva
l'ignoranza dell'uomo da non conoscere ciò che crede di saper meglio.

Tra fumo e polvere.


I mortali ambiscono e agognano tanto le ricchezze, le comodità, gli onori e tutti i beni della
terra, perché non li conoscono. Aveva ragione San Pietro, quando insegnava a San Clemente
Romano che il mondo è una casa piena di fumo, nella quale non si può vedere nulla; perché,
come colui che

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si trova in tale casa non può vedere né ciò che sta fuori, né ciò che sta dentro perché il fumo gli
impedisce di veder chiaro ogni cosa; così alla stessa guisa succede a coloro che stanno in
questo mondo, i quali non conoscono né ciò che sta fuori del mondo, né ciò che sta dentro di
esso e non intendono né la grandezza delle cose eterne, né la viltà delle cose temporali,
ignorando ugualmente le cose del cielo come quelle della terra. Per mancanza di conoscenza
diminuiscono la stima delle prime, dando alle cose temporali la stima che meritano le cose
celesti e tenendo in tal poco conto queste, come si dovrebbe fare delle cose transitorie e
caduche. Sono essi, dice San Gregorio, tanto lontani dalla verità, che tengono per patria l'esilio
di questa vita, per luce le tenebre della sapienza umana e per soggiorno e dimora il corso di
questo pellegrinaggio. Causa di tutto questo è l'ignoranza della verità e la poca riflessione su
ciò che è eterno, per cui qualifichiamo i mali per beni ed i beni per mali. Per questa confusione
del giudizio umano Davide pregò il Signore di dargli un maestro che gli insegnasse quali siano
i veri beni, dicendo: Chi mi mostrerà i veri beni? (Ps. 4, 6)
Giacché gli uomini ignorano tutto e perfino gli stessi beni del mondo e tutto ciò che tengono di
più fra le mani, ci succede quello che toccò ai figli d'Israele, i quali, vedendo la manna e
tenendola fra le mani, non la conoscevano e si domandavano a vicenda che cosa fosse. A noi
però manca perfino questa curiosità, perché non ci domandiamo neppure che cosa siano le
ricchezze per le quali i mortali si espongono a tanti pericoli di morte.
Che cosa sono gli onori, per i quali i cuori umani si lacerano d'invidia e di ambizione? Che
cosa sono i piaceri per i quali si sciupa tanta salute e si viene a perdere la vita? Che cosa sono

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i beni della terra che possiamo godere solo nel pellegrinaggio d'esilio di questa vita e che
devono scomparire all'entrare nell'altra, come scomparve la manna all'entrare nella terra
promessa? Con ragione Cristo Nostro Redentore nell'Apocalisse chiamò la manna una cosa
nascosta, perché gli Ebrei, pur tenendola nelle loro mani, non la conoscevano. Così sono le
cose di questa vita, nascoste cioè al senso, poiché sebbene le tocchiamo, tuttavia non le
conosciamo. Ne confondiamo la stima, facendo temporali quelle che dovremmo tenere per
eterne e, meno apprezzando queste, per stimare quelle che dovrebbero essere disprezzate.
Mancando la conoscenza delle cose, ne mancherà pure la stima e per conseguenza si sbaglierà
nel loro uso.
Ciò che succede nell'uso delle cose temporali si può riscontrare pure in coloro che mangiavano
la manna. Infatti agli uni essa riusciva disgustosa e provocava il vomito; per altri essa aveva
un sapore dolce ed era il cibo che più desideravano; tanta differenza v'è tra l'uso buono e
cattivo delle cose. E il buon uso di tutte le cose dipende dalla loro conoscenza.

Il viatico sconosciuto.
Si sveglino ed aprano i loro occhi alfine i mortali e conoscano la differenza che esiste tra le
cose temporali e quelle eterne, perché ad ogni cosa diano la dovuta stima, disprezzando tutto
ciò che il tempo distrugge e stimando solo quello che l'eternità conserva; eternità che devono
cercare nel tempo di questa vita e coltivare per mezzo delle stesse cose temporali, il che non
potranno mai conseguire senza la conoscenza delle une e delle altre. In tal guisa, fissando lo
sguardo nell'eterno, che è degno della stima maggiore, conserveranno le cose temporali,
benché queste per sé non meritino alcuna stima, e da caduche e passeggere che

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sono, le renderanno consistenti e durature.


La manna che Nostro Signore diede agli Ebrei (Exod., XVI) durante il loro pellegrinaggio nel
deserto fino all'arrivo alla terra promessa, fra gli altri significati misteriosi, aveva anche quello
di essere simbolo dei beni di questa vita, che è un pellegrinaggio verso la terra promessa della
felicità eterna. Per questo essa si putrefaceva e si corrompeva presto, durando pochissimo,
come avviene di tutte le cose del mondo. Unicamente la parte della manna che si raccoglieva
coll’intenzione di conservarla per il Sabato, il quale è figura della gloria, o per l'Arca, nella
quale si doveva portare alla terra promessa, non si corrompeva; così che il raccogliere la
manna con intenzione differente rendeva eterno ciò che era corruttibile, come notò Balduino,
antico e dottissimo interprete della Sacra Scrittura. Tanto importa tenere lo sguardo levato e
fisso nelle cose eterne, affinché anche dall'uso delle cose temporali guadagnarne l'eternità e
rendiamo grande ciò che è piccolo, consistente ciò che è mutevole, immortale e senza fine ciò
che è mortale.

La vana parvenza.
Alcuni filosofi che considerarono meglio le cose della vita, anche senza riguardo all'eternità,
trovarono in esse molte manchevolezze, che dal sapiente imperatore e filosofo Marco Aurelio
Antonino furono compendiate in tre e cioè nell'essere, fino al raggiungimento del proprio fine,
piccole, mutabili e corruttibili.
Tutte queste condizioni troviamo disegnate nella manna. Infatti la sua piccolezza era tanta,
che, come dice la Sacra Scrittura era minuscola e piccola come una cosa macinata in un
mortaio quando si fa polvere; la sua varietà e mutabilità era tanto
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notevole che, portata dal campo dove si raccoglieva fino al posto dei Duci, se al principio
pesava un quintale, diminuiva e si riduceva ad una piccola misura; per gli uni si condensava,
per gli altri si dilatava; la sua durata era tanto corta che non passava un giorno senza che si
riempisse di vermi e si corrompesse del tutto. Date tutte queste condizioni, costava molta
fatica godere di essa e mangiarla, perché si stancavano nel macinarla bene, nel cuocerla e
assoggettarla ad altri trattamenti. Nella stessa maniera i beni di questa vita, con tutte le loro
manchevolezze, non si ottengono né si godono senza molta macinatura e fatica.
Con tutto questo non tutti gustavano delle qualità che aveva la manna per natura sua, perché
non cercavano di conoscerle. I peccatori infatti ne avevano un gusto limitato e menomato.
Così noi diminuiamo anche il gusto naturale coi nostri vizi, come vedremo a suo luogo. È vero
che essa aveva una buona apparenza, perché, come dicono i Settanta Interpreti, essa era
simile al cristallo, trasparente e lucido, ma questa è pure la condizione dei beni di questo
mondo. Essi hanno cioè splendore ed apparenza, però sono più fragili del vetro; essi sono
menomati, variabili ed incostanti ed hanno mille mutamenti; sono corruttibili, caduchi e
mortali e solo per lo splendore che mostrano al senso, noi li cerchiamo come eterni e grandi.

Di fronte alla realtà!


Lasciamo l'apparenza e la superficie dipinta e guardiamo alla verità sostanziale delle cose:
troveremo che ogni bene temporale è molto piccolo, l'eterno invece grande assai; il temporale
incostante, l'eterno stabile; il temporale breve e caduco, mentre l'eterno è duraturo e senza
fine.
Essendo però il temporale tanto corto e mutabile in sé e l'eterno tanto grande e stabile, che
differenza vi sarà fra l'uno e l'altro? San Gregorio

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giudicò che questo solo fosse sufficiente a stabilire una distanza immensa. Dice infatti:
Immenso è ciò che seguirà senza fine, mentre poco è tutto ciò che finisce. (Lib. Mor. VII, cap.
22) Il medesimo Santo notò che la poca conoscenza e memoria dell'eternità è la causa
dell'inganno degli uomini, i quali stimano i beni falsi di questa vita, mentre non stimano i beni
spirituali ed eterni dell'altra. E dice così: Il pensiero dei predestinati è sempre fisso verso
l'eternità; questi, pur possedendo gran felicità in questa vita, benché non siano in pencolo di
morte, sempre la guardano come presente. (Lib. Mor. VIII, cap. 12) Contrariamente agiscono
le anime ostinate che amano la vita temporale come cosa permanente, perché non intendono
quanto gran cosa sia l'eternità della vita futura.
E siccome non considerano la stabilità di ciò che è perpetuo, tengono l'esilio per patria, le
tenebre per luce e l'albergo terreno per dimora. Coloro infatti che non conoscono le cose
maggiori, non possono neppure giudicare delle cose minori.
Per questo cominceremo ad alzare il velo e a scoprire la distanza che esiste tra i beni della
terra e quelli del cielo per mezzo della considerazione dell'eternità e della misera condizione
del tempo. Di poi passeremo a trattare della viltà di ciò che è temporale e della grandezza delle
cose eterne; poiché, come diceva un filosofo che non vi ha cosa più chiara, né più oscura della
luce, così si può dire lo stesso di altre cose ritenute per molto chiare, le quali non sono
comprese, sebbene siano meno oscure dell'eternità e del tempo. Procureremo quindi di farle
conoscere meglio, aiutati dal lume della fede, dalla dottrina dei santi e dai disinganni dei
filosofi.

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CAPITOLO SECONDO.

Quanto sia efficace la considerazione dell'eternità.

S. Agostino chiama quello dell’eternità un gran pensiero, (Enarratio in Ps. 76) perché la
memoria essa è di grande gaudio ai santi, di grande orrore ai peccatori, agli uni e agli altri di
gran giovamento; essa fa operare cose grandi e mostra la piccolezza delle cose passeggere e
caduche di questa terra. Pertanto intendo dar principio con questo lume per scoprire il campo
della meschinità, dell'inganno e della viltà delle cose temporali e raccomandare la
considerazione delle cose eterne, essendo quella che dovrebbe essere maggiormente fissa nella
nostra mente, come la riteneva sua propria Davide, al quale, quando era peccatore, cagionava
orrore e spavento e, quando era santo, lo incoraggiava ad esserlo ancora di più, ricavando
dalla meditazione di essa incomparabile vantaggio per il suo spirito. L'aveva così scolpito nella
memoria che nei suoi Salmi ad ogni istante lo sentiamo ripetere; per sempre, ... eternamente.
... per i secoli dei secoli.

Timore salutare.
A questa eternità il Profeta pensava di giorno e la meditava di notte, questa lo forzava a
gridare al cielo e ad invocare Dio; questa lo rendeva muto dinanzi agli uomini; l'intimoriva, al
solo pensiero, fino allo spasimo, gli amareggiava tutte le gioie della vita, gli faceva conoscere la
miseria dei beni temporali: e, costringendolo a rientrare in sé e ad esaminare la sua coscienza,
lo indusse ad un

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miracoloso mutamento di vita, cominciando a servire il Signore con più fervore. Tutti questi
effetti della memoria dell'eternità si riscontrano già nel solo Salmo 76° dove Davide fra altre
cose dice: I miei occhi prevennero le veglie; io fui turbato e non proferii parola. (Sal.76, 5) E
la ragione di questo è indicata subito dopo: Ripensai ai giorni antichi ed ebbi in mente gli
anni eterni (Sal.76, 6) Questo pensiero era la causa del suo frequente svegliarsi, perché
all'eternità pensava prima che sorgesse il sole e ancora stava pensando ad essa per molte ore
dopo il suo tramonto, con tanto stupore che gli mancava il respiro, come dice lui stesso, e si
commuoveva per il vivo concetto che si formava al pensare che cosa voglia dire perdersi
eternamente nell’inferno o godere della felicità per sempre.
Non reca meraviglia che questo gran pensiero intimorisse un re tanto santo, poiché dice il
profeta Abacuc, che coloro i quali sono collocati più in alto nel mondo, s'incurvano sul
cammino verso l'eternità. Furono depressi i colli del mondo dai passi dell'eternità (Ab 3, 6). Il
santo giovane Giosafat, quando gli si raffigurava l'eternità, posto da una parte l'inferno,
dall'altra il cielo, restava attonito e senza forze, tanto da non poter alzarsi di letto, come se
avesse una malattia mortale.
I filosofi più barbari, con meno luce, si intimorivano alla stessa maniera, e per raffigurare
l'eternità escogitavano cose spaventevoli. Gli uni la dipingevano in forma di basilisco, che è il
serpente più da temersi, perché atterrisce già la sola vista di esso. Non ha infatti cosa
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che più deve spaventarci che l'eternità dei tormenti, nella quale uno può cadere.
Conformemente a questo San Giovanni Damasceno rappresentò la durata eterna in forma di
dragone feroce, che con la bocca aperta stava in agguato per inghiottire vivi gli uomini.
Altri la dipingevano come una caverna orribile e profonda, alla cui entrata vi erano quattro
gradini, uno di ferro, il secondo di bronzo, il terzo d'argento e il quarto d'oro. Su questi gradini
stavano giocando in diverse maniere molti bambini, senza badare al pericolo di poter cadere
in quella profondissima prigione. Finsero essi quest'ombra di eternità, non tanto perché era
degna di timore e spavento, quanto piuttosto perché essi stessi erano spaventati dinanzi alla
stoltezza degli uomini che ridono e si divertono con le cose di questa vita, senza ricordarsi che
devono morire e che possono cadere nel profondo dell'inferno. Quei bambini che giocavano
all'entrata della caverna orrenda ed oscura non erano altro infatti se non gli uomini, le cui
occupazioni, mentre vivono in questo mondo, sono da bambini, e pur stando tanto vicini alla
morte ed all’eternità, non provano né spavento, né preoccupazione, né lasciano i loro
divertimenti, né le loro vane occupazioni della terra.
Ed in verità è spaventoso davvero che attendendoci tali estremi, quali sono o la gloria eterna o
i tormenti senza fine, viviamo tanto senza timore e senza preoccupazione delle cose eterne,
cagione di questo è che gli uomini non si mettono a considerare ciò che è l'eternità, ciò che è
l'inferno, mentre Dio è Dio e gloria senza fine. Per questo essi stanno tanto fermi ed ostinati
nei loro beni passeggeri, quasi fossero immortali, ciò che appunto significavano quei durissimi
gradini.
A Davide però, la meditazione e il ricordo dell'eternità cagionò tale spavento e gli destò tale
preoccupazione da deciderlo ad un radicale mutamento di vita, dicendo fra sé con grande

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risoluzione: Ora incomincio: questa è una mutazione della destra dell'Altissimo. Ora
incomincio, spiega San Dionigi, a vivere spiritualmente, a comprendere saviamente, a
conoscere veramente, vedendo la vanità di questo mondo presente e la felicità del futuro,
reputando per nulla tutta la mia vita passata, il mio profitto e la mia perfezione; prenderò a
cuore con nuovo proposito, con più fervore, con studio più diligente, i sentieri di una vita
migliore, entrando nelle vie del profitto spirituale e incominciando ogni giorno di nuovo. E
conoscendo egli stesso quanto restio fosse il suo cuore, confessò che quella era una risoluzione
miracolosa, dicendo: Questo è un mutamento della mano dell'Altissimo, (Sal.76, 11) come a
dire, secondo San Dionigi: L'essermi cambiato di questa maniera, dalle tenebre
dell'ignoranza allo splendore della sapienza, dai vizi alle virtù, dall'uomo carnale allo
spirituale, si deve attribuire all'aiuto e alla misericordiosa assistenza di Dio, il quale per
mezzo di questa conoscenza dell'eternità ha dato tanto notevole mutamento al mio cuore.
Questo pensiero dell'eternità illumina fortemente e fa conoscere veramente le cose.

Le due sorti.
Coll'esperienza di ciò che passò nell'anima sua lo stesso Profeta esorta tutti a meditare con
calma e tranquillità il carattere eterno delle due sorti che li aspettano, affinché non solo
corrano, ma volino nel loro profitto e sopportino tutte le difficoltà delle virtù. Così, con
profondo significato, egli promette da parte di Dio a coloro i quali dormono tra le due sorti
(Sal.67,14), cioè a quelli che nella quiete dell'orazione meditano l'eternità della gloria e
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dell'inferno, le ali di colombe argentate e spalle dorate, il che vorrebbe dire che la vita
spirituale non solo consiste nel compimento delle opere buone proprie, ma altresì nella
pazienza e nella sofferenza delle opere cattive altrui. Il levarsi dal fango della terra per
camminare verso il cielo è operare atti di virtù molto eroiche e preziose senza lasciarsi
opprimere da fatiche e pene, che ci pesino sopra. Quando ciò si fa con viva comprensione
dell'eterno, tutto avviene con maggior merito, con più sollecitudine e perfezione.
Per questo il Profeta lo spiegò con la similitudine delle cose che gli uomini apprezzano di più,
ossia con l'oro e l'argento. Siccome però comunemente è più difficile, e quindi più meritorio, il
soffrire che il fare, benché ambedue siano preziosissimi, per questo disse che le spalle saranno
d'oro e le ali d'argento.
Anche il Patriarca Giacobbe stimò ciò per un bene tanto singolare che lo diede per
benedizione a suo figlio Issacar, dicendogli che riposerebbe fra due termini (Gen.. XLIX, 14),
che avrebbe considerato cioè ponderatamente i due estremi della felicità o della miseria
eterna, chiamandolo, per questo, giumento forte, per la fortezza d'animo che ha per vincere le
difficoltà della virtù, per sopportare le fatiche e le incombenze di questa vita, per soffrire i
disprezzi del mondo e far grandi penitenze.
Però non solo nei santi, ma altresì nei filosofi la considerazione tranquilla e calma delle cose
eterne, pur guardandole senza badare ai due estremi tanto diversi che ci propone la religione
cristiana, cagionò particolare effetto e disprezzo delle cose temporali. Seneca si lagnò molto
perché l'avevano disturbato nella meditazione dell'eternità, nella quale stava immerso come in
dolce sogno, sospesi e legati i sensi, provando molto gusto in questa

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considerazione: Mi piaceva, disse fra altre cose, di indagare nell'eternità delle anime e vi
credeva in essa con certezza.- mi dava tutto a questa speranza e già mi nauseava di me
stesso, disprezzava tutto ciò che restava dell'età, pur piena di salute, dovendo passare a quel
tempo immenso e al possesso di tutti secoli (SENECA, Epist. .22). Tanto poté in questo
filosofo la considerazione delle cose eterne, che gli fece disprezzare la cosa più preziosa di ciò
ch'è temporale, cioè la vita. Nei cristiani essa deve produrre un effetto maggiore, perché sanno
che non solo possono vivere eternamente, ma che possono pure godere o penare per sempre,
conforme alle opere della loro vita.

CAPITOLO TERZO.

Il ricordo dell'eternità è per se più efficace di quello della morte.

La gran voce dell’eternità.


Importerà perciò formarsi un concetto vivo dell'eternità e, fatto ciò, conservarlo
continuamente nella memoria, perché sarà da solo più efficace che il ricordo della morte.
Sebbene sia importantissimo il ricordo, sia dell'una, sia dell'altra, quello dell'eternità è più
generoso, più forte e più fecondo di opere sante. Per mezzo di questo i vergini hanno
conservato la loro purezza, gli anacoreti hanno fatto rigorose penitenze ed i martiri hanno
sofferto la morte, non indietreggiando per la paura della morte, ma bensì affrontandone tutti i
tormenti per il timore santo dell'eternità e per l'amore di Dio.
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I filosofi, sebbene non attendessero all'immortalità dell'altra vita come noi, con la sola
memoria della morte, si ritiravano dalla vanità del mondo, disprezzavano le loro grandezze e
regolavano la loro vita secondo la ragione e la virtù. Epiteto consigliava di tenere sempre la
morte presente al pensiero: In questa maniera, dice, non avrai un pensiero basso, né
desidererai nulla con ansia. (Epitect., cap. 28). Platone diceva che uno sarà tanto più sapiente,
quanto più vivamente penserà alla morte. Così comandava ai suoi discepoli che camminando
andassero sempre a piedi nudi, volendo far intendere con questo che nel cammino di questa
vita dobbiamo tenere sempre scoperta la nostra estremità, ossia la fine, cioè la morte (Apud S.
Hieronym., cap. 10 in Matth).
Ma i cristiani che hanno fede nell'altra vita devono aggiungere il ricordo dell'eternità. Per i
vantaggi che avrà questo ricordo sopra quello della morte, si potrà vedere la differenza tra
l'eternità e le cose temporali. I filosofi erano tanto tocchi dalla morte, perché con essa si
dovevano staccare da tutte le cose della vita mortale. Quello infatti è il termine fino al quale gli
uomini possono godere delle ricchezze, dei piaceri e degli onori e con esso ha da cessare tutto.
Se altri desideravano morire, era perché con la morte dovevano finire tutti i mali. Se quindi
tanto spaventa la morte, solo perché toglie i beni della vita — beni che possono mancare già
per altre mille maniere e sono passeggeri per sé già prima della morte del loro padrone e sono
in se stessi tanto corti, minuti, pericolosi e pieni di preoccupazioni e di ansietà — e se altri
attendevano solo perché toglie i mali temporali, pur tanto piccoli, come sono quelli di questo
mondo, come non ha da toccarci l'eternità, la quale non

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solo ci assicura beni eterni ed immensi, ma ci minaccia pure mali senza fine?
Senza dubbio, se si forma un concetto esatto dell'eternità, è molto più potente il suo ricordo
che quello della morte. Se di questa uomini tanto sapienti ebbero così profondo ricordo e lo
consigliarono ad altri, più ancora si deve averlo dell'eternità. Zenone, desiderando conoscere
un mezzo efficacissimo per ordinare la sua vita, frenare gli appetiti della carne ed osservare la
legge della virtù, consultò in proposito un oracolo, il quale lo rimise col ricordo della morte
dicendogli: Va' ai morti e consultali; da essi imparerai come devi ordinare la tua vita. Vedendo
che i morti non posseggono più nulla di ciò che avevano e che con la loro vita finirono pure
tutte le loro felicità, egli non le avrebbe più stimate, né si sarebbe più insuperbito per esse.
Per la medesima ragione alcuni filosofi, sia pure esagerando, bevevano e mangiavano nel
cranio di uomini morti per ricordarsi sempre che avevano da morire e che non dovevano
attaccarsi a questa vita.
Così pure grandi monarchi si servivano del ricordo della morte come antidoto della loro
fortuna, affinché la loro vita non fosse peggiore della loro fortuna. Filippo, re di Macedonia,
aveva comandato ad un suo paggio che ogni mattina gli dicesse tre volte: Filippo, sei uomo,
ricordandogli così che aveva da morire e da lasciar tutto. E l'imperatore Massimiliano I,
quattro anni prima di morire, comandò che gli si facesse la sua cassa da morto, ch'egli portava
poi con sé dovunque andava, perché sempre gli rammentasse, nel suo muto linguaggio:
Massimiliano, pensa che hai da morire e devi lasciare tutto. Anche gli imperatori d'Oriente,
fra altre insegne della loro maestà, portavano nella sinistra un libro dai fogli d'oro, chiamato
innocenza, ma tutto lordo di polvere e terra, con cui volevano significare la mortalità umana e
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rammentare quell'antica sentenza: Sei polvere ed in polvere ritornerai (Gen.. 3, 19). Questo
ricordo della morte in forma di libro era convenientissimo, per far comprendere di quanto
insegnamento e dottrina sia il ricordo della morte e che questo solo è una scuola di
disinganno.
Anche i fogli d'oro e l'essere portato nella mano sinistra aveva il suo significato, e voleva dire
che, essendo la mano sinistra più vicina al cuore, tenessimo bene scolpito nell'animo nostro
quanto sia prezioso questo disinganno. Con ragione poi quel libro si chiama Innocenza, poiché
chi oserà peccare, sapendo che ha da morire? Neppure gli imperatori dell'Abissinia si
allontanavano da questo uso. Infatti nella loro incoronazione, fra le altre cerimonie, si
portavano ad essi un vaso pieno di terra ed il cranio di un morto, avvertendoli, fin dal
principio del loro regno, come questo doveva aver fine. Finalmente tutti i filosofi convennero
in questo che tutta la loro filosofia era nient'altro che la meditazione della morte.

Più che la morte.


E' tuttavia fuori di dubbio che v'è più filosofia nell'eternità e che è più spaventevole la durata
eterna dei tormenti dell'inferno che non la prossima fine dei più grandi imperi. Più orribile
cosa è l’esistenza dei mali eterni, che la fine dei beni temporali. Più meravigliosa è
l’immortalità dell’anima nostra che non la mortalità del nostro corpo. Cosicché i cristiani,
specialmente quelli che tendono alla perfezione, devono formarsi piuttosto un concetto
grande dell'eternità, che temere la morte, il cui ricordo non è per sé necessario per disprezzare
tutte le cose temporali. Infatti, secondo il consiglio di Gesù Cristo, il primo passo nella via
della perfezione deve consistere nella rinuncia a tutto ciò

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che posseggono perché, tolti gli impedimenti alla perfezione cristiana, essi si impieghino in
sante opere e nell'esercizio delle virtù, considerando e ricordando l'eternità che li aspetta in
premio di quelli.
Deve risuonare nel nostro cuore molte volte questo orrendo grido; Eternità, eternità; non
soltanto: hai da morire; ma che dopo la morte t'aspetta un'eternità. Ricordati che esiste un
inferno senza fine e rammenta che vi è pure una gloria per sempre. È più efficace, per
osservare la legge di Dio, ricordarsi che, se la trasgredisci, l'hai da pagare con dolori senza
fine, che non il sapere che con te hanno da finire tutti i beni e mali di questa vita.
Ricordati dunque dell'eternità e risuoni nel più intimo dell’anima tua: Eternità, eternità.
Per questo la Chiesa, quando consacra i Vescovi ricorda loro questa efficace e forte verità
dell'eternità: Siano nel tuo pensiero gli anni eterni, come fece Davide. E nell'assunzione e
coronazione del Sommo Pontefice bruciano dinanzi ai suoi occhi un poco di stoppa,
pronunciando queste parole; Padre santo, così passa la gloria del mondo (Pater sancte, sic
transit gloria mundi); e ciò, affinché alla vista di questo splendore breve e passeggero si
ricordi del fuoco eterno. Martino V prese per stemma un falò acceso che in breve arrivava a
bruciare una tiara di Pontefice, un diadema imperiale, una corona di re ed un cappello
cardinalizio, per ricordarsi sempre, per mezzo di quel simbolo utilissimo, che anche i grandi
se non compiono fedelmente gli obblighi del proprio ufficio, dovranno dopo la morte per tutta
l'eternità bruciare nell'inferno.

Il pensiero dell'eternità è salvezza!


Il nome di Issacar, al quale, come abbiamo detto, diede Giacobbe la sua benedizione, sta a

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significare queste due cose: colui che ha memoria e anche l'uomo del premio o della paga,
inculcandoci con questo mistero lo Spirito Santo la memoria dei premi eterni. E per
dimostrare quanto sia prezioso questo ricordo agli occhi del Signore e quanto utile per noi,
ordinò che si scolpisse il nome di Issacar in una preziosa ametista che portava il sommo
sacerdote nell'Ephod, o razionale: la qual pietra, come venne rivelato a S. Giovanni, è una
delle basi della città di Dio, e per essa, ci dice S. Anselmo, ci viene ricordata l'eternità. Ed oh!
qual gran vigilanza deve produrre in noi il pensiero dell'eternità! Che cosa ce la può tenere
desta meglio, che il correre il pericolo di cadere nell'inferno? Come potrebbe dormire
tranquillamente chi, per passare da un monte all'altro, dovesse servirsi per ponte di un legno
della larghezza di mezzo piede, al soffiare di un vento furioso e sopra un abisso
profondissimo?
Non è minore il pericolo di questa vita, perché il cammino verso la vita eterna è strettissimo, i
venti della tentazione sono veementissimi, i rischi delle occasioni sono frequentissimi,
gl'inganni dei consiglieri perversi moltissimi. Ci troviamo fra pericoli evidentissimi; come
potrà un cristiano dormire e non preoccuparsi? Senza dubbio, guardando alla nostra natura
depravata ed alle insidie del demonio, nessuna cosa è più difficile che il salvarsi, come il
salvarsi di un uomo molto pesante sopra una barchetta sconquassata in un fiume abbondante
d'acqua e precipitoso.
Il pensiero dell'eternità è pure un antidoto efficace contro il veleno della colpa. Infatti, con
quanta cura procurerà di liberarsi dalla colpa chi abbia considerato bene che per un solo
peccato mortale merita una eternità di pene!
Il pensiero dell'eternità è pure un mezzo lenitivo, il più soave, contro la furia delle passioni
disordinate. Come vorrà infatti vendicarsi del suo nemico colui che con questo può incorrere
nell'odio

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eterno di Dio? Chi può darsi all'avarizia e all'ambizione, se considera che per i beni passeggeri
di questa vita si patisce miseria eterna nell'altra? Chi potrà darsi ai piaceri mondani, se
consideri che per i piaceri di un momento si danno nell'inferno tormenti senza fine?
Questo pensiero dell’eternità finalmente è fecondo di tante opere, perché chi pensa con viva
fede che per una cosa momentanea e lieve si dà il peso della gloria eterna, si farà animo ad
operare il bene quanto più può, a patire e soffrire per Dio. Oh quanto fecondo di opere eroiche
è questo santo pensiero; Mi attende una gloria eterna! I trionfi dei martiri, le vittorie delle
vergini, le penitenze dei confessori sono effetti di questa considerazione. Oh santo pensiero,
che fai vigili ed attenti i negligenti, che guarisci i più incancreniti e corrotti dal veleno del
peccato, mitighi i tormenti più forti della nostra concupiscenza e fecondi di sante opere i più
tiepidi e sterili di virtù! Chi è colui che non procurerà di tenerlo saldo nell'animo suo? Oh se i
cristiani lo scolpissero bene nel loro cuore per non cancellarlo, né mai scacciarlo più da sé!
Quanto diversamente vivrebbero! Come brillerebbero per le loro opere! Perché, sebbene il
ricordo dei quattro Novissimi sia molto efficace per mutare vita, quello dell'eternità è come la
quintessenza che virtualmente contiene tutti i Novissimi.
CAPITOLO QUARTO.

Il miserando oblio dell'eternità che hanno gli uomini in questa vita.

La dimenticanza della eternità.


Prima di spiegare le condizioni dell'eternità, cosa tanto necessaria per vivere santamente e
virtuosamente, poniamo dinanzi agli ocelli l'oblio e

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l'inganno miserando in cui i figli di Adamo tengono una cosa tanto importante. Vivono essi
infatti del tutto dimentichi dell'eternità, la quale ad ogni momento li minaccia e da cui non
distano che due dita, come disse un filosofo.
Che cosa vi ha tra i naviganti e la morte, se non lo spessore di una tavola? Che cosa vi ha tra il
collerico e l'eternità, se non il filo di una spada; tra il soldato e la sua fine, se non essere
colpito da una palla; tra un ladro e la forca, se non la distanza tra essa e il carcere? Finalmente
che distanza v'è tra l'uomo più sano e robusto e l'eternità, se non quella che esiste tra la vita e
la morte? Questa è una distanza immediata, e perciò si deve aspettarla da un momento
all'altro. La vita dell'uomo non è che un cammino pericoloso che conduce alla sponda
dell'eternità, con la certezza di cadervi dentro. Come possiamo vivere trascurati? Come
terrebbe aperti gli occhi e con quale precauzione porrebbe i suoi piedi chi camminasse
sull'orlo di un grande precipizio non più largo del piede stesso ed anche quello pieno
d'inciampi? E allora, come mai coloro che vanno lungo il precipizio dell'eternità, non
attendono al loro pericolo?
San Giovanni Damasceno spiegò molto bene questo rischio ed inganno degli uomini con una
ingegnosa parabola, nella quale ci propone al vivo lo stato di questa vita. Dice che un uomo
andava fuggendo da un furioso unicorno, che col solo suo bramito faceva tremare i monti e
risonare le valli; e fuggendo in tal guisa, senza badare dove andasse, cadde in una fossa
profonda; cadendo però distese le mani per attaccarsi dove meglio poteva; e trovò dei rami di
un albero e s'attaccò ad essi fortissimamente, ben contento di poter ivi fermarsi pensando di
aver con questo scampato il suo pericolo. Mirando però alla radice dell'albero, vide due grandi
sorci, uno nero e l'altro bianco, che continuamente e con molta fretta l'andavano

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rodendo, sicché già stava per cadere. Guardando poi al fondo dell'abisso, vi scorse un dragone
deforme, dai cui occhi si sprigionava fuoco e lo stava fissando con aspetto terribile e con la
bocca spalancata, aspettando che cadesse per inghiottirlo. Guardando poi alla parete
dell'abisso dal lato dell'albero, vide che quattro velenosi serpenti sporgevano la loro testa per
morderlo mortalmente. Osservando però anche le foglie dell'albero, avvertì che alcune di esse
stillavano alcune gocce di miele. Per questo, egli, molto contento, dimentico degli altri pericoli
che da tante parti lo minacciavano, si divertiva a cogliere goccia per goccia il miele, senza più
badare, né far caso della furiosa voracità dell'unicorno che stava in alto, né al dragone terribile
che stava di sotto, né ai serpenti velenosi che gli stavano al lato, né alla fragilità dell'albero che
stava per cadere, né al pericolo di perdere il sostegno dei piedi e di precipitare, perché una
goccia di miele, alla cui raccolta era tutto intento, gli faceva dimenticare tutto questo.

L’inutile ridda dei piaceri.


In questa immagine vediamo rappresentato lo stato degli uomini, i quali, dimentichi dei
pericoli di cui questa vita è così piena, si danno ai loro piaceri. L'unicorno è la morte che
insegue l'uomo fin dalla sua nascita. La fossa è il mondo ch'è pieno di mali e di miseria.
Quell'albero è il corso della vita. I sorci che rodono le sue radici, uno bianco ed uno nero, sono
il giorno e la notte, i quali succedendosi continuamente, le vanno ad ogni istante
distruggendo. I quattro serpenti sono gli elementi che costituiscono il nostro essere;
eccedendo uno di essi, tutto il composto umano viene intaccato e si esaurisce e con esso la
vita. Quell'orribile e spaventoso drago è l'eternità dell'inferno, che spalanca la sua bocca per
inghiottire i peccatori. Le gocce di miele sono i piaceri ed i

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divertimenti di questa vita; e ne sono così avidi gli uomini, che per un breve piacere non
avvertono i gravissimi pericoli a cui sono esposti!
Pur vedendosi accerchiati da tutte le parti da tanti pericoli di morte, quanti sono i modi e le
cause del morire, infiniti e sempre aperti come altrettante bocche dell'eternità, essi stanno
assaporando in una goccia di miele un piacere momentaneo, che li farà poi soffrire per tutta
l'eternità.
Spaventosa dimenticanza questa, ma anche più incomprensibile che non ci atterrisca un tanto
rischio. E come! in ogni momento ci minaccia un'eternità, eppure ci trascuriamo per tanti
giorni e mesi? Qual uomo anche il più forte e vigoroso può dire di aver un anno in cui non lo
raggiunga la morte, che lo lanci di botto nell'abisso dell'eternità? Ma che dico un anno? un
mese dell'anno? una settimana del mese, un giorno della settimana, un'ora del giorno, un
istante di ogni ora? E allora come possiamo mangiar senza preoccupazione, come dormire
sicuri, come godere con gusto di questo mondo?
Se uno, entrato in un campo pieno di pericoli e trappole segrete, sì che ponendo il piede in una
di queste abbia da cadere sopra alabarde e lance o nella bocca di un dragone, e vedendo che
altri uomini, entrati con lui nel campo, vanno cadendo e scomparendo in queste trappole, egli
andasse ballando e correndo in quel campo senza badare a nulla, chi non direbbe che
quell'uomo è pazzo? Certamente più stolto sei tu, poiché, vedendo che il tuo amico è caduto
nella trappola della morte, che l'eternità ha già inghiottito il tuo vicino e che tuo fratello è
disceso già nella tomba, tu te ne stai tanto sicuro, come se non ti aspettasse altrettanto.
Sebbene sia incerto il tempo del morire, ti dovresti svegliare al solo dubbio o pericolo della
morte. Essendo certo che presto o tardi devi cadere nella bocca dell'eternità, che cosa devi
fare?

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Stupisce vedere come gli uomini sanno prevenire i pericoli anche incerti. Se sentono dire che
vi sono per una strada degli assassini che derubano la gente, nessuno vi passa da solo e senza
armarsi; se uno viene a sapere che vi sono delle pestilenze, cerca degli antidoti e rimedi contro
la peste; se sospetta che dovrà patire la fame, si provvede per tempo di frumento. E allora,
sapendo noi che la morte viene, che c'è un giudizio di Dio, che esiste l'inferno, l'eternità,
perché non stiamo all'erta e non ci apparecchiamo?

Questa è una terribile imprudenza.


Apriamo gli occhi e consideriamo il pericolo nel quale ci troviamo; guardiamo dove si pone il
piede, perché non ci perdiamo, essendo lo stato di questa vita molto pericoloso. Con ragione
Isidoro Clario lo paragonò a un ponte tanto stretto che appena vi stanno due piedi e sotto il
quale si trova un lago di acque nere piene di serpenti, di fiere e di animali velenosi, i quali si
nutrono di coloro che cadono dal ponte; da un lato e dall'altro vi sono giardini, prati, fontane
ed edifici bellissimi. Come sarebbe grande pazzia di colui che passasse il ponte guardando
prati ed edifici senza badare dove mette i piedi, così è grande pazzia quella che commette chi
passa per questa vita guardando solo ai beni terreni e tenendo in non cale i suoi passi e le sue
opere. Aggiunse Cesario Arelatense che questo ponte ha il più gran pericolo nel suo termine,
dove è più stretto; ivi è il vero pericolo, perché è il passaggio strettissimo della morte.
Guardiamo dunque in vita dove mettiamo il piede con sicurezza per il cielo, perché non
abbiamo a metterlo nel vuoto e perdere con ciò l'eternità a cui tende la nostra vita.
O eternità, o eternità, quanto pochi sono quelli che si preoccupano di te! O eternità, pericolo
dei pericoli, rischio di tutti i rischi, se si sbaglia il

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passo! Come non si preparano ad essa i mortali e come non la temono? Non v'è pericolo
maggiore che quello dell'eternità, né rischio più certo che quello della morte. Perché non ci
prepariamo e ci armiamo per essa? Perché non ci preoccupiamo di ciò che sarà di noi? Questa
vita dovrà durare ben poco, le forze ci verranno a mancare, i sensi si turberanno, le ricchezze
ci verranno tolte, le comodità finiranno ed il mondo ci scaccerà. Perché allora non
consideriamo ciò che dopo sarà di noi? In altra regione saremo mandati per sempre; perché
non pensiamo che cosa dovremo fare colà?
Acciocché dunque conosciamo questa nostra sorte e perché sappiamo essere prudenti,
racconterò un'altra parabola del medesimo San Giovanni Damasceno. V'era una città molto
grande e popolatissima, i cui abitanti avevano l'usanza di eleggere per loro re uno straniero,
che non avesse conoscenza alcuna del loro regno o stato. Per un anno gli lasciavano fare
liberamente tutto ciò che voleva. Ma dopo, quando egli se ne stava sicuro e senza sospetto,
pensando di poter regnare per tutta la vita, essi arrivavano improvvisamente, lo spogliavano
delle sue vesti regali e trascinandolo nudo per la città lo portavano ad un'isola molto lontana,
dove aveva da soffrire estrema povertà, senza aver di che mangiare, né di che vestirsi. Così
impensatamente si cambiava la sua fortuna in tutto l'opposto: le sue ricchezze in povertà, la
sua gioia in tristezza, i suoi diletti in fame, la sua porpora in nudità.
Avvenne però una volta che fu eletto re un uomo molto prudente ed astuto. Questi, avendo
sentito da uno dei suoi consiglieri di quella usanza dei cittadini e della loro notoria incostanza,
non s'inorgoglì della sua dignità del regno che gli avevano affidato, soltanto curava come
doveva pensare per sé, affinché, nel temuto prossimo esilio, privo del regno e relegato in
quella isola, non dovesse

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perire di povertà e di fame. Il divisamento che attuò fu questo: mentre durava il regno fece
passare con gran segreto, tutti i tesori di quella città, che erano molto grandi, a quella isola
dove doveva poi andare a finire. Fatto questo, vennero alla fine dell'anno con grande tumulto i
cittadini per deporlo dalla sua dignità e dal suo ufficio di re, come avevano fatto coi suoi
predecessori, e mandarlo in esilio. Egli partì per quella destinazione senza pena alcuna,
perché aveva mandato avanti grandi tesori, con i quali visse in abbondanza e splendore
mentre gli altri re vi perivano di fame.
Questo è ciò che avviene nel mondo e ciò che deve fare colui che vuole essere prudente. Quella
città infatti significa questo mondo pazzo, vano ed incostante, nel quale, mentre uno pensa di
poter regnare, in un momento viene spogliato di tutto e nudo va a finire nel sepolcro, proprio
quando meno lo aspettava e più era intento a godere dei suoi beni passeggeri e caduchi, come
se fossero immortali e perpetui; senza rammentarsi affatto dell'eternità, dove in breve sarà
esiliato; regione tanto lontana ed estranea al suo pensiero, dove va senza pensarci, nudo e
solo, per perdersi nella morte eterna; solo vive per andare a penare in quella terra di morti
scura e tenebrosa, dove non entra luce, ma orrore e tenebre sempiterne.
Il prudente invece è colui che, considerando ciò che ha da accadergli tra breve, di uscire cioè
spogliato di tutto da questo mondo, si prepara per l'altro, utilizzando il tempo di questa vita
per trovarlo nell'eternità. Con opere sante di penitenza, di carità e di elemosine fa passare i
suoi tesori a quella regione dove ha da abitare per sempre, ordinando qui bene tutta la vita.
Pensiamo dunque all'eterno, perché ordinando bene qui le cose temporali, acquistiamo là
quelle temporali e quelle eterne.

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San Gregorio (S. GREG., in Cant.. 2.) riteneva che la considerazione dell'eternità era
raffigurata in quella dispensa ben provvista di vino prezioso, nella quale la sposa dice di essere
stata introdotta dallo sposo e di aver quivi dato ordine alla carità. Dice infatti che chiunque
consideri nell'animo suo con attenzione alquanto profonda l'eternità, potrà gloriarsi dicendo:
ordinò in me la carità: perché amerà meno se stesso e più Dio e per Dio, e solo per l'eternità
farà uso delle cose temporali anche le più necessario.

CAPITOLO QUINTO,

Che cosa sia l'eternità secondo l'insegnamento di San Gregorio Nazianzeno e San
Dionigi.

Cominciamo dunque a dare una qualche spiegazione di ciò che è inesplicabile, per formarci un
qualche concetto di ciò che è incomprensibile, affinché i cristiani, conoscendo meglio o
ignorando meno ciò che è eterno, temano di commettere una colpa o di lasciare un'opera di
virtù, tremando al pensiero che in cambio di beni tanto da poco, come sono quelli della terra,
si sperperino beni tanto grandi, come sono quelli del cielo.
Vedendo Agrippina Romana lo sperpero di suo figlio, che profondeva oro e argento come se
fosse acqua volle correggere la sua prodigalità. Una volta che il figlio aveva ordinato di
preparargli la quarta parte circa di un milione, la madre fece mettere insieme altrettanto
danaro, lo fece stendere su vari tavoli, per mostrarlo tutto insieme al figlio,

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perché questi, vedendo coi suoi occhi la somma che così temerariamente aveva sprecato, si
moderasse nella sua prodigalità.
Lo spreco e la pazzia degli uomini non trovano altri rimedi; bisogna mettere dinanzi ai loro
occhi ciò che perdono per un piacere contro la legge di Dio.
Infatti per una cosa molto piccola perdono ciò che è senza fine, ciò che deve durare sempre,
insomma ciò che è eterno. Però chi potrà spiegare questo? L'eternità è un oceano immenso di
cui non si può trovare il fondo; è un abisso oscurissimo nel quale si perde ogni intelletto
umano; è un labirinto intricato donde nessuno può uscire; è uno stato perpetuo senza passato
e senza futuro; è un circolo continuo il cui centro sta in tutte le parti e la circonferenza in
nessuna; è un anno grande che sempre incomincia e mai tocca la fine; e ciò che non si può
comprendere e sempre si deve conoscere e pensare. Ma perché possiamo dirne qualcosa ed
apprendiamo ciò che è incomprensibile, sentiamo come la definiscono i santi.

L'eternità secondo San Gregorio Nazianzeno.


San Gregorio Nazianzeno non sa dire cosa sia l'eternità, ma solo ciò che non è, e scrive:
L'eternità non è tempo, né parte del tempo, (Oratio in Christi Nativitate, 38) perché il tempo e
le sue frazioni passano, mentre l'eternità non passa. Tutti i tormenti che un'anima condannata
all'inferno patisce in principio, tanto terribili e vivi la tormentano dopo milioni di anni, e di
tutti i piaceri che un'anima giusta prova quando entra nel cielo non ne verrà meno poi uno
solo. Il tempo ha questo di proprio che ci assuefà alle cose e le diminuisce, perché di ciò che in

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principio ci pareva nuovo perdiamo poi la sensazione. L'eternità invece è sempre intera, è
sempre la stessa, nulla si cambia. I dolori con i quali comincia il dannato, dopo mille secoli
sono ancora fiammanti e nuovi, la gloria che nel primo istante riceve chi si salva gli sembra
sempre recente. L'eternità non ha parti, è tutta d'un pezzo, non si dà in essa né diminuzione,
né difetto. Benché i piaceri di questa vita, che vanno col tempo, siano di tale natura da
diminuire col tempo, sì da non avervi in questo mondo piacere che col lungo andare non si
cangi in pena, così per il contrario, le pene col tempo diminuiscono e si curano. L'eternità ha
una tela ben differente; tutto è uniforme, non vi è gioia che stanchi, né pena che scemi.

L’eternità secondo San Dionigi.


Secondo San Dionigi Areopagita (De divinis nominibus, cap. 10) l'eternità è immutabilità,
immortalità, incorruttibilità di una cosa che tutta esiste in un istante che non apparisce, ma
che sempre è nello stesso modo. Dice il Savio: Dove cadrà il tronco ivi resterà (Eccle, 11, 3).
Se cadrai come tizzone infernale nel profondo dell'abisso, ivi starai ardendo come sei caduto e
nessuno verrà a levarti finché Dio sarà Dio; là starai senza poterti voltare da un lato all'altro.
L'eternità è immutabile, perché con essa non è compatibile mutazione alcuna; è immortalità,
perché non ha fine; è incorruttibilità, perché non avrà mai diminuzione. I mali di questa vita,
per quanto possa essere disperato il trovarne rimedio, non difettano però della possibilità di
trovarlo. Con il loro mutarsi sì alleviano, con la morte finiscono, con la corruzione
diminuiscono. Tutto questo manca

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ai mali eterni, i quali non avranno mai il sollievo del loro mutarsi, né il rimedio del loro finire,
né la consolazione del loro diminuire. Mutare il lavoro suole essere un riposo. Un malato per
quanto sia angosciato, si solleva col voltarsi da un Iato all'altro. I mali eterni invece in un
medesimo punto e con la medesima intensità dureranno, finché Dio sarà Dio, senza modo
alcuno di mutarsi. Se il cibo più gustoso e salutare del mondo, che fu la manna, solo perché fu
continuo, causò nausea e vomito, quale tormento causeranno le pene che continueranno
sempre e rimarranno sempre le medesime?
Il mare ha il suo flusso e riflusso, i fiumi hanno le loro piene, i pianeti le loro posizioni diverse,
l'anno ha le sue stagioni, le febbri maggiori hanno la loro decrescenza, ed anche i dolori,
arrivati al sommo dell'acutezza, diminuiscono. Solo le pene eterne non avranno
decrescimento e non vedranno mutazione.
L'andar per una strada tutta piana, che sembra la meno faticosa, suole stancare, perché manca
la varietà; quanto stancheranno il cammino dell'eternità quei dolori perpetui che non possono
mutarsi né arrivare alla fine, né subire diminuzioni? Quelli che furono i tormenti di Caino
tanti mila anni fa, lo sono ancora oggi, e ciò che sono oggi, lo saranno per altrettanti anni. Le
frazioni del tempo si computano coll'eternità di Dio, e la durata della infelicità con quella della
gloria di Dio. E finché Dio vive, essi lotteranno con la morte e moriranno in tutti gl'istanti.
Quella morte dura eternamente e quella vita miserabile uccide, perché ha tutto il peggiore
della vita e della morte. Vivono questi miserabili per patire e muoiono per non godere; non
hanno il riposo della vita, né il termine della morte, ma per maggior tormento proprio hanno
il tormento della morte e la durata della vita.
Guarda invece quanto felice è la sorte di coloro che muoiono in grazia di Dio. La loro gloria
sarà

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immortale, senza timore che abbia a terminare. La loro fortuna sarà immutabile e non potrà
invecchiare; la loro corona sarà incorruttibile e non potrà marcire. Non passerà giorno senza
godere, e sempre la contentezza sarà nuova e la loro gloria rinverdirà sempre per tutta
l'eternità. Perciò la felicità sarà sempre nuova; onde la gloria che San Michele aveva tante
migliaia d'anni fa, è oggi ancora la stessa, e quella che oggi ha, sarà ancora nuova, dopo sei
milioni di anni, come oggi.

CAPITOLO SESTO.

Che cosa sia l'eternità secondo Boezio e Plotino.

L'eternità secondo Boezio.


Ascoltiamo ora il parere di Severino Boezio e Plotino, due grandi filosofi ed il primo non
minor teologo, intorno al mistero e segreto dell'eternità: Il possesso totale e perfetto di una
vita interminabile. (BOEZIO, De consolatione philosophiae. lib, V. 6). Questa definizione
conviene in primo luogo all'eternità di Dio, ma conviene anche all'eternità delle creature
ragionevoli, le quali la godono in quanto conseguono il possesso totale e perfetto dei beni in
una vita eterna che non finisce mai. Con ragione egli chiamò questa un possesso per la
perfezione del gaudio, poiché il possesso di una cosa ne dà il godimento pieno a chi ne diventa
il padrone perfetto. Colui che ha presso di sé qualche cosa in prestito e in deposito, non ne ha
il godimento pieno, e benché ne abbia alcun piacere, non è con quella libertà di colui che la
possiede perfettamente.

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Dice ancora che questo possesso è totale, in quanto e possesso di tutti i beni senza eccezione
ed è di tutti i beni uniti, senza aver bisogno per goderli, di goderne uno dopo l'altro, giacché si
possono godere tutti insieme. I beni di questa vita non hanno questa natura. Se uno avesse
anche tutti i beni di essa, non potrebbe goderli tutti insieme, ma soltanto gli uni dopo gli altri,
Eliogabalo, che più di ogni altro volle e cercò di godere di essi, per quanto impiegasse
diligenza e sveltezza, solo una volta poté appena godere di due o tre beni insieme. Mentre era
al banchetto non poteva attendere alla musica da ballo; mentre partecipava ai balli non poteva
intervenire alle feste degli spettacoli; mentre si occupava con queste non poteva intrattenersi
con la musica; mentre attendeva alla musica non poteva andare a caccia in montagna e
mentre si dilettava in ascensioni sulle montagne non poteva allettare la sua sensualità. Per
provare certi piaceri doveva lasciarne altri, di modo che, sebbene non li avesse mai tutti,
giacché gli mancavano quelli di cui godevano altri uomini, anche di quelli che poté godere non
li godette tutti insieme. Al giusto in cielo invece non manca bene alcuno ed avendo tutti i beni
non ha bisogno di passare dall'uno all'altro per goderli, perché gode di essi tutti uniti.
Il possesso della felicità è pure perfetto, prima di tutto per la sua sicurezza cui nessuno può
disturbare, Nessuno glielo può contendere, nessuno lo può rubare, nessuno lo può turbare.
Il possesso della felicità eterna è in secondo luogo perfetto, perché si gode interamente, non
come i beni della terra, i quali non si possono godere in tal modo, o per la distanza del luogo o
per l'imperfezione del senso, o per la mescolanza loro con qualche dolore, o per lo meno per la
moltitudine degli oggetti e la loro opposizione. Ma quella felicità eterna si possiede tutta, e
perfettamente se ne assapora tutto il piacere, si percepisce tutto il suo

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gaudio e l'anima resta penetrata ed imbevuta di tutta l'essenza della sua dolcezza. Questa non
può essere diminuita da mescolanza di pene, né da cure improvvise, né da incapacità di
soggetto, né da distanze locali, né da grandezza di oggetto. Ivi infatti non si dà luogo a dolore e
preoccupazione; il soggetto si eleva, l'oggetto si accomoda ed il gaudio eterno non ha
proporzione con distanze o spazi locali.

L'eternità secondo Plotino.


Per tutto questo disse pure Piotino (Ennead. 3, lib. VII, c. 2.) che l'eternità è una vita tutta
piena ed unita; in essa sarà perfetto godimento di tutti i beni, secondo tutta la capacità
dell'anima, né vi sarà parte alcuna dell'uomo che non sia piena di dolcezza, di gioia e di riposo.
La vita dell'udito sarà piena, perché sentirà musiche di bellissimi concerti; pieno pure sarà il
senso dell'olfatto per la fragranza di odori soavissimi; la vita della vista sarà piena essendo
rallegrata da ogni bellezza; piena pure sarà la vita dell'intelligenza, la quale conoscerà
perfettamente il suo Creatore, e la volontà pure avrà una vita piena nell'amare e godere il
Signore.
La vita temporale non può aver questa pienezza di soddisfazione, neppure nelle cose minori;
l'attenzione di un senso impedisce quella di un altro e quella del corpo impedisce quella dello
spirito.
Qui non si può godere la vita se non in parte ed anche questa diminuita! In quella felicita
eterna invece, il vivere sarà pieno, totale il possedere, perfetto il godere, giacché colà vive tutto
quello che qui può morire. Non cesserà per incompatibilità degli oggetti, né per impedimento
dei sensi, né per incapacità dell'anima la potenza di godere tutti i beni uniti, con tutti i sensi e
le facoltà insieme. In

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più questo possesso così totale, così pieno e perfetto è per tutta una vita senza morte, per uno
spazio senza termine, per un giorno che è eterno e vale per tutti i giorni, comprendendo tutti
gli anni ed abbracciando tutti i secoli, superando anzi tutti i tempi sicché in essa nulla passò e
nulla passerà.
Tutto il contrario succede poi ai poveri peccatori, la cui miseria eterna è di natura simile nel
male a quella dell'eternità dei beati nel bene. Essi infatti posseggono i mali non in un modo
qualsiasi, bensì con tutto quello che sono, cioè con anima e corpo, con tutti i loro sensi, con
tutte le loro potenze. Quello infatti si dice possesso che si acquista col corpo presente. Questi
disgraziati, con tutto il corpo, con tutta la loro sostanza staranno in quei tormenti, non come
in cosa prestata, ma bensì come in cosa loro tanto propria, che non potranno mai alienarli,
perché non vi è cosa tanto propria e dovuta come la pena alla colpa. E non solo, ma di essi i
mali prenderanno pieno possesso, perché i sensi, le membra, le articolazioni del corpo, le
potenze dell'anima e le facoltà più spirituali saranno possedute dal fuoco, dall'amarezza, dal
dolore, dall'ira, dal dispetto, dalla miseria e dalla maledizione, per cui il possesso di questi
infelici sarà totale e di tutti i mali insieme. Non ne mancherà alcuno, perché si convergeranno
tutte le disgrazie e tutti i tormenti. Non mancherà nel gusto l'amarezza, nell'appetito la fame,
nella lingua la sete, nella vista l'orrore, nell'udito lo spavento, nell'olfatto il fetore, nel cuore la
pena, nell'immaginazione il terrore, né il dolore in ogni membro, né il fuoco nelle stesse
viscere. I dannati possederanno tutti, i mali e tutti, totalmente. Se anche potessero subirli uno
alla volta, sarebbe già tremenda la loro sorte, dato il numero immenso di anni che avrebbero a
soffrire, ma la massima loro infelicità è che devono patire i tormenti tutti insieme. Non speri il
dannato che per il dolore di una parte del corpo

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esso cessi in altra parte, né per la pena dello spirito finisca il fuoco che brucia la carne. Tutti i
mali piombano sul peccatore dannato; uno ad uno e tutti di un colpo cadono su di lui. La
goccia scava la pietra, e con quaranta giorni di pioggia Dio distrusse il mondo animato. Che
sarà poi quando la sua giustizia pioverà fuoco di zolfo e tempeste sopra un dannato non solo
per quaranta giorni, ma per tutta l'eternità?
Non soltanto i dannati possederanno i mali tutti e tutti insieme, ma eziandio li avranno in
modo perfetto ed intero. Non diminuirà il senso per la moltitudine ed il dolore, né si
ottunderà perla loro grandezza. Tanto sveglio e vivo sarà per tutti come se ne patisse uno solo.
Tanto perfettamente avranno da sentire il rigore intero di qualsiasi tormento, che il fuoco non
penetrerà solo le ossa, il cuore e le viscere, ma giungerà fino alla stessa anima cui crucierà
immediatamente col suo incendio, con tanti tormenti eterni. Il possesso della sua miseria sarà
totale, perfetto, pieno; totale perché patirà tutti i mali; perfetto perché li patirà totalmente,
pieno perché li patirà in tutti i sensi, in tutte le facoltà e potenze. Non è questa una morte per
vivere dipoi; vivrà questa morte nei dannati, finché vivrà Dio e la sua miseria durerà finché
Dio avrà la sua gloria.

CAPITOLO SETTIMO.

Che cosa sia l’eternità secondo San Bernardo.

In un altro modo illustra San Bernardo (Sermo I in fest. omnium Sanctorum) l'eternità
dicendo: È la durata che abbraccia ogni tempo, il passato, il presente ed il futuro. Non v'è né
giorno, né anno, né secolo che eguaglino

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l'eternità. Questa sola assorbe tutti i tempi possibili ed immaginabili e il suo seno sarà mai
ricolmo.

L'eternità è un istante immobile.


Oltre questo, essa abbraccia tutto il tempo, perché gode in ogni istante ciò che ha da godere in
tutto il tempo; per cui Ficino chiamò l'eternità momento eterno, ed il nostro Lessio dice che
essa è insieme lunghissima e brevissima: lunghissima, perché eccede tutto il tempo e durerà
per spazi infiniti di tempo; brevissima, perché in un istante di tempo ha tutto quello che può
avere per un tempo infinito. Come il tempo è un istante che vola e passa, giacché non c'è nel
tempo che il momento presente che sta sempre correndo e mutandosi ad ogni istante da uno
all'altro, così l'eternità non è più che un istante che rimane, che sta sempre fisso e stabile,
perché in essa tutte le cose sono insieme e consistenti sempre nel medesimo stato. Per essa
passano tutti i tempi succedentisi gli uni agli altri, essa invece è sempre presente e
perseverante in tutti.
Il tempo e tutte le cose temporali sono come un fiume precipitoso, nel quale furiosamente le
onde si rincorrono le une le altre, senza smettere mai il loro mutarsi perpetuo. L'eternità,
invece, è come una roccia fermissima, donde scaturisce il medesimo fiume, le cui onde le
passano davanti le une dopo le altre, senza più ritornare a farsi vedere, mentre essa rimane
sempre nello stesso luogo. Così sono tutte le cose temporali: senza permanenza e senza
costanza alcuna vanno, senza ritornare mai più, passando leste dinanzi all'eternità. Come la
roccia della sorgiva, pur standosene ferma, contiene tutte le acque del fiume, così l'eternità
abbraccia tutti i tempi.
L'eternità è altresì come il punto centrale di un circolo, il quale punto corrisponde a tutta la
circonferenza e ha uguale distanza da ogni punto di

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essa; così l'eternità corrisponde a tutto il tempo ed a tutti gli istanti del tempo e tiene presente
in modo meraviglioso ciò che avrà presente per tutti i secoli. È così un istante solo che
equivale a tempi infiniti, perché non v'è un prima ed un poi, ma bensì tutta l'estensione del
tempo sta raccolta in un istante, di modo che in ogni momento di tempo vi è tutto insieme ciò
che potrebbe estendersi per distanze infinite di tempo.
Come la immensità di Dio ha in un punto solo tutta la grandezza divina che senza termine e
senza limite si estende per ogni parte, sì da non aver meno in un punto che in milioni di leghe,
così l'eternità raccoglie in un istante tutta la durata divina, benché questa s'estenda per tempi
infiniti. A questa eternità partecipano le creature ragionevoli nell'altra vita in quel modo che
sono capaci quanto all'essenza della loro gloria o pena.

Solo l'eternità dà il vero valore alle cose.


Da ciò segue una cosa da ben ponderarsi, ed è che quel bene col quale si congiunga l'eternità,
si rende infinitamente migliore, sia perché bene infinito, sia per la durata eterna. Così per il
contrario quel male che si rende eterno si fa pure infinitamente peggiore e ciò per due motivi:
per la sua durata eterna che è infinita, e perché un male è tanto più penoso quanto maggiore si
stima la sua durata. Il contento di un giorno non è così grande come quello di una settimana;
però molto maggiore è quello di un mese; più grande ancora quello di un anno; più grande
ancora quello di centomila anni; più ancora crescerà la sua stima, se dura di più. Perciò quel
che dura infinitamente è infinitamente più stimabile; nella stessa guisa che il dolore che dura
di più è un male maggiore e, se dura infinitamente, sarà un male infinito. Questo eccederà
qualsiasi altro male, anche se un tal male per sé sia più grande; cosicché, se ad uno dessero da

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scegliere tra lo starsi a bruciare vivo in un forno di calce, soffrendo nello stesso tempo tutte le
malattie ed i dolori che conosce la medicina e quanti generi di tormenti hanno patito i Martiri
e quanti sono i supplizi atroci che hanno subito i malfattori, e tutto questo per un tempo
lunghissimo, come sono duecento miliardi di anni; o d'altra parte patire un'emicrania od un
dolore di denti per tutta l'eternità senza aver mai fine; questi dovrebbe scegliere tutti quei
tormenti riuniti piuttosto che questo dolore solo, perché, sebbene quei tormenti siano più
grandi, questo unico dolore li eccede per la sua durata. Insomma, quelli, benché tanto
eccessivi, sarebbero temporali; questo, sebbene tanto minore, sarebbe eterno. L'eternità
aumenta il male infinitamente. In quei tormenti v'è la speranza che finiscano, in questo dolore
non v'è rimedio.
Io voglio immaginare che, se ai dannati, per il vivo concetto che hanno dell'eternità, si
concedesse di scegliere, o di alleviare i loro tormenti rimanendosi con un sol mal di testa
eternamente o di patire tutti i tormenti dei sensi riuniti in tutti i dannati per lo spazio
determinato di tanti miliardi di anni, preferirebbero questo secondo caso, perché, pur essendo
le pene tanto maggiori, avrebbero però fine, mentre il mal di testa, benché tanto minore,
sarebbe eterno.
Ci pensino un po' gli stimatori delle cose temporali. Se i tormenti dell'inferno, pur tanto
eccessivi, sono sopportabili per il solo supporli temporali, tanto che si sceglierebbero questi
piuttosto che un solo dolore eterno, benché leggero, come non soffriranno con pazienza un
solo male leggero per un tempo così breve, quale è quello della vita presente, pur di non
soffrire poi eternamente i tormenti dell'inferno? Come non ci muove un inferno eterno,
mentre temiamo un dolore temporale? Come non facciamo penitenza? Come non abbiamo
pazienza nei nostri mali? Come non soffriamo

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quanto c'è da soffrire in questa vita, per non soffrire un solo tormento nell'eternità? Non si
devono temere le pene di questa valle di lagrime, perché avranno fine, mentre sono da temersi
quelle che non avranno mai fine. Siamo dunque contenti di patire qui, dove si patisce poco e
per poco tempo, per non patire là, dove si patisce molto e per sempre.
La stessa considerazione reale, per i beni. Se uno, dopo aver goduto di tutti i tesori della terra
e tutti i piaceri dei sensi per miliardi di anni, sarebbe felice, alla fine, di poterli tutti cambiare
anche con un solo piacere eterno, come non cambieremmo noi tutti i gusti passeggeri della
terra coi beni immensi che possederemo eternamente nel cielo? Tutti i beni temporali del
mondo si possono spendere per un solo godimento eterno; perché allora talvolta non
rinunziamo ad un solo piacere temporale per assicurarci tutti i diletti eterni? Tutti i beni
temporali si dovrebbero dare in cambio di uno solo, del quale ci si assicuri che sia eterno.
Perché allora non ci assicuriamo tutti i beni eterni in cambio di un solo bene temporale? Uno
che fosse padrone di una casa per tutta l'eternità eccederebbe infinitamente colui che per
quanto tempo si voglia, possieda tutto il mondo.
Non v'è paragone fra il tempo e l'eternità. Ogni cosa temporale, per grande che sia, si deve
stimare bassamente; ogni cosa eterna, per piccola che possa sembrare, si deve stimare
grandemente. Perciò quello che è temporale, né per la sua grandezza, né per la sua durata ha
confronto con una cosa eterna, anche piccola. E per esagerare fino all'impossibile, lo stesso
essere di Dio, se fosse temporale, si potrebbe posporre ad un altro che fosse eterno.
Potrà l'avaro sembrare molto contento del suo piccolo tesoro che domani la morte, e forse già
oggi un ladro gli potrà togliere. E per questo bene

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egli disprezza i beni eterni del cielo. È certo che quantunque Dio non ci promettesse nell'altra
vita che un solo bene sensibile, ma eterno, dovremmo per meritarlo sacrificare tutti i piaceri
della terra: quale dunque è la nostra pazzia se, avendoci Dio promesso per tutta l'eternità gli
immensi gaudi del cielo, non abbiamo il coraggio, per meritarli, di abbandonare qualche
piacere terreno?
La seconda ragione per cui l'eternità rende il bene infinitamente migliore e il male
infinitamente peggiore, è perché essa raccoglie in un solo istante se stessa; di maniera che in
ogni istante possiede ciò che dura sempre. Come dura l'infinito, essa lo raccoglie in ogni
istante, sentendo di possedere in ogni istante ciò che possiede nel presente e possiederà nel
futuro. Dice un Dottore (LESSIO, De Perfectionibus divinis, lib. IV, cap. 3): Con l'eternità il
bene, che si può possedere in questa vita successivamente in tempo indefinito, si raccoglie in
un istante e si gode tutto unitamente, come se (tutto) il piacere che uno splendido pranzo può
offrire successivamente per parte, di tempo infinito, si godesse tutto simultaneamente, e
tutto si potesse godere per un tempo eterno, ciò che lo farebbe infinitamente migliore e di
maggior valore.
La medesima cosa fa l'eternità dei mali e delle pene, che riunisce in certo qual modo in uno e
fa sì che si sentano simultaneamente. Pur non essendo essi mali attualmente uniti, succede
però che si apprendano tutti riuniti e così causano nell'anima dolore senza confronto e senza
fine. Questi sono i veri mali, perché sono mali sotto ogni aspetto per la loro estensione e per la
loro intensità, per la loro durata e per la loro natura. In quanto alla durata non hanno fine e la
loro natura non ha limiti.
Chi è quel sofferente il quale, ben considerando questo, non avrà pazienza, mentre il suo

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dolore è limitato ed avrà termine? I maggiori mali temporali sono punture di mosche rispetto
al minimo male eterno, e così per sfuggire tutti i mali eterni è ben poca cosa il sopportarne
uno temporale. Tremiamo dinanzi a queste lance dell'eternità, queste due infinità con cui
aumenta i suoi mali, essendo due lance mortali che attraversano da parte a parte i dannati.
Tutto quaggiù è burla e bagatella rispetto all'eternità, la quale abbraccia tutti i tempi e con i
mali di tutti i tempi cade sopra i dannati ad ogni istante.

L'eternità abbraccia anche il passato.


Un'altra proprietà dei beni e dei mali eterni è che non solo li consolida ed aumenta il futuro,
ma anche il passato quantunque temporaneo. I beati del cielo non solo stanno godendo in
quest'ora della gloria che hanno e che avranno, ma anche di quella che ebbero in questa vita,
come sono le virtù e le opere buone delle quali ora si ricreano e si congratulano per tutta
l'eternità. In tal modo tutto il bene passato, presente e futuro concorre unitamente alla
perfezione del loro gaudio e si accoglie nella loro felicità il bene di tutti i tempi. Quanto
differenti sono i beni temporali, giacché neppur i presenti si lasciano godere!
Non c'è cosa temporale a cui non aderisca o qualche difetto o qualche preoccupazione o
qualche pericolo. Molto meno si lasciano godere nel futuro, poiché non essendone sicuro
l'acquisto, ed essendo tanto lontani dal comunicare il loro godimento futuro, gli uomini si
danno al piacere del presente per timore di perderlo. Questo stesso timore non lascia che il
passato porga alla memoria conforto, anzi dal timore della perdita suole derivare tanto più
pena, quanto prima il godimento si sperimentò maggiore.
Da qualunque lato insomma si considerino, i beni eterni sono i migliori. Ad essi dunque ci

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conviene aspirare e studiarci di conseguirli, quando anche ci costasse tutto quanto il


temporale.

Possiamo imitare l'eternità.


In questa vita si può imitare l'eternità esercitando le tre virtù segnalate da San Bernardo:
Povertà, mansuetudine e dolore [Paupertate, mansuetudine et fletu renovatur in anima
similitudo quaedam et imago aeternitatis, omnia tempora complectentis, dum paupertate
futura meretur, mansuetudine sibi praesentia vindicat, iuctu poenitentìa quoque recuperat
(Ibidem)]. E veramente chiunque ha stima dell'eterno, a nessuna cosa con più studio
dovrebbe applicarsi che all'esercizio di queste tre virtù. In primo luogo: lasciando, nella
povertà di spirito, ogni cosa temporale e cambiandola con ciò ch'è eterno; non cercando nulla
in questa vita per trovare tutto migliorato nell'altra, perché, mentre l'eternità accresce il bene
o il male che si lascia, il tempo diminuisce grandemente tutto ciò che ha termine e lo trascina
dietro di se. Non ci verrà molto ad abbandonare ciò che pur dovrà finire, ed un nulla deve
ritenersi ciò che nel nulla dovrà pur ritornare.
In secondo luogo, con la mansuetudine e la pazienza nell'operare il bene e vincere le difficoltà
delle virtù, poiché sarà rimunerata eternamente la sua leggera fatica. Tutto ciò che si patisce
in questa vita è un dono in confronto a quello che si patisce nell'altra. Chi, vedendo l'inferno
aperto, anche se i suoi mali sono un abisso senza fondo, non sopporterà con pazienza il rigore
della penitenza e con mansuetudine un'immeritata ingiuria, senza turbare la pace interna
dell'anima, sforzandosi unicamente ad operare il bene e piacere al Divin Redentore? Chi,
vedendo il cielo che l'aspetta, non si animerà a grande raccoglimento e a patire molto per Dio
con

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molto fervore e lena? Scrive Rufino (Rufinus, num. 107; Pelag. libell. 7, n. 28.) che una volta
andò dall'Abate Aquilio un certo monaco, per raccontargli come nel custodire la cella sentiva
molto tedio e tristezza. Il prudente Abate gli rispose: “Ciò deriva da questo, figlio mio, che tu
non pensi ai tormenti eterni che temiamo, né al riposo e gaudio che speriamo, poiché, se tu vi
pensassi, anche se la tua cella fosse piena e pullulasse di vermi e ti arrivassero fino alla gola,
con tutto ciò tu rimarresti in mezzo ad essi e persevereresti nel tuo raccoglimento senza tedio
e noia”.
Il terzo si è che con lacrime e dolore dell'anima si deve procurare di risarcire per i peccati
passati e di soddisfare per essi con contrizione dolorosa e amarezza di cuore, perché l'eternità
dei beni che per causa di essi si è perduta si ricupera con la penitenza, essendo questa una
virtù tanto efficace da riparare il passato. Benché si dica che il fatto non ha rimedio e sul
passato non vi è potere alcuno, questa virtù ha tanto potere da disfare il fatto e da prevalere
sul passato, togliendo i peccati del passato, come se non fossero stati commessi.
CAPITOLO OTTAVO.

L'eternità è senza fine.

L'eternità è inscrutabile.

Tutte queste dichiarazioni e definizioni dell'eternità non sono ancora sufficienti per far
concepire al vivo la sua grandezza; né alcuno può intendere bene, come dice Plotino, ciò che
sentirono quelli che vollero definirla. Si potrebbe dir di essa ciò

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che disse Simonide, (CICERO, De natura deorum. Lib. II) quando Cerone, re di Sicilia,
l'interrogava: che cosa fosse Dio. Il filosofo si prese un giorno di tempo a rispondere, per poter
frattanto pensarci sopra. Passato quel giorno, disse di aver bisogno di maggior tempo e chiese
due altri giorni; passati quelli, ne chiese altri quattro: trascorsi questi, disse che più vi pensava
più doveva meditare e minor facilità trovava per rispondere.
Lo stesso si può dire dell'eternità, la quale è un abisso tanto profondo da non potersi scrutare
senza che il pensiero umano vi si affoghi. Così disse San Dionigi Areopagita, (De Myst.
Theologia) che Dio non poteva dirsi ciò che era, ma solamente ciò che non era e come a tutto
sovrasta. Similmente non può dichiararsi altro dell'eternità che ciò che essa non è e come
supera ogni comprensione. L'eternità non è tempo, non è spazio, non è secolo, non è milioni
di secoli; ma è sopra ogni tempo, sopra ogni secolo, sopra milioni di secoli. Non è eternità
questa vita che godi e presto ha da finire; non è eterna la salute che hai; non sono eterni i tuoi
divertimenti; non sono eterni i tuoi possedimenti; non sono eterni i tuoi tesori; non sono
eterni coloro nei quali confidi; non sono eterni i beni nei quali ti compiaci, poiché devi lasciare
tutto. Più gran cosa è l'eternità, e sopra i regni, sopra gli imperi e sopra ogni felicità sono le
cose eterne. Per questo Lattanzio (LACTANTIUS, De falsa Religione, lib. I, cap. 12) ed altri
autori dichiarano l'eternità per ciò che non è, dicendo gli uni che l'eternità è ciò che non ha
fine, altri ciò che non ha mutazione, altri ciò che non ha confronto, ossia ciò che non è
limitato, non è mutabile, non è paragonabile. Basta spiegare ed analizzare queste tre
condizioni dell'eternità, non per far comprendere

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cosa sia, ma per incuterci almeno spavento e stima di essa, che è quanto più ci conviene,
insieme a un gran disprezzo di tutto ciò che è temporale, limitato, mutabile e meschino.

L'eternità non ha limiti.

In riguardo alla prima condizione, cioè del non aver fine, disse Cesario che l'eternità è un
giorno senza sera, perché l'eternità dei Santi non vedrà mai tramontare il sole della sua
chiarezza, Vespere carens et unicus dies est tota aeternitas, quoniam nulla sequente nocte,
ultra mundana lux excipitur (cap. 3), quella dei peccatori è una notte che non sarà giammai
illuminata dal sole. In un buio eterno devono stare i corpi ardendo e le anime degli infelici in
tormento. Se al febbricitante cui fugge il sonno, benché si trovi in un letto agiatissimo, un'ora
della notte sembra un secolo, e gli par mille anni che venga il mattino, che sarà lo stare senza
dormire una notte eterna, per coloro che dormirono in questa vita, quando era ora di stare
desti, e che sarà patire tanti strazi in un letto di fuoco, senza speranza mai del mattino?
Certamente, anche se non vi fosse nell'inferno altra pena fuor di quella di stare in
quell'oscurità senza fine, ciò sarebbe sufficiente per spaventarci.
Questo stesso carattere dell'eternità, cioè il non aver fine, vien simboleggiato dagli antichi
nella figura dell'anello, perché nell'anello non vi ha fine. Con più profondo significato Davide
la chiamò corona, la cui rotondità, secondo Dionisio Cartusiano, manca pure del termine, per
significare che l'eternità senza fine dev'essere il premio e la corona delle nostre buone opere e
la pena per le opere cattive. Dovremmo tremare sentendo questa voce: senza fine, per le opere
cattive. Dovremmo giubilare a questa parola senza fine, per le opere buone,

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se comprendiamo ciò che vuol dire durare senza fine, perché nessuno potrà mai esagerare nel
dire ciò che è, e sempre ne dirà di meno. Se un dannato, come riflette San Bonaventura, (De
Inferno, cap. 49) di cento in cento anni spargesse una lacrimuccia e si conservassero tutte,
finché dopo innumerevoli anni fossero tanto le raccolte da uguagliare i mari, quanti milioni di
anni sarebbero necessari per uguagliare, non dico un solo mare, ma un ruscello? Ora, dopo di
aver riempito un mare col corso di tanti milioni di secoli, si potrà forse dire: questa è
l'eternità, qui è il termine? No, anzi non è che l'inizio. Si torni a mettere insieme un'altra volta
le gocce delle lacrime di quel dannato, in uno spazio maggiore di tempo l'una dall'altra, e si
riempia un'altra volta l'oceano; dopo tanti anni passati a centinaia di milioni, finirebbe qui
l'eternità? No, anzi qui incomincerebbe, come se fosse il primo giorno. Si ripeta la stessa cosa
altre dieci, altre cento, altre centinaia di migliaia di volte e si riempiano altri centomila oceani
con gli intervalli e le distanze suddette, e maggiori ancora, si giungerebbe per ventura a
toccare il fondo dell'eternità?
No, anzi ci troveremmo sulla superficie, tanto è profonda ed inarrivabile l'eternità. Non v'è
numero, né algebra che possa comprendere gli anni dell'eternità, perché, se tutti i cieli fossero
tante pergamene, tutte scritte da una parte e dall'altra di figure aritmetiche, non arriverebbero
tutte a dire la minima parte dell'eternità. Essa non ha parte, ma è tutta intera; se anche vi
fosse oceano che tenesse innumerevoli gocce, o montagna composta di innumerevoli grani di
arena, non si potrebbero contare per mezzo di essi gli anni dell'eternità.
C'erano al tempo di Archimede certi filosofi che dicevano essere infinito il numero dei granelli
dell'arena del mare; altri, sebbene dicessero non

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essere infinito, pensavano però non potersi comprendere in numero alcuno. Per confutare gli
uni e gli altri Archimede compose un libro dotto e profondo, dedicandolo al re Cerone di
Siracusa, nel quale dimostrava con prove che, quando anche il mondo fosse pieno di arena e
fosse molto più grande di quello che è ora, tutta quella moltitudine di arena sarebbe limitata e
si potrebbe quindi ridurre ad un numero. Dopo questo filosofo, il P. Clavio contò con quanti
granelli di sabbia verrebbe a riempirsi tutto quanto lo spazio che sotto il firmamento è
occupato dall'acqua e dall'aria e dal fuoco ed i cieli, cioè lo spazio che si trova sotto le stelle
fisse, e supponendo ogni granello di arena così piccolo ed indivisibile che di diecimila di essi si
facesse un granello di papavero o di senapa, venne ad assommarne in così breve spazio la
quantità, che la strinse tutta in una riga, giacché il numero di essi non consta più che di
un'unità e cinquantuno zero. Supposto poi che tanta moltitudine di milioni di granelli si
contiene in una somma così breve, si pensi che cosa saranno gli anni infiniti dell'eternità.
Non dico solo una facciata di un libro, ma se tutto un libro fosse di algebra, e non solo un libro
ma quanta carta trovasi nel mondo e quantunque il mondo tutto, fino al firmamento, fosse
pieno di carta e il firmamento fosse tutto scritto di numeri: tutto questo non comprenderebbe
che una piccolissima parte dell'eternità. La moltiplicabilità è tanta che, aggiungendo ad ogni
numero uno zero, lo si moltiplica per dieci, se si aggiunge un altro, per cento e se si aggiunge
un terzo, per mille; in questo modo si hanno dei prodotti iperbolici, moltiplicando con tanta
velocità. Dalla qual cosa ognuno può considerare che, aggiungendo cento zeri, si ottiene un
tale numero quale nessuna immaginazione può concepire. Ed allora che sarebbe se si
aggiungessero tanti zeri quanti stanno in una pergamena grande

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come il cielo? Tutto questo numero non è tanto grande come la minima parte dell'eternità,
perché dopo passati tanti anni, quanti sono indicati da quel numero, l'eternità sarebbe ancora
al primo giorno, Tutti quegli anni verrebbero alla fine e altrettanti milioni di volte, mentre
l'eternità sempre sarà e continuerà dopo queste migliaia di secoli, come se incominciasse
allora.
Pensi il cristiano quanto sarebbe lunga la vita di centomila anni; eppure non avrebbe passato
nulla dell'eternità. Pensi dieci volte centomila anni: non ha fatto nulla. Pensi mille volte mille
milioni: ancora non ha fatto in questa cognizione nessun progresso. Pensi altri milioni di volte
altrettanto: ancora non ha toccato l'eternità, anzi essa starà sempre nel suo principio. Onde
disse ottimamente Lattanzio: Con quali anni si può saziare l'eternità, giacché non ha
fine? [Quibus annis satiarì potest aeternitas, cuius nullus est finis? (LACT., De falsa Relig.. lib.
1, cap. 12)] Si troverà sempre nel principio, perché tutto è principio. E veramente in questa
maniera si potrebbe definirla con profondo significato: "L'eternità è un perenne principio
senza fine". Perché sempre sta nel suo principio e non arriva alla fine; sempre è nuova,
sempre è intera e niente la può diminuire. Si tolgano dall'eternità tanti anni quante gocce di
acqua ha il mare, quanti atomi ha l'aria, quante foglie hanno le piante, quanti grani di arena
ha la terra, quante stelle sono in cielo; essa ancora resterà tutta intera. Le si aggiungano
altrettanti anni, non per questo essa diventa maggiore, né più lontana dalla sua fine, perché
essa è senza fine e senza principio. Mai, e poi mai essa avrà fine e sempre sarà nel principio.
Si immagini un monte di arena che dalla terra arrivi al cielo e che un angelo ne levi ogni mille
anni solamente un granello, quante migliaia di anni

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occorrerebbero per vedere quel monte spianato? Si ponga pure il più destro contabile a far i
conti: quanti anni passerebbero fino a ridurre alla metà quel monte, diminuendolo l'angelo
tanto adagio? Sembra che non sia possibile vederne la fine; eppure la nostra mente s'inganna,
poiché quel monte avrà fine e arriverà un tempo che si sarà consumata non solo la metà, ma
tutto il monte. Arriverà il tempo in cui sparirà anche l'ultimo granello; l'eternità invece non
arriverà mai alla fine e quando sarà consumato tutto quel monte di arena, nessuna
diminuzione avrà avuto luogo in essa, ma starà come al principio dopo aver passati milioni di
secoli. Dopo di aver consumati milioni di quei monti, le pene dei dannati saranno tanto intere,
fiammanti ed atroci come al principio. Questo pare che intendesse significare Abacuc quando
disse: Le montagne secolari furono stritolale.. dai passi della loro eternità. [Contriti sunt
montes saeculi, incurvati sunt colles ab itineribus aeternitatis eius (Habacuc., 3, 6).] Migliaia
di monti e di colli, grandi come tutto il mondo, potranno disfarsi mille volte mentre sopra di
essi passa l'eternità dei dannati e questa non finirà mai di passare. Così i miserabili dannati
passeranno in mezzo a quel fuoco vorace ed a quei tormenti eterni migliaia e milioni di anni
senza avvicinarsi mai alla fine più che il primo giorno.

L'eternità è immutabile.
Chi potrebbe tollerare che gli si abbrustolisse un fianco per un anno intero? Ma che dico?
Abbrustolirsi un fianco? anche solo star disteso sul medesimo fianco per un anno intero, senza
mai potersi voltare sull'altro? Questa fu una penitenza rigorosa fatta dal Profeta Ezechiele,
perché Dio gli aveva comandato di star giacente su un lato senza muoversi mai per lo spazio di
trecentonovanta giorni.

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Il santo Profeta compì ciò colla grazia di Dio, ma fu certamente una penitenza rigorosissima.
Infatti se soltanto lo star giacente da un solo fianco per un anno fa tanto soffrire, che sarà lo
star un'eternità, in quella notte oscura dell'inferno, steso in un letto di fuoco, sotto la pioggia
di tutti i mali senza termine? Qual cristiano ben considerando questo, sì da farsene un vivo
concetto, non si convertirebbe? Chi potrà permettersi un gusto illecito momentaneo della
terra, mentre corre rischio di cadere nei dolori eterni dell'inferno? Chi oserà peccare col
rischio di dover penare tanto? Oh quanto efficace rimedio sarebbe questo contro i costumi
scorretti dei peccatori, se essi pensassero che l'eternità non ha fine ed ha da durare sempre!
Oh se ogni giorno, o almeno ogni settimana si pensasse un po' a questo, come ciascuno
migliorerebbe la propria vita!
Non si deve però pensare a questo solo di corsa, ma adagio, con attenzione, ben ponderando
tutto, ben riflettendo nel proprio animo che cosa sia l'eternità, in quanto non ha fine, mai,
mai, mai. Come non masticando bene e digerendo male il cibo, esso non torna a profitto, così
l'eternità, solo quando è ben pensata, ruminata e digerita, sarà di grande utilità alle anime
nostre.
La forza di questa considerazione ben ponderata apparisce nel caso riferito da Benedetto
Renato (BENED. RENATO, lib. V Magn. Ordo Cist) di un uomo mondano, molto svagato e
vizioso, il quale si chiamava Fulcòn. Questi, essendosi dato ad ogni genere di piaceri, non
voleva che gli mancasse quello del letto morbido e del sonno lungamente protratto. Una notte
però, non riuscendogli di pigliare sonno, la passò tutta in voltarsi e rivoltarsi, ora su un fianco
ora sull'altro, sospirando ogni momento che si facesse giorno. Mentre così vegliava gli si
presentò questa considerazione:

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“Purché soffri tanto nello stare in questa guisa? Che sarebbe poi se tu dovessi stare così per
due o tre anni in tenebre senza conversare coi tuoi amici e senza il divertimento dei tuoi
giuochi, pur stando in un letto così molle di piume? Certamente sarebbe questa una pena
insopportabile. Orbene hai da sapere che ti capiterà qualche cosa di simile. Per ben che vada,
avrai da cadere infermo in un letto, dove dovrai passare delle notti pessime, se non muori
improvvisamente, il che sarebbe ancora peggio. All'uscire dal tuo letto di morte sai tu che letto
t'aspetta? Sai di qual letto la morte ti rende ospite? Il tuo corpo avrà per materasso la dura
terra e sarà divorato dai vermi; ma dell'anima tua che potrai tu dir di sicuro? Sai dove deve
andare? Certamente conforme alla tua vita presente hai da andare all'inferno. Quivi, che
terribile letto di fuoco ti aspetta, dove non due o tre anni, ma un'intera eternità avrai da star in
tenebre e tormenti perpetui! Mille ed altre migliaia e milioni di anni non basteranno a
scontare uno solo dei tuoi piaceri illeciti. Là non vedrai mai più né il sole, né il cielo, né Dio.
Oh me miserabile, oh povero me! se non posso soffrire questa breve veglia agitatissima, come
potrò soffrire gli eterni tormenti? Quel che è necessario dunque è il cambiare vita, perché per
questa si va nella perdizione",
Con queste considerazioni egli si fece un tal concetto vivo dell'eternità che non poteva cacciare
da sé questo pensiero, finché si decise di entrare come religioso in un convento, dicendo tra sé
molte volte: "Che faccio qui, io miserabile? Godo del mondo e non ne piglio gusto; soffro
molte cose che non vorrei; manco di molte altre che desidererei; mi affanno per le cose di
questa vita, ma che premio riceverò per questa fatica vana? Non ho godimento completo; ma
se anche lo avessi, quanto potrebbe durare? Non vedo ogni giorno coloro che muoiono ed
entrano nell'eternità? O eternità, o

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eternità! Se non sei nel cielo, ovunque tu possa essere, sarai penosa, anche se io fossi in un
letto morbidissimo. Assicuriamoci il cielo e non perdiamo il molto per il poco, né l'eterno per
il temporale”. Così disse e fece, entrando in un monastero dell'Ordine dei Cistercensi.

Il valore dell'eternità è incalcolabile.


In tutte le opere nostre dovremmo sempre pensare: Per sempre dovrò essere premiato per
quello che faccio di bene e castigato per quello in cui pecco gravemente. Con questo pensiero il
cristiano si animerà a compiere sempre opere buone e a compierle bene. Scrive Eliano
d'Ismenia, ambasciatore dei Tebani (Lib. I Variar. hist.. cap. 2) presso il re della Persia, che
“avendo egli da esporre la sua ambasciata al re gli conveniva, prima di dir parola, di adorarlo;
sembrandogli però che questo onore fosse soverchio per un re barbaro, ma non potendo
sottrarsene, si valse del seguente partito. Preso l'anello dal suo dito che anticamente era un
grande distintivo di stima e segno di autorità di chi lo portava, lo gettò vicino ai piedi del re,
dicendo tra se stesso, mentre stava prosteso dinanzi al re: Non a te, ma all'anello”. Se noi altri
in tutte le nostre azioni mirassimo all'eternità, non troveremmo difficoltà in nessuna opera
buona. In tutte le opere nostre fissiamo dunque i nostri occhi nell'eternità che ci si dà in
premio per quello che facciamo in un momento. Benedetto sia Dio per tutta la eternità che ci
darà un premio senza fine per fatiche così brevi, che appena si può dire che abbiano principio.
Si lamentò una volta Euripide, insigne poeta dei Greci, perché in tre giorni interi non poté
comporre che tre versi e con grande fatica. Stava presente un altro poeta, per nome Alcestide,
il quale

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disse che per far cento versi gli bastava un giorno e senza difficoltà. Gli replicò Euripide: “Non
fa meraviglia, perché i tuoi versi non hanno vita che per tre giorni, mentre i miei sono per
l'eternità”.
Nella stessa maniera Zeusi, pittore famoso, ma lentissimo, interrogato perché tanto tardasse a
terminare le sue tele, rispose: “Dipingo adagio perché dipingo per l'eternità". S'ingannò
certamente questi, poiché non vi ha traccia di sua pittura e di Euripide si sono perdute molte
opere, mentre nessuna opera del giusto si perderà.
Per guadagnare un'eternità non c'è bisogno di spendere un giorno, perché con un atto di
contrizione che si fa in un momento guadagnarne il gaudio senza fine. Perciò dobbiamo far
profitto della considerazione di Euripide e di Zeusi, non solamente per fare opere buone, ma
per compierle bene, giacché non operiamo soltanto per questa vita, bensì per l'eternità, che
sempre deve stare nella nostra memoria.
Il profitto che la considerazione dell'eternità produsse nel reale Profeta Davide fu la
risoluzione di cambiare vita, mutandosi in un altro uomo, animandosi alla più esatta
osservanza e alla più alta e celestiale perfezione. Così in quel salmo in cui dice che pensava ai
giorni antichi e agli anni eterni, aggiunge subito l'effetto della sua meditazione, dicendo che
aveva da incominciare di nuovo, perché la mutazione che sperimentò nel suo cuore, era effetto
della potentissima mano di Dio. Considerando che l'eternità non finisce mai e sempre
incomincia e tutto è principio senza fine, si decise di dare tale principio a nuovo fervore e vita
più perfetta, che giammai venisse meno nel suo proposito, volendo in questo imitare
l'eternità. Come questa sempre incomincia, così egli voleva sempre incominciare a meritarla.
Come si ha sempre da incominciare da principio ciò che abbiamo da godere o da soffrire, così
sempre principiamo a

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meritare l'uno e a Subire l'altro. Il riposo non avrà mai fine ed il merito deve sempre essere
come nel suo principio. Di questa considerazione fece molto tesoro Sant'Arsenio, facendo
conto anche dopo moltissimi anni di vita santissima, che allora incominciava, ripetendo il
detto di Davide: Dissi, ora comincio. [Ego dixi, nunc coepi (Ps. 76, 11)] Non dobbiamo voltare
gli occhi a quello in cui ci siamo affaticati, ma animarci a lavorare sempre più per Dio, come
faceva l'Apostolo San Paolo (Ad Philipp. 3) il quale disse di sé che si dimenticava di tutto il
passato ed allargava il suo cuore stendendolo nell'avvenire.
Ciò disse l'Apostolo quando già aveva fatto tanto progresso e dopo aver sostenuto tante fatiche
nel servizio di Dio e per il bene delle anime, più che non tutti gli altri Apostoli insieme,
affrontando tanti pericoli di vita e soffrendo tale persecuzione a Damasco, che, se non si fosse
fatto calare dalle mura, lo avrebbero ucciso; dopo che in Arabia aveva convertito molta gente,
dopo aver convertito molti a Tarso ed Antiochia, dopo esser stato rapito fin al terzo cielo, dopo
esser stato scelto dallo Spirito Santo per Apostolo ed aver fatto grandi miracoli e grandi
prodigi, dopo aver perlustrato più volte l'Asia Minore, tutta fa Grecia e la miglior parte
dell'Europa, dopo aver fatto grandi elemosine, raccogliendole con gran fatica sua e portandole
ai poveri di Gerusalemme, dopo aver patito innumerevoli persecuzioni ed essere stato
depredato molte volte, dopo essere stato flagellato e fatto prigioniero più volte, dopo aver reso
infiniti servizi alla Chiesa; dopo tutto questo gli sembrava di non aver fatto nulla per Cristo. Di
tutto dimenticandosi, si comportava come il primo giorno della sua conversione ed era deciso
di far di più, di soffrire di più, di faticare maggiormente e di cominciare di nuovo,

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ritenendosi dopo tante fatiche e tanti servizi per servo inutile, come ci consigliò Cristo quando
disse: Dopo di aver fatto tutto quello che vi ho comandato, dite: Siamo servi mutili, abbiamo
fatto ciò che dovevamo fare (Lc 17, 10). Paragoni uno i suoi lavori, il suo zelo, la sua
predicazione, la sua carità con quelli dell'Apostolo, e troverà di non aver neppure cominciato.
Infatti, se l'Apostolo, dopo di essere giunto a meriti così sublimi, si dimenticò di essi e giudicò
di non aver fatto nulla, noi che non ancora abbiamo incominciato, perché abbiamo da
stancarci prima d'incominciare? Cominciamo sempre di nuovo, giacché l'eternità che ci
aspetta è sempre nuova e sempre sull’incominciare [Non gloriemur in meritis vitae prioria,
nec aliquid aestimemus nosmetipsos, sed quotidie tam recenter tamque frequenter agamus,
ac si eodem die primum inchoaremus, atque morituri essemus (DIONYS. CARTH., in Ps. 76)].

CAPITOLO NONO.

L'eternità è senza mutazione

Le mutazioni del mondo.


L'altra condizione dell'eternità è il perseverare senza mutazione, il che gli antichi ci davano ad
intendere con dei simboli misteriosi. Alcuni la simboleggiavano in un seggio, conformandosi
ad Isaia, il quale vide il Signore seduto su d'un trono molto sublime, rappresentando in tal
guisa la grandezza della eternità.
San Giovanni nell'Apocalisse descrive più volte il trono di Dio, abbozzandoci con questo la sua
durata. Più chiaramente il profeta Daniele, quando

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si rappresenta Dio eterno, chiamandolo l'antico dei giorni lo vede coi capelli bianchi e seduto.
Per la stessa considerazione i Nasamoni, popolo dell'Africa, quando qualcuno doveva morire,
lo mettevano a sedere, perché così seduto spirasse, volendo significare con questa positura del
corpo lo stato nel quale entra l'anima, cioè quello dell'eternità, e sotterravano i morti seduti,
facendo così intendere che il riposo non si ha da cercare in questa vita, ma solo dopo la morte,
quando entriamo per la porta dell'eternità.
Non è questa vita destinata al riposo, né dobbiamo in essa fermarci. Le miserie che in essa si
trovano danno abbastanza a conoscere che Dio non l'ha fatta perché mettiamo in essa il cuore,
ma essa è in esilio e vi dobbiamo camminare a lunghi passi verso il monte dell'eternità. Vita
così miserabile mostra bene da se stessa che ce n'è un'altra, perché qui invano si cerca la
quiete. Nel cielo finiranno tutte le nostre miserie: ivi si asciugheranno le lacrime di questa
valle; ivi troveranno conforto i nostri affanni; ivi si trova il centro dove cessa l'inquietudine del
nostro cuore. Non si dà modo di vita, né sorte di stato, né condizione di uomo, né grandezza di
dignità, né abbondanza di ricchezza, né felicità di fortuna che abbia dato riposo in questo
mondo. Per questo i Romani, quando innalzavano a qualche imperatore defunto una statua,
non lo mettevano seduto, volendo così significare che tutta la felicità ch'egli godeva nel mondo
non aveva potuto dare alla sua vita vera pace, perché l'uomo nacque per la fatica, come disse
Giobbe. Fino alla morte non si potrà trovare riposo, né noi vogliamo cercarlo, anzi poniamo il
trono del nostro gaudio in parte ferma e stabile, cioè nell'eternità, non nell'inquietudine delle
cose temporali, perché per lo meno la morte lo getterà a terra.
Altri dipingevano l'eternità in figure di serpenti per denotare questa medesima condizione

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di immutabilità. Questo animale non ha piedi, i quali sono le estremità degli animali, alla
stessa guisa che l'eternità difetta di estremità e termine. Inoltre i serpenti, benché siano privi
di piedi, di ali, di squame e di ogni altro organo estrinseco naturale, come li hanno gli altri
animali, si muovono nondimeno leggerissimamente e vincono nella corsa gli altri animali che
pure ne sono provvisti. Tutto questo lo devono alla loro vivacità. Così l'eternità, sebbene senza
giorni, senza notti, senza vicende, che sono in certo qual modo i suoi piedi, vince ogni tempo.
In più i serpenti hanno tale vivacità e vita così lunga che, dice Filone Biblio, se non sono uccisi
non muoiono, sì da aver raramente morte naturale, perché non hanno la mutazione degli altri
animali, dalla gioventù alla vecchiaia, dalla salute alla malattia sapendo sempre conservare la
propria giovinezza, rinnovandosi di frequente con lasciare la scorza vecchia.
Oltre a ciò i serpenti non hanno, come gli altri animali, un termine fisso della loro grandezza,
ma sempre vanno crescendo più e più, come l'eternità, la quale non ha alcun termine, né
declinazione, né alterazione. Questa circostanza dell'eternità è molto terribile ai rei i quali
dovranno dimorare nei tormenti, senza aver sollievo di mutare un tormento nell'altro, né
potersi voltare all'altro Iato. San Paolino disse di San Martino che il suo riposo consisteva in
cambiare fatica. Ed invero, sebbene non si cessi dal faticare, il cambiare una fatica nell'altra,
anche se non è minore, è un sollievo. Tale sollievo non avranno i dannati, né sarà loro
permesso di mutare di lato.
Cosa spaventevole è questa: dopo che cadde nell'inferno il primo uomo dannato, sono già
trascorsi più di cinquemila anni, senza che a lui una sola mutazione abbia fino ad ora arrecato
alcun sollievo. Eppure quante mutazioni si ebbero in questo mondo d'allora ad oggi! Mentre
quel

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miserabile è rimasto senza mutarsi nelle sue atrocissime pene, sono passate nel mondo
alterazioni grandissime.
Una volta fu tutto distrutto col diluvio, non restando vive che otto persone. Di poi lungo
tempo tiranneggiarono il mondo gli Assiri, facendosi monarchi di tutto. Passò poi ai
Babilonesi l'impero, cosicché in 1240 anni si succedettero trentasei re nel governo. Dipoi si
trasferì tutta la potenza della monarchia ai Medi con lo scompiglio di tutta l'Asia. Dopo
trecento anni passò ai Persiani; da questi ai Greci, andando il mondo un'altra volta sottosopra.
Quindi passò ai Romani che fu una mutazione maggiore di tutte le altre già passate. Ma anche
la monarchia dei Romani ha avuto la sua fine. Durante tutte queste rivoluzioni e mutazioni del
mondo quel miserabile dannato non ne ha provato veruna.
Inoltre che alterazione non ha patita la natura in questo corso di tempo? Quante isole non ha
inghiottito il mare? Dice Platone di una di esse, sommersa nelle acque, che era maggiore
dell'Africa e dell'Europa. Altre il mare ne ha balzato fuori. I terremoti che edifici hanno
lasciato sicuri, o per meglio dire, che monti? Quante città si sono sprofondate! Quanti fiumi si
sono asciugati o per differenti letti sviati! Quante torri non sono cadute, e mura non si sono
disfatte, e memorie non sì sono disperse! Quante cose non hanno mutato aspetto, quante volte
ha girato l'anno e quanti regni potenti non si sono rivoluzionati! Quante primavere e quanti
autunni sono passati! Quante notti, quanti giorni! E il povero dannato sta ancora in quella
notte oscura come il primo giorno! Mentre il sole ha roteato attorno a lui milioni di volte, il
povero dannato non si è mutato neppure una volta e non ha fatto neppure un passo fuori del
luogo dov'è caduto.
Quante fatiche non hanno compiuto fino a

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questo punto innumerevoli uomini, già trapassati! Quante infermità hanno patito, quanti
tormenti hanno sofferti, quanti dolori hanno provati? Tutti questi sono già dimenticati, ma
nessun dolore, nessun tormento di quel miserabile ha potuto passare in cinquemila anni e
neppure s'è in alcun modo alterato. Tolomeo urlava per la sua gotta, Aristarco era molestato
dalla sua idropisia, Cambise pativa della sua sincope, Teopompo era afflitto per la sua etisia,
Tobia per la sua cecità e il santo Giobbe soffriva la lebbra. Tutte queste infermità però ebbero
fine; ma non l'hanno e non l'avranno giammai tutti i mali di quel miserabile.
Gli abitanti di Rabath furono segati per mezzo, altri arsi vivi nelle fornaci, altri fatti a pezzi;
ma tali tormenti già non sono più; Anassarco fu stritolato in un mortaio, ma già è passato quel
dolore; Perillo fu arrostito in un bue di bronzo, ma già è passata quella pena terribile; quel
povero miserabile invece non ha cessato e neppur ha cominciato a passare attraverso a quegli
orribili tormenti. Da qui a centomila anni questi saranno tanto vivi come al principio. Che
disperazione sarà la sua, vedendo tanta mutazione nelle cose e nessuna nelle sue pene e nei
suoi tormenti! Se gli stessi diletti di questa vita non variassero, si convertirebbero in tante
pene, e come si soffriranno tante pene senza mutazione? Che dispetto sarà per lui vedere che
le fiamme di San Lorenzo, le flagellazioni di San Clemente d'Andrà, la croce di Sant'Andrea, i
digiuni di Sant'Ilarione, il cilicio di San Simeone Stilita, le discipline di San Domenico, tutte le
torture dei Martiri e le penitenze dei Confessori già sono passati e si sono cambiati nei gaudi
eterni, mentre le sue pene non passano, non si mutano, né c'è speranza che finiscano in
eterno. Questi sono mali da temersi, non i temporali, che si cambiano e sono di sollievo e
finiscono, se non in vita, certamente almeno con la morte.

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Speranza e disperazione.

Non dispera l'infermo nella sua malattia, né il povero nella sua necessità, né l'afflitto nella sua
tribolazione, perché i mali di questa vita mutano col tempo, o si alleggeriscono con le
consolazioni, o finiscono con la morte. I poveri dannati invece non possono consolarsi
neppure con la speranza della morte. Se fra tanta moltitudine di pene acerbissime vi fosse
alcuna speranza della loro fine, sarebbe questo già un gran sollievo. Ma non è così, perché da
ogni parte sono chiuse le porte della consolazione. La speranza è quella che rende ingannevoli
i mali e toglie gran parte della loro pena e non v'è fatica che con essa non sia tollerabile. I più
afflitti respirano al solo pensare alla fine delle loro miserie o al cambiamento dei loro mali;
però quale sollievo può avere un dannato, mentre il suo miserabile stato non avrà mai fine, né
saranno i suoi dolori modificati un solo momento?
Avrebbe gran consolazione, se potesse sperare che dopo mille anni gli sarebbe data quella
goccia di acqua che domandò il ricco Epulone. Che dico da qui a mille anni? No, da qui a
centomila anni, da qui a mille volte centomila anni, come se gli dessero un termine
determinato ed aprissero la porta ad una leggera speranza. Se tutto lo spazio occupato dalla
terra e coperto dall'acqua e pieno dell'aria e per cui si estendono tutti i cieli, fosse zeppo di
grani di frumento e dicessero ad un dannato che, quando un uccelletto, che ogni centomila
milioni di anni viene a pigliare un solo granellino, avrà mangiato tutto e porterà via l'ultimo
granello, gli sarebbe data la goccia che il ricco Epulone domandò a Lazzaro, si consolerebbe
nel vedere tanto diminuito il rigore della sua pena per questa sola mutazione. Però non l'avrà
e dopo tanti milioni di migliaia di anni sarà ancora come al principio, tanto crucciato, tanto
rabbioso e senza consolazione come sempre. È questo che spezza il cuore al dannato:

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il vedersi senza rimedio ed impossibilitato a far ciò che prima gli sarebbe stato tanto facile;
poiché con alcune briciole di pane che cadevano dalla mensa, avrebbe quel ricco potuto
procacciarsi i gaudi eterni, mentre adesso gli è impossibile aver il sollievo di una goccia di
acqua. Qual rancore avranno contro se stessi i dannati, ricordandosi che col privarsi di un
gusto momentaneo avrebbero potuto sfuggire ai tormenti eterni! Quanta rabbia sentiranno
nel cuore, considerando che avrebbero potuto aver sì facilmente un rimedio ed ora penano
senza rimedio alcuno!
Apra dunque gli occhi il cristiano e voglia rimediare adesso mentre può, a ciò che non potrà,
quando vorrà. Adesso è il tempo del perdono, ora è il tempo della salvezza. [Ecce nunc tempus
acceptabile, ecce nunc dies salutis (2Cor., 6, 2)] Che altro ci significano quelle fiamme della
fornace di Babilonia, delle quali dice la Sacra Scrittura che salirono 49 cubiti in alto? (Dan., 3,
47) Perché non dice 50? E chi arrivò a misurare tanto esattamente questa fiamma che con
tanta velocità saliva nell'aria, da poter discernere che la sua altezza era di 49 cubiti e non di
50? Ecco il mistero. Il numero 50 era numero di giubileo e significava indulgenza e perdono;
ma le fiamme dell'inferno, simboleggiate da quella fornace, per quanto eccedano i tormenti di
questa vita, non raggiungeranno mai il giubileo e la remissione della pena per milioni di secoli
che possano durare. Adesso sì che è tempo di perdono ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni
ora ed ogni momento.
Dei giorni interi e delle settimane intere che perdono gli uomini in questa vita, quanto
darebbe un dannato per aver un solo quarto d'ora di tempo per poter fare penitenza! Non
siamo prodighi di cosa tanto preziosa e non perdiamo tempo, col

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rischio di cadere nell'inferno e perdere la gloria eterna. Il tempo di questa vita è tanto prezioso
che poté scrivere San Bernardo: Il tempo vale quanto Dio, perché con esso si guadagna Dio.
Non scialacquiamo cosa di tanto valore, anzi godiamo di poter così a buon mercato
guadagnare con il tempo l'eternità. Onoriamo in tal guisa In stesso Dio, Signore dell'eternità,
compiendo ciò che disse l'Ecclesiastico: C'è chi con poco prezzo redime molte cose (Eccl., 20,
12). Sopra le quali parole San Goffredo scrive: Se ti si deve un'amarezza eterna e tu puoi
sfuggire ad essa con soffrire una pena temporale, senza dubbio hai acquistato grandi cose
con poco prezzo. Anche nei beni eterni è una grande consolazione il fatto che essi non hanno
mutazione e che non solo non hanno da finire, ma neppure possono diminuire.
Consumandosi e mutandosi tutti i beni temporali, essi permangono sempre nel medesimo
stato.
Confronti il cristiano la brevità e la mutazione dei beni di questa vita con la immutabilità ed
eterna durata dei gaudi dell'altra vita. Rifletta sulla differenza che esiste tra queste due parole:
"Ora e sempre”. I malvagi dicono: “Godiamo adesso”. I saggi e virtuosi dicono: “E' meglio non
divertirci adesso, per godere sempre i beni eterni". I mondani dicono: “Viviamo regalmente
ora”. I servi di Cristo dicono: “Moriamo adesso alla carne, per vivere allo spirito per tutta
l'eternità”. I peccatori dicono: “Ingolfiamoci adesso nei piaceri del mondo”. I timorati di Dio
dicono: “Fuggiamo il mondo instabile, per godere poi sempre il cielo”. Si pensi chi è più
saggio, se chi mira a ciò che dura il momento dell'“adesso”, o chi attende all'eternità che dura
sempre; se chi vuole patire senza profitto pur tutta l'eternità o chi vuole patire ora per poco
tempo col gran lucro del regno dei cieli. Oh vita miserabile ed inconsolabile dei

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dannati, vita i cui tormenti non avranno mai fine, né mutazione i suoi dolori, né profitto le sue
pene! Tre cose solamente consolano le fatiche in questa vita: che avranno fine, o che
cambiandosi s'alleggeriranno, o saranno ricompensate con un premio. Tremenda cosa sarà
dover patire per tutta l'eternità senza utilità alcuna, per non aver voluto patire un momento di
tempo, quando lo si poteva, per la gloria di Dio e per guadagnare il regno dei cieli.

CAPITOLO DECIMO.

L'eternità è senza confronto.

Dal detto fin qui si ricava la terza qualità dell'eternità ed è non aver essa alcun paragone.
Come non si dà paragone alcuno tra il finito e l'infinito, così neppure tra il tempo e l'eternità;
come è tanto lontano dalla grandezza di Dio un granello di arena, quanto il monte Olimpo,
così tanto sono distanti dalla eternità mille anni, quanto un batter d'occhio. Per ciò disse
Boezio che somiglia più un momento a diecimila anni che non diecimila anni all'eternità.
Non v'è accrescimento che ci dichiari la grandezza dell'eterno, né esagerazione che ci spieghi
la meschinità del temporale o la brevità del tempo. Per questo, Davide, pensando al tempo che
era passato dalla creazione, chiamò giorni i secoli che erano passati fino al suo tempo,
dicendo: Ripensai ai giorni antichi (Sal.76, 6). E non ha esagerato chiamando giorni i secoli,
giacché in altra parte aveva detto, che mille anni dinanzi a Dio erano come un giorno passato
ieri, sicut dies hesterna. Ancora più vivamente significò la stessa cosa San Giovanni, quando
chiamò ora miti gli anni che dovevano

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ancora trascorrere dal suo tempo fino alla fine del mondo. Per la stessa ragione il profeta
Daniele, volendo illustrare la gloria di cui godranno gli uomini apostolici, dice che
risplenderanno come stelle nelle perpetue eternità [In perpetuas aeternitates (Dan., 12, 3)].
Gli sembrava non bastasse il numero singolare per spiegare ciò che è l'eternità, per cui disse in
plurale “aeternitates”, aggiungendo ancora l'aggettivo “perpetuas”. Per quanto però si voglia
spiegare l'eternità, non la si potrà mai spiegare. Si facciano tutte lingue i Profeti e la chiamino
eternità delle eternità, la chiamino molti giorni, la chiamino secoli dei secoli, la chiamino
eternità e più ancora; tutto resta insufficiente per spiegare la sua eterna durata. Per cui disse
Elia che il numero degli anni di Dio era inestimabile, perché, per quanti anni si vogliano o si
possano immaginare, essi non si possono paragonare con la sola eternità. Più facilmente
avrebbe proporzione un minuto con centomila anni che non questi con l'eternità. Si potrà
bensì paragonare un quarto d'ora con centomila milioni di anni, ma questi non avranno mai
confronto alcuno con l'eternità dinanzi alla quale ogni tempo svanisce. In confronto con
questa non è più grande un tempo di milioni di anni che quello di un minuto; rispetto
all'eternità tutto è uguale, o per dir meglio, tutto è niente, tutto sparisce. Disse perciò
l'Ecclesiaste queste parole molto a proposito: Se l'uomo avesse vissuto molti anni ed avesse
goduto in essi molti piaceri, si ricordi poi del tempo tenebroso e dei molti giorni (così chiama
l'eternità), venendo i quali, tutto il passato si troverà essere vanità (Eccl., 11, 8) perché allora
tutto sparirà.

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La pietra di paragone
Se Caino avesse vissuto e goduto tutta la felicità del mondo fino al giorno presente ed in
questo punto morisse, che cosa gli rimarrebbe? Che cosa gli resterebbe ancora dei suoi giorni?
Certamente niente più che il ricordo di suo fratello Abele, del quale egli fu omicida, già più di
cinquemilacinquecento anni fa. Questi anni ugualmente gli sarebbero venuti meno. E che cosa
avrebbe ancora dei suoi piaceri? Non altro che il dover scontare di più nel tempo tenebroso,
nei molti giorni dell'eternità, conforme a quanto dice l'Ecclesiastico: Il male di un'ora fa
dimenticare dei grandi piaceri (Eccl. 11, 29). Nel momento in cui finisce l'uomo, questi sarà
spogliato di tutto quello che avrà fatto, per assecondare il suo appetito ed i suoi gusti. Ora se
col male di un'ora i diletti di molti anni si dimenticano, come non si dileguerà il diletto di un
momento che ti ha precipitato nell'inferno? Se l'istante della morte di questo miserabile corpo
spoglia uno di ogni godimento, l'eternità della morte dell'anima che farà? come lo spoglierà?
Che cosa ebbe Eliogabalo nel punto di morte dei suoi passatempi e piaceri? Nulla. Ed ora,
dopo essere stato già per tanto tempo sepolto nell'inferno, che avrà? Tormenti sopra tormenti,
dolori sopra dolori, pene sopra pene e mali sopra mali ed un continuo lamento per tutta
l'eternità.
Gli uomini nel punto della loro morte sono tutti uguali, in ordine alle cose della loro vita;
tanto chi visse molto, quanto chi visse poco: chi si divertì molto e chi si divertì poco; chi passò
per grandi diletti e chi per grandi affanni, perché qui tutto è finito. Già l'uno non sente più le
gioie, né l'altro le pene. Nel momento in cui morì San

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Romualdo, dopo cento anni di vita penosissima, che cosa gli rimase dei suoi rigori? E
morendo il grande penitente Simeone Stilita, dopo ottant'anni di prodigiosa penitenza, che ne
sentì egli ancora? Che cosa gli rimase ancora della pena del cilizio ch'egli per sì lungo tempo
non levò mai, né di giorno, né di notte? Che cosa ebbe ancora dei suoi lunghi digiuni e delle
sue orazioni così incessantemente continuate? Certamente non ebbe più pena o affanno che se
avesse consumalo tutti i suoi anni in morbide delicatezze. Non ebbe più né dolore, né pena,
ma ricevette un gaudio eterno. Che ebbe ancora San Clemente d'Ancira delle pene che per
ventotto anni soffrì dai suoi crudelissimi tiranni? Certamente non più di dolore che se avesse
in essi goduto tutte le dolcezze terrene; ma ottenne un'eternità di gloria.
Se il male di un'ora fa dimenticare i piaceri di cento anni, molto più il gaudio e la felicità di
una eternità faranno dimenticare i dolori di ventotto anni. Oh prodigioso momento della
morte, con cui finisce lutto ciò che è temporale e passeggero e principia ciò che è eterno! Esso
impone fine ai piaceri dei peccatori e da inizio ai tormenti che non finiranno mai più; esso
impone fine alle pene e alle asprezze dei Santi e incomincia i gaudi eterni.
Veda dunque il cristiano ciò che sceglie. Ugualmente hanno da finire i piaceri con cui pecca e
le pene con le quali si soddisfa; ugualmente durano i tormenti che derivano dall'aver peccato
ed i gaudi provenienti dal merito. Scelga ciò che meglio gli starà; veda se sia meglio per lui
procacciarsi un pascolo eterno di gloria con un affanno leggero e momentaneo di penitenza,
perché quantunque durasse cento anni, sarebbe sempre, rispetto all'eternità, un momenti).
Nessun penitente si atterrisca per una vita lunga, perché nessuna vita è lunga rispetto
all'eternità. Disse bene

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Sant'Agostino: Ogni cosa che ha fine, è breve [Omnis res, quae finem habet, brevis est (In Ps.
45)]. Fine avranno mille anni, fine avranno centomila anni e fine avranno cento milioni di
anni. Così ogni tempo che sembra immenso è breve e rispetto all'eternità non più che un
istante. Della stessa maniera si ha da guardare a centomila anni come ad un'ora. Non si ha da
desiderare la vita lunga più che la vita breve, perché rispetto all'eternità è tutto uguale.
Siccome un corpo solido non ha maggior peso o volume, se è limitato da poche o da molte
superfici, perché queste per quanto numerose nulla gli aggiungono; così parimenti rispetto
all'eternità, un anno non è meno di centomila anni, né centomila sono più che un anno. Tutto
il tempo, benché sia di milioni di secoli, dev'essere ritenuto come un istante e tutto il
temporale, come una superficie o apparenza, non come cosa solida o di sostanza. Tutti i tempi,
con tutti i beni che in essi si trovano, non potranno fare un bene solo dell'incomprensibile
eternità.
Se tutta la terra si dice un punto rispetto al cielo, il quale è di grandezza finita e limitata, che
meraviglia che tutto il tempo sia come un istante rispetto all'eternità che è infinita? Dalla terra
al cielo ed anche tra un granello di arena ed il più alto dei cieli vi è proporzione, e ciò
nondimeno non è neppure un punto in suo paragone. Tra centomila anni però e l'eternità non
v'è proporzione e saranno quindi meno di un istante.
Oh cecità degli uomini, che fanno tanto conto del tempo, per procacciarsi diletti in vita e
memoria in morte, fama ed applausi in vita ed in morte! Perché? Per un momento? Per un
istante? Per godere nella vita che domani finirà? Per lasciare memoria vana e caduca dopo la
morte? Forse fino alla fine del mondo, la quale non tarderà

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molti anni? Che anche tardasse milioni di secoli, sarebbe sempre breve, dovendo finire. Tutto
è come un momento rispetto all'eternità.

Orizzonti senza confine.

Come la immensità di Dio è rispetto al luogo, così è l'eternità rispetto al tempo. Come rispetto
all'immensità di Dio tutto il mare non è più che una goccia di acqua e l'atomo dell'aria non è
meno che tutto il mondo, così rispetto all’eternità centomila secoli non sono più che un
istante. Se Dio ti desse solo un quarto d'ora di vita e tu sapessi, che dopo la tua morte, il
mondo entro un'ora dovesse finire, spenderesti quel tempo in procurarti fama dopo la tua
vita? Certamente non ti preoccuperesti d'altro che di prepararti alla morte e non ti
importerebbe nome vano e grande memoria di te. Sappi dunque che devi far lo stesso ora,
sebbene tu fossi certo di poter vivere cento anni e che il mondo non finisse prima di centomila
anni. Tutto ciò che ha fine è breve e tutto il tempo, rispetto all'eternità, è un'ora, un momento.
Disse S. Giovanni che al suo tempo il mondo era già arrivato all'ultima ora, benché
mancassero tanti anni, perché tutti questi anni non sono più che un'ora rispetto all'eternità.
Come tu non ti preoccuperesti di lasciare nome di te nel mondo, se mancasse soltanto un'ora
fino al suo termine, così non vi devi pensare ora, anche se vi mancano ancora molti secoli.
Se tu sapessi di dover vivere cent'anni ancora, ma non avessi che un'ora di tempo per estrarre
dal tesoro di un gran re il necessario nutrimento di tutta la vita, andresti forse a consumare
quell'ora baloccando o passeggiando, o ti intratterresti in vana conversazione o andresti a
cercare divertimenti? Certamente non smetteresti di lavorare e di farti premura a caricare
quei tesori. Ed allora, come ti trascuri, sapendo che la tua

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anima ha da vivere per un'eternità e non avrà se non quello che in questa vita avrai
guadagnato e meritato? Guarda il poco tempo che ti fu dato per guadagnarti l'eternità. Come
vivi senza pensiero? Come te ne vai passeggiando? Come puoi badare ai passatempi, come
puoi ridere, come non piangi e non fai a brani le tue carni con la penitenza e col rigore di vita?
Più è un'ora rispetto a cento e centomila anni che non centomila anni rispetto all'eternità. Se
in quell'ora, che ti sembra poco tempo, non riesci a tesoreggiare, come riuscirai a meritare
un'eternità nel tempo di questa vita, anche se fosse di cento anni, giacché è sempre un
momento rispetto all'eternità?
Pensa che cosa sono cento anni rispetto ad un milione di anni, e poi guarda che cosa sono
rispetto all'eternità. Se per cento anni di tormenti te ne dessero un milione di piaceri, ciò ti
verrebbe molto a buon mercato, giacché daresti diecimila volte meno di quello che ricevi; ma
non per cento anni ma per un'ora di mortificazione di un piacere Dio ti promette un'eternità
di gloria. Considera bene quanto meno dai di quello che ricevi, perché se una vita lunga di
fatiche fosse, rispetto ad un milione di anni, diecimila volte di meno, che sarà in confronto
all'eternità, rispetto alla quale milioni di secoli non sono neppure un istante?
Vedi quanto è breve lo spazio di questa vita per tesoreggiare quella eterna. Con ragione disse
Sant'Agostino: Per un riposo eterno sarebbe da sostenersi una fatica eterna; chi riceverà una
felicità eterna dovrebbe soffrire patimenti eterni (In Ps. 39). Infatti come ti può sembrare
lungo il tempo breve di questa vita? Non dubito che non v'è giusto nel cielo, né peccatore
nell'inferno che, tutte le volte che diriga gli occhi nell'eternità, non si meravigli e non

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stupisca che una cosa tanto breve com'è questa vita, sia la chiave del bene o del male eterno.
Considera quanto a buon mercato ti si dà l'eternità di gloria. Pesa mille anni in confronto
dell'eternità, pesa diecimila, pesa centomila, non fai nulla, tutto è fumo e paglia, perché non
v'è confronto ira l'infinito ed il finito, né tra il vivo ed il dipinto.
Disse Plotino che il tempo è immagine dell'eternità. e Davide che l'uomo si passa in immagine,
cioè nel tempo. Lo stesso che si dice del tempo si può dire di ciò che corre nel tempo. I mali ed
i beni temporali sono dipinti in confronto a quelli dell'eternità. Vedi ora quanto a buon
mercato si dà una gloria senza fine per una fatica tanto breve, una beatitudine vera per un
affanno dipinto, e tu vorresti disprezzarla per un piacere finto e momentaneo! Disse Salomone
che la Sapienza nella mano destra teneva l'eternità, nella sinistra le ricchezze e la gloria, per
significare che con più premura si deve cercare l'eterno che il temporale, che si deve preferire
la virtù alla ricchezza e agli onori, perché, come la mano destra ha più forza della sinistra, così
dobbiamo cercare e conservare l'eterno con tutte le nostre forze, non invece il temporale;
giacché anche i beni più grandi di questo mondo, anche la maggiore gloria di esso, non
essendo eterni, a che giovano?
Avendo fine le cose di questo mondo, si affondano nell'abisso del niente, come se non fossero
mai state. Non dico soltanto i piaceri della vita, ma anzi la vita stessa, la quale che cosa e altro
se non un'ombra di esistenza? Considera anzi un piacere goduto; questo per un'eternità non
fu piacere tuo, e, dopo che tu ne sia privo, vi sarà altra eternità in cui non sarà tuo; questo
equivale a non averlo mai avuto. Tutto ha principio e fine, fuorché l'eternità; tutto si affonda e
viene assorbito, come se non fosse mai stato. Così lutto ciò che è temporale non sarà di utilità
alcuna, se non ne caverai da esso alcun frutto eterno che dura.

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CAPITOLO UNDECIMO.

Che cosa sia il tempo secondo Aristotele ed altri filosofi.

Quantunque da tutto ciò che si è detto fin qui si possa raccogliere ciò che sia il tempo e la vita
temporale; ciò nondimeno lo considereremo ora più particolarmente, dopo di aver trattato
dell'eternità, per formarci un concetto vivo della meschinità delle cose temporali e della
grandezza di quelle eterne, Aristotele definisce il tempo chiamandolo misura del moto. Dove
non v'è mutazione, né successione, non v'è tempo.

Il tempo è velocissimo.

Spiega ciò più chiaramente Eleusippo, aggiungendo che il tempo è la misura del corso del sole.
Proclo disse che era il numero delle corse e delle rivoluzioni dei corpi celesti. I Pitagorici
dissero che il tempo è l'ultima sfera, onde le altre vengano raggirate, cioè l'ultimo cielo, il cui
movimento è sopra ogni altro rapidissimo e leggero. Secondo la qual opinione anche
Sant'Alberto Magno (S. ALBERTO MAGNO, in III Phys.. tract. II, cap. 3) disse che il tempo è
misura del moto del primo movibile, di maniera che il tempo è un accidente di cosa tanto
incostante quanto il moto. Onde Avicenna: Il tempo è cosa più tenue che il moto.
Considera dunque quanto hai da fidarti della vita umana, giacché essa è parte di cosa tanto
incostante, debole e veloce, che corre a passo col sole, colle stelle del firmamento, le quali
eccedono non solo gli uccelli velocissimi, ma il vento stesso. Sappi che la morte non viene
dietro di te con piedi

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di piombo; essa porta ali e volando ti viene a cercare con tanta celerità che non si può
immaginare maggiore. Non solo eccede gli uccelli dell'aria, ma non v'è proiettile d'artiglieria
che con furia più grande si muova di quello che essa corre per raggiungerti.
Considera le cose più veloci che tu conosci e pensa che tutte si muovono a passi di tartaruga in
confronto della morte. Rapidissimamente si scaglia un falco sulla pernice; però più lenta è la
sua velocità in confronto del tempo e della morte, che viene come un cavaliere per far preda di
te; ma più velocemente di un uccello va la saetta tirata dal cacciatore, che in mezzo all'aria
uccide il falco; ma lenta sempre è la saetta più veloce in confronto di quella che ha scoccato la
morte dal punto in cui nascesti.
Che cosa si può immaginare più veloce di un fulmine che cade dal cielo? Ciò nondimeno il suo
moto è ancor lento in confronto della velocità con cui corre la morte, perché va al pari del
movimento delle stelle del firmamento che più velocemente si muovono e la cui velocità è
tanto prodigiosa che percorrono in un giorno più di 1017 milioni di leghe e in un'ora più di
quarantadue milioni di leghe, secondo il computo del P. Clavio. Con questo passo viene la
morte dietro di te; come non temi? Viene più agile di un'aquila, più veloce che un fulmine, con
tale velocità che perfino il pensiero non la raggiunge; come non temi? Già è teso l'arco, già è
scoccata la saetta e già viene verso di te; come non abbassi neppure il capo e ti umili e ti
riconosci? Se tu sapessi che con un tiro di artiglieria ti vogliono colpire e tu non puoi fuggire, e
non sai che fare; se sentissi il comando di sparo, che sarebbe di te? Moriresti di solo spavento.
Sappi dunque che molto più precipitosamente e già avvenuta la saetta della morte e non v'è
quarto d'ora in cui non
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corra dieci milioni di leghe per raggiungerti e non sai da dove sia partita, né dove ora sia: se
anche fosse molto lontana da te, essa corre con tanta lestezza che non può che colpirti molto
presto. E non sapendo quando arriva devi starla aspettando ogni momento, perché ad ogni
momento ti può colpire.

Il tempo è misura del moto.

Oltre la velocità devesi considerare del tempo quella qualità che notò Aristotele, dell'essere
misura del moto, in quanto ha un prima ed un poi, cioè in quanto con continua successione
una parte viene dopo l'altra, la quale circostanza, come avverte Averroè, è pure essenziale nel
tempo. Esso non può dare unite le cose, ma solo l'una dopo l'altra, cosicché non giungono le
seconde quando non siano passate le prime, morendo ogni momento le prime, perché
vengano le seconde.
I beni, dei quali può godere la vita nell'infanzia, si devono lasciare, quando vengono gli anni
della gioventù, questi quando vengono quelli della vecchiaia. L'ingenuità, la sicurezza e
l'innocenza dei bambini si perdono con la gioventù; le forze e il vigore della gioventù già non
stanno più con la vecchiaia, di maniera che non v'è tempo in cui sia dato tutto, innocenza,
vigore e prudenza. Bensì, essendo tanto limitati i beni della vita, ce li dà tanto limitatamente,
che la stessa vita c'è data in tante parti alternate ancora con altrettante di morte.
Prima che venga la fanciullezza deve morire l'età della prima infanzia; prima che venga la vita
puerile deve morire l'infanzia: prima che venga la gioventù deve finire l'età puerile; e la stessa
gioventù muore prima che venga lo stato della virilità, la quale pure deve spirare prima che
venga la vecchiaia, e perfino la stessa vecchiaia deve scomparire davanti all'età decrepita. Di
maniera che

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in una stessa vita uno troverà, prima di morire, che è morto già molte volte. E con tutto questo
non siamo ancora riusciti a persuaderci che dobbiamo morire una volta.
Guardiamo dunque alla nostra vita passata e consideriamo che cosa avvenne della nostra
fanciullezza, della nostra puerilità, della gioventù. Già morirono in noi, così nella stessa
maniera moriranno tutte le altre età e vite della nostra vita. Non solamente moriremo nei
tempi principali di essi, ma bensì ogni ora ed ogni momento, con una perpetua successione e
mutazione di cose. Quale contentezza v'ha nella vita che subito non muoia e le succeda un
dispiacere? Quale affetto non da pena, che non gli succeda altra con disinganno uguale o
maggiore? Per una cosa assente uno si rattrista, e se presente se ne infastidisce; ciò che aveva
desiderato lo affanna, posseduto gli dà preoccupazione e perduto gli dà pena.
Il breve lasso di tempo in cui si prova un godimento, non si può gustare tutto insieme, ma
bensì per parte, senza sentire il gusto dei primi istanti quando vengono i secondi, diminuendo
esso ogni istante e morendo noi insieme con esso ogni momento. Non v'è punto nella vita in
cui la morte non guadagni molto terreno. I movimenti del cielo non sono altro che un girare
vertiginoso, in cui si sta sempre avvolgendo il gomitolo della nostra vita; o un cavallo
velocissimo, il cui cavaliere è la morte.
Non v'è momento nella vita in cui la morte non eserciti uguale giurisdizione. Ben disse un
Filosofo, che non v'è momento di tempo, che non lo dividiamo con la morte. Se ben si
considera, non viviamo che un punto, perché non abbiamo della vita che un istante.
Gli anni passati sono già passati e di essi nulla più abbiamo, come se fossimo morti; gli anni
che hanno da venire ancora non li viviamo e nulla

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abbiamo di essi, come se ancora non fossimo nati.


Il giorno di ieri già si dileguò; del domani non sai ancora che cosa sarà; di quel di oggi sono già
passate molte ore che più non vivi e delle altre che ancora mancano e non sai se le vivrai.
Sicché, all'assommare dei conti, tu non vivi che in questo momento ed in questo stesso stai
morendo. Non altro puoi chiamare la vita che metà di un momento, un punto indivisibile
diviso fra la vita e la morte. Con ragione questa vita può chiamarsi, come disse
Zaccaria, ombra della morte, perché all'ombra della vita ci sottentra la morte. Come ad ogni
passo che fa l'uomo, un altro ne fa l'ombra, così ogni passo della vita ha con sé un passo della
morte. Come l'eternità sempre comincia ed è un eterno principio, questa vita sempre finisce e
può chiamarsi una fine perpetua ed una continua morte. Non v'è gioia nella vita, anche se essa
durasse venti anni continui, che si possa godere presente. Perciò neppure dei beni di questa
vita si può godere più che un solo punto, nel quale pur mentre si gode si avvicina la morte.
Il tempo è di così poca entità e sostanza che, come disse Sant'Alberto Magno, non ha
un'esistenza permanente, ma solamente successiva e precipitosa. Questa vita non può
trattenersi nella sua corsa vertiginosa, con cui va a finire nell'eternità, come se fosse un cavallo
a briglia sciolta, che urta con tutto senza potersi fermare. Come non potrebbe guardarsi a
bell'agio un cavallo bizzarro, arricchito di pennacchi e di gioie, che corresse a briglia sciolta ed
a spron battuto; così, non fermandosi mai in un punto le cose di questa vita, nessuna di esse si
può gustare bene: tutte corrono a briglia sciolta, fino a cozzare con la morte e farsi a pezzi.
Questa stessa condizione del tempo è indicata bene dal nome che gli diede l'imperatore e
filosofo

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Marco Aurelio [Aevum fluctus est rapidus (Marco Ant. Aur., lib. IV).]. Come un'ondata
gagliarda ingoia in un momento la nave e non lascia che il navigante goda delle sue merci,
caricate sopra di essa, non altrimenti fa il tempo che con furia rovina e annega tutto. Questo
filosofo considerò tanta brevità nel tempo, che giudicò essere una medesima cosa vivere
lungamente che vivere poco.
Per questo aggiunse una sentenza che voglio riferire qui a nostro disinganno: “Se Dio ti
dicesse di dover morire domani o il giorno seguente e tu ne facessi molto caso per non dover
già morire domani ma il giorno seguente, ciò mostrerebbe che hai un animo dappoco e stolto:
perché qual differenza vi può essere tra l'uno e l'altro giorno, mentre v'è così poca distanza?
Ora della stessa maniera giudica tu, che non devi tenere per gran differenza morire dopo mille
anni o morire domani.
Considera minutamente quanti medici sono morti, i quali, esaminando il polso agli infermi
inarcavano le ciglia; quanti astrologi, i quali si lodarono per aver detto ad altri quando
dovevano morire; quanti filosofi che disputarono lungamente intorno alla morte ed alla
mortalità; quanti generali celeberrimi in guerra che hanno ucciso molti; quanti re e tiranni
che con grande insolenza usavano del loro potere: quante città intere sono, per così dire,
morte; Elice, Pompei e Ercolano e altre innumerevoli. Aggiungi a questi quanti hai conosciuti
ed hai accompagnati nelle loro esequie, i quali sono morti uno dietro all'altro, e quel che ieri fu
un uomo robusto, oggi è verme o cenere: momentaneo è tutto il tempo” (Ibidem). Tutto ciò
disse questo sapiente principe.

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CAPITOLO DODICESIMO,

Quanto sia breve la vita.

Considera ora che cosa è il tempo e che cosa è la tua vita, e se si può dare una cosa più veloce
ed incostante. Confronta l'eternità, che sempre rimane nel suo sfato, col tempo che con tanta
precipitazione corre e si muta. Come l'eternità da una stima infinita alle cose che hanno
rapporto con essa, così il tempo toglie ogni valore alle cose che finiscono con esso. Devi
stimare infinitamente il gaudio più piccolo del cielo, perché durerà infinitamente: devi invece
ritenere per nulla la gioia più grande della terra, perché deve finire e ricadere nel nulla.

La caducità della vita.


Il tormento minore dell'inferno ti dovrebbe cagionare spavento immenso per la sua durata
senza fine; non dovresti invece temere i più grandi dolori di questa vita, giacché hanno da
finire. Quanto l'eternità ingrandisce le cose, tanto il tempo le diminuisce. Se uno fosse anche
padrone di un'infinità di mondi ed avesse ricchezze infinite, dovendole un giorno lasciare e
dovendo egli finire con tutto, non dovrebbe stimarle più che il nulla, giacché hanno da finire
nel nulla. Se tutte le cose temporali hanno questa cattiva proprietà, di essere cioè caduche e
passeggere, con ragione si deve stimare nulla la stessa vita dell'uomo, perché è molto più
fragile e passeggera e poco più del nulla.
Non ha l'uomo cosa più caduca e fragile della sua vita. Le possessioni, le eredità, le ricchezze, i
titoli e le altre cose dell'uomo durano anche dopo la morte dell'uomo, ma non già la sua vita,
la quale è così delicata che un po' di freddo o di

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calore in più la distrugge e un po' di vento che spira o il respiro d'un infermo o una stilla di
tossico, bastano per farla scomparire. Di maniera che, se ben la si consideri, non c'è vetro che
la pareggi. Il vetro, se non sì tocca dura, ma la nostra vita si consuma e finisce senza essere
toccata. Il vetro sollecitamente custodito starà intero per secoli, ma contro il consumarsi della
vita non si trova rimedio.
Tutto questo intese molto bene Davide, il quale fu il più fortunato e più potente principe che
ebbero gli Ebrei, e re di un regno così grande che abbracciava i due regni della Giudea e di
Israele e di quanto promise Dio agli Israeliti, i quali solo nel suo tempo ottennero di
possederlo, ed estese il suo impero a molte altre province con tanta abbondanza di ricchezza
che la sua corte riboccava di oro, lasciando perciò grandi tesori a suo figlio Salomone. Ora
questo principe così fortunato, pensando che tutta la sua grandezza doveva aver fine subito,
ritenne per nulla ogni cosa. Non solo ritenne per vanità i suoi regni e le sue ricchezze, ma la
stessa sua vita; onde disse: Ecco, a corta misura tu hai ridotto i miei giorni; e l'essere mio è
come nulla dinanzi a te [Ecce posuisti mensurabiles dies meos et substantiamea tamquam
nihilum ante te (Ps. 38, 6).]. Tutte le mie rendite, tutti i miei regni, tutti i miei trofei e tutte le
sostanze che io posseggo per essere re sì potente, tutto è nulla. Di poi aggiunse: Sopra tutto è
una vanità universale la vita stessa dell'uomo [Universa vanitas omnis homo vivens (Ps. 38,
6).], cioè tutta la mia vita, perché la vita dell'uomo è la cosa più fragile di quanto l'uomo
possegga. Questa bassa stima e questa vanità hanno le cose, anche se di esse potessimo godere
mille anni. Dovendo però finire tanto presto, e più presto di quello che pensiamo, che conto
possiamo tenere di esse? Oh se ci facessimo un concetto esatto di questo, quanto breve cioè sia
la

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vita, quanto si disprezzerebbero tutti i suoi piaceri! Questa è una cosa tanto importante, che
Dio comandò al più grande dei suoi Profeti di uscire perle vie e le piazze ad esclamare a voce
di tromba quanto sia fragile e breve la nostra vita.
Il profeta Isaia, annunciando il più grande mistero rivelato da Dio, cioè quello
dell'Incarnazione del Verbo eterno, udì tutto ad un tratto una voce del Signore che gli diceva:
Clama. Il Profeta rispose: Che cosa devo gridare e che vuoi che annunci con grida? Dio gli
disse: Ogni carne è fieno e la sua gloria è come un fiore del campo [Omnis caro foenum et
gloria eius sicut flos campi (Is., XL, 6)].
Come il fieno si taglia e secca dalla mattina alla sera ed il fiore in un momento appassisce, così
è la vita di tutta la carne; la sua bellezza e leggiadria passa e marcisce in un giorno.
Sopra questo passo dice San Gerolamo (Comm. in Is., cap. 40): “Chi veramente considerasse
la fragilità della carne e pensasse che in ogni ora cresciamo e decresciamo, e che questo stesso
che stiamo facendo, parlando, dettando, scrivendo, ci passa dinanzi quasi volando dalla nostra
vita, non dubiterebbe di dire che la nostra carne è fieno. Colui che ieri era bambino, in un
momento diventa giovinetto, questi presto si fa uomo e fino alla vecchiaia si va mutando:
prima ancora che si meravigli di non essere più giovane, già sente di essere diventato vecchio”.
Un'altra volta, considerando il medesimo Santo il suo discepolo Nepoziano, (In Epilaphio
Nepotiani) il quale mori nel fiore dell'età, disse: “O miserabile condizione della natura umana!
Vana è tutta la vita umana che spendiamo senza Cristo, tutta la carne è fieno e fior del fieno.
Dov'è ora quel volto bellissimo? Dove sta la dignità di tutto il suo corpo, che come un

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bell'abito rivestiva la bellezza della sua anima? O dolore! Si marci il giglio, ed il color di
porpora si mutò in giallo”.
Di poi aggiunge: "Dobbiamo quindi considerare ciò che saremo un giorno che, volenti o
nolenti, non può essere tanto lontano. Se la nostra vita oltrepassasse novecento anni e ci si
concedesse l'età di Matusalem, tutta la età vissuta non sarebbe nulla, perché dovrebbe finire.
Sarebbe tutta una medesima cosa il vivere dieci anni ed il vivere mille anni, quando è venuta
la fine della vita e la necessità della morte. Senonché il vecchio sarà caricato di un fardello più
pesante di peccati”.
Essendo la brevità e fragilità della vita umana tanto certa. Dio volle che il Profeta annunziasse
questa verità insieme con il mistero più nascosto e più ignorato dalla mente umana, cioè
quello dell'Incarnazione, la cui possibilità non conoscevano neppure i più alti Serafini. E
siccome gli uomini non riescono a persuadersi di questa verità ed a convincersi della brevità
della vita, e, pur vedendo che ad ogni ora si muore, s'illudono che per essi l'ora della morte
abbia a giungere mai, e, pur sentendone parlare ogni giorno, questa verità e per loro come un
mistero nascosto che non riescono ad intendere, così volle Iddio che il profeta Isaia ce lo
annunziasse ad alte grida, come cosa nuova e di grande importanza, perché penetrasse bene
nel cuore degli uomini. Ascoltiamo dunque Dio che ci rivela questa verità: Tutta la carne è
fieno, ogni vita è breve, tutto il tempo vola, ogni vita scompare ed una grande moltitudine di
anni è come un nulla.
Apprendi parimenti quanto ciò sia vero da quello che giudicano della vita gli uomini più
sperimentati nel vivere. Ti prometti tu forse cento anni di vita e credi che sia lunga? Ora
ascolta il santo Giobbe che visse 248 anni e poté essere ottimo giudice di ciò che sia il vivere,
sia nelle prosperità, sia nelle

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avversità, le quali sembrano allungare ancora di più il tempo: Niente, dice, sono i miei giorni
[Nihil enim sunt dies mei (JOB., 7, 16).], cioè quasi tre secoli di vita.
Molte altre volte Giobbe parla della brevità della vita, illustrandola con diverse comparazioni e
metafore. Una volta dice che i suoi giorni sono più veloci di un messaggero, o che passano
come una nave che divora il mare a vele gonfie, o come aquila reale che piomba
precipitosamente sulla preda. In altra parte dice che passano più presto di quel che un
tessitore dia una sforbiciata nella tela; un'altra volta paragona la vita umana con le foglie che
cadono dalle piante o con la paglia secca che viene portata via dal vento. Altra volta dice che la
vita dell'uomo è come un fiore, il quale appena spuntato viene calpestato, oppure che essa
fugge come un'ombra, senza rimanere in un medesimo stato.
Tanto poca cosa è la vita, che Giobbe la qualificò un'ombra, e questo in un tempo quando la
vita era tre o quattro volte più lunga di adesso; e non è meravigliato che uguale giudizio ne
diano quei disgraziati i quali, prima del diluvio, vissero più di novecento anni, ma essendosi
dannati, vanno esclamando, fra i loro tormenti: Che ci ha giovalo la superbia? E la ricchezza
con la boria che bene ci ha apportato? Tutto ciò è passato come ombra e come fugace
notizia. Come nave che fende l'onda agitata, di cui, passata che sia, non si scorge vestigio, né
solco della sua carena sui marosi; o come uccello che vola via per l'aria, del cui viaggio
nessuna traccia rimane: ma il vento leggero, battuto a colpi d'ala e rotto a forza con lo stridere
delle mosse penne, fu attraversato, né si trovò poi segno del passaggio per esso; o come
quando scagliata una freccia al bersaglio, l'aria divisa rifluisce subitamente in se stessa,
giacché nulla più si sappia

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del percorso di quella, così anche noi, dopo d'esser nati, abbiamo cessato di essere e nessun
segno di virtù potremmo mostrare, ma nella nostra iniquità ci siamo consumati (Sap 5, 8-13).
Queste sono parole dei miseri dannati, i quali vissero più di ottocento anni. Se una vita tanto
lunga tennero per ombra, quando morirono, che penserai tu di vivere molto, se nel nostro
tempo è tanto arrivare a sessantenni? La vita di ottocento anni non è più che lo svolazzare di
un passero o lo scoccare di una freccia od il passo dell'ombra. Ora, che pensi possano essere
cinquant'anni di vita?
Anche la vita più lunga che si voglia immaginare fu paragonata da Omero alle foglie d'albero
che tutto al più durano un'estate; e sembrando ciò molto ad Euripide, questi disse che la vita
umana bastava che avesse nome di un giorno. Demetrio Falereo, giudicando questo ancor
troppo, stimava doversi chiamare, non un'ora, ma un minuto. Platone era d'avviso che non le
si dovesse attribuire alcun essere, chiamandola sogno di uno desto. San Giovanni Crisostomo,
ritenendo ciò per molto, lo corresse dicendo che era, non sogno d'uno sveglio, ma di uno
dormente. Non sembra che i filosofi ed i santi abbiano trovato una spiegazione sufficiente
della brevità di questa vita, perché né corriere sopra la terra, né nave per il mare, né uccello
per l'aria passa con più velocità. Tutte queste cose ed altre che si tengono per veloci, non
hanno sempre la velocità nel loro essere, senza che una volta o l'altra vengano meno e si
fermino. Così la vita umana sembrava a Filemio tanto veloce che disse essere null'altro che
nascere e

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morire, e che nascendo usciamo da un sepolcro oscuro per entrare, morendo, in un altro più
triste e tenebroso. Infatti il tempo del sonno toglie alla vita, già tanto breve, la terza parte, e le
toglie ancora quello della fanciullezza; altra parte viene tolta da vari accidenti, che
impediscono il senso e il frutto del vivere. Ben presto resterai con la metà di quel nulla che
stimi molto. Nella vita si avvera bene ciò che disse Averroè (IV Phys., text. 13): che il tempo è
un essere diminuito in sé, perché questa vita è poca cosa e diminuisce tanto che le molte sue
parli si riducono a un punto rispetto all'eternità. Anzi questa stessa metà che ti pare di aver
messa in netto, pensi tu d'averla sicura? T'inganni, perché, al dire dell'Ecclesiastico: Non
conosce l'uomo la sua fine, (Eccl. 9. 12) come i pesci, gli uccelli, quando si credono più sicuri,
sono colti dall'amo o dal laccio, così la morte assalta gli uomini, quando essi meno vi pensano.

La brevità delle cose temporali.


Considera poi quanto vili e di poca sostanza siano tutte le cose temporali e quanto fragile sia la
gloria del mondo, poiché tutti i beni della terra non valgono la vita, e se questa è sì poca, che
saranno quelli, che poi sono fatti per essa? Che può essere il piacere di un uomo, se tutta la
vita dell'uomo e un sogno, un'ombra od un batter d'occhio? Se la vita anche la più lunga è
tanto breve, che sarà del gaudio d'un momento, per il quale si perde la felicità eterna? Però
quale stima si può fare d'un bene goduto da vita tanto disprezzabile e piena di miseria? Di
questo è figura quella statua di Nabucodonosor, la quale, sebbene di metalli ricchi, come l'oro
e l'argento, aveva però piedi

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di creta, e colpita che fu da un sassolino, andò in frantumi per terra. Tutte le grandezze e
ricchezze del mondo hanno per base la vita di quelli che le godono, la quale, non dico da un
sassolino, ma da un acino d'uva può essere disfatta.
Con ragione disse Davide che l'uomo, tutto quanto è e vive, è vanità universale, perché basta la
brevità della vita dell'uomo per rendere vili e vani quanti beni possano essere goduti
dall'uomo. Vani sono gli onori, vani sono gli applausi, vane le ricchezze, vani i piaceri della
vita, perché vana e fragile è la stessa vita. Che conto faresti di una torre costruita sopra arena
mobile? E quale sicurezza avresti della mercanzia portata in una nave avariata? Non devi
certamente far conto maggiore dei beni di questa vita, giacché anch'essi si basano in cosa
tanto instabile, quanto è essa medesima.
Che cosa potrà essere tutta la gloria umana, avendo la vita, a cui è appoggiata, la consistenza
del fumo, secondo Davide, o quella d'un vapore, secondo San Giacomo, che in un momento
scompare? Se anche fosse di mille anni, arrivando al suo termine, è uguale a quella che, durò
un giorno, perché tanto la felicità della vita lunga, quanto quella della vita corta, è fumo e
vanità. L'una e l'altra passano e finiscono con la morte.
Querrico, Domenicano, gran filosofo e medico prima, poi grande teologo, sentendo leggere il
capitolo quinto della Genesi, dove la Sacra Scrittura comincia la genealogia dei figli e
discendenti di Adamo, e prosegue con quel noto intercalare: Tutta la vira di Adamo fu di 930
anni e morì; la vita di Seth fu di 912 anni e mori ecc.; disse a se stesso: ma se tali e tanti
uomini, dopo una vita così lunga, alla fine morirono, e cosa giusta perdere più tempo nel
mondo, o non conviene piuttosto mettere la vita in salvo, sì da non perderla quando finirà?
Con questo pensiero egli si fece religioso di S. Domenico e condusse una vita santissima.

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Oh quanto forsennati sono gli uomini, che, pur essendo tanto breve la vita, sono solleciti di
vivere molto e non si preoccupano di vivere bene, essendo cosa assodata, come disse Seneca
(Epist. 22) che tutti possono vivere bene e che nessuno, per quanto viva, può vivere molto. Ciò
si può vedere meglio ancora in quel che dice Lattanzio (De Divinis Instit., lib. VI) che, essendo
tanto breve la vita, è necessario che i mali ed i beni che in essa si trovano siano brevi, come
sono eterni i mali ed i beni che si trovano nell'altra, Volendo Dio distribuire ugualmente
questi beni e mali, ordinò che ai beni brevi di questa vita, per chi ne abusa, succedano
nell'altra mali eterni, ed ai mali brevi che si soffrono qui per amore di Dio, succedano beni
eterni. Così, ponendoci Dio dinanzi ai beni ed ai mali e lasciandoci la libertà di scegliere
secondo il nostro beneplacito, è grande stoltezza per non voler soffrire i mali brevi perdere i
beni eremi, e per voler godere i beni tanto brevi, patire poi mali tanto lunghi che non avranno
fine.

CAPITOLO TREDICESIMO.

Che cosa è il tempo secondo S. Agostino.

Il tempo è il momento presente.


Consideriamo ora anche ciò che senti il grande Dottore della Chiesa. Sant'Agostino, intorno
alla natura del tempo. Nella sua grande intelligenza il tempo aveva così poca stima e
consistenza che, dopo di aver disputato con somma sottigliezza per sapere ciò che è, viene a
concludere che non lo sa.

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Il più che riesce a sapere è che non si dà tempo lungo e che si può chiamare tempo solamente
ciò che è presente, che è solamente un momento. La medesima cosa sentì l'imperatore
Antonino il quale nella sua Filosofia (Lib. II, cap. 15) pronuncia questa sentenza: “Se tu avessi
anche a vivere 3000 anni e più, ricordati che la vita che si abbandona morendo è solo quella
che si vive nell'istante della morte. Così una stessa cosa sono uno spazio lunghissimo di vita ed
uno brevissimo, dato che uguale è il momento presente, anche se diverso fu il tempo passato.
E così pare che un solo punto esista nel tempo, perché nessuno può perdere né il passato, né il
futuro, giacché nessuno può perdere ciò che non ha. Per il che si devono tenere in mente
queste due cose; La prima, che fin dal loro principio tutte le cose hanno una medesima figura
e girano in un circolo e non v'è differenza tra quello che vive cento o duecento anni e quello
che vivesse un tempo infinito. L'altra è che chi visse moltissimo e chi tosto morì, perdono una
medesima cosa, perché sono privati soltanto di ciò che è presente, giacché solo questo hanno,
mentre ciò che non si ha non si può nemmeno perdere”. Tutto questo dice il saggio principe.
Non si trova nel tempo più sostanza di quella del momento che è presente. Avverte però S.
Agostino quanto poco si possiede questo medesimo momento presente, mentre non si può
affermare ciò che esso è, e dice: Il presente è tempo perché passa: però come può dirsi che è,
se la causa del suo essere è perché non sarà? Di modo che non lo potremo veramente dire
essere, se non perché cammina verso il non essere.
Ecco ora la base della tua felicità, la colonna di bronzo cui appoggi le tue speranze; in una cosa
così poco costante, che il cessare d'essere è la sua

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sola consistenza, e l'essere suo riceve, se pur ne ha, da l'andare al non essere. Quale essere può
avere ciò che è e non è, e che cessa di essere con tanto impeto e velocità che non lo potrai
fermare più d'un momento? Però neppure questo momento si ferma, perché il momento che
è, sta in una corsa perpetua e continua. Mi dica colui che sta nel fiore dell'età, se ha forze
sufficienti per fermare gli anni della sua vita, sicché questa non corra neppure un giorno? Che
potere avrà per far sì che un piacere vissuto per un'ora si fermi, sicché si possa dire che non
sia passato?
Se senti di afferrare il tempo, non troverai di che, perché non se ne conosce il volume, ma con
tutto questo esso corre con tanta forza che ti trascinerà dietro di sé senza che tu lo possa
fermare; poiché esso corre sempre verso il suo termine. Perciò, parlando della vita, il
medesimo Santo Dottore disse che il suo tempo era in correre alla morte, la quale è tanto
veloce e leggera e mescolata con tante morti di uomini, che gli viene il dubbio, se la vita dei
mortali non si debba chiamare piuttosto morte che vita e dice: Dal punto in cui uno comincia
a sfare in questo corpo, che ha da morire, in lui sta sempre venendo la morte. Ciò è opera della
sua mutabilità, per il tempo di questa vita, se pur può chiamarsi vita quella che non esiste se
non perché viene la morte. Non v'è nessuno che dopo un anno non sia più vicino alla morte
dell'anno prima, o domani più di ieri e adesso più di poco prima, perché tutto il tempo che si
vive, si toglie al tempo della vita ed ogni giorno diminuisce ciò che resta, di tal maniera che il
tempo di questa vita non è altra cosa che un correre verso la morte, nel quale corso non è
lecito fermarsi alcun poco, andare più adagio, ma tutti sono spinti ad andare con uguale
lestezza.
Poi aggiunge: Che altra cosa si fa ogni giorno e ogni momento, fino a quando avverrà la morte
e

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comincerà il tempo che segue dopo la morte, se non togliere qualche cosa alla vita, nella quale
stava già la morte? Da qui segue che l'uomo non sta mai nella vita e che, da quando sta in
questo corpo, muore piuttosto che vivere, se non può stare nello stesso tempo nella vita e nella
morte. Sta forse uno contemporaneamente in vita e in morte, cioè nella vita che vive, finché
tutto gli si tolga, e nella morte, giacché muore colui al quale gli si toglie la vita? Per questo
stesso disse Quintiliano: Momento per momento moriamo prima del tempo [Per exigua
festinantis aevi momenta praemorimur (In Mt. Cap. 55)].
E Seneca dice: Sbagliamo quando guardiamo alla morte che ha da seguire, mentre giù ci ha
preceduto e si deve seguirla: tutto ciò che fu e morto. E che importa che tu ora non cominci,
né finisci, poiché dell'uno e dell'altro il medesimo effetto è il non essere?
Moriamo ogni giorno; ogni giorno si toglie alcuna parte della vita e nello stesso nostro
crescere, la vita diminuisce e finisce, e questo medesimo giorno in cui viviamo, lo dividiamo
con la morte. Disse bene colui che chiamò questa vita un sogno di un'ombra. Si dice pure nel
libro della Sapienza che la nostra vita è un passo di ombra, perché l'ombra è come una miscela
di notte e di giorno: come l'ombra può dirsi una specie di notte, così la vita può dirsi una
specie di morte. Come l'ombra si mescola con un po' di luce, così la vita ha la sua parte di
morte e di vita, finché venga a finire nella morte pura e vera. Andando a finire nel nulla, la vita
umana, paragonata con quella eterna, sarà sempre poca cosa, perché quella ha da durare
sempre.

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Il tempo della vita finirà.


Tutto ciò che ha fine è poca cosa, perché va a finire nel nulla. Ora, perché vuoi per così poco
perdere il molto ed il vero certissimo per il falso ed il sogno? Ascolta San Giovanni Crisostomo
() che dice: Se tu, per aver avuto una notte un sogno allegro, dovessi, dopo sveglio, esser
tormentato per cento anni, come potresti desiderare un tal sogno? Ora quanto più grande è la
distanza che esiste tra il vero dell'eternità ed il sogno di questa vita, tra gli anni eterni
dell'altro mondo e quelli passeggeri di questo! Meno è questa vita rispetto all'eternità che
un'ora di sogno rispetto a cento anni, meno che una goccia rispetto a tutto il mare. Privati ora
di qualche piacere, per non restare privato di ogni gaudio per sempre. Sopporta ora qualche
fatica, per non soffrire eternamente mille tormenti. Con ragione disse S. Agostino: Meglio un
po' di amarezza nella gola che un eterno tormento nelle viscere.
Nostro Signor Gesù Cristo chiamò poco ogni cosa che passa. Poco chiamò il tempo della sua
Passione, benché fossero tanti i generi di acerbissimi tormenti che patì; poco chiamò il tempo
del martirio degli Apostoli, sebbene si trattasse di martirii atrocemente crudeli. Poco, anzi
pochissimo, è quanto in questa vita passiamo, in paragone degli anni eterni. Disse S.
Agostino: Mettiamoci alla fine della vita e vedremo quanto essa sia piccola, e che tutto quanto
in essa ci sembra in qualunque modo grande, paragonato coll’eternità, è nulla [Hoc modicum
longum nobis videbirur, quoniam adhuc agitur; cum finitum fuerit, tum sentiemus, quam
modicum fuerit (Tract. X in Ioannem)]
Ad un religioso della nostra Compagnia, per nome Cristoforo Caro, Maria Santissima mandò

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questa ambasciata, che considerasse bene queste due cose: Oh che molto! oh che poco! Cioè a
dire il molto, che è nell'eternità senza fine, e il poco, che è il tempo della vita; il molto che è un
Dio posseduto per sempre, il poco, che è un contento della terra che si deve lasciare; il molto
che è regnare con Cristo ed il poco, che è il servire al nostro appetito; il molto che è gloria
eterna ed il poco che è vivere molto in questa valle di lagrime.
Per questo disse l'Ecclesiastico: Il numero dei giorni degli uomini, a dir molto, è di cento anni:
come una goccia d'acqua e come un granello d'arena del mare, così pochi sono gli anni nel
giorno dell'eternità [Numerus dierum hominum, ut multi centum (Eccli.. XVIII, 8)]. Poco
sembrerà qualsiasi tempo per meritare l'eternità. Con ragione San Bernardo ripeteva ai suoi
monaci quel detto di San Girolamo: Nessuna fatica sembri dura e nessun affanno lungo, col
quale si acquista la gloria dell'eternità. A Giacobbe sembravano pochi i venti anni che servi a
Labano per amore di Rachele: ed a noi, perché dovrebbe sembrare lungo qualunque tempo
che si spende nel servizio di Dio? Pensa a chi servi e perché; considera a chi serviva Giacobbe
e perché. Tu servi al vero Dio e per la gloria eterna; Giacobbe serviva ad un idolatra
fraudolento per una bellezza caduca. Confronta ora la tua servitù con quella di Giacobbe;
guarda se sono venti anni che tu servi a Dio nel modo che Giacobbe servi a Labano; rifletti, se
puoi dirgli con verità: Giorno e notte era arso dal caldo e dal gelo ed il sonno fuggiva dai miei
occhi. Ed in tal guisa t'ho servito in casa tua per venti anni [Die noctuque aestu urebar et gelu
fugebatque somnus ab oculis meis. Sicque per viginti annos in domo tua servivi tibi (Gen, 31,
40-41)]. Con questa fedeltà quel servo

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di Dio servì ad un pagano; come servirai tu a Dio, se desideri essere suo servo? Tutto ti ha a
parere poco, poiché servi ad un Signore tanto buono e per un premio così grande.
Vedi in che cosa impieghi i tuoi brevi anni, che, essendo brevi per meritare un'eternità, ti
passano fra le dita quasi senza alcun profitto. Disse S. Agostino (Contra Faustum, cap. 9) che
il tempo di questa vita viene raffigurato dalla filatura delle Parche, le quali dai sapienti antichi
erano tenute per filatrici della vita.
Il tempo passato era il filo già raccolto sul fuso, l'avvenire quello che rimaneva sulla conocchia
a filarsi, il presente quello che passava per le dita. In verità non sappiamo spendere il tempo,
occupando in esso le mani piene di opere sante, che anzi lo trascuriamo occupandoci in opere
di nessuna sostanza o di nessun profitto. Vedi ora che tela grossolana e vile riuscirà la tua vita,
poiché ti curi così poco di impiegare quel tempo che, passato una volta, non torna più.
Meglio dichiarò Davide questo cattivo impiego del tempo, quando disse che i nostri anni
mediteranno come le ragnatele [Anni nostri sicut aranea meditabuntur (Ps. 89, 9)]. Altra
lezione dice: Si eserciteranno, perché i ragni non filano lana o lino, ma gli escrementi delle
loro viscere, sviscerandosi per ordire la tela, che essi lavorano coi piedi, ma di sì poca durata
che in un momento si disfa e di sì poca utilità che non serve ad altro che a prendere mosche.
La vita dell'uomo è piena di fatiche vane, di pensieri, di sollecitudini, di progetti, di disegni,
che stranamente la esercitano, tessendo e concatenandosi con altre sollecitudini, affannandosi
sempre più per affannarsi, facendo della fine di un'occupazione il principio di un'altra, e tutte
fatte così malamente,

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come se si facessero coi piedi. Già pensiamo come raggiungere ciò che desideriamo, poi,
ottenutolo, come custodirlo, appresso come aumentarlo, quindi come difenderlo, di poi come
goderlo, proprio quando viene a dileguarcisi fra le mani, non meno del ragno infelice, le cui
fatiche vane, sebbene sudate, ad un colpo di scopa vanno disperse. Che fatica costa al ragno
l'ordire la tela! Va da una parte all'altra, si gira più volte in un medesimo punto, si consuma
per trarre più filo dalle sue viscere; per fissarlo in alto fa molto cammino ed avendo terminato
la sua opera lunga e larga, per una scopata cade in terra.
Così è l'impiego della vita umana, di molto affanno e di poca stabilità, togliendo il sonno e
riempiendo la vita di preoccupazioni per disfarsene in un punto, spendendo la maggior parte
della vita in progetti e pensieri vani. Per questo disse Davide che gli anni della vita meditavano
o pensavano, alla stessa guisa che i ragni lavorano e si affannano tutto il giorno per formare la
loro tela. Così passa la vita dell'uomo in continui pensieri e preoccupazioni, intorno a ciò che
un giorno sarà o ciò che ha da procurare, o ciò che ha da raggiungere ed ecco tutto e vanità ed
afflizione di spirito (Eccl. 1, 14); soltanto nel servizio di Dio si hanno pensieri senza affanni.
Con molta ragione disse Aristotele, che la speranza della vita avvenire è un sogno di colui che
veglia. Nella stessa guisa Platone chiamò la vita passata sogno di gente desta, perché tanto la
speranza umana, quanto la vita sono in questo uguali al sogno, che non ha né consistenza, né
esistenza.
Non v'è nessuno il quale, dopo aver riflettuto sulla vita passata, non dica che sogno e realtà si
equivalgono, perché già non ha più né quello di cui

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godette, né quello che sognò, sembrandogli tutti i suoi piaceri tanto brevi che si sono toccati i
termini estremi, il sogno e la vita.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO.

Il tempo è l'occasione dell'eternità.

Il tempo è preziosissimo.
Essendo il tempo tanto corto e scorrevole, ha però una qualità preziosissima ed è: l'essere
occasione dell'eternità; poiché possiamo guadagnare in poco tempo ciò che dobbiamo godere
eternamente. Per questo esso è di valore inestimabile. Disse San Giovanni: Il tempo è vicino
(Apoc. 1, 3). Nel testo greco si dice: L'occasione è vicina, perché il tempo di questa vita è
l'occasione per guadagnare quella eterna e, passato che sia, non vi ha più rimedio, né
speranza.
Procuriamo dunque di impiegarlo bene e non perdiamo l'occasione di un bene tanto grande,
la cui perdita è irreparabile, e che dovremmo poi rimpiangere eternamente. Consideriamo
quanto quest'occasione nel tempo ci sia preziosa e qual pentimento ci può cagionare l'averla
perduta, affinché conosciamo come dobbiamo approfittarne per la nostra salvezza eterna e
perché non abbiamo poi il pentimento inconsolabile dei dannati di non averne approfittato.
La nostra salvezza è un gran negozio e dipende dalla velocità di questa vita, il cui termine è
irrevocabile e molto incerto. Così con cento occhi dobbiamo stare all'erta che non passi

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occasione tanto importante e a tutti i costi la dobbiamo afferrare.


Conoscendo gli antichi l'importanza dell'occasione, la finsero dea per dichiarare i grandi beni
che essa arreca a coloro che ne approfittano, ed adoravano la sua immagine in queste
misteriose figure; la mettevano sopra una ruota (In Epigr. Graeca) che continuamente girava,
ali ai piedi per denotare quanto ella passi velocemente, non si vedeva la sua faccia, poiché
gliela copriva la chioma, che nella parte anteriore era molto folta e prolissa, essendo difficile
conoscere la sua venuta, mentre quando è presente hai per dove afferrarla; nella parte
posteriore era rasa e calva, perché nel voltare le spalle all'occasione non c'è dove mettere le
mani per trattenerla.
Ausonio, (AUSONIUS in Epigr) per significare il pentimento che accompagna chi la lascia
inutilmente sfuggire, aggiunse che ella aveva alle spalle Metanea, cioè la penitenza, la quale
sola rimane dopo che l'occasione è passata.
Altri figurarono la medesima occasione con le mani occupate da grandi doni e ricchezze, con
le quali si tira appresso molto gran seguito, ma accompagnata dal tempo, velocissimo, in abito
da pellegrino, e fornito non solo di due, ma di quattro ali. Perciò fu chiamata ottimamente
precipitosa da Ipocrate, perché corre con la medesima fretta che altri piomba giù da una
balza.
Poniamo in confronto dell'eternità il tempo più lungo della vita umana, siano cento, siano
duecento, siano novecento anni, sia di uno già vivente da prima del diluvio; non sembreranno
più che un istante a chi fissasse lo sguardo sulla distesa immensa dell'eternità, e resterebbe
anzi colpito che cosa tanto breve, piccola e precipitata sia occasione di cosa tanto lunga, tanto
grande ed eterna.

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Facciamo ora questa considerazione, che tutto il tempo di questa vita è breve per guadagnare
quella eterna. Non perdiamo quindi un tempo che non abbiamo sicuro. Se anche fossimo certi
di vivere cento anni, non dovremmo perdere un solo momento, con cui si può guadagnare
l'eternità. Essendo però incerti fino a quando vivremo, potendo morire domani, come
possiamo trascurarci, lasciando passare l'occasione di assicurarci la nostra gloria, non
offrendocisi altra occasione somigliante? Se ad un bravo artista un principe avesse ordinato,
pena la testa, di tenergli pronta un'opera di pregio, senza indicazione alcuna del tempo di
consegna, ma avvertendolo che, pure occorrendo un anno di lavoro per finirla, potrebbe anche
anticiparne la richiesta; come oserebbe quel povero artista perdere il tempo od occuparsi di
altro, mettendo così in gioco la sua stessa vita? Ora, se per noi ci va la vita eterna nel non stare
in grazia di Dio e non tenere viva la sua immagine nell'anima nostra, come potremo essere
trascurati, lasciando passare l'occasione della nostra salvezza?
Il tempo fu chiamato da Teofrasto e Democrito acquisto preziosissimo. Zenone diceva che agli
uomini nessuna cosa manca tanto quanto il tempo, né v'è per loro cosa tanto necessaria e
Plinio stimava tanto il tempo, che non voleva perdere neppure un momento.
Seneca stimava il tempo sopra ogni prezzo e disse: Chi è che sappia stimare il tempo? [Quis
est, qui pretium temporis ponat? (Lib. IV, Epist. 9).] "Fa così, raccogli il tempo e conservarlo,
perché: chi mi darà di ben apprezzare il tempo, di stimare il giorno? di intendere che ogni
giorno si muore?". Queste parole fanno intendere che cosa è il tempo e quanto deve essere
stimato sopra ogni prezzo e valore. Ora se i gentili, sebbene non guardassero

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il tempo come prezzo dell'eternità, lo stimavano tanto, che dobbiamo fare noi cristiani?
Ascoltiamo San Bernardo che dice a questo proposito: Non vi è cosa più preziosa del tempo:
ma ahimè! che cosa del giorno non si tiene più a vile? Si passano i giorni della salvezza
dell'anima e nessuno pensa a questo, nessuno dice a se stesso che il giorno ha da finire e non
ha da ritornare mai più.
Il medesimo Santo, dolendosi molto che si deprezzasse cosa tanto preziosa, dice (Sermo 75 in
Cant.): Nessuno stimi cosa da poco il tempo speso in parole oziose. Dicono alcuni: Ben
possiamo adesso parlare, finché passi questa ora. Oh che ragione futile! Ti contenti di passare
un'ora, quell'ora che ti fu data dalla misericordia del tuo Creatore per far penitenza, per
acquistare la grazia, per meritare la gloria.
Oh stolta parola: “Mentre passa il tempo!" in questo tu puoi guadagnare la pietà divina. In
altra parte dice, (Ibid.) il che è bene a proposito per approfittare dell'occasione del tempo di
questa vita: Meno abbiamo tempo, operiamo il bene, soprattutto perché il Signore disse
chiaramente che verrebbe la notte, nella quale nessuno può operare. Avrai tu forse, per
cercare Dio e operare il bene, altro tempo nei secoli futuri fuori di quello che ti assegnò Dio
nel ricordarsi di te? (Questo è quindi il giorno della salvezza, perché qui Dio ha operato la tua
salvezza prima dei secoli [Ecce nunc tempus acceplabile ecce nunc dies salutis (2Cor. 6, 3)].
Speri forse salvezza nel mezzo dell'inferno, mentre è stato deciso di doverla operare sopra la
terra? Come credi che sia possibile raggiungere il perdono fra gli ardori sempiterni, quando
già passò

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il tempo della misericordia? Essendo tu morto nel peccato, non ti resterà propiziazione per i
peccati; non si crocifiggerà un'altra volta il Figlio di Dio.
E' morto una volta e non morirà più. Non scenderà nell'inferno il sangue che ha versato sopra
la terra. Lo bevettero i peccatori della terra e non è possibile che vi partecipino i demoni per
spegnere le loro fiamme, né gli uomini compagni del demonio.
Scese una volta in quell'abisso, non il sangue di Cristo, bensì l'anima sua. Questo è ciò che
ricevettero quelli che stavano nel carcere: una sola visita dell'anima di Cristo, quando il corpo
pendeva esanime sulla croce sopra la terra. Il sangue irrigò la terra, il sangue si è versato sopra
la terra ed inzuppandola il sangue pacificò quelli della terra col cielo, non però quelli che
stanno sotto la terra nell'inferno. Una volta sola fu ivi l'anima, come dicemmo, e fece
redenzione in parte (per le anime dei santi Padri che stavano nel Limbo), perché neanche in
quel momento mancassero le opere di carità. Non passò però più avanti. Ecce nunc tempus
acceptabile; ecce nunc dies salutis: ora è il tempo a proposito per cercare Dio, tempo nel
quale certamente lo troverà chi lo cerca, se però lo cerca dove e come si conviene.

Inutile pentimento.
Considera che avrai pentimento eterno, se non approfitti dell'occasione di questo tempo per
meritare il regno dei Cieli, vedendo che con così poca diligenza lo potevi guadagnare e che per
un piacere tanto breve l'hai perduto. Che rabbia e furore erano quelli di Esau (Genesi, 27)
quando ritornò in sé e vide che suo fratello minore aveva rapita la benedizione di
primogenitura, ch'egli gli aveva venduto per un piatto di lenticchie! Ruggiva e si struggeva di
dispetto.

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Specchiati in lui tu, che per un gusto vilissimo e brevissimo hai venduto il regno dei cieli. Che
faresti, se già fossi nell'inferno, se non lamentare con lacrime eterne ciò che hai perduto in un
tempo così breve? Quando Cam conobbe che egli e i suoi discendenti erano stati maledetti e
dichiarati infami per non aver saputo valersi dell'occasione, della quale s'erano approfittati i
suoi fratelli, pure essendo toccata prima a lui, qual sentimento aveva o doveva avere? Misura
da qui il sentimento che avrà un dannato il quale, non approfittando del tempo della sua vita,
si vede maledetto per tutta un'eternità, mentre altri che furono minori di lui sono benedetti e
premiati nel Cielo. I congiunti di Lot, (Genesi, 19.) che, da lui esortati ad andar seco,
avrebbero potuto sfuggire al fuoco, e non vollero, anzi si fecero beffe dei suoi consigli, come
rimasero, quando si videro riversare sopra quella pioggia di fiamme che mandava in cenere
tutta la città! Qual sentimento triste non dovevano avere per non aver approfittato di quella
occasione così buona, entrata loro in casa? Oh che pianto! Oh che pena! Oh che rabbia! Oh
che disperazione avrà un dannato, quando si ricorderà che, essendo stato invitato da Cristo,
che lo voleva salvo nel Cielo, vedrà invece cadere sopra di sé eternamente una tempesta di
fuoco, zolfo e tormenti!
Il re Hannone, il quale ebbe così opportuna comodità di far pace con Davide che gliela aveva
offerta, quando vide rovinare le sue città e bruciare i suoi abitanti come i mattoni nella
fornace, altri come bestie andar a macello, altri esser messi in pezzi, che cosa avrebbe mai
pagato per riafferrare la perduta occasione di stare in amicizia con un re così grande e
possedere in pace il suo regno? Però questo non ha paragone con ciò che sentirà il

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peccatore, quando si vedrà egli stesso bruciare nell'inferno ed essere nemico eterno del Re dei
Cieli, avendo perduto il Regno dei Santi. Quale dispetto e tristezza avrà!
Il cattivo ladrone, che fu crocifisso insieme con il Salvatore del mondo ed ebbe occasione tanto
felice per salvarsi, come il suo compagno, e non ne approfittò, quanto piangerà ora per questo!
E quale sarà il pentimento del ricco Epulone, per le cui porte entrò così buona occasione, con
cui avrebbe potuto riscattarsi dai suoi peccati, con un po' di liberalità ed elemosina verso
Lazzaro! Ma egli non la curò, comportandosi col mendico più inumanamente dei cani, i quali,
più pietosi del loro padrone, non lo lasciarono partire senza lambirgli le piaghe. Che dirà
adesso che gli manca ogni cosa, perfino una goccia di acqua, per non aver dato in elemosina
neppure una briciola di pane? Che dispetto, che rabbia! Quale disperazione avrà, per non
essersi servito di una occasione così buona per salvarsi!
Se è ben vero che tutto il tempo in cui viviamo è occasione per raggiungere la gloria eterna, vi
hanno però nel corso della vita congiunture particolari, dalle quali dipende di più la nostra
salvezza, ed in esse siamo maggiormente tenuti a Dio ed obbligati, come fece il santo
Giuseppe, quando, per non offendere il suo Creatore, fuggì dalla padrona, lasciandole fra le
mani il mantello. Questo fu un atto eccellente, che piacque molto a Dio e meritò che lo
favorisse tanto di poi.
In quella stessa maniera Susanna approfittò di una grande occasione per salvarsi con molti
meriti, quando scelse di morire piuttosto che di consentire a quell'infame delitto, al quale
t'invitavano i disonesti vegliardi.

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Il dovere dei cristiani.
Non ci deve sfuggire congiuntura di usare finezze con Dio ed obbligarcelo con qualche atto
eroico che ci offrono le occasioni. A questo proposito disse il Savio: Non ti privare di un buon
giorno, non ti sfugga nessuna parte di un buon dono (Eccl. 14,14)
Marco Tullio definì l'occasione parte del tempo accomodato per far una cosa. Mitridate disse
che l'occasione è: La madre di tutte le cose che si devono fare (Mater omnium rerum
gerendarum), mentre Polibio disse che l'occasione signoreggia in tutte le cose umane. Non vi è
dubbio che vi sono delle circostanze che ci danno nelle mani grandi occasioni di meritare o di
operare virtù eccellenti ed atti eroici, circostanze che, se ne approfittiamo, assicurano la
nostra salvezza. Per questo alcuni le pongono fra i segni della predestinazione.
Guardiamo come alcuni hanno fatto profitto delle occasioni di cose temporali, affinché non
siamo meno solleciti e diligenti in quelle eterne. Con quanta diligenza Rachele corse a coprire
gl'idoli rubati a suo padre! Quanto diligentemente Abigaille procurò di andare incontro a
Davide, per non perdere l'occasione di placarlo! E senza dubbio, se avesse tardato, correva
rischio evidente la vita sua, quella del marito e di tutta la Famiglia. Ed Abramo, con quale
sollecitudine si mise a cercare i cinque re che conducevano prigioniero Lot, suo nipote, per
non perdere l'occasione di raggiungerli! Saulle, con quanta lestezza raccolse l'esercito, per
poter portare soccorso a Galaat!
Non c'importi meno il guadagnare il Cielo: non siamo più tardivi che nel guadagnare le cose
della

109
terra. Ascoltiamo con che diligenza e premura secondo il Savio, dobbiamo compiere la
promessa fatta ad un uomo: Figlio mio, che hai fatto garanzia per un amico... liberati da te
stesso, perché sei caduto nelle mani del tuo prossimo. Cammina lesto e sveglia il tuo amico;
non dar sonno ai tuoi occhi e non lasciar dormire le tue palpebre, fuggì dalla mano come la
capra selvatica e l'uccello dalla mano del cacciatore (Prov 6, 1-3).
Coloro che sono legati al demonio con i loro peccati, pensino con quale diligenza devono
scappare da lui, senza perdere tempo, né occasione. Coloro che stanno legati con Dio per i
benefici infiniti ricevuti e per la parola datagli, guardino come lo devono servire,
approfittando di tutte le occasioni.
Si affrettino, dice il Savio, non siano tiepidi e tardi, non diano sonno ai loro occhi, né chiudano
le palpebre, per scappare dall'inferno e dalla schiavitù di Satana, senza perdere l'occasione. È
peccato lasciarne passare una senza approfittarne. È miseria inconsolabile che si lasci passare
la vita in cose della terra, senza cercare quelle del Cielo, essendo essa tanto corta e breve per
meritare ciò che è tanto lungo da godere, come l'eternità. Con ragione ci ammonisce
l'Apostolo: lo dico dunque, fratelli: il tempo è breve (Cor. 7, 29). In questo resto di tempo
coloro che hanno moglie siano come se non la avessero, e coloro che piangono siano come se
non piangessero, coloro che comprano come se non possedessero, coloro che usano di questo
mondo siano come se non ne usassero, perché passa la figura di questo mondo. Considerando
l'Apostolo tanta brevità
110

del tempo, vuole che siamo molto diligenti nell'uso delle cose della nostra salvezza e dell'altra
vita e che in quelle di questo mondo siamo molto superficiali e quasi estranei ad esse,
possedendole ed usandole come se non le avessimo.
Riflettiamo che, se ci passa l'occasione del tempo di questa vita breve, ci mancherà pure
nell'altra la speranza del rimedio. Non manca d'insegnamento ciò che finse l'antichità, che
cioè Giove diede ad uno un vaso pieno di beni; questi, contentissimo di sì gran dono, poiché
esso conteneva quanto si poteva desiderare, volle goderne subito, pur potendo goderli con
agio e tempo, ed apri con imprudenza il vaso per vederli e gustarli tutti in un tempo. Appena
che l'ebbe scoperto, tutti i beni volarono per l'aria e scomparirono e per quanta fretta mettesse
a rinchiuderli, tutti erano già svaniti: gli restò solo la speranza.
Ben differente è l'occasione della nostra salvezza, perché, passando con essa i beni che reca,
non ci resta neppur la speranza, ma in suo luogo viene il pentimento ed il dolore eterno, tanto
più che è per colpa propria. Quando il re Joas ferì la terra tre volte ed il profeta Eliseo gli disse
che, se i colpi fossero stati sei o sette invece che tre, egli si sarebbe impadronito di tutta
quanta la Siria, quanto si sarà rammaricato per non averlo fatto!
Bastava a tormentarlo il pensiero di aver avuto l'occasione di tanta fortuna e non averla usata,
benché senza colpa propria. Ma quanto più atroce sarà lo strazio dei dannati, nel vedere che
unicamente per propria colpa è loro sfuggita l'occasione di conquistare beni così immenso
come i beni del Cielo!
111

CAPITOLO QUINDICESIMO.

Che cos'è il tempo secondo Platone e Plotino.

L'instabile ombra.
Perché comprendiamo meglio la piccolezza e viltà di ogni cosa temporale, non voglio lasciar
passare sotto silenzio la descrizione che ne diede Plotino, insigne filosofo dei Platonici, il quale
disse che il tempo è l'immagine o l'ombra dell'eternità. Ciò è conforme alla Sacra Scrittura,
perché, oltre che Davide, il quale disse che l'uomo passa nell'immagine, cioè nel tempo, il
Savio definisce il tempo: Il passo di un'ombra (Sap.2, 5), il che non è altra cosa, se non
un'immagine imperfetta movibile e vana di una cosa consistente e solida. Anche Giobbe disse:
Come ombra sono i nostri giorni sopra la terra, (Gb.8, 9) e il santo profeta Davide: I miei
giorni si disfecero come ombra (Sal.101, 12). In molte altre parti della Sacra Scrittura si usa il
medesimo paragone per significare la velocità del tempo e la vanità della nostra vita: e ciò non
senza mistero. Veramente pochi sono i paragoni adatti per conoscere ciò che è eternità e
tempo, che quello di una statua con la sua ombra. Infatti, mentre la statua rimane ferma ed
immobile per molti secoli, senza crescere né diminuire, la sua ombra si sta continuamente
muovendo, facendosi ora maggiore, ora minore; così pure, confrontando il tempo con
l'eternità, questa sempre sta immobile, ferma e fissa, senza ricevere mai né più né meno,

112

mentre il tempo si sta sempre muovendo e mutando. Come l'ombra, che alla mattina è grande,
a mezzodì minore ed alla sera di nuovo cresce, senza avere un momento in cui non si muti,
non si muova né si alteri, or da un lato or dall'altro, alla stessa maniera la vita non ha punto
fisso, sempre va con mutazioni perpetue e nella maggior prosperità suole essere più corta.
Aman, (Est.8, 10) nello stesso giorno in cui credeva sedere a mensa col re Assuero, dal quale
era stato innalzato sopra tutti gli altri principi del regno, fu ignominiosamente mandato sulla
forca. Oloferne, (Gdt.13) quando pensava di aver il più bel giorno della sua vita, fu
miserabilmente decapitato. Il re Baldassarre, (Dan., 5) nel giorno più celebre che ebbe in tutto
il tempo del suo regno e nel quale fece ostentazione della magnificenza delle sue grandezze, fu
mandato a morte dai Persiani. Erode, (At 12, 23) quando mostrò di più la sua maestà,
vestendosi di broccato ricchissimo e di oro e fu acclamato quasi per un dio, fu ferito
mortalmente.
Non v'è cosa costante nella vita. La luna ha ogni mese le sue variazioni, però il tempo della vita
dell'uomo le ha ogni giorno ed ogni ora. Uno è ora infermo, ora sano; ora triste, ora collerico;
ora ardito, ora timido. Con ragione Sinesio (Hymn. 6) confronta la vita nostra con l'Euripo,
che è un braccio di mare che sette volte al giorno cresce e diminuisce, poiché il più costante
degli uomini del mondo, che è il giusto, cade sette volte al giorno.
L'ombra, per dove passa, non lascia traccia di sé, e finendo la loro vita, gli uomini più celebri
del mondo restano come se non fossero mai nati, né

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vi avessero vissuto. Quanti imperatori precedettero nella monarchia degli Assiri, signori tanto
grandi come Alessandro, eppure delle loro ossa non si sa dove stanno, né si conoscono i loro
nomi. Del medesimo Alessandro Magno, che altro abbiamo se non il tintinnio della sua fama
vana? Ce lo dicano quei filosofi che si unirono attorno al suo sepolcro. Uno [PETRUS ALPH.
et DIONYSIUS CARTHUS., De Novissimis. art. 14] disse: “Ieri non bastò ad Alessandro tutta
la superficie della terra, ora invece gli bastano due cubiti di terra”. Altri si meravigliò dicendo:
“Ieri poté Alessandro liberare dalla morte popolazioni intere, ora non può liberare neppur se
stesso”. Un altro esclamò: “Ieri Alessandro oppresse tutta la terra, ora è la terra che opprime
fui e non vi ha traccia dove egli passò”. Oltre a questo, che differenza vi ha tra una statua di
marmo o di oro e la sua ombra? Quella è di una sostanza molto preziosa e solida, questa non
ha essere, né corpo, né consistenza.
Così pure la vita eterna è preziosissima e di grande importanza, ma la vita temporale è vana e
miserabile, senza aver sostanza in tutti i beni che possiede. L'ombra non ha dell'essere che la
privazione della qualità migliore che esiste nella natura e della cosa più bella del mondo, che è
la luce del sole, della quale è privata per sempre. Così pure questa vita, senza sostanza e senza
essere, è privazione di grandi beni, per cui disse Giobbe: I miei giorni fuggirono e i miei occhi
non videro il bene (Gb.9, 25).
Ciò disse colui che fu re e godette di grandi ricchezze, che ebbe molta servitù e numerosa
famiglia e tutto ciò che poteva desiderare il suo gusto; con tutto questo dice che nella sua vita

114

non vide alcun bene. E poté dire questo con molta verità, perché tutti i beni di questa vita non
si hanno da qualificare per tali; e se anche lo fossero, i loro gusti durano tanto poco che si può
dire che non li vediamo; e se anche durassero, poiché hanno fine, non sono più di quello che
non è mai stato. È quanto confessava quel cavaliere chiamato Rolando, il quale, dopo aver
partecipato ad una grande festa, con grande gala, bizzarrie e gioie di tutti, giunta la sera,
esclamò amaramente dicendo: “Dove sia la festa che oggi abbiamo fatto? Dove sta la gloria di
tutto questo giorno? Come questo giorno passò senza lasciare traccia di sé così passeranno gli
altri giorni e così sarà tutta la vita, non lasciando di sé, se non un eterno dolore”.
Gli bastò questa considerazione per cambiare vita ed entrare in convento.
Come nell'ombra non v'è luce, ma solo oscurità, così questa vita è piena di tenebre e d'inganni,
per cui disse Zaccaria che gli uomini stavano seduti nelle tenebre e nell'ombra della morte.
Viviamo molto ingannati, poiché questa vita, pure essendo breve, ci sembra lunga ed essendo
miserabile, pure siamo contenti di averla, ed essendo nulla, ci sembra tutto. Non vi ha infatti
fatica alla quale non si sobbarchino gli uomini per causa sua, anche con pericolo di perdere
l'eternità.
Questo senza dubbio è il peggio che ha la vita temporale. Essa ci dipinge molto bene i suoi
beni per perderci con essi, pur non avendo in sé sostanza alcuna. Perciò disse Eschilo, che la
vita non solo è un'ombra della vita, ma anzi ombra del fumo che acceca ed annerisce. Essa è
cosa molto incostante e vana, conforme a quello che disse Davide, che i suoi giorni svanirono
come fumo e declinarono come ombra, unendo insieme ombra e fumo, le due cose più vane
del mondo. Pindaro delineò il concetto ancor di più, aggiungendo che non è un'ombra, ma un
sogno di un'ombra.

115

Infatti: pensare che questa vita è lunga e sperare prosperità in essa, non è un sognare?

L'inganno fatale.
Questo è il maggior inganno degli uomini e la gran causa degli altri inganni; non riuscire a
persuadersi di quello che è la vita e la sua grande brevità, perché alla maniera che l'ombra, pur
essendo un nulla e meno che la statua di cui è ombra, somiglia però alla statua ed è immagine
sua, così pure, benché questa vita sia un nulla, ha tuttavia somiglianza con l'eternità, ci
sembra che sia eterna, mentre in verità è brevissima.
Questo è un inganno molto pregiudiziale. Se la vita sembrasse ciò che essa è e non ci
ingannasse, noi non ci fideremmo di essa, né stimeremmo alcunché di quei beni che essa ci
promette, perché sono così ingannevoli ed incerti. Siccome però è immagine ed ombra, tutte
le sue cose non sono altro che finzione e simulazione che ci promettono felicità, mentre essa
invece è piena di miserie, sebbene non le conosciamo.
Con quanta gioia va a nozze la giovane, ma quanto presto piange sul suo stato! Con qual gioia
occupa l'ambizioso il suo ufficio che gli procurerà mille dispiaceri; Che allegria danno le
ricchezze, le quali sono poi occasione di morte al loro proprietario. Tutto è inganno,
simulazione, falsità e danno. Ma patendo noi tanta frenesia, non sentiamo il nostro danno. A
quante infermità del corpo non sta esposto l'uomo, da quante immaginazioni è afflitto e
ingannato, con quante fatiche lotta, da quante aspirazioni è tormentato, quanti pericoli corre
nell'anima e nel corpo, quante ingiustizie tollera, quante ingiurie, quante necessità ed
afflizioni patisce!
Tale è tutta la vita, che sembrava a

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San Bernardo (Sermo de Ascensione Domini) poco peggiore della vita dell'inferno, se non
fosse per la speranza che abbiamo di un'altra migliore nel Cielo. L'infanzia è piena d'ignoranza
e di timore, la gioventù è piena di peccati, la vecchiaia di dolori, ed ogni età di pericoli; non v'è
chi sia contento del suo stato, se non chi desidera morire in vita, di modo che non può la vita
essere buona, se non quando più si assomiglia alla morte.
Finalmente come l'ombra di tal maniera è immagine che rappresenta tutte le cose a rovescio,
giacché chi si ponesse tra la statua e la sua ombra, vedrebbe che ciò che è alla destra della
statua, l'ombra lo rappresenta alla sinistra e ciò che sta alla sua sinistra, questa l'ha a destra;
così il tempo è di tal maniera immagine dell'eternità che ha tutte le sue proprietà a rovescio.
L'eternità non ha fine, mentre l'ha la vita e il tempo; l'eternità non è mutabile, mentre non
v'ha cosa più mutabile del tempo; l'eternità non ha comparazione per la sua infinita
grandezza, mentre la vita e tutti i suoi beni sono tanto corti e piccoli che non si elevano sopra
la terra più di un punto.

117
LIBRO II

LA FINE DEL TEMPO

CAPITOLO PRIMO.

La fine della vita temporale

Consideriamo ora quante condizioni contrarie a quelle dell'eternità si trovano nella nostra vita
miserabile. E cominciando dalla prima, che è l'aver fine e limite, vi sono due cose da
considerare: una è la fine stessa, l'altra è il modo di essa; una il dover finire, l'altra la maniera
di finire, che forse è ancora miseria peggiore della stessa fine.

La fine della vita temporale in se stessa.


In verità, se anche la fine della vita dipendesse da l'uomo e fosse egli libero di stabilire e il
numero degli anni da passare in questo mondo e il modo di uscirne, sia pure senza infermità
né morte, il solo fatto che queste cose temporali debbono finire basterebbe per renderle
spregevoli. Come le cose più o meno sono pregevoli in quanto più o meno sono durature, così
la vita per il fatto solo che deve finire, sia pure in qualunque modo, è ben poco da stimare.
Un bel vaso di cristallo, se fosse durevole come l'oro, sarebbe più pregiato; essendo però
fragile, perde la stima, quantunque non sia impossibile che duri molto tempo, perché la sola
possibilità di non

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durare (giacché potrebbe rompersi per alcuna disattenzione) gli toglie molto del suo valore.
Così è della nostra vita e più ancora, perché la somma fragilità sua è molto maggiore di quella
del vetro: ad ogni momento può venire spezzata da un accidente qualsiasi, ed a parte questo,
non può durare molto, perché da se stessa continuamente si va consumando, ciò che la rende
spregevole con tutti i suoi beni temporali. Considerando che la vita finisce con la morte,
preceduta da infermità e disgrazie che ne preparano il cammino, è da spaventarsi al pensiero
che esista uomo mortale, che apprezzi una felicità temporale, pur vedendo la miseria a cui va
incontro ogni prosperità del mondo e la maestà dei maggiori monarchi.
Dove andò a finire il re Antioco, (1Mac. 6.) signore di tante province? In una melanconia
inconsolabile e mortale, in una veglia che gli faceva perdere il senno, senza poter chiudere
palpebra, né giorno né notte, in un vomito che gli commuoveva le viscere, in uno slogamento
di ossa che lo rendeva inabile ad ogni altra cosa che al patire, e colui che sembrava essere
padrone delle onde del mare ed aver pendenti dalla sua mano i monti maggiori della terra,
non poteva reggersi in piedi, né dare un passo.
Colui che vestiva prima ricche sete e delicatissime tele ed emanava da le vesti i più soavi
profumi, esalava di poi tali fetori, che nessuno poteva per quell'intollerabile puzzo stargli
vicino, ed essendo ancor vivo, già gli pullulavano nel corpo miriadi di vermi, gli cadevano a
brandelli le carni, facendolo urlare di dolore e di disperazione. Se dopo aver pensato ad
Antioco quando più fulgido dell'oro, ricoperto di gemme e di lussuose vesti, cavalcando un
focoso destriero comandava ai suoi eserciti e faceva tremare la terra, lo si contempla

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poi, senza forze nel suo letto, pallido, fetente, fracido, fatto un brulicare di vermi, privo di ogni
assistenza dei suoi ridotto ad una morte disperata, chi può aver invidia dei suoi tesori?
Chi, vedendo questa morte, desidererebbe la felicità della sua vita? Chi poi, carico di tali
miserie, vorrebbe la sua fortuna? Rifletta, dove vanno a finire i beni della vita. Come le acque
chiare del Giordano vanno a finire nel fango pestilente del Mare Morto e si affondano in quel
liquido bituminoso, così il più grande splendore di questa vita va a finire nella morte e nel
lezzo delle infermità, che di solito l'accompagnano.
Pensino in quale fango ed in quale sudiciume finirono i due Erodi, Ascalonita e Agrippa, re
tanto potenti. Questi, vestendo di broccato ed ostentando maggior maestà di quel che si
convenga ad un uomo mortale, finì coll'esser cibo dei vermi che gli mangiavano le carni
ancora in vita, tutte corrotte ed infette, mandando puzza e materia orribile. E la maestà di
Ascalonita a che cosa giunse? Ad esser consumato da schifosi pidocchi che lo finirono a morsi.
Quell'Acabbo (1Re.20,22) vincitore del re della Siria e di altri trentadue re, come finì il suo
regno? Traversato il suo stomaco ed il polmone da una saetta, inondando tutto il carro reale
del suo sangue nero, per nutrimento dei cani che lo leccarono come se fosse di una fiera.
Né la fortuna di suo figlio, re Jolan, fu maggiore, perché anch'egli, trafitto a tergo fino al
cuore, morì e divenne pasto dei corvi e dei cani, mancando perfino sette palmi di terra per la
sepoltura a colui che in vita era padrone di tanta. E Cesare? chi l'avrebbe riconosciuto, il
trionfatore del popolo che aveva vinto il mondo, quando, colpito da ventitré pugnalate,
agonizzava in un lago di sangue? E chi crederebbe che era il medesimo

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Ciro colui che sottomise al suo scettro la Media, l'Assiria, la Caldea, colui che con trenta anni
di vittorie fece stupire il mondo, è colui che fu ignominioso trofeo di vendetta femminile? Solo
per finire così vergognosamente furono trent'anni di gloria? Chi crederebbe che era il
medesimo Alessandro (PLUTARCUS, in eius vita) quello che con la spada alla mano mise in
catena ed Indiani e Persiani ed il mondo intero, e quello che poi ad un colpo solo di una
febbriciattola non poteva tenersi sulla persona, fiacco, debole, squallido, assetato, nauseato,
privo di ogni conforto, con gli occhi affossati, con le narici affilate, il petto gonfio, senza poter
articolare parola? Cosa spaventevole questa: che il solo ardore di una febbre possa consumare
la potenza e la fortuna del mondo.
Cosa spaventevole, il vedere quanto grande mostro sia la vita umana, la quale ha estremi tanto
sproporzionati. La felicità incerta di tutta la vita finisce in una miseria certa. Un grande
mostro sarebbe, se uno avesse un braccio da uomo, l'altro di elefante, un piede di cavallo e
l'altro di orso.
Eppure la vita non ha meno parti sproporzionate. Chi mai vorrebbe sposarsi con una donna
dal corpo bellissimo, però con la testa di dragone mostruoso e schifoso? Certamente, se anche
portasse una grande dote, nessuno la desidererebbe. Ora, perché ci familiarizziamo con questa
vita? Benché sembri che ci porti molti beni, non è minor mostro perché, pure avendo bel
corpo, la sua fine è orribile. Bene disse un filosofo che la fine è la testa delle cose; e la verità è
che, come gli uomini si conoscono dalla faccia, così dobbiamo conoscere le cose dalla loro fine.
E per ciò, chi vuole conoscere la vita, guardi alla sua fine. Che fine di vita vi ha che non sia
miseria? Così tutta la vita deve ritenersi per miserabile.

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Non s'inganni nessuno per il vigore della salute, per l'abbondanza delle ricchezze, per lo
splendore dell'autorità, per la grandezza della fortuna, perché quanto più ricca essa fu, tanto
essa sarà più miserabile, andando tutta la sua fortuna a finire nella miseria. Agesilao,
(PLUTARCUS, in eius vita) sentendo lodare il re di Persia per le sue grandi ricchezze, corresse
quei che lo lodavano, dicendo: "Fermatevi, poiché anche il re Priamo, la cui fine fu tanto
miserabile, non era sfortunato quando aveva l'età del re di Persia”, volendo così far capire che
anche i più ricchi non si dovevano invidiare, per la fine incerta che li aspetta. Quanti sono che
sembrano ricchissimi in questo mondo? In breve tempo però la morte dirà quale possa essere
la felicità di questa vita. Per questo Epaminonda, (PLUTARCUS, in Apoph. graecis) quando gli
domandarono chi dei due famosi capitani Cabria ed Inorate era il più valoroso rispose che:
“Mentre vivevano, questo non si poteva sapere, l'ultimo giorno di vita di ciascuno ne avrebbe
data la sentenza”.
Nessuno s'inganni vedendo la prosperità di un ricco, né misuri la sua felicità dal presente, ma
da ciò che l'attende a la fine; non dai grandi palazzi che possiede o dal lustro della sua dignità,
ma dal come andrà a finire tutto quello che più si ammira. Il meno male che gli possa capitare
è di finire in un letto di dolore, dove, fra gli spasimi dell'angoscia lotterà con la morte. E dico
meno male, perché potrebbe anche, quando meno se lo aspetti, cadere sotto il pugnale d'un
nemico, aggredito da una fiera, incenerito da un fulmine. Ciò detta la ragione anche se non vi
fosse esperienza, la quale però ci è testimone di tanti che ogni giorno cadono vittime della
morte.

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Nessuno conosce meglio questa vita, nessuno la considera meglio che chi le tiene voltate le
spalle.
Essendo Magone, (DIONYS. CARTHUS., De Novissimis, art. 5) celebre capitano dei
Cartaginesi e fratello di Annibale, mortalmente ferito, confessò queste verità a suo fratello:
“Oh quale è la fine della fortuna e della vita! Quale stoltezza è precipitarsi da un punto elevato!
Lo sfato dei potenti è soggetto ad innumerevoli burrasche, la cui soluzione è andare a picco ed
annegarsi. Oh quanto vertiginosa è la cima dei grandi onori! La speranza degli uomini è falsa;
vana e debolissima è tutta la sua gloria, ingannata da finte carezze. Oh vita incerta, esposta ad
un perpetuo affanno! Che mi giova aver fatto sorgere edifizi così riguardevoli per oro e
marmo, per vastità ed altezza, se ora debbo morire in aperta campagna? Quante imprese stai
pensando di compiere, ignorando qual fine amaro sia loro serbato! Vedi, fratello, come io sto
morendo, sappi che ben presto hai da seguirmi”.

Il modo più fortunato di morire


Non guardiamo a tutti i generi di morte che si danno, ma solo a quello che si ritiene per morte
più fortunata, quella cioè che viene non per violenza o repentinamente, ma adagio preceduta
da qualche infermità che naturalmente porta alla fine.
Che maggior miseria della vita che dover chiamare fortuna cosa tanto miserabile, solo perché
è miseria minore! In se però non cessa di essere molto grande. Quali angoscio, infatti, non
deve soffrire anche chi muore in tal modo!
Quanto lo affliggono gli accidenti dell'infermità, il calore della febbre che gli brucia le viscere,
l'arsura delle labbra che gli impedisce di parlare, i dolori di testa che gli impediscono di
intendere,

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le angustie del cuore che lo opprimono con mortale malinconia ed altre angoscio più
numerose ancora che le membra del corpo, non ultima quella delle medesime che talvolta
sono più penose degli stessi mali. Si aggiunga a questo lo strazio di dover abbandonare quanto
in vita si è così intensamente amato, e soprattutto il dubbio pauroso se andrà salvo in cielo, o
dannato all'inferno.
Se si dice amara la sola memoria della morte, che sarà la sua prova? Saulle, pure essendo
uomo di grande valore, quando gli venne detto che doveva morire all'indomani, cadde per lo
spavento tramortito a terra. Quale notizia più terribile per un peccatore di questa: che ha da
morire, lasciando tutti i suoi beni nella morte per dar conto a Dio della sua vita?
Se la sorte dovesse decidere per un uomo: o morire tra i più crudeli tormenti od essere
innalzato al trono, con quale timore starebbe aspettando il risultato? Come sarà uno che
agonizza, aspettando fra due ore il risultato della sorte, della gloria o dell'inferno, lottando
frattanto con tutta l'eternità che l'aspetta? Ora che vita può chiamarsi fortunata, se si tiene per
fortuna dover finire con questa miseria?
Se non vogliamo credere a queste cose, domandiamolo ad un povero moribondo, quando già
sta col petto sollevato, cogli occhi infossati, le narici affilate, i piedi morti, le ginocchia fredde,
il volto pallido, i polsi senza movimento, il respiro affannoso, quando già gli astanti
mormorano intorno al suo letto le ultime preghiere e lo invitano a raccomandarsi a Dio, a
chiedere perdono delle sue colpe, e ad invocare il nome di Gesù, che cosa potrà dire della sua
vita, sennonché, quanto più fu prospera, tanto più fu vana e la sua felicità ingannevole, se a tal
fine miseranda doveva condurlo?
Quanto volentieri cederebbe tutti gli onori del mondo! E non solo li darebbe volentieri, ma
quanto

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pagherebbe per non averli mai avuti, se gli furono occasione di dispiacere a Dio, e come tutto
sacrificherebbe volentieri per essere sicuro di aver fatto una buona confessione! Disse Filippo,
monarca degli spagnoli e signore di tanti regni in quattro parti del mondo, che ben volentieri
avrebbe cambiato la sua grandezza di re con le chiavi della portineria di un umile convento.
Ciò che uno vorrebbe allora essere stato, pur non potendolo più essere, lo sia ora, mentre può.
La morte è la gran luce dei disinganni. Pensa che cosa allora vorresti aver fatto e non lo potrai,
affinché lo faccia, mentre puoi. Stolto sarai se, quando puoi, non vuoi ciò che vorrai quando
non potrai. Se uno fino all'ora della morte avesse avuto i più grandi beni del mondo, che cosa
avrà in quel punto? Nulla, anzi, quanto maggiori beni tanto maggior tristezza. Che cosa avrà
uno delle penitenze e delle fatiche sopportate per Gesù Cristo, anche se avesse patito più di
tutti i Martiri? Certamente che allora non sentirà nessun dolore, né pena, ma molta
consolazione.
Le opere quindi che fai ora giudicale come allora le giudicherai, in quei momenti estremi.
Rifletti quanta poca sostanza avranno le cose temporali, quando ti si scoprirà la vista di quelle
eterne. Gli onori che ti fecero, già non li avrai più; i piaceri che hai gustato non li potrai avere;
le ricchezze tue dovrà averle un altro. Considera quale è la fortuna del mondo, e se merita che
per lei perdiamo la felicità eterna.
Ti prego di considerare ciò che è la vita e ciò che è la morte. La vita è il passaggio di un'ombra;
essa è breve, faticosa e pericolosa; è un'attesa che Dio ci concede nel tempo per meritare
l'eternità. Mettiti a considerare, perché Dio tracciò il giro di questa vita, mentre ci avrebbe
potuto mettere in un momento e di primo colpo nel cielo. Fu forse perché tu perdessi tempo
vivendo in questo mondo

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come bestia, dandoti a tutti i piaceri viti del senso, inventando chimere di vani onori? o non
piuttosto perché tu esercitassi le virtù e raggiungessi per mezzo dei meriti il Cielo e
riconoscessi ciò che devi al tuo Creatore, perché fra le pene e gli affanni tu scoprissi quanto sei
fedele? Per questo egli ti pose nella lizza: per combattere per Lui e difendere il suo onore. La
vita dell'uomo su la terra, dice Giobbe, è una milizia: e così la volle Iddio per provare la tua
fedeltà alla sua bandiera, in mezzo ai nemici.
Starebbe bene che in tempo di battaglia un soldato stesse disarmato e si divertisse giocando ai
dadi? E non sarebbe ridicolo un gladiatore romano che, entrando nel luogo del
combattimento, si mettesse a sedere nell'arena e gettasse via le armi? Ciò fa chi cerca in
questa vita riposo e le cose della terra, non occupandosi di quelle del Cielo, né guardando alla
morte, ove ha da finire. Questa vita è un pellegrinaggio; e chi è quel passeggero che si diverta
tanto nel cammino, che si dimentichi per dove è diretto? Come ti dimentichi tu della morte,
verso la quale con grande lestezza ti sei incamminato? Per quanto tu voglia fermarti, il tempo
ti porterà con sé, anche se tu non vuoi!

Tutti siamo condannati alla morte.


Il cammino di questa vita non è volontario, come quello dei pellegrini, ma è necessario come
quello dei condannati alfa forca, quando escono dal carcere per andare al luogo del supplizio.
Sei condannato a morte e verso di essa cammini: come puoi ridere? Un povero condannato
dopo aver sentito la sua sentenza come potrebbe ridere, e non pensare alla morte vicina?
Tutti siamo condannati a morire; e come possiamo rallegrarci delle cose che abbiamo da
lasciar presto? Chi andando al patibolo si rallegrerebbe di un piccolo fiore che gli venisse
offerto, o

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avrebbe voglia di giocare nel luogo stesso del suo supplizio? Ora, se dal medesimo punto in cui
nasce l'uomo s'incammina come condannato verso la morte, come può rallegrarsi di un gusto
del suo appetito, ch'è un misero fiore o per meglio dire un poco di fieno, come dice il Profeta:
la gloria della carne non è che un po' di fieno che subito secca... e come può gioire fra le
ricchezze che agli uomini tante volte sono causa della morte? E come non riflettiamo a questo,
riconoscendo la vanità di tutto ciò che si fa nella vita, se non serve a prepararci alla morte?
Però ben lo vedremo allora, quando più non vi sarà rimedio, e ci vedremo abbandonati
necessariamente da quegli stessi beni che noi non abbiamo voluto liberamente e con merito
abbandonare.
La morte è una privazione generale di tutti i beni temporali, uno spoglio tanto rigoroso di
tutte le cose, che spoglia perfino il corpo dell'anima.
Che sentimento ha uno, al quale si tolgono tutti i suoi tesori e si confisca luna la sua sostanza?
Ciò fa la morte; per questo la si paragona al ladro, il quale però toglie solo la sostanza, mentre
questa ruba e l'anima e la vita. In fine hai da lasciare tutto, perché vai dunque caricalo e
affaticato invano? Chi è quel mercante che, sapendo che la nave arrivando al porto si deve
affondare, la carichi di molta mercanzia? Arrivando alla morte, se per te tutto ha da affondare,
perché ti carichi di ciò che non è necessario per salvarti, anzi ti è di impedimento? Quanti in
una gran tempesta per non volere gettare al mare la loro mercanzia, furono inghiottiti dal
mare non solo essi, ma tutte le loro sostanze? Quanti, tenendo molti beni temporali, si sono
perduti nell'ora della morte, per non averti voluti gettare nel mare; anche quando i beni
lasciano loro, essi non vogliono lasciare i beni, pensando più ad essi che alla salvezza
dell'anima.

127

Dice San Gregorio: Non si perde mai senza dolore ciò che con amore si possiede (Nunquam
sine dolore perditur, quod cum amore possidetur).
Scrive Humbert (HUMBERT, in tract. De Septemplici timore) che un uomo molto ricco, che
stava già per morire, si fece portare tutti i vasi e tesori di argento e oro e parlando con l'anima
sua le diceva: “O anima mia, tutto questo ti prometto e ne godrai, se non lasci il mio corpo, e ti
darò cose ancora più grandi, molte eredità e case sontuose, a condizione che tu resti con me".
Ma incalzando di più l'infermità, disse con grande rabbia: "Giacché non vuoi fare ciò che ti
domando, né rimanere con me, ti raccomando al diavolo".
Con queste parole spirò subito miserabilmente. Da questo fatto si può rilevare la vanità delle
cose temporali e il danno che portano a chi le possiede con esagerato affetto.

Le ricchezze saranno di danno all'anima.


Qual vanità maggiore che non esser utili nel momento di maggior necessità ed importanza? E
qual maggior danno che quando non possono essere neppur di giovamento al corpo sono
ancora di danno all'anima? Non solo per disprezzarle, ma per aborrirle dovrebbe bastare il
fatto che ci impediscono di salvarci quando in esse si mette troppo affetto.
Roberto di Licio scrive che, stando egli ammonendo un infermo perché si confessasse e si
occupasse dell'anima sua, i servi ed i domestici andavano sollecitamente per la casa
raccogliendo ognuno ciò che poteva. L'infermo che stava vedendo ciò che succedeva ed
attendendo di più a ciò che succedeva che a quello che gli diceva il confessore della sua
salvezza, emetteva dei sospiri e

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diceva: "Povero me, povero me, perché ho faticato tanto per acquistare ricchezze ed ora, voglia
o non voglia, le devo lasciare e me le tolgono! O ricchezze mie! O miei denari! O mie gioie! Chi
vi possederà?". Fra queste voci morì senza far più caso dell'anima sua che se fosse quella di un
turco.
Scrive pure Vincenzo Beluacense (In speculo morali) di un tale che, avendo dato in prestito
quattro lire di moneta a condizione che dopo quattro anni gliene dovessero restituire dodici,
giunse fra tanto all'ultimo dei suoi giorni e gli fu accanto un Sacerdote, il quale lo esortava
perché si confessasse. Non poté cavar dall'infermo altre parole che queste: “Fulano deve
pagarmi dodici lire per le quattro lire prestate", e ripetendo questo, subito mori. Scrive pure
San Bernardino che, stando un confessore a persuadere un ricco, perché si confessasse, egli
non gli diceva altro che questo: "Quanto è stimata oggi la lana? Qual è il suo prezzo?". E
quando il Sacerdote gli disse: "Signore, per amor di Dio, lasci questo e pensi all'anima sua",
l'infermo proseguiva nel domandare informazioni di ciò che passava in cose da cui poteva
sperare guadagni e diceva: "Padre, quando verranno le navi? Sono già venute?". Essendo
tanto ingolfato nelle cose temporali e nei suoi guadagni, non poteva né di altro parlare, né
pensare ad altro. Però insistendo di più il confessore, perché riflettesse a se stesso e si
confessasse, il più che poté cavargli fu il dire: "Non posso". In questo morì senza confessione.
Questa è la mercede che i beni della terra sanno dare a chi più li ama: che se non si lasciano o
perdono prima della morte, essi lasciano i loro padroni e il più delle volte li mandano in
perdizione. O stolti figli di Adamo! Ci è data questa breve vita per acquistare i beni del Cielo,
che hanno da

129

durare eternamente, e ci logoriamo in cerca dei beni terreni che in un momento si hanno da
perdere! Perché perdiamo il tempo nelle cose temporali e non acquistiamo con l'impiego del
breve tempo un'eternità, dove non avremo più di quello che ci saremo meritato in questa vita,
la quale ci è data solo per lucrare la gloria per tutta l'eternità? Perché non fai nulla di questo e
solo ti occupi in cose temporali che presto hai da lasciare e negli affari di questo mondo, dai
quali presto dovrai uscire per entrare nella regione nuova dell'eternità?
Meno sarebbero mille anni rispetto all'eternità che un quarto d'ora in confronto a sessantenni.
Perché ci trascuriamo in un tempo tanto breve, nel quale si può acquistare ciò che ha da
durare per i secoli dei secoli? La morte è un momento fra il tempo e l'eternità. E poiché in
questa vita vi è tempo di acquistare l'eternità, non trascuriamolo.
Ricordiamoci quanto importa morire bene e che dobbiamo morire, affinché vivendo bene,
moriamo bene.

Le lezioni del sepolcro.

Per convincerci anche meglio della verità suddetta, guardiamo il cadavere di un uomo che sia
morto della morte più tranquilla... Quanto è brutto, deforme, spaventevole!
Anche i suoi amici più affezionati non se la sentono di star soli con lui una notte. I parenti più
vicini subito procurano di allontanarlo dalla casa avvolto in un lenzuolo mortuario; messo in
sepoltura, da lì a due giorni già si dimenticano di lui. E chi si sentiva come prigioniero in
grandi palazzi sta in una stanza tanto stretta come sono sette piedi di terra. Chi si coricava in
letti regali e ricchi avrà per letto il duro suolo; e, come dice Isaia, avrà per materasso i vermi e
per coperte le tignole; i cuscini saranno, quando molto, le ossa di altri morti e sarà coperto di
terra; con una lapide

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scolpita lo onoreranno, pascendosi frattanto animali stomachevoli delle sue carni, mentre gli
ingrati eredi trionfano della sua sostanza. Colui che esercitò le armi e ballò nei festini, sarà ora
immobile e freddo, senza moto nelle mani e senza vita nei suoi sensi. Colui che col suo impero
e con la sua superbia padroneggiava su tutti, sarà allora calpestato da tutti.
Si contempli uno dopo otto giorni dalla morte come sarà, e quale orrendo spettacolo
apparirebbe, se si aprisse la sua sepoltura. In che sarebbe egli differente da un cane morto e
verminoso gettato in un immondezzaio? Rifletti dunque chi accarezzi: un corpo che entro
quattro giorni può essere che sia mangiato da schifosi vermi. Sopra che cosa fondi tante
fabbriche di vane pretese? Tutte sono torri senza basi, poiché si tendano sopra poca terra, che
convertendosi ben presto in polvere, farà cadere tutto l'edifizio che le stava sopra fabbricato.
Considera dove va a finire la grandezza umana e come non è meno miserabile e fetente la sua
fine che il suo principio. Ti serva questa considerazione per disprezzare tutte le cose della vita,
come ha servito a molti servi di Dio per cominciare ad esserlo. Scrive Alessandro Faya che,
essendosi aperto il sepolcro in cui era stata sepolta una persona di molto riguardo, i
circostanti videro sopra il volto del principe una gran quantità di vermi brutti e schifosi e
molte altre bestiole stomachevoli, che causavano tanto orrore che tutti si diedero alla fuga.
Venendo ciò a notizia del figlio, che stava allora nel fior della sua età, volle andare a vedere
questo spettacolo. Quando vide tanto marciume e tanti vermi disse: “Sono questi i nostri
amici che noi produciamo e sostentiamo con le nostre delizie? Sono questi che facciamo
riposare nei letti agiati e nelle stanze tappezzate e dipinte e ci studiamo di farli crescere con la
varietà dei manicaretti? Miglior cosa è trattarli male col digiuno

131

ed ucciderli colla penitenza, acciocché morendo essi, mentre viviamo noi, non abbiano a
perseguitarci dopo che saremo morti". Con questo, lasciando il suo grande stato e le vane
pompe del mondo, fuggì col solo vivo desiderio di essere povero per Cristo, reputando questo
per somma felicità. Venne a Roma, dove castigò il suo corpo rigorosamente, vivendo nel santo
timore di Dio ed esercitando l'ufficio di carbonaio, finché, venendo un giorno in città per
vendere il suo carbone, fu sorpreso da una gravissima infermità che, da lui sofferta con
pazienza meravigliosa, finalmente lo condusse a rendere la sua santissima anima nelle mani
del Signore. Nel punto in cui spirò suonarono da sé tutte le campane della città.
Non fu meno efficace nel cuore di San Francesco Borgia, allora Marchese di Lombay, la vista
dell'imperatrice Isabella, moglie di Carlo V, la cui salma gli venne affidata per trasportarla a
Granada nella tomba imperiale. Fece aprire la cassa di piombo per consegnarla, ma Isabella
era divenuta così abominevole in faccia e contraffatta, che gli astanti tutti inorridirono, e non
fu chi ardisse di affermare con giuramento che quella era l'imperatrice. Fu tanto veemente il
fetore che gettava da sé, che la maggior parte si ritirarono per non poterlo soffrire.
Chi non vede qui la vanità del mondo? Che cosa vi ha di maggior rispetto e stima che il corpo
di un gran re o regina quando vivono, e adesso fuggono da esso quanti sono le guardie ed i
cavalieri che l'accompagnano? Si tiene per felice chi ha la fortuna di star vicino ed anche di
parlare loro in ginocchio, come a divinità, ma dopo la morte, abbandonati dagli uomini, sono
lasciati alla discrezione dei vermi, dei rospi e dei cani. Una buona testimonianza di questo è la
regina Gezabele, il cui corpo, in vita così apprezzato, dopo la morte fu fatto a pezzi
ignominiosamente dai cani.
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Ma, tornando alla nostra storia, al sepolcro rimase solo il marchese, considerando ivi ciò che
fu l'Imperatrice e ciò che allora vedeva, dicendo fra sé: “Dove è quella bellezza di volto ora
fatta putredine e vermi? Dove è quella maestà e gravita di sembiante che si faceva rispettare
da tutti e reputare per fortunati i popoli che la vedevano? Ora ha fatto fuggire i suoi intimi.
Dove è l'impero e lo scettro se non già disfatto in polvere e fango? Questa considerazione gli
toccò il cuore e gli fece disprezzare tutto ciò che è temporale per cercare solo l'Eterno,
determinandosi a non servire più a Signore che gli potesse morire.
Questa stessa memoria della bruttezza di un corpo morto deve servire per disprezzare la
bellezza del corpo vivo, come consiglia San Pietro Damiani, il quale dice: Se il nemico astuto ti
pone dinanzi la bellezza inconsistente della carne, vada subito il tuo pensiero a contemplare i
sepolcri dei morti e considera che cosa si potrà trovare ivi di soave al tatto e dilettevole alla
vista. Considera che quella fossa manda un fetore intollerabile, che quella putredine genera e
pasce dei vermi, che quanto ivi si trova di polvere e cenere fu prima bella carne, che nella sua
primavera era soggetta a passioni somiglianti. Si considerino i nervi secchi, i denti denudati,
disordinata la disposizione delle ossa e degli arti, tutta la composizione delle membra
enormemente disfatta. Questo mostro di figura informe e confusa toglierà dal cuore umano
ogni estasi ed incanto (In Gomorrhiano, cap. 23).
Tutto questo avverrà a te, anche nella miglior ipotesi. Perché non vi pensi? Perché non emendi
i tuoi costumi? Questa sarà la tua fine; indirizza dunque a questo la tua vita e le tue azioni. Da
ciò nascono tutti gli errori degli uomini; si dimenticano della fine della vita, mentre la
dovrebbero
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aver sempre davanti agli occhi per conformare la vita al compimento dei loro obblighi.
Con ragione certi filosofi, che si chiamano Bramini, avevano davanti alle porte delle loro case i
sepolcri aperti, perché entrando e uscendo sempre si ricordassero della morte per vivere bene.
In questo senso è molto vera e profonda la sentenza nota di Platone: la sapienza è la
meditazione della morte, perché questo salutare pensiero della morte ci disinganna delle
vanità della vita e ci dà forza per migliorarla, per il che tutti i Cristiani dovrebbero ricordarsi
della loro fine.
Scrivono alcuni autori che un confessore, non potendo riuscire a persuadere un suo penitente
a far penitenza dei suoi peccati, si accontentò che gli promettesse che un suo servo tutte le
sere nel momento in cui si coricava lo avvisasse che doveva morire, dicendogli queste parole:
"Pensa che devi morire". Avendo poi udito molte volte questo ricordo ed avendolo ruminato
profondamente dentro di sé durante la notte, si mostrò finalmente ben disposto ad accettare
qualsiasi penitenza. La medesima cosa successe ad un altro, il quale aveva confessato al Papa
colpe gravissime e, aggiungendo che non poteva digiunare, né portare cilizi, né far altra cosa
aspra. Sua Santità, dopo averlo raccomandato a Dio, gli diede un anello sul quale era scritto:
Memento mori, ricordati che devi morire, con l'incarico che sempre lo guardasse e leggesse
quelle lettere e si ricordasse della morte. Questo ricordo gli produsse in breve tempo tali e
tante risoluzioni al cuore, che si offerse al Papa a compiere quanto gli fosse per comandare.
Per lo stesso motivo, sembra che Dio, volendo parlare al Profeta Geremia, lo abbia mandato
da un vasaio: scendi in casa d'un vasaio e vi udirai le mie parole. Ben poteva il Signore
mandare il suo Profeta in qualche altro luogo più pulito e non così vicino al fango nel quale
stavano occupati molti uomini.
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Ma Egli fece questo con un mistero particolare: per farci comprendere che alla presenza dei
sepolcri dove sta il fango della nostra natura, come nella casa del vasaio, è molto acconcio che
Dio ci parli con la memoria della morte, per udire meglio la sua parola.
Per questo il demonio fa di tutto per farcela dimenticare. E infatti; com'è che mentre il solo
sospetto di alcuna perdita o di un danno basta a togliere agli uomini il sonno, non da
preoccupazione alcuna la stessa certezza della morte, che pure è la più terribile di tutte quante
le cose?

CAPITOLO SECONDO.

Notabili proprietà, della fine della vita temporale.

Oltre la miseria nella quale va a terminare ogni felicità del mondo, la fine della nostra ha
ancora altre notevoli proprietà degne di essere considerate, affinché disprezziamo tutti i suoi
beni. Ne enumeriamo tre principali: la prima, essere la morte certa, perché verrà senza
rimedio; la seconda è l'essere incerta, perché non si sa, né quando, né come verrà; la terza è
l'essere unica, perché non si può provare a morire una seconda volta, per correggere con la
seconda morte ciò che si fece malamente la prima volta.

La morte è certa.
Quanto alla certezza ed infallibilità della morte conviene mollo che noi ce ne convinciamo,
poiché, come è certo che l'altra vita non avrà mai fine, così è certo che questa l'avrà. Come i
miserabili dannati disperano che i loro tormenti abbiano termine, così praticamente
dobbiamo disperare che

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abbiano a durare i piaceri di questa vita. Iddio non ha fatto legge più inviolabile che quella
della morte. Pur avendo dispensato da altre leggi e violato più volte i precetti della natura, non
ha mai dispensato, né dispenserà dalle leggi della morte; anzi ha dispensato dalle altre leggi,
per non venire meno a questa. Ha dato esecuzione all'obbligo della morte non solamente in
quelli che devono morire, ma anche in quelli che non lo dovevano. Nella concezione di Cristo
si infransero leggi tanto radicate nella natura, come quella per es., del nascere gli uomini dalla
propagazione di altri uomini, rompendo la integrità delle madri. Ma perché questo non
succedesse in Cristo, Dio fece due stupendi miracoli sospendendo le leggi naturali, perché suo
Figlio nascesse da Madre vergine. Fu però tanto lontano dall'eccettuare il suo stesso Figlio
dalla legge della morte che, pur non toccando la morte a Lui, giacché era Signore della legge e
immune da ogni peccato, anche dell'originale, per il quale noi contraemmo la legge della
morte, anzi dovendosi al Suo Corpo Santissimo l'immortalità e le quattro doti della gloria,
perché l'anima sua godeva la visione chiara dell'essenza divina, ciò non di meno non volle
usare di questo diritto e fece miracoli, sospendendo con il suo braccio onnipotente le doti della
gloria del corpo, che gli dovevano risultare dalla gloria dell'anima, affinché potesse morire. Ed
ecco come conserva Dio la legge della morte, con tale rigore che mentre fa miracoli per
sospendere altre leggi di natura, non li fa per sospendere quella della morte nemmeno per chi
né la merita, né dovrebbe essere soggetto.
E poiché il Figlio di Dio prese sopra di sé la redenzione del genere umano, per cui conveniva al
suo grande amore morire di morte sulla croce, quantunque alla sua SS. Madre mancasse
questa ragione e neppure dovesse morire per causa del peccato originale, di cui era esente,
pure non volle eccettuarla dalla legge inviolabile della morte.

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Ora, qual mistero è questo che, essendo tanto certa la morte, non riusciamo ad intenderlo ed
a persuadercene? Devi morire, siine persuaso. La legge è irrevocabile, morirai senza rimedio.
Verrà tempo in cui i tuoi occhi ora così fulgidi, saranno spenti, le tue mani ora così agili
saranno senza moto, il tuo corpo ora pieno di vita e di brio sarà freddo ed inerte, la tua bocca
muta, le tue labbra livide, le tue carni che ora tanto accarezzi disfatte e pasto di vermi schifosi.
È cosa certa che verrà un tempo in cui starai coperto di terra, in cui sarà fetente il tuo corpo,
brulicante di vermi, più orribile a vedersi di un cane morto, putrefatto in una fossa. Verrà
tempo in cui sarai dimenticato dagli uomini, come se tu non fossi mai stato e ti calpesteranno
coloro che ti passeranno sopra, senza sapere che è nato un tal uomo.
Considera questo e persuaditi che hai da morire come tutti. Ciò che vedi che è toccato a tanti,
credi che toccherà anche a te. Tu, che ora hai paura dei morti, dovrai esser morto. Tu che hai
schifo di un sepolcro aperto, delle ossa di altri mezze putrefatte, sarai anche tu tutto coperto di
vermi e corrotto entro sette palmi di terra. Pensa un momento a questo, meditando
ponderatamente come sarai da morto, e ti servirà questa considerazione a disingannarti della
tua vita ed a farti disprezzare i tuoi beni presenti. In verità tale è la morte. Anche se fosse solo
contingente e non certa, ci dovrebbe far andare molto solleciti e guardinghi. Se Dio avesse
creato il mondo pieno di uomini e, prima che sapessero di dover morire, uno si fosse
improvvisamente ammalato di febbre perniciosa: chi può immaginare lo spavento che
avrebbero provato i suoi parenti e vicini alla vista dei suoi dolori e spasimi, al sentire i suoi
gemiti, all'assistere alla sua agonia e specialmente al vederlo morto... Spavento anche più
profondo quando, pochi giorni dopo avessero visto quel povero

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cadavere corrompersi, pullulare di vermi, mandando un orribile fetore... certo si sarebbe


impadronita di loro una tristezza mortale, temendo per sé una sorte somigliante.
Che se anche Dio avesse loro detto: Non voglio che muoiano tutti gli uomini, ma alcuni
soltanto, non rivelando però i designati alla triste sorte, ognuno di loro pensando alla sola
possibilità di dover morire, sarebbe stato invaso dalla paura e dal timore. Ma se allora tutti
avrebbero tremato per il solo fatto che potevano morire, ora, che è infallibile che tutti avremo
da morire, perché non ne siamo tanto solleciti? Se già la morte dubbiosa è da temersi, perché
allora, essendo certa, non ci riempie di spavento?
Se anche Dio dicesse: Solo un uomo di quanti vivono nel mondo deve morire; ma non dicesse
chi, tutti tremerebbero. Dunque, perché non temi adesso che tutti hanno da morire, e chissà
che non abbia ad essere tu il primo?
E se Dio dichiarasse chi deve essere colui che dovrebbe morire, e questi vivesse così trascurato
come vivi tu, che cosa direbbero gli altri uomini? Come spaventati sarebbero della tua
trascurataggine e temerità, che disprezza una cosa tanto terribile? Che cosa ti direbbero?
Senza dubbio ti griderebbero: "O uomo, che devi ritornare in polvere, perché vivi così? Uomo,
che sarai mangiato dai vermi, come ti puoi accarezzare? Uomo, che devi comparire dinanzi al
tribunale di Dio, come non pensi ai conti che dovrai rendere? Uomo, dovendo finire con te
tutte le cose, perché fai caso di esse? Noi altri sì che abbiamo da vivere sempre, possiamo
edificare case, procurare sostanze, perché non abbiamo più che questa vita che ci ha da durare
per sempre. Ma tu che stai in questa vita di passaggio, che hai da lasciarla domani, perché ti
metti ad edificare palazzi? Che ti mette in cure e sollecitudini?
Perché curi tanto le cose temporali che non ti sono

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necessarie? Sii preoccupato dell'altra vita, dove hai da andare a finire. Tu, tu sei colui che Dio
ha determinato alla morte, perché non lo credi? E se lo credi, perché stai ozioso? Perché vivi
così ozioso dove non hai da rimanere? Lascia le preoccupazioni della terra e rifletti dove hai da
andare. Tu non dovevi vivere fra noi, ma andare in un deserto per disporti al passaggio
terribile che ti aspetta".
Si faccia poi ognuno questo conto: io sono colui che deve morire e ridurmi in polvere. Questo
mondo non ha che fare con me; l'altro mondo, sì, venne fatto per me; solo di quello debbo
adunque preoccuparmi.
Sono qui di passaggio, per il che devo guardare all'eterno, dove andrò a finire. È certo,
certissimo che verrà la morte a portarmi via; uno solo dev'essere quindi il mio compito;
prepararmi a così difficile passo; e poiché nessun uomo me ne potrà liberare, voglio servire a
quel Signore che solo potrà salvarmi in un pericolo così certo.
Viene a proposito per disingannarci la storia riferita da Giovanni Maggiore. Un soldato servì
fedelissimamente per molti anni ad un marchese, e perciò si era cattivato grandissimo affetto.
Una infermità colpì il povero soldato. Quando il suo signor marchese ne ebbe notizia, venne
subito a trovarlo, accompagnato da buoni medici, e gli domandò della sua salute, dicendogli
molte parole di conforto e di affetto e si offri a lui per quanto fosse necessario per il suo
sollievo e la sua salute, pregandolo che gli chiedesse tutto, perché, senza guardare né a spese
né a fatiche, gli sarebbe stato provveduto con ogni liberalità. E importunandolo perché gli
domandasse qualche cosa, l'infermo gli disse che lo ricompensasse con una di queste tre cose:
O che gli desse modo di sfuggire alla morte che già gli

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stava dinanzi, o che almeno in qualche modo alleviasse per lo spazio di un'ora i dolori
grandissimi che soffriva, o, se doveva morire, che almeno per una notte, non più, gli facesse
prendere un po' di riposo.
Gli rispose il marchese che questo era solo pertinenza di Dio; che gli domandasse cose fattibili
di questa terra e lo provvederebbe ben volentieri. In questo modo, replicò l'infermo, ho
perduto io ogni mia fatica; quanti servizi gli ho resi nel corso della mia vita e tutto questo
invano e con poco frutto! E voltandosi verso coloro che si trovavano presenti, disse loro con
grande sentimento e con le lacrime agli occhi: "Fratelli miei, guardate quanto inutilmente ho
speso il tempo, che pure è una gioia così preziosa, nel servizio di questo signore, obbedendo ai
suoi comandi con tanta cura e con grande pericolo della mia anima, il che è il dolore più
grande che in questo momento sente il mio cuore. Guardate quanto piccolo è il suo potere,
giacché non ha potere per aiutarmi in tante angustie e pene, neppure per un'ora. Per questo vi
ammonisco, fratelli miei, che abbiate ad aprire gli occhi per tempo: e il mio errore vi sia di
lezione, perché vi guardiate da un pericolo così grande e procuriate in questo mondo di servire
un tal signore, che non solo vi possa liberare dalle presenti angustie e custodirvi dai mali
futuri, ma sia ancora capace di coronarvi di gloria nell'altra vita. E se il Signore mosso dalle
vostre preghiere si degnasse di ridarmi la salute, prometto di non occuparmi più nel servizio
di un signore così debole e povero che non sa rimunerare i servizi che gli si fanno, ma tutto il
mio impegno e tutti i miei sforzi dovranno servire a chi è potente in porgere aiuto a me e al
mondo universo". Con questo grande sentimento morì, lasciandoci l'esempio di quanto
abbiamo da utilizzare quel tempo che Dio ci diede per meritare i beni eterni.

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La morte è incerta
Veniamo ora alle incertezze che ha la morte nelle sue circostanze. Quanto è certo che abbiamo
a morire, tanto è incerto il modo con cui morremo. Non vi ha cosa tanto sicura come questa,
che tutti colpirà la morte, ma non vi ha cosa meno incerta del quando e come ha da venire. Chi
sa, se avrò da morire vecchio o giovane, se d'infermità o per un fulmine, se di dispiacere o di
pugnalate, se repentinamente o adagio, se tra amici, o nella solitudine, se da qui a un anno od
ossi stesso. Sempre la morte ha aperta la porta, sempre sta questo nemico all'erta e quando
meno si pensa ci assalta. Non so come vi sia uomo che si trascuri nel prevenire questo pericolo
che sempre lo minaccia.
Guardiamo come si custodiscono le cose temporali, anche quando non si corre alcun rischio. I
pastori custodiscono sempre le pecorelle, accompagnati da cani da guardia, anche se non
credono che abbia da venire il lupo, ma solo perché può venire. Le città fortificate si
custodiscono con forti presidi anche in tempo di pace, quando non si teme nemico alcuno, ma
soltanto perché in un tempo è venuto o poteva venire. Però quando vi ha sicurezza dalla
morte? Quando possiamo dire: Adesso non verrà? Dunque, perché non preveniamo questo
pericolo tanto grande? Nelle città di frontiera vi sono sempre sentinelle che vegliano tutta la
notte, anche quando non si teme nessun assalto; perché allora non stiamo sempre vegliando,
giacché non ci possiamo mai assicurare dagli assalti della morte? Se uno sospettasse che
dovessero venire i ladri in casa, veglierebbe tutta la notte, acciocché in nessuna ora di essa lo
cogliessero dormendo. Ma non essendo sospetto, bensì evidenza e certezza, che hai da morire
e non sai quando, perché non vegli sempre? Vedi quanta distanza vi ha fra i tuoi negozi e
l'anima tua, fra le ricchezze temporali e quelle eterne, che perderai se la morte ti coglie
impreparato.

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Stiamo in continuo pericolo e per questo dobbiamo stare in continua veglia.


E' bene aver sempre in ordine i conti con Dio, perché non sappiamo se ci chiamerà con tanta
fretta che non ci sia più luogo per farli. È bene mettersi al sicuro e star sempre in grazia di Dio
poiché, se non ci stiamo, la nostra eterna dannazione sta pendente da un solo filo. Chi
vorrebbe rimanere in questo pericolo, stando appeso ad un filo sottile, che rompendosi lasci
cadere in un profondo abisso, dove si farebbe a pezzi? Questo, o per dir meglio, molto maggior
pericolo corre chi sta in peccato mortale: sta pendente sopra l'inferno da un filo di vita, che è
un filo tanto sottile che può esser tagliato non dico da un coltello, ma dal vento, ed il respiro di
un infermo lo può rompere.
Spaventoso è il rischio che corre chi per il tempo di un'Ave Maria sta in peccato grave, perché
questo tempo è più che sufficiente alla morte per fare il suo tiro, giacché le basta il tempo di
una parola o di un batter d'occhio. Chi stando nudo e senza armi tra molti nemici potrebbe
ridere e scherzare? Entro tanti nemici sta l'uomo, e sono tanti quante le vie per le quali può
entrare la morte, che sono innumerevoli. Una vena che gli si rompa nel corpo, un tumore che
lo bruci nelle viscere, un umore che salga alla testa, una passione che occupi il cuore, una
tegola che cada dall'alto, un'aria che penetri per una fessura, un ferro a punta e mille altre
occasioni aprono la porta alla morte e sono i suoi ministri. Come puoi star disarmato e
denudato della grazia fra tanti nemici e rischi di morire? Non è altro questa vita che il
cammino del ladro dal carcere al patibolo. Fin dalla nascita portiamo in noi la sentenza di
morte; dal seno delle nostre madri usciamo come condannati dal carcere e camminiamo,
perché si faccia giustizia di noi per ciò che dobbiamo per il peccato originale.

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Chi vi ha che, avvicinandosi al luogo del supplizio, vada dicendo facezie e si diverta per la
strada? Tutti noi uomini non siamo altro che condannati i quali vanno al supplizio per
differenti strade, che essi non conoscono, né sanno se vanno diritte o per giravolte. Tutti
andiamo a finire nella morte, ma chi sa se andrà per una via torta o per una diritta, se ha da
arrivare presto o se tarderà di più? Ciò che puoi sapere è che stai in cammino, però non sai se
stai lontano; così devi temere d'incontrarti presto con essa e star sempre apparecchiato e non
attaccarti a questa vita. Basta questo rischio di morir subito per non aver stima di alcun
piacere di questa terra.
Il re Dionisio di Sicilia, per disingannare un filosofo il quale si riteneva sommamente felice,
poiché non gli mancava nulla di piacere, lo invitò ad una mensa con piatti ricchissimi e tutti i
divertimenti che poteva desiderare e comandò che subito si mettesse da quella parte, dove
stava, pendente sopra di lui, una spada molto affilata e acuta, appesa ad un filo di crine di
cavallo. Bastò questo rischio solo, perché quel filosofo non potesse mangiare boccone alcuno,
né gustare cosa alcuna di tutta quella festa.
Non è più sicura la tua vita; come dunque puoi gustare i piaceri di questo mondo? Chi ogni
momento può morire, in nessun momento dovrebbe godere della vita. Certamente questa
considerazione sola basta, come avverte Riccardo, per togliere il gusto a tutti i piaceri della
terra. Un grande pericolo o timore basta per togliere l'attenzione ai più grandi diletti, perché
non si sentano. E qual maggior pericolo vi è di quello dell'eternità?

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Questa incertezza della morte è perché tu ti disponga a disprezzare questa vita per prepararti
all'altra. Il poter morire sempre è perché tu sii sempre preparato. Che altro è la morte, se non
il cammino per l'eternità? Grande giornata hai da compiere; perché non ti prepari a tempo,
non sapendo quando ti obbligheranno a partire? Così il popolo di Dio, non sapendo quando
doveva partire, stava sempre in procinto di partenza durante i quarant'anni che rimase nel
deserto. Sta sempre apparecchiato, perché non sai se partirai oggi. Rifletti che v'è molto da
fare in morte; disponiti per tempo per farlo bene, giacché per questo sarebbero bene spesi
molti anni; non sapendo quindi se avrai anche solo un giorno, perché non ti disponi oggi?
Se per il viaggio di un giorno, dopo aver preparato bene le cose, pure ordinariamente trovi che
ne hai dimenticato alcuna, come per una giornata tanto lunga, quale è quella dell'eternità,
pensi che sia ben fatto a non prepararti mai? Chi non desidera lo colga la morte almeno due
anni dopo di aver servito con fedeltà a Dio? Ora non ne hai sicuro neppur uno; perché non ci
pensi subito?
Non fidarti della salute o della gioventù, perché molte volte la morte viene a tradimento e
quando meno l'aspetti. Secondo Gesù Cristo, nostro Redentore, essa verrà nell'ora in cui non
la pensi, e l'Apostolo disse che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte, senza che
alcuno lo senta, e quando dorme sonno profondo il padrone della casa. Non prometterti il
giorno del domani, tu che non sai, se verrà la morte in questa notte.
Il giorno prima che uscissero i figli d'Israele dall'Egitto, quanti signori maggiori di quel regno
si promettevano di fare o conseguire cose grandi all'indomani o in quell'anno! Ma nessuno
arrivò vivo all'indomani. Da savio agiva Mesadamo, come scrive Guido Bituricense, il quale,
invitare da uno perché mangiasse all'indomani con lui, rispose: "Amico mio, perché inviti per
domani me, che già da molti anni non mi sono arrischiato a promettermi il giorno seguente,
ed ogni ora aspetto la morte? Non c'è da fidarsi delle forze del corpo

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né dei pochi anni, né delle molte ricchezze, né delle speranze umane”.


Ascolta ciò che dice Iddio al profeta Amos: In quel giorno il sole sparirà in sul mezzogiorno, e
oscurerò la terra nella piena luce del dì. (Amos, 8, 9). Che significa sparire il sole a mezzodì,
se non che, quando gli uomini pensano di stare nella metà della loro vita e nel fiore della loro
età, quando sperano di vivere ancor molti anni, aver molte ricchezze, sposarsi riccamente e
splendere nel mondo, allora viene la morte e mette l'uomo tutto a lutto nel giorno del suo più
grande splendore, come accadde in quella storia che riferisce Alessandro Faja? (Tom. II)
Ladislao, re di Ungheria e di Boemia, mandò un'ambasciata solennissima al re Carlo di
Francia per condurre ed accompagnare una figlia sua che era sposata con il principe di lui
figlio. Il personaggio principale di quest'ambasciata era Ulderico, Vescovo di Passavia,
accompagnato da duecento scelti cavalieri principali di Ungheria, duecento della Boemia e
altri duecento dell'Austria, tutte persone segnalate per nobiltà. Andavano tanto riccamente
vestiti e con tale apparato che ognuno di essi sembrava degno di corona e di scettro reale.
Il Vescovo, oltre a questo, si scelse altri cento cavalieri tra i suoi sudditi, di maniera che
partirono per la Francia settecento cavalieri riccamente addobbati. Perché
l'accompagnamento fosse del tutto grandioso, vennero unite al corteo quattrocento donzelle
bellissime ed adorne di apparati quanto mai ricchi di gioie e di vestiti. Le carrozze tutte
portavano ricche guarnizioni e pietre finissime e preziose. Oltre a questo erano infiniti i doni e
i

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ricchi vestiti che portavano con sé per farne regali. Però il giorno medesimo in cui questa
solenne ambasciata entrò in Parigi, mentre attendevano il re nella sala dove doveva aver luogo
il ricevimento, arrivò un corriere con la notizia della morte dello sposo. Fu tale il dolore che
ferì il cuore del re alla fatale notizia, da non aver più coraggio di ricevere l'ambasciata, né
parlare all'ambasciatore, né a quelli che lo accompagnavano. Così si ripartivano tristissimi da
Parigi e ognuno com'era venuto ritornò a casa. Di questa maniera sa Dio, per mezzo della
morte, riempire di tenebre la terra nel giorno del suo massimo splendore, come dice il suo
Profeta.
Poiché non sai quando hai da morire, pensa che può essere oggi, e sta sempre disposto, perché
sempre puoi morire. Confida nella misericordia di Dio invocandola subito, ma non voler
presumere col rimandare un momento la tua conversione. Che sai se ti darà tempo, perché la
possa invocare o se, dopo averla invocata, meriterai di essere esaudito? Sappi che la
misericordia di Dio non è promessa a coloro che si fidano di essa per peccare con la speranza
del perdono, ma solo a quelli i quali, temendo la giustizia divina, cessano di peccare, Dice San
Gregorio (In lib. Moralium): La misericordia di Dio Onnipotente si dimentica di colui che si
scorda della giustizia di Dio Onnipotente, perché non potrà trovare Dio misericordioso chi
non teme Dio giusto. Per questo si ripete tanto nella Sacra Scrittura che la misericordia di Dio
è per quelli che lo temono. In una parte si dice: La misericordia di Dio dall'eternità e per tutta
l'eternità è sopra coloro che lo temono. In altra parte: Nella stessa guisa che il padre ha
misericordia dei suoi figli, Dio ha misericordia di quelli che lo temono. Infine la stessa Madre
di misericordia cantò, nel

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Magnificat, che la misericordia del Signore sarebbe: Di generazione in generazione per quelli
che lo temono. Vedi come la misericordia divina non si promette a tutti e come resterai
escluso da essa, mentre presumi di essa e non temi la giustizia! Ma come può esserci in te
timore di giustizia, se, pulendo tu morire oggi, rimandi la tua conversione per anni ed anni,
quando cioè non tanto tu lasci i vizi, quanto piuttosto essi lasciano te?
Considera ciò che dice S. Agostino: La penitenza in morte è molto pericolosa, perché non si
trova nella Sacra Scrittura se non uno, cioè il buon ladrone, che in morte abbia avuto vera
penitenza. Questo vi si trova, perché nessuno disperi; ma questo solo si trova, perché nessuno
presuma. Nel sano la penitenza è sana, nell'infermo inferma, nel morto morta. Alcuni si
comportano con Dio come il re Dionisio con la statua di Apollo, alla quale egli tolse un
mantello d'oro che aveva, dicendo: "Questo mantello non è buono, né per l'inverno, né per
l'estate, perché per l'estate è pesante e per l'inverno è freddo e senza riparo". Così sono alcuni i
quali non trovano tempo acconcio per servire a Dio. Nella gioventù dicono che è molto presto
e che bisogna lasciare il tempo all'età, che quando saranno vecchi eserciteranno le virtù e che
non si deve indebolire con penitenze il vigore della gioventù, perché resterebbero sempre
infermi e senza utilità per tutta la vita. Arrivando però alla vecchiaia, se pur vi arrivano,
dicono che sono pieni di acciacchi e che non hanno forza per far penitenza, In questa maniera
vogliono ingannare Iddio; ma ingannano invece se stessi.
L'apostolo San Giacomo trova errato questo modo di parlare: Domani andremo alla tal città e
staremo lì un anno, perché non sappiamo ciò che sarà domani. Ora, se anche parlando delle
cose temporali non è bene dire: domani lo farò, domani procurerò di salvare l'anima; come
può dire

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uno: da qui a dieci o venti anni, quando sarò vecchio, poiché forse non lo sarà mai? Che serve
a rimandare al domani ciò che tanto importa sia fatto oggi, poiché importa molto che la cosa si
faccia, e se non si fa oggi, può essere che domani non si possa più fare? In questo inganno
stava S. Agostino il quale dice: Io sentiva di essere prigioniero e andavo ripetendo il
miserevole ritornello: miserabile, fino a quando? fino a quando? Domani e domani? Perché
non sarà in quest'ora la fine della mia turpitudine? Questo io dicevo e piangevo con
sentimento amaro del mio cuore.

La morte è unica.
Oltre ad esser incerta la morte, essa è anche unica. Non si può correggere l'errore della morte
cattiva con una morte buona. Dio diede all'uomo in abbondanza i sensi ed altre parti del
corpo; gli diede due occhi perché, se uno gli manca, resti l'altro di cui servirsi; gli diede due
orecchi perché insordendosi l'uno, l'altro possa supplire la sua mancanza; gli diede due mani
perché, perduta l'una, possa usare dell'altra: di morti però gliene diede una sola, e, se quella
riesce male, è tutto perduto.
Caso terribile questo! La cosa di maggiore importanza che abbiamo è quella del morire, e non
ha prova, né esperienza, né rimedio. Aver da morire una volta sola, in un momento, e
dipendere da esso l'eternità! Sicché, se si sbaglia la prima volta, non si può correggere il suo
errore! Scrive Plutarco di Lemaco centurione, che riprendendo un soldato di uno sbaglio,
questi gli promise di

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non farlo più. Gli rispose il savio centurione: "Bene sta questo, perché in guerra non si deve
errare due volte per il grande danno che da uno sbaglio può provenire". Però se nella guerra
non si può errare due volte, nella morte non si deve sbagliare neppure una volta, perché il suo
errore è irrimediabile. Supponete che ad un rustico, che non abbia mai preso in mano un arco,
venga intimato di tirare contro un bersaglio molto lontano, pena, se fallisce, di essere bruciato
vivo, ma con la promessa, se fa centro, di venire premiato con molti doni e ricchezze: chi può
dire l'afflizione e l'angoscia di quest'uomo che si vede costretto ad un atto così
compromettente e difficile per lui, affatto pratico di tiro, e non tiene che una sola freccia a
disposizione, cosicché fallito il colpo non gli è più possibile riparare! Ora questa è la nostra
sorte: come possiamo, quindi, ridere e scherzare?
Non siamo mai morti, non abbiamo esperienza della morte, né abilità per cosa tanto difficile.
Una volta sola dobbiamo morire e quella volta è in gioco l'eternità o della felicità o nei
tormenti infernali. Come viviamo tanto trascurati e dimentichi di morire bene, poiché per
questo siamo nati e si ha da fare una volta sola?
Quest'azione, che è la più importante della vita e che dobbiamo compiere innanzi agli Angeli e
dalla quale dipende l'eternità, e senza rimedio e correzione. Le azioni umane che si ripetono
sono di tale condizione che, se riuscirono male una volta, un'altra volta potranno riuscire
meglio e ciò che si perdette in una, si può guadagnare in un'altra.
Se ad un ricco mercante si affondò una nave nell'Oceano, può sperare che gliene arrivi un'altra
caricata di ricchezze che ricompensi la nave perduta. Se ad un grande oratore riuscì male una
predica e per questo perdette credito, con un'altra potrà rifarsi; riuscendo male la morte una
volta, non si può aver altra migliore, non si

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riparerà quella perduta. Ciò che è unico, è degno di maggior stima, perché la sua perdita sarà
irreparabile. Stimiamo dunque il tempo della vita, poiché non ne abbiamo un'altra nella quale
guadagnare l'eternità. Stimiamo quello con cui possiamo fare una morte preziosa o, per
meglio dire, vita e morte preziosissima, imparando nella vita a morire. Ben disse un pio
dottore: "Se tutti quelli che hanno da esercitare un ufficio o fare una cosa importante, anche di
solo gusto, come è il ballare, si studiano prima come lo dovranno fare, che ragione vi ha
perché non si studi di ben morire, essendo la cosa più difficile ed importante di quante vi
hanno nel mondo? Se un uomo fosse obbligato a fare un salto molto difficile, con questa
condizione che, se saltasse bene, gli dessero un regno fastoso e ricco, se saltasse male,
diventasse schiavo e rematore perpetuo, senza dubbio alcuno provvederebbe a far bene il salto
a forza di esercizi, prima del tempo destinato alla prova da cui dipendono sorti tanto diverse".
Quanto più differenti sono le sorti che aspettano il salto, che abbiamo da fare dalla vita alla
morte, pensando che i regni della terra, paragonati con quelli del Cielo, non sono che
immondezza e il remare nelle galere, paragonato con l'inferno, è onore e gloria?
Quando il salto è lungo e pericoloso, colui che lo deve eseguire, per farlo meglio, suole
pigliarlo a corsa e da lontano. Ora sappiamo che il salto dalla vita alla morte è tanto pericoloso
e lungo; è giusto dunque che, per farlo meglio, prendiamo la corsa fin dal principio, dalla
nostra vita breve, dal punto in cui comincia in noi l'uso della ragione. Per mezzo di essa
ragione conosciamo che la nostra vita è mortale e che, nel lasciarla, quando meno vi
pensiamo, dobbiamo pagare rendite e capitali.

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Gli antichi il giorno nel quale incoronavano l'imperatore, secondo quanto riferisce San
Giovanni Elemosinano, usavano presentargli, per mano degli architetti più celebri di quel
tempo, alcuni pezzi di marmi differenti, fra cui doveva scegliere quello preferito per la
costruzione dei suo sepolcro.
Volevano così fargli intendere che il suo impero doveva durare tanto poco, che era necessario
cominciare subito il suo sepolcro, per finirlo prima della sua morte, e ricordargli che non
avrebbe potuto governare bene i suoi sudditi, se non governava bene se stesso con la memoria
della morte. E questo deve servire di norma perché, quando comincia l'impero e il dominio
dell'anima nostra che è l'uso della ragione, trattiamo subito della nostra morte, intendendo
che nell'apparecchio della morte consiste il buon governo e la perfezione della vita.
La vita perfetta, dice San Gregorio, (Lib. XII Moralium) è la meditazione della morte. Colui ha
vita perfetta che la spende nello studiare la morte. Vive bene colui il quale studia ed apprende
come si ha da morire. Chi non sa questo non sa niente, né gli sono di giovamento le altre
scienze.
Che utilità apportò ad Aristotele tutto quanto studiò e seppe? Nulla. Così confessò vicino alla
morte, quando, pregato dai suoi discepoli che dicesse loro alcuna sentenza notevole, dopo che
tante ne aveva dette e scritte durante la sua vita, rispose: “Entrai povero in questo mondo;
vissi nella miseria e muoio nell'ignoranza di ciò che m'importava sapere". Disse bene, perché
non aveva studiato come doveva morire. Aristotele ebbe molti discepoli nelle scienze che
sapeva; molti lo seguono nelle sue opinioni, ma molti più lo imitano nella ignoranza che egli
ebbe della morte.
Guadagnarne il tempo nel quale possiamo guadagnare l'eternità, perché una volta perduto,
perderemo il tempo di questa vita e l'eternità dell'altra.

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Quanti milioni di uomini stanno nell'inferno, i quali disprezzarono il tempo, mentre stavano
nel mondo, ed ora sarebbero contenti di soffrire per un milione, anzi per milioni di milioni di
anni, tutti i tormenti dell'inferno, pur di avere un istante di tempo, nel quale potessero
guadagnare la vita eterna della gloria facendo penitenza, senza poterlo ottenere.
E tu perdi non istanti di tempo, ma ore, giorni ed anni interi. Considera ciò che darebbe un
dannato per questo lasso di tempo che tu stai perdendo, per poter uscire dall'inferno; guarda
bene che tu non ti trovi poi col medesimo dolore, quando non avrai più il rimedio del tempo
che ora stai sciupando. O stolti, quanti cercano vani divertimenti per passare il tempo, come
se il tempo non avesse questa premura di passare, anche se essi non volessero! Passa e vola il
tempo di questa vita e tu non vuoi lucrare la vita eterna? Rifletti che col tempo puoi
guadagnare l'eternità; non considerare la perdita del tempo solo come tale, bensì come perdita
dell'eternità, poiché in un istante di tempo puoi guadagnare infiniti istanti di quelli che godrai
per i secoli dei secoli. Per guadagnare il premio eterno è poco il tempo della vita, che passa più
veloce del vento.
Considera che il tempo non perde la velocità con cui la morte viene dietro a te correndo, anche
quando tu dormi; e tu arrischi a star ozioso? "Tu dormi, dice S. Ambrogio, ed il tempo
continua" [Tu dormis et tempus ambulat (In Ps. 1)]. Non star un momento fermo, perché in
esso puoi guadagnare più volte il Cielo. Il tempo è giorno di mercato e di fiera dell'eternità,
come dice il Nazianzeno. Non tralasciare di acquistare a buon mercato, perché, passata questa
vita, non vi è più occasione di meritare.

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Pensa che è corto il tempo in cui si può tesoreggiare ed il guadagno sarà eterno. Ascolta ciò
che t'insegna un gentile, il quale non conobbe questo bene del tempo di poter guadagnare in
esso l'eternità, e ciò non di meno dice (SENECA, Epist. 118): “Non ci diede la natura tanto
liberalmente il tempo che convenga perderne anche una sola particella; invece considera
quanto tempo perdono anche i più diligenti. Alcun tempo se ne va per la mancanza di salute
propria o dei suoi, altro tempo è occupato dagli affari necessari, altro dalle occupazioni
pubbliche, anche il sonno ci divide la vita. Ora di questo tempo tanto limitato e veloce, a che ci
serve lo spenderne invano la maggior parte? Il medesimo autore consiglia che abbiamo da
vincere la velocità del tempo con la diligenza nel suo buon uso ed impiego. Senza conoscenza
della lede disse questo Seneca, senza saper che con un istante di tempo si poteva tesoreggiare
un'eternità di gloria.
Che dobbiamo fare noi, con la luce del cielo che abbiamo e la conoscenza dei beni eterni e con
le minacce dell'inferno? Viviamo sempre morendo come se ogni istante di tempo fosse per noi
l'ultimo.
Con questo non perderemo il tempo tanto prezioso e guadagneremo quello eterno.
Conformiamoci a quello che disse San Giovanni Climaco (IO. CLIMACUS, Grad. 6): Non si
passa bene il giorno presente, se non si pensa che questa ora e l'ultima di tutta la nostra vita.
Colui è buono il quale ogni ora aspetta la morte, però colui è santo il quale ogni ora la
desidera.
Per lo meno consideriamoci come mortali, crediamo di esserlo e mostriamo con le opere
nostre che sappiamo di dover morire e che la nostra vita ha da arrivare alla fine.

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Domandiamo a Dio ciò che supplicava Davide: Signore fatemi conoscere la mia fine. È certo
che abbiamo da morire, certo che non sappiamo quando, certissimo che si muore una sola
volta. È già molto, come nota S. Ambrogio, che Dio ce lo dica e che noi ne discorriamo.
Persuadiamoci che abbiamo da morire e non sappiamo quando; che questo sarà una volta
sola, senza poter tornare a pigliare in mano il tempo che una volta ci sfuggì. Vergogniamoci di
quello che dice un gentile, che abbiamo da nascere con la memoria di questa notevole
condizione della morte, consigliandoci ad operare il bene. L'imperatore Marco Aurelio (Lib. II.
de vita sua) da questi ammirabili consigli nella sua filosofia: Rifletti alla fine del tempo che li e
assegnato, il quale, se non lo spendi in procurare la pace della tua anima, ti sfuggirà e non
ritornerà, tanto meno dopo che sarai morto. Ogni ora sollecita la tua anima a operare con
fortezza come si conviene ad un uomo, ad un Romano, con una perfetta e non finta gravità,
umanità, liberalità e giustizia. Nel frattempo tieni lontano dall'anima tua ogni altro pensiero,
il che farai se in tal maniera compi qualsiasi opera e negozio, come se fosse l'ultimo della tua
vita e così non ammetta vanità alcuna. Questo è un meraviglioso consiglio. Sai che hai da
morire e non sai quando, fa' ogni opera come se fosse l'ultima e terminandola tu avessi da
spirare. Soprattutto procura di togliere i peccati, le male inclinazioni, i pensieri della terra,
elevandoli al cielo insieme col cuore e l'affetto, che sempre dev'essere retto e posto in Dio. Un
albero inclinato, quando lo taglieranno, cadrà da quella parte dove sta inclinato. Se non è
inclinato alla destra quando vive, dove potrà cadere in morte? Temi che cada nell'inferno.

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CAPITOLO TERZO.

Del momento che sta tra il tempo e l’eternità.

Il gran punto dal quale dipende l’eternità.


Dobbiamo pure considerare, ciò che senza dubbio è spaventevole, quanto dovrà passare nel
momento della morte, momento per il quale ci è dato il tempo di questa vita e da cui dipende
l'eternità dell'altra. O punto tremendo che è fine del tempo e principio dell'eternità! O
spaventoso istante nel quale si chiude il corso della vita e si risolve il negozio della nostra
salvezza! O momento dal quale dipende l'eternità, come dobbiamo tenerlo presente alla
memoria, ora che ci può essere di aiuto, perché non abbia poi ad esserci presente più tardi con
nostro rammarico e senza profitto! Quante cose devono passare in te! In un istante finisce
questa vita, vengono esaminate tutte le sue opere, si dà la sentenza, la cui esecuzione è eterna.
O ultimo momento della vita e primo momento dell'eternità, quanto sei tremendo, poiché in
le non solo si lascia la vita, ma si dà pure conto di essa e si entra in una regione sconosciuta! In
un momento devo lasciar la vita, in esso dovrò vedere il mio Giudice, in esso mi si
mostreranno i miei peccati con tutta la loro gravità e moltitudine. In esso mi si farà severo
carico di tutti i benefizi divini e si pronuncerà la sentenza della mia salvezza o della mia
dannazione eterna.
E' spaventevole che per cose tanto importanti non ci sia dato più tempo che un punto e che
non vi abbia luogo né a replica, né ad appello. O tremendo momento dal quale tanto dipende!
O momento di massima importanza che sì estende al tempo ed all'eternità!

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Ammirabile è la somma sapienza di Dio, che pose un punto di mezzo fra il tempo e l'eternità,
al quale deve indirizzarsi tutto il tempo della vita, e da cui dipende tutta l'eternità! O
momento, che non sei né tempo, né eternità, ma solo l'orizzonte dell'uno e dell'altra, e
partecipi del tempo e dell'eternità! Oh qual momento breve e quale immenso spazio, in cui si
concludono tante cose e si dà stretto conto, dove si ode sentenza tanto rigorosa che si eseguirà
sempre! Caso strano! Che il negozio dell'eternità debba risolversi in un momento, senza dar
luogo a diligenza, quando non potrai ricorrere ai santi del cielo, né ai sacerdoti della terra! Né
quelli pregheranno per te, né questi ti daranno assoluzione, perché il rigore del Giudice nel
momento in cui spiri non darà luogo alla misericordia.
San Giovanni dice: Dalla presenza del Giudice fuggirà la terra ed il cielo (Ap 20, 11). Che farai
tu, non potendo fuggire, perché contro di te si farà il processo? Si dice che in quel momento
fuggirà il cielo e la terra, perché né i santi del cielo ci favoriranno con le loro intercessioni, né i
sacerdoti della terra potranno accorrere con i sacramenti della Chiesa; in nessun luogo vi sarà
chi ci aiuti. Che darebbe allora un peccatore per poter confessarsi! Ma non gli sarà più dato, e
ciò che allora ti farebbe bene ed ora disprezzi, non lo potrai avere. Previeni in tempo mentre ti
puoi aiutare e non differire al tempo in cui nessuno ti aiuterà. Adesso ti puoi aiutare, ora i
santi desiderano favorirti. Non differire al tempo nel quale né potrai tu, né vorranno i santi.
In quell'ora del giudizio di Dio, quale spavento e timore non proverà il povero peccatore,
quando,

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senza rimedio e senza speranza si troverà in potere dei dragoni internali che afferreranno la
sua anima e la porteranno nell'abisso dell'inferno? Ricordiamoci e temiamo ciò che temette e
disse del demonio il Profeta; affinché non rapisca qual Icone l'anima mia, mentre non vi lui
chi mi liberi, né chi mi salvi (Sal.7, 3). Oh che tremendo caso è vedersi in mano di lucifero,
non solo abbandonato dagli uomini, ma eziandio dagli angeli, dalla Regina degli uomini e
degli angeli e dal Padre delle misericordie.
Provvediamoci a tempo, perché ciò che si ha da fare in un punto dovrà durare per tutta
l'eternità. O momento! O momento terribile e spaventevole! O momento, nel quale si perderà
ogni tempo, e se in te uno si perde, resterà perduto eternamente! O momento, dal quale
dipende l'eternità, quanta è la tua importanza! Tu assicuri tutte le opere buone della vita e fai
dimenticare tutti i suoi piaceri, perché l'uomo non si diletti in essi, giacché non gli saranno
allora di alcun giovamento, e perseveri nella virtù, poiché non lo assicura, se egli non si
conserva in essa fino a quel punto.

La grande negligenza degli uomini.


Come possono gli uomini essere così trascurati, pur vedendo che l'affare tanto importante
della loro salvezza dipende da un punto, di cui non è possibile ripetere l'esperimento, e questo
punto è incerto, né si sa quando verrà? Ora, se non abbiamo certezza di questo momento,
come siamo disattenti anche un solo momento? Non è questo urtare da trascurarsi un istante,
perché potrebbe essere proprio quello l'istante della tua dannazione.

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Che gioverebbero ad uno cento anni di servizio di Dio, con grande asprezza e penitenza, se alla
fine di essi commettesse in un momento un peccato grave e subito dopo lo cogliesse la morte?
Nessuno è assicurato dalle virtù passate; le continui fino a la morte perché, se non muore in
grazia, tutto sarà perduto e, se muore in grazia di Dio, che importa che abbia vissuto mille
anni negli affanni più grandi del mondo?
O momento, nel quale si dimentica il giusto di tutte le sue pene e si assicura di tutte le sue
virtù! O momento, nel quale il peccatore comincia le sue pene ed hanno fine tutti i suoi
piaceri! O momento, che è certo che verrà, ma incerto il suo quando, certissimo che non
ritornerà. Verrà una volta sola e non si potrà revocare in altro momento ciò che in uno si è
determinato!
O momento, quanto dovremmo ricordarti sempre in vita, per non aver poi da cadere in te, con
nostro danno! L'abate Elia (In Vita Patrum, lib. V, pag. 565 apud Rota) diceva: Io temo tre
cose la prima, quando mi si toglierà l'anima dal corpo; l'altra quando avrò a comparire dinanzi
a Dio per essere giudicato; la terza quando mi si darà la sentenza. Ora tutte queste tre cose
tanto terribili dovranno passare in questo momento, il quale per ciò appunto è così tremendo.
Si immagini sovente il cristiano di trovarsi in quel punto, in cui dovrà spirare, dove vedrà da
una parte il tempo della vita che lascia e dall'altra l'eternità in cui va a cadere, e confronti ivi
una cosa con l'altra; rifletta ciò che gli resterà della vita che se ne va e ciò che l'aspetta
nell'eternità in cui entra. Quanto brevi saranno sembrati a Matusalemme in quel punto i mille
anni della sua vita e quanto lungo gli sarà sembrato il solo giorno dell'eternità! In quel punto
mille anni della vita sembreranno al peccatore non più che un'ora, o per meglio dire, un
istante e un'ora di tormenti gli appariranno mille anni.

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Contempli il cristiano da questo faro ed orizzonte la vita e la misuri con l'eternità; non vedrà
in essa cosa di sostanza e di stima. Rifletta che cadrà nelle sue mani e non potrà mai più
sfuggirne! Provvediamoci a tempo, perché in questo momento non perdiamo l'eternità.
Questo momento è una margherita preziosa, per assicurare la quale dobbiamo dare tutto
quanto abbiamo e siamo. Resti nella nostra memoria momento tanto importante, perché a
questo sempre dobbiamo attendere. Siamo sempre solleciti, perché sempre può venire.
L'eternità dipende dalla morte, la morte dalla vita e la vita da un filo che in un istante si taglia
o si rompe o si brucia. Questo avviene quando meno si pensa, anzi quando più si spera o si
procura di allungare la vita. Di questo è buona testimonianza ciò che racconta Paolo Emilio di
Carlos, (PAULUS AEMILIUS. lib. IX; il fatto avvenne nel 1387) re di Navarra: avendo perduto
tutte le forze per l'esagerazione con cui si era abbandonato ad ogni sorta di piaceri, i medici
ordinarono di applicargli su le carni nude alcune lenzuola impregnate di acquavite. Colui il
quale gliele cuciva toccò una candela che stava vicino, ed essendo la tela impregnata di
quell'acqua, cominciò subito ad ardere con tale sveltezza che, prendendo fuoco le lenzuola,
bruciarono il re, che subito se ne morì. Da un filo dipese la vita di questo principe, per aver
una morte così infelice; e non v'è dubbio che il filo della vita non è più difficile a tagliarsi che
quel lino. È necessario del tempo per tagliare questo, ma quello in un momento si rompe, e vi
sono più cause per finire la vita dell'uomo che per rompere una gugliata di filo. La nostra vita
non è sicura in nessun tempo e così dobbiamo temere in ogni istante quell'istante che finisce
col tempo e da principio all'eternità.

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Spaventevole cosa è che tante sono le vie che trova la morte e che da cose tanto piccole
dipende la vita. Non soltanto da un filo, ma perfino da un sottile capello essa può dipendere.
Così a Fabio senatore, un capello che trovò in un sorso di latte, gli fu causa di morte. Non v'è
porta chiusa alla morte; entra per dove non entra l'aria e si trova perfino nelle azioni della
vita. Cosa tanto piccola priva di un bene tanto grande quale è la vita! Un granello di uva secca
tolse la vita ad Anacreonte, (VALERIUS MAXIMUS, lib. IX) una melarosa che cadde nella
bocca di Drusio Pompejo lo soffocò repentinamente.
La morte trova cammino reale anche negli affetti dell'anima e nei piaceri del corpo. Omero
morì di tristezza, Sofocle di gioia, il re Dionisio rimase morto per le buone notizie che ricevette
di una vittoria ottenuta, Aureliano morì ballando, quando si sposò con la figlia dell'imperatore
Domiziano, un tal Bilesio, mentre guardava certe feste nel teatro, Cornelio Gallo e Tito Eterio
morirono durante un turpe piacere. Giacchetto di Saluzzo (ANDREAS EBORENSIS, De morte
non vulgari) restò morto nel medesimo atto malvagio insieme con la sua amica, i quali come
furono trovati insieme, così se ne andarono le due anime unitamente all'inferno.
Da cose piccole ed impensate dipende spesso un grande effetto, come il momento dal quale
dipende l'eternità. Ognuno apra gli occhi e non si tenga sicuro della vita, nella quale la morte
ha tante entrate. Nessuno dica: non morirò oggi; perché, quanti sono morti repentinamente,
neppur loro pensavano di dover morire in quel giorno e morirono quando meno lo pensavano.
Ciò che successe ad altri può accadere anche a te; per cause così da poco come quelle dette
molti morirono e tu puoi morire senza nessuna di esse. Per una morte repentina non è
necessario un

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capello che si inghiottisca, né una lisca che ci soffochi, né una malinconia che ci affligga, né un
gusto che ci diletti: ti può succedere senza nessuna di queste cause esteriori. Basta un umore
che si corrompa nelle tue viscere ed arrivi senza sentirlo al cuore. È meraviglia che non
muoiano repentinamente più di quelli che di fatto muoiono, dati i nostri eccessi e disordini e
data la fragilità del nostro corpo.
Non siamo di ferro, né di bronzo, ma di carne delicatissima. Vediamo che un orologio, pure
essendo di metallo duro, si guasta ed ogni tanto è necessario aggiustarlo; rompendosi una
ruota tutto si ferma. Ma nel corpo umano vi è un artificio maggiore; è più sottile e delicato, i
nervi non sono di acciaio, né le vene di bronzo, né le viscere di ferro. A quanti non si sono
corrotti o disfatti il fegato e la bile e sono morti improvvisamente? Nessuno vede ciò che ha
dentro il suo corpo e può essere tale che non viva un'ora, anche se si sente sano. Tremiamo
tutti per ciò che può accadere.

CAPITOLO QUARTO.

Perché è terribile la fine della vita temporale.

Essendo la morte la fine della vita, dice Aristotele che questa è tra tutte le cose terribili la più
terribile. Che direbbe considerando che è principio dell'eternità e come una porta per dove
entriamo in quell'abisso profondissimo, senza sapere da quale lato si ha da cadere? Se la
morte è tanto terribile in quanto è fine delle cose di questa vita, che sarà in quanto in essa si
deve rendere conto e ragione di tutte le cose a quel Giudice tremendo, inflessibile e
giustissimo, il quale morì perché noi ne usassimo bene?

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Incontro al Giudice Supremo.


Non è la cosa più terribile della morte il lasciar la vita di questo mondo, bensì il dover dar
conto di essa al Creatore del mondo e più ancora quando non ha da usare misericordia.
Questa è cosa tanto tremenda che faceva tremare il santo Giobbe, che pure aveva conti tanto
buoni da dare, che lo stesso Dio si stimava felice di averlo per servo, e lo Spirito Santo attesta
che non peccò in quanto disse nei suoi affanni e nelle sue calamità e che Dio non gliele aveva
mandate per i peccati, ma solo per proporlo come esempio di pazienza e di virtù. Egli stesso
disse che non lo rimordeva la coscienza; ciò nondimeno tremò tanto dinanzi al giusto giudizio
di Dio, che verrà alla fine della vita e alla fine del mondo, che, pieno di spavento per la severità
della Giustizia Divina, disse parlando con Dio: Chi mi darà che tu mi copra nell'inferno e mi
nasconda fino a tanto che passi il tuo furore? (Gb.14,13) Per cui disse Dionisio Carthusiano
(De Novissimis, art. 16) che quel punto in cui uno viene giudicato da Dio è più terribile non
solo della morte, ma altresì del patire per qualche tempo le pene dell'inferno.
Questo succede non solo per coloro che dovranno esser dannati, ma eziandio per gli eletti del
cielo. Essendo pur così giusto e santo, Giobbe tremò tanto profondamente del giudizio,
quando lo aveva lontano, e le cose lontane non si sentono mai come sono; senza dubbio
alcuno, vedersi uno sgradito al suo Redentore, sapere che ha offeso il suo Creatore, sia pure in
colpe piccole, è più che patire le pene maggiori. Per questo, San Basilio giudicò che era meno
patire eternamente i tormenti dell'inferno che la confusione che dinanzi a Cristo avranno

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i peccatori. Meditando quella riprensione che fu data al ricco, con quelle parole: Stolto, in
questa notte è ridomandata a te l'anima tua (Lc 12,20) dice il Santo: Questo scherno supera
una pena eterna.
Molte sono le ragioni di questa terribilità, ognuna delle quali sarebbe sufficiente per cagionare
uno spavento mortale.
Non è la minore la sola vista del Giudice il quale, oltre ad essere Giudice è parte e testimonio
irrefragabile, perché la severità che mostrerà nel volto ai malvagi sarà tale, dice S. Agostino,
che desidererebbero patire piuttosto tutti i tormenti, che vedere il volto del loro Giudice
adirato. San Giovanni Crisostomo dice: Meglio sarebbe soffrire ferite di mille fulmini che
veder quel volto pieno di mansuetudine e pietà allontanarsi da noi, e quegli occhi di tutta
bontà non potersi sostenere dalla nostra vista. (Hom. 24 in Matth)
Una volta che in questo mondo, campo aperto della misericordia, si fece vedere un'immagine
di Cristo crocifisso, con gli occhi adirati, bastò questo per spaventare ed atterrire trecento
uomini tanto, che li gettò a terra e per alcun tempo furono fuori di sé e come morti. Che
spavento cagionerà, non l'immagine, ma lo stesso Gesù Cristo, non nella umiltà della Croce,
ma nel trono della sua Maestà e della sua giustizia, non nel tempo della misericordia, ma
nell'ora di tutto il rigore; non nudo e con le mani inchiodate, ma armato della spada della
giustizia contro i peccatori, quando apparirà per giudicarli e vendicarsi delle ingiurie da loro
ricevute? Dio è tanto perfetto nella sua giustizia, come nella sua misericordia.

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Come ha dato tempo alla misericordia, lo darà alla giustizia. E se in questa vita è quasi
sospeso e contenuto il rigore della sua giustizia, in punto di morte, quando il peccatore viene
giudicato, essa verrà sciolta e piomberà sul miserabile.
Un fiume furioso che abbia la corrente contenuta e violentata per venti o trenta anni, quanta
immensità di acqua raccoglierebbe? E quale sarebbe l'impeto del suo straripamento al
rompersi delle dighe? Quale resistenza lo potrebbe trattenere? Ora la giustizia, che il profeta
Daniele paragonò non ad un fiume qualsiasi, ma ad un fiume di fuoco, data la grandezza della
sua severità e del suo rigore, è come repressa e contenuta per venti o trenta anni della vita di
un uomo. Quale abisso infinito avrà riunito e come si scatenerà in punto di morte contro il
peccatore disgraziato? Il miserabile vedrà nel volto del Giudice tutto questo rigore e questa
severità di giustizia e gli cagionerà grandissima confusione e spavento. Disse perciò il profeta
Daniele che un fiume di fuoco prorompente uscirà dal suo volto. Dice ancora che il suo trono
sono fiamme di fuoco e le ruote di esso sono fuoco acceso; tutto sarà fuoco, rigore e giustizia.
Ci presenta poi il suo tribunale e il suo trono con ruote per significare l'impeto della velocità
della sua onnipotenza, per esercitare il rigore della sua giustizia che tutta si paleserà in quel
momento in cui uno è portato al giudizio, nel quale i peccatori resteranno confusi ed attoniti.
Per la stessa ragione disse Davide: Allora parlerà loro con la sua ira e li turberà con il suo
furore (Ps. 2, 5).
Questa medesima cosa dichiarano altri Profeti con parole tremende e spaventevoli.

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Isaia (Is., LIX, 17) dice che il Signore verrà vestito di vendetta e coperto con un pallio di zelo,
come per vendicarsi e mostrare ai suoi nemici la sua indignazione. Per spiegarlo di più dice il
Savio che il suo zelo, cioè la sua indignazione prenderà armi ed armerà le creature per la
vendetta dei suoi nemici; vestirà la giustizia come corazza, prenderà per elmo il giudizio certo,
per scudo inespugnabile l'equità, e la sua ira per lancia.
Il profeta Osea (Os, 13, 8) dichiara la stessa cosa rappresentandosi il Giudice non solo come
uomo adirato ed armato, ma come belva feroce e così dice, parlando in persona di Dio: Io
uscirò incontro a loro come un'orsa alta quale sono stati rapiti i suoi parti e squarcerò fino al
cuore le loro interiora e quivi le divorerò come leone. Non vi ha animale più fiero del leone, né
dell'orsa, che, per sua natura, quando ha perduto i suoi figli, assalta rabbiosamente il primo
che incontra. Ora quel Dio, la cui natura è somma bontà, vuole paragonarsi a nere tanto
terribili per dichiarare il furore della sua giustizia e il rigore con cui i peccatori meriteranno di
essere trattati.
Queste considerazioni furono di tanto peso per l'Abate Agatone, (In Vita Patrum) che quando
stava per morire, stette attonito per tre giorni, tenendo gli occhi aperti e fissi per lo spavento,
senza neppur muoversi da un lato all'altro. Certamente ogni paragone ed ogni esagerazione è
piccola, perché quello è il giorno dell'ira e della calamità, quello è il giorno in cui il Signore
griderà per tutti gli altri giorni nei quali Egli ha pazientemente taciuto; in quel giorno, del
quale disse per bocca del suo Profeta: Ho taciuto e fui paziente; ma ora parlerò

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con grida come una partoriente, (ISAIA, XLII, 14), quel giorno sarà giorno di sola giustizia per
ricompensarsi dei tanti anni in cui usò misericordia; quel giorno e quell'ora sarà di giustizia
pura, senza mescolanza di misericordia, senza speranza di compassione o di aiuto o di favore,
se non quello che daranno a ciascuno le sue opere buone.
Ciò è significato in quello che dice Daniele, che cioè il trono ed il tribunale di Dio sono di
fiamme e che uscirà un fiume di fuoco dalla sua faccia. Il fuoco è l'elemento più attivo, il più
veloce e veemente di tutti gli altri, è il più puro, che non permette in sé mescolanza con altra
cosa. Mentre la terra è mescolata con metalli e pietre, l'acqua tollera nel suo seno molte
varietà di pesci e di piante, e l'aria grande moltitudine di esalazioni, vapori ed altri corpi; il
fuoco non permette mescolanza con altre cose. Liquefarà il bronzo, incenerirà le pietre,
consumerà gli animali e convertirà in sé le piante. Di modo che non solo non consente in sé
altre cose, anzi converte in sé ciò che gli è contrario; non solo scioglie la neve, ma infoca il
ferro freddo. Così sarà in quel giorno in cui tutto sarà fuoco di rigore e giustizia senza
mescolanza di misericordia; anzi le stesse misericordie che Dio ha usato col peccatore saranno
di accrescimento e di nutrimento per la sua giustizia.
O uomo, che ora hai tempo, rifletti che avrai da trovarti in questo punto in cui non ci sarà per
te sangue di Cristo sparso, né Figlio di Dio crocifisso, né intercessione della
misericordiosissima Vergine, né preghiere di Santi, né misericordia divina, ma solo vi sarà un
Dio adirato e giustiziere, al quale serviranno tutte le sue misericordie per aumentare la
giustizia. In quel punto non vedrai nessuno dalla tua parte e tutte le cose saranno contro di te.

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La stessa Vergine, Madre di misericordia, la stessa Misericordia di Dio, il Sangue del tuo
Redentore, saranno contro di te; per te saranno solo le tue opere buone, perché passando da
questa vita non avrai altro padrino, né altro protettore se non quello delle tue opere sante. Da
queste solamente sarai accompagnato; quando ti lasceranno il tuo Angelo
Custode e i tuoi Santi avvocati, non ti abbandoneranno le opere.
Vedi come ti disponi adesso per quel giorno: sappi far tesoro del Sangue di Cristo per la tua
salvezza, se no, ti servirà per tua maggior condanna. Fece stupore a tutto l'orbe cristiano
quando il Papa Teodoro condannò l'eretico Pirro. Egli convocò il Concilio a Roma e davanti a
tutti i congregati, giunto al sepolcro di San Pietro, prendendo il calice consacrato, verso il
Sangue di Cristo nel calamaio e con quello scrisse di propria mano la sentenza di scomunica,
con cui escluse Pirro dalla Chiesa. Coloro che udirono questo caso, tremarono. Ma quanto più
deve tremare il peccatore pensando che forse un giorno il Sangue del Redentore dovrà servire
per sua sentenza di morte eterna!
Tanto severa avrà da essere in quel giorno per il peccatore la Giustizia Divina che, se fosse
necessario dar sentenza di condanna firmata con il Sangue di Cristo, quantunque sia stato
sparso sulla croce per la sua salvezza, servirà allora per la sua eterna riprovazione. Se questo è
così, come lo è, e tanto che non vi può essere cosa più certa, come ci trascuriamo, come ci
divertiamo e come ridiamo?
Certamente con molta ragione un vecchio dell'eremo, vedendo ridere uno, lo riprese dicendo:
“Dobbiamo dar stretto conto davanti al Signore del cielo e della terra, Giudice inflessibile, e tu
osi ridere?”. Come osi ora ridere e scherzare se deve venire un punto, nel quale il piangere non
ti sarà di giovamento? Come non domandi ora con lacrime perdono delle lue colpe, posto che
dopo la morte non lo potrai avere?

167

Non vi avrà più misericordia, non vi avrà più rimedio, non vi avrà più protezione, né di Dio, né
di creatura, se non sarai difeso almeno dalle tue opere. Procuriamo dunque di averle buone,
giacché non avremo altre cose nell'altra vita. Non avrà il ricco i suoi servi, né avvocati ben
pagati e beneficiati che difendano il suo processo; autorità gli daranno solo le sue opere sante
e solo queste Io difenderanno. In quel punto, quando gli mancherà anche la misericordia di
Dio e il Sangue di Gesù Cristo non placherà la Giustizia divina, soltanto le opere buone non
verranno meno.
Colà, dove mancheranno agli uomini i tesori che accumularono e tennero molto custoditi, non
mancherà loro la elemosina che diedero al povero. Dove mancheranno i figli, i parenti e
domestici, non mancheranno i pellegrini ai quali diedero ospitalità, né i poveri che visitarono
nell'ospedale, né i bisognosi a cui largirono soccorsi. Il ricco lascia i suoi beni nel mondo,
senza sapere a quali persone passeranno. Porterà con sé soltanto le opere e queste sole
varranno qualche cosa per lui, quando non avrà più valore nessun'altra cosa.
Gesù Cristo, Giudice dei vivi e dei morti, non ammetterà allora altro patrocinio, né avvocati, se
non quello delle opere buone.
Guardi ognuno di non convergere contro di sé ciò che unicamente dovrà star per lui. Fa
spavento pensare come uno osi operare il male, mentre vede chi sarà il suo giudice, dinanzi al
quale null'altro vale, se non aver operato il bene. Questo spavento è maggiore, perché con
l'opera cattiva offendiamo lo stesso Giudice che sentenzierà sulla nostra causa. Come oserà un
omiciattolo ingiuriare la stessa persona del suo Giudice rettissimo e giusto? Chi è così
sventato che, avendo certezza che un giudice severissimo lo avrà da convincere di un delitto e
dovrà sentenziare sulla sua causa, vada a rubargli in casa sua?

168

Ora questo è il caso nostro: è infatti tanto evidente che un giorno andremo a finire nelle mani
di Gesù Cristo, Giudice integerrimo e giustissimo. Perché allora osiamo offenderlo e siamo
tanto ingiusti con Lui da posporlo al demonio? Se fu grande la malizia dei Giudei che
posposero Gesù Cristo a Barabba, consideri il peccatore la sua insolenza, che giudica miglior
partito il dar gusto al demonio che a Gesù Cristo, suo Redentore. Ognuno che pecca fa come
un giudizio in cui condanna Gesù Cristo e da sentenza in favore di Satana. Di questo
ingiustissimo giudizio chiederà strettissimo conto il medesimo Figlio di Dio, contro il quale il
peccatore ingiustamente ha sentenziato.
Consideri il peccatore, quanto per queste sue ingiustizie debba essere severa la giustizia
divina; consideri il cristiano come pensa ora alla causa di Cristo; guardi come opera, poiché il
Redentore dovrà vedere e rivedere tutte le sue opere. Un artefice che sapesse che la sua opera
deve comparire dinanzi a un gran re o che dev'essere esaminata da un grande artista, si
industrierebbe a rifinirla con molta perfezione. Ora, tutte le nostre opere dovranno comparire
dinanzi al Re del cielo e sommo Maestro di tutte le virtù. Gesù Cristo; procuriamo quindi che
tutte siano perfette e terminate; tanto più che non si dovranno esaminare per sola curiosità,
ma per dare a noi la sentenza di condanna o di felicità eterna.
Ricordiamoci che abbiamo da dar conto a Dio; pensiamo quindi ciò che facciamo e piangiamo
ciò che abbiamo fatto, esercitiamo le virtù e lasciamo i peccati. Consideriamoci come rei e
procuriamo di temere il Giudice, come ci consigliò l'abate Ammone, (In Vita Patrum. lib. V.
libell. 3, cap. De compunctione) del quale si riferisce nel "Libro della vita dei

169

Padri” che, interrogato da un giovane monaco che cosa dovesse fare per andar molto innanzi
nella virtù, gli rispose: “Va' e tieni il medesimo pensiero che hanno i rei nel carcere, i quali
vanno sempre domandando: Dove è il giudice? Quando verrà? E aspettando il supplizio, che
loro sovrasta, altro non fanno che piangere. Di questa maniera deve sempre stare il monaco
sempre atterrito, rimproverando se stesso dicendo: Misero me, come ho io da comparire
dinanzi al tribunale di Gesù Cristo? Che conto ho io da rendergli di tutte le mie opere? Se tu
penserai sempre a questo, potrai salvarti e non lascerai di fare ciò che ti è possibile per
assicurarti la tua salvezza, e tutto questo sarà poco”.
Scrive San Giovanni Climaco (Grad., 6) di un monaco che essendo vissuto con poco fervore
cadde in una grande infermità e rimanendo senza sentimento vide in sogno il giudizio di Dio.
Ritornando in sé, era così pieno di spavento che fece murare la porta della sua cella, la quale
era tanto piccola e stretta che appena si poteva muovere in essa. Perseverò dodici anni
rinchiuso dentro questo carcere senza parlare con persona alcuna, né mangiar altro che pane e
acqua. Accasciato su di un giaciglio meditava in cuor suo ciò che in quella visione aveva visto e
ne conservava tanto fisso nella mente il pensiero, che mai non volgeva gli occhi da un posto e
sempre perseverava così attonito e taciturno, né poteva contenere la forza delle lacrime che gli
correvano per il volto. Stando già vicino alla morte, racconta il Santo, rompemmo la porta ed
entrammo tutti; ed avendolo pregato con tutta umiltà che ci dicesse qualche parola di
edificazione, ci rispose: “ Perdonatemi, Padri, nessuno che veramente e di tutto cuore sappia
che cosa è il pensare alla morte, avrà giammai il coraggio di peccare”.

170

Questo mutamento e questa vita tanto penitente era l'effetto del rigore del giudizio divino che
si fa dopo fa morte.

L'esame delle colpe commesse.


Vi è pure un'altra vista ben terribile alla fine di questa vita e nel punto in cui spira l'anima, per
cui sarà quell'ora tremenda ai peccatori; ed è la visione chiara e distinta della bruttezza,
gravità e moltitudine dei peccati, che ora purtroppo non conosciamo. Ma nel punto in cui uno
carte da questa vita tutti si scopriranno nella loro gravità, orrore e numero. Ciò il profeta
Daniele ci significò, quando disse che il trono del tribunale di Dio era fiamme di fuoco, perché
il fuoco non solo brucia, ma altresì illumina. Così nel giudizio divino non solo si eserciterà il
rigore della divina Giustizia, ma si scoprirà pure la orribilità della malizia umana.
Non solo il Giudice sarà severo, ma si scopriranno e saranno palesi anche Ì nostri peccati e la
loro vista basterà per farci tremare di pena e spavento. Come la vista del Giudice atterrisce i
peccatori, così la vista dei loro peccati li spaventerà, specialmente quando vedranno che essi
sono chiaramente manifesti a Colui che è giudice e parte.
Perciò si dice in un salmo: Veniamo meno, o Signore, per la tua ira e per il tuo furore siamo
atterriti ed aggiungendo subito la ragione di così grande turbamento e sfinimento dice: Hai
posto davanti a te le nostre iniquità, e davanti alla luce della tua faccia la nostra vita (Ps. 89, 7-
8).
Il veder la moltitudine e la gravità delle loro colpe farà tremare i peccatori e cagionerà loro
ansietà infernali.

171

Ora la bruttezza del peccato è nascosta; per questo non ci sorprende; ma in quel punto si
scoprirà tutta la sua deformità e ci atterrirà per la sola sua vista. Ora ci sembrano leggeri i
peccati e non conosciamo la loro moltitudine; ma all'uscire da questa vita ci compariranno
tanto gravi che ci saranno insopportabili.
Quando una trave sia pur grossa si trova nell'acqua, anche un fanciullo può facilmente
muoverla e tirarla da una parte all'altra e una metà sta immersa e nascosta sott'acqua, ma se si
trae a terra, se ne vede la grandezza ed è così pesante che molti uomini non la possono
muovere. Così nel mare burrascoso di questa vita le nostre colpe non ci sembrano gravi perché
nascoste a metà tra le onde vorticose, ma all'uscire dalla vita ci appariranno in tutta la gravità
e ci si scopriranno tutte.
Senza dubbio alcuno, esse saranno due spade acute che trapasseranno la coscienza del
peccatore, quando veda davanti ai suoi occhi moltitudine così innumerevole di colpe e la
mostruosità orribile di esse. Cominciando dalla moltitudine, resterà spaventato, quando gli
sarà dato di vedere tanti peccati che non conosceva e quel ch'è peggio di trovare mancanze
anche in quelle opere che pensava ben fatte. Per questo si dice nel salmo: Quando coglierò il
momento, giudicherò con giustizia. (Salmo 74, 3). Molte azioni che agli occhi umani sembrano
virtù, nell'esame divino saranno vizi. Se vi è così grande differenza tra i giudizi umani, sì da
giudicare alcuni spesse volte per ben fatto ciò che i sapienti e gli anziani giudicano per
misfatto e peccato, quanta differenza ci sarà tra i giudizi divini e quelli degli uomini?
Dice lo Spirito Santo, per bocca dei suoi Profeti, che i giudizi di Dio sono un grande abisso, e
che i suoi pensieri sono tanto lontani da quelli degli uomini quanto il cielo dalla terra.

172

E se gli uomini spirituali hanno occhi tanto perspicaci, che condannano con verità ciò che i
mondani lodano, che occhi saranno quelli divini per conoscere macchia anche nella purezza
che sembri angelica? E se negli Angeli trovò malizia, come dice la Sacra Scrittura, degli uomini
non gli rimarrà nascosto vizio alcuno. Lo stesso Signore dice per bocca di uno dei suoi Profeti:
Scruterò Gerusalemme con le lanterne (Sof 1,12). Se tale scrutinio deve aver luogo nella città
santa di Gerusalemme, che sarà in Babilonia? Se nei giusti avrà luogo tale rigore, come si
comporterà Dio coi suoi nemici? Ivi hanno da comparire in pubblico tutte le opere che
abbiamo fatto e quelle che abbiamo tralasciato e si scoprirà per colpa non solo il male che
abbiamo fatto, ma anche il bene che non abbiamo fallo, mentre avremmo dovuto farlo. Non
solo ci si farà debito del male che operiamo, ma eziandio del bene fatto malamente. Tutto si ha
da svelare, da rivedere ed appurare.
Il demonio come accusatore rifarà il processo della tua vita, dirà tutto quanto egli sa di te e,
dato che non sappia tutto, non per questo resterà nascosto, perché la stessa tua coscienza
griderà e ti accuserà. E se anche la coscienza non giungesse a vedere tutto il suo male, non
sfuggiresti al completo giudizio, perché lo stesso Angelo Custode, che ora è il nostro avvocato,
allora sarà fiscale ed accusatore contro i peccatori. E se gli occhi del demonio, la confessione
della propria coscienza, la testimonianza dell'Angelo non dichiareranno tutto, poiché
potrebbero anche non saperlo, lo stesso Giudice, il quale è insieme testimonio e parte, lo
pubblicherà con la sua infinita sapienza. Con occhi più che di lince penetrerà il profondo della
nostra volontà, dichiarando essere vizi quelli che si ritenevano per virtù.

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O tremendo giudizio, dove nessuno ci sarà che neghi, dove tutti sono accusatori, perfino lo
stesso reo, dove tutti sono testimoni, perfino la stessa parte e lo stesso giudice! O tremendo
giudizio, dove non vi ha avvocato e vi saranno quattro accusatori!
Ti accuserà il demonio, ti accuserà l'Angelo, ti accuserà la tua coscienza, ti accuserà lo stesso
giudice di molte cose dalle quali tu forse pensavi di difenderti. Oh quanto grande confusione
sarà il vedere che si conti per delitto ciò che pensavi essere un'opera buona! Chi penserebbe
che il giungere Oza a fermare l'Arca del Testamento, quando stava per cadere, non fosse ben
fatto? Però il Signore lo castigò come gran peccato con pena di morte, mostrando che diversi
sono i giudizi umani dai giudizi divini. Chi avrebbe pensato che il voler Davide sapere il
numero del suo popolo non fosse prudenza di governo? Ma Dio lo giudicò per mal fatto, lo
castigò con una peste così terribile che in poco tempo fece morire a migliaia i suoi sudditi.
Saulle, quando Samuele tardava a giungere, stretto dai nemici, offerse il sacrificio, stimando
di fare un atto virtuosissimo di religione. Ma Dio glielo imputò come peccato grave e per
questo lo riprovò. Chi non avrebbe giudicato di magnanima clemenza il perdono col quale il re
Acab, (III Reg., 20) non solo perdonò la vita al vinto Benadad, re della Siria, ma anche lo
accolse nella sua carrozza reale? Questo dispiacque tanto al Signore, che mandò un Profeta al
re Acab dicendogli che egli ne doveva perciò restare morto e sostenere col suo popolo il castigo
che la Siria ed il suo re aveva meritato.
Ora, se già in questa vita i giudizi di Dio si sono mostrati tanto diversi da quelli degli uomini,
che sarà in quell'ora tremenda riservata a Dio per dar esecuzione alla sua giustizia?

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Ivi si scoprirà tutto e coprirà di confusione il peccatore con la moltitudine dei suoi peccati.
Come si confonderà nel vedersi davanti al re del cielo con vesti tanto macchiate? Allora si dice
che uno è confuso, quando le cose riescono contrariamente a quello che sperava. Ora, che
confusione sarà, quando uno, mentre pensa di trovare virtù, trova invece che le sue opere
sono vizi, e, giudicando di aver reso servizi, trovi offese, e sperando premi, ottenga castighi?
Oltre a ciò, se ad uno, mentre va ben vestito per parlare ad un principe, accadesse di
comparire dinanzi a lui mezzo nudo ed imbrattato, come resterebbe confuso! Come dunque
non si vergognerà il peccatore nel vedersi davanti al Signore dell'Universo, nudo di opere
buone ed imbrattato di tanti mali abominevoli e orrendi? Oltre la moltitudine delle sue colpe,
di cui troverà pieni i suoi giorni, gli si scoprirà la loro gravità e si spaventerà di ciò che ora gli
sembra colpa leggera; là vedrà tutta la orribilità del peccato, vedrà la dissonanza di esso con la
ragione, la deformità che esso cagiona nell'anima, la grandezza dell'offesa che si fa al Signore
del mondo, l'ingratitudine usata verso il sangue di Cristo, il danno che fece il peccatore a se
medesimo, l'inferno nel quale sta per cadere per il peccato e la gloria che è per perdere.
Ognuna di queste cause basterebbe da se per coprire il cuore di lutto ed affogarlo in lacrime
inconsolabili; che cosa saranno tutte insieme? Quale spavento e confusione non
cagioneranno? In più, vedendo che già solo i peccati veniali deformano l'anima più che
qualsiasi altra mostruosità corporale che si voglia immaginare, che cosa dovrà dirsi del
peccato mortale?
Se la vista di un sol demonio è così spaventevole, che molti Servi di Dio dissero che avrebbero
scelto piuttosto tutti i tormenti di questa vita che vederlo per un momento, benché la sua
bruttezza

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d'altronde non sia nata che da un solo peccato mortale, essendo del resto per sua natura
bellissimo, quale sarà allora lo stato del peccatore che non solo vedrà il demonio, con tutta la
sua deformità, che rabbiosamente lo accusa, ma vedrà se stesso con uguale bruttezza, e forse
anche maggiore che quella di molti demoni, con tante deformità quante ebbe di peccati
mortali e veniali? Procura di evitarli adesso, perché tutti hanno da venire alla luce e di tutti si
dovrà domandare stretto conto.
Questo conto non si farà alla buona, né delle sole mancanze più gravi. Perfino il più piccolo
peccato si dovrà scoprire e svelare e di esso si dovrà dar conto. Chi è mai quel signore che
pretenda il conto dal suo maggiordomo di una spilla ed al suo tesoriere di una piccola
moneta? Il diritto umano tollera che il giudice non faccia tribunale per cose piccole, ma nel
giudizio divino si dovrà rendere conto non meno stretto delle cose piccole che di quelle più
grandi. Da quanto è accaduto a molti servi di Dio anche prima di morire, si potrà vedere con
quanto rigore si compia il giudizio dopo morte.
Racconta S. Giovanni Climaco (Grad., 7) che viveva ai suoi tempi un monaco, quanto mai
desideroso di vivere in solitudine. Dopo aver trascorso qualche anno nelle fatiche e penitenze
della vita monastica ed aver ottenuto il dono delle lacrime e delle virtù più elette, si edificò
una cella ai piedi del monte, dove Elia anticamente ebbe la famosa visione. Non ancora
soddisfatto, assetato com'era di una vita anche più rigorosa, si portò presso certi anacoreti di
Sides, luogo appartato da ogni umano consorzio, lontano com'era un settanta miglia
dall'abitato, e vi trascorse molti anni di vita rigorosissima, fino a che sentendosi vicina la
morte volle ritornare

176

alla cella del Sacro Monte, che aveva lasciato in custodia a due religiosi palestinesi già suoi
discepoli. Vi era giunto da pochi giorni quando fu colpito da una malattia che in poco tempo
doveva portarlo alla tomba. Ed ecco che il giorno prima della sua morte, tutto ad un tratto gli
astanti lo videro prendere un aspetto di meraviglia e di spavento, mentre i suoi occhi
spalancati si fissavano ora da una ora da l'altra parte del letto, e, quasi si trovasse di fronte ad
invisibili accusatori, lo sentono rispondere: “Sì, è certo, ma per questo digiunai tanti anni”.
Oppure: “Non è certamente cosi; tu menti, non feci questo”. “Questo è vero, così è: ma piansi e
servii tante volte il prossimo”. Od ancora: “Veramente mi accusi, così è e non ho nulla da dire,
senonché in Dio v'è misericordia”.
Era certamente uno spettacolo orribile quell'invisibile e rigoroso giudizio. Oh disgraziato! —
esclama a questo punto S. Giovanni Climaco — che sarà di me, se quel grande amante di
solitudine e quiete diceva che non aveva nulla da rispondere, lui che aveva quarant'anni di vita
religiosa ed aveva ottenuto la grazia delle lacrime ed anche dei miracoli! Povero me! se con
tutto questo, appena morto egli venne così rigorosamente giudicato, lasciandoci anche incerti
quale sia stata la sua sentenza!
Nelle Cronache dei Frati Minori (In Chron. S. Francisci. II p. lib. IV, cap. 35) si racconta che
un novizio dell'Ordine di San Francesco stava lottando con la morte ed era già quasi fuori di
sé. Tutto ad un tratto diede una voce terribile dicendo: “Povero me!” Poco di poi disse: “Pesa
fedelmente”. Non tardò molto che replicò: “Mettete qualche cosa dei meriti della Passione di
Nostro Signor Gesù Cristo". Poco di poi disse: “Ora sta bene”. I religiosi si meravigliarono
molto che un giovane così innocente dicesse cose

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tanto spaventevoli con un suono così strano. Ritornando questi in sé, gli domandarono che
spiegasse il significato di quelle parole. Egli rispose: “Vidi che nel giudizio di Dio si faceva
conto tanto stretto delle parole oziose e di altre cose piccole e le pesavano tanto sottilmente
che i meriti in confronto ai mali erano quasi nulla, e per questo dissi la prima e triste parola.
Di poi vidi che i mali erano pesati con molta diligenza e che si faceva poco conto dei beni; per
questo dissi la seconda parola. E vedendo che i beni erano tanto pochi, per essere giustificato,
dissi la terza parola. E siccome con i meriti della Passione di Gesù Cristo pesò di più la
bilancia dove stavano i beni che io aveva fatto, subito fu data la sentenza in mio favore per cui
dissi: “Adesso sta bene”. Dette queste parole, rese il suo spirito al Signore.

Il rendiconto dei benefici di Dio.


A la fine della vita una causa di grande spavento per i peccatori sarà la piena cognizione che
avranno de' benefizi divini, e del rendiconto strettissimo che dovranno darne per non esserne
stati a Dio riconoscenti. Questo viene molto bene espresso dal profeta Daniele quando parla
del trono e del tribunale di Dio.
Ivi dice non solo che è di fiamma di fuoco, che significa il rigore con cui i peccatori verrebbero
giudicati, e che è luce e chiarore di fiamma, con cui ci fece intendere pure la manifestazione di
tutti i peccati; ma aggiunse pure che dal volto del giudice usciva un fiume impetuoso, pure di
fuoco, volendo significare per la corrente di quel fiume che usciva da Dio, la moltitudine dei
benefici, i quali sono uno scintillio ed influsso della bontà divina che si comunica e si spande
nelle sue creature con tanti benefici. Ora, dirci che in quel giorno quel fiume impetuoso sarà di
fuoco, è per farci intendere non solo il rigore con cui ci si farà

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carico dei suoi benefici infiniti, ma ancora la luce e la chiarezza con cui li dovremo
riconoscere, rimanendo perciò spaventati e meravigliati del poco caso che di essi abbiamo
fatto e dell'intollerabile ingratitudine che abbiamo usata. Cosicché i poveri peccatori non solo
saranno spaventati dalla vista delle loro opere cattive, ma altresì da quella delle opere buone
da Dio compiute per essi.
Saranno coperti di un altro manto di lutto e confusione, quando vedranno ciò che Dio fece per
aiutarli e quasi costringerli a salvarsi e ciò che essi al contrario fecero per la loro condanna. Si
spaventeranno nel veder che Dio fece per il loro bene tanto, che non poté far di più, ed essi
resero tutto inutile. Questo punto è tanto giustificato da parte di Dio che lo stesso Signore
prende gli uomini per testimoni e giudici e, parlando di questo con la metafora di una vigna,
disse per mezzo di Isaia: Abitatori di Gerusalemme e uomini della Giudea, giudicate tra me e
la mia vigna; Che cosa doveva fare di più per la mia vigna e non lo feci? (Is., 5, 3)

La mistica vigna.
Dopo la sua Incarnazione, il Figlio di Dio ritornò a biasimare gli uomini col medesimo
sentimento e segnalando più esattamente la moltitudine dei benefizi divini con la parabola dei
cattivi vignaioli i quali non solo non vollero riconoscere il loro debito verso il padrone, ma gli
assassinarono lo stesso Figlio ch'egli aveva loro mandato. Vengano ora al giudizio gli uomini
contro se stessi e siano essi i giudici. Che cosa poté fare Dio di più per essi e non lo fece?
Perché furono essi tanto ingrati verso il loro Creatore, come se fosse stato il loro nemico e
persecutore?

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Venendo poi a considerare ciascuno di questi benefici, il primo è quello della Creazione,
significato da Gesù Cristo quando disse, che piantò una vigna. Che di più poté Dio fare da
questa parte? In questo beneficio della Creazione infatti ti diede quanto sei in corpo ed anima.
Se, mancandoli un braccio, un tuo fratello avesse il potere di restituirtelo, come non
riceveresti con gioia e con la più profonda riconoscenza un tale favore? Perché, dunque, non
sei riconoscente a Dio, il quale ti ha dato due braccia, il cuore, la vita, il corpo e l'anima?
Considera ciò che eri prima che Dio ti desse l'essere. Non eri nulla ed ora hai l'essere migliore
di tutte le altre creature del mondo. Dicono i filosofi che dal non essere all'essere vi è distanza
infinita. Guarda ciò che devi al tuo Creatore e vedrai che gli devi una gratitudine infinita.
Oltre ad averti dato l'essere, anzi un essere tanto nobile, te lo diede con amore infinito,
scegliendoti fra infiniti uomini possibili che avrebbe potuto creare. Se per un impiego onorato
si gettassero le sorti fra cento uomini, si riterrebbe per molto fortunato chi fra tanti uscisse
vincitore. Considera la tua fortuna, poiché uscisti dal nulla, all'essere tra infinite creature
possibili. Questa fortuna, da dove ti viene se non da Dio che ti scelse fra tanti, anzi lasciando
molti altri, che lo avrebbero servito meglio di te, se li avesse creati? Che cosa di più poté fare
Dio per te e non lo fece, poiché senz'alcun tuo merito ti scelse fra tanti, preferendoti ad altri
che gli sarebbero stati ben più riconoscenti?
Oltre a questo, non solo ti creò con speciale elezione e ti diede un essere tanto nobile, ma
altresì, pur non dovendotisi la felicità soprannaturale, ti creò per essa e diede alla tua natura il
fine più alto che si possa immaginare, che è la possessione eterna del tuo Creatore.

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Bastava che Dio ti avesse creato per darti una felicità naturale conforme alla tua natura. Ma
per non tralasciare di fare tutto ciò che poté, ti mise nell'ordine della felicità soprannaturale,
di maniera che non vi è creatura che abbia un fine tanto alto quale hai tu. Rifletti: che più
poteva Dio fare per le e non lo fece? Considera ciò che devi fare, pensa a che cosa sei
obbligato. Per questo solo beneficio non devi alzare una mano, né muovere un piede che non
sia per Dio. Un agricoltore che pianta un albero ha il diritto a tutti i frutti di esso; così Dio che
ti creò, ha diritto a tutte le tue opere, le quali sono i frutti degli uomini. Per questo dalla tunica
del sommo sacerdote, che rappresentava il beneficio della Creazione, pendevano molte
melegranate, che sono il frutto più nobile degli alberi, per significare quanto buoni frutti di
opere sante devi produrre per Dio, coronate tutte da perfettissima e purissima intenzione.
Vedi tu, se puoi far di più, mentre Dio non poté far di più che crearti per un fine tanto alto, e il
possesso di Dio non è dovuto alla tua debole natura.
Essendo tanto grande il beneficio della tua creazione, più grande è quello di averli Dio
conservato e sopportato fino a questo punto, senza cacciarti in mille inferni per i tuoi peccati.
Questa grazia della conservazione veniva notata dal Salvatore, quando disse che circondò la
vigna di una siepe, la quale aveva lo scopo di conservarla. Considera che cosa di più poteva
fare il tuo Creatore a questo riguardo della conservazione di quello che ha fatto con te, poiché
ti ha conservato come amico,” dopo che sei diventato suo nemico.
Guarda quanti dopo aver peccato una volta non furono conservati in questa vita e si trovano
ora all'inferno. Alcuni di essi gli sarebbero stati più fedeli di te, se avesse loro perdonato.
Guarda a tanti Angeli, cui il primo peccato ha precipitato dal cielo, e Dio non ha aspettati,
mentre aspetta te.
Considera che cosa di più poteva fare per te.

181

Pensa che cosa devi fare per Dio. Considera che gli devi di più per la conservazione che per la
Creazione, perché nella conservazione gli devi quanto gli dovesti nella Creazione ed oltre a
questo gli devi, essendo suo nemico, che ti sopporti e che ti conservi. Nella Creazione, sebbene
non meritassi l’esistenza, non l'hai però demeritata; nella conservazione invece hai anche
questo demerito.
Ma soprattutto è il beneficio della Incarnazione, quello che ci era significato da Gesù Cristo in
quella parabola, in cui si dice che il Signore della vigna ha mandato il suo Figlio. Considera, se
Dio avesse dovuto salvarsi, avrebbe potuto far di più per la propria salvezza, di quello che ha
fatto per la tua, mandando il suo Figlio Unigenito al mondo, perché si incarnasse per te?
L'onnipotente braccio di Dio non poté compiere opera maggiore.
Considera come Egli non ha fatto questo per gli Angeli, ma l'ha fatto per te. Considera se in
questo mostri Egli meno amore di un Serafino. Considera pure che, potendoti redimere con
diventare solo Angelo e pregando per te, non volle tralasciare di fare questo onore alla tua
natura, facendosi uomo invece che Angelo. Rifletti se poté far di più per il tuo bene. Potendo
unitamente onorare anche gli Angeli ed esser utile a te col farsi Angelo, non volle onorarti ed
esserti utile, se non facendosi uomo.
Dicono alcuni Dottori che la caduta degli Angeli avvenne perché, avendo Iddio proposto alla
loro adorazione un Uomo che unitamente doveva essere Dio e che doveva essere sopra tutte le
gerarchie, essi non vollero assoggettarsi a ciò che era inferiore alla loro natura. Considera ciò
che devi a Dio per questo favore singolare, che cioè volle farsi uomo per te, perché tu non li
perdessi, sebbene Egli per questo perdesse tanti Angeli migliori di te. Considera da dove ti
liberò con questo beneficio, cioè dal peccato e dall'inferno, essendo il tuo affare disperato e
senza rimedio umano.

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Considera a quali altezze ti sollevò, cioè alla sua grazia, ad essere erede del cielo. Pensa in
qual modo fece tutto questo e con quale amore, perché fu tutto a costo suo, fino ad
annientarsi, come dice l'Apostolo, per innalzare te. Si fece della tua natura senza che questo
fosse necessario, soltanto per farti questo onore che non fece agli Angeli.
Considera che cosa di più poté fare Iddio per te e rifletti che cosa potresti far di più per Dio.
E ricordò il Signore nella parabola anche il beneficio della Redenzione per mezzo della
Passione e Morte di Cristo, dicendo che il figlio mandato dal Signor della vigna fu ucciso. Che
più poté far per te il Figlio di Dio che morire e spargere il Suo Sangue per il tuo bene, pur non
essendo questo necessario per la tua Redenzione? Fu necessario che Dio s'incarnasse o si
facesse Angelo, per redimerci con tutto rigore di giustizia, mentre non fu necessario patire e
morire. Ora considera che cosa di più poté fare Iddio per te, avendo fatto più di quello che era
necessario. E poiché volle patire, non si accontentò di patire in qualunque modo, ma tanto
ignominiosamente, che non sembra avrebbe potuto far di più.
Mettiti dinanzi ai tuoi occhi Cristo crocifisso sul monte Calvario, considera, se è possibile od
immaginabile un uomo più infamato, poiché fu giustiziato pubblicamente, fra due ladroni, con
l'accusa di eresia e tradimento, per dottrina falsa e per essersi fatto re e traditore di Cesare.
Questi delitti sono quelli che infamano maggiormente, perché non solo infamano colui che li
commette, ma tutta la sua stirpe. Considera con quale povertà morì, se è possibile altra
maggiore, perché tu veda, se poté far di più per te di quello che fece.
Quando viveva non aveva dove reclinare il suo capo, però almeno aveva vesti con cui coprirsi
onestamente, ma quando mori gli mancarono anche queste, gli mancò perfino una goccia di
acqua per

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refrigerare le sue labbra, né poté appoggiare la testa, né le mani per sostenersi. Gli mancò
anche la terra, essendo morto senza poter posare in essa il piede. Considera con quali dolori
spirò, poiché dai piedi al capo fu una sola piaga. I piedi e le mani traversati da chiodi, il capo
sacrosanto incoronato di spine: tutto fu portato all'estremo, tutto finezza, tutto amore
eccessivo, e quanto poté, tutto fece per tè. Considera ora ciò che devi fare e patire per chi patì
e fece per te quanto poté, potendo tutto ciò che volle.
Dopo tutti questi benefici considera che Egli si è dato a re in cibo e sostentamento nel SS.
Sacramento, il che pure è significato da Cristo, quando disse che il Signore della vigna edificò
un tino per il vino, nel quale ti dà il suo Sangue Sacratissimo. Sembra che le persone della SS.
Trinità, facessero a gara nel mostrarsi delicate con l'uomo, e, diciamo così per spiegare, a
nostro modo d'intendere, ciò che non basta neppure la mente angelica a capire.
Si potrebbe applicare qui ciò che l'antichità ammirò in due grandi pittori. Andò Apelle a Rodi,
per vedere Protogene e, non trovandolo in casa, prese il pennello e tirò una sottilissima riga,
incaricando i famigliari di dirgli, che chi aveva tirato quella linea, lo aveva cercato. Quando
Protogene venne, prese il pennello e tirò altra linea di colore diverso per mezzo all'altra.
Sembra che non si possa immaginare eccesso maggiore di amore che aver l'Eterno Padre dato
in morte il Suo Figlio per amore degli uomini. Ed ecco che in questo stesso eccesso di amore
seppe il Figliuolo fare un altro eccesso maggiore che è la sua presenza nel SS. Sacramento, che
alcuni chiamano l'estensione dell'Incarnazione, rappresentazione della Passione, un
compendio e una memoria delle meraviglie di Dio. Qui veramente il Figliuolo di Dio gettò il
confine del suo amore e consumò per così dire i

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benefizi divini, poiché, dando se stesso, entra nel nostro cuore per sollecitare il nostro amore.
Raccontano che essendo Anacreonte molto forte e resistendo a tutte le saette che gli scagliava
l'idolo Amore, quando tutte l'ebbe esaurite si lanciò egli stesso a guisa di freccia, e
penetrandogli nel petto e nelle viscere, ne ebbe vittoria. Ora che altro sono i benefici di Dio,
Nostro Signore, se non altrettante frecce di amore alle quali l'uomo resiste? Chi non si arrese
al beneficio della Creazione, né a quello della conservazione, né a quello dell'Incarnazione, né
a quello della Passione, si arrenda almeno a questo dell'Eucaristia, dove lo stesso Figlio di Dio
gli penetra nel cuore e tutto l'investe per sollecitare il suo amore.
E se non lo fa, qual giudizio di Dio lo aspetta? Quindi disse con ragione l'Apostolo San Paolo
che chi si accosta indegnamente alla S. Comunione, mangia e beve il giudizio di Dio, cioè
inghiottisce tutto il peso del giudizio divino.
Considera ora quanto spaventevole punto sarà per il peccatore, quando lo accuseranno non
solo di tutto ciò che egli ha fatto nella sua vita, ma altresì di ciò che ha fatto Dio,
nell'Incarnazione, Passione, Vita e Morte di Gesù Cristo, Nostro Redentore, il quale tante volte
gli si è dato nel SS. Sacramento del suo Corpo e Sangue Preziosissimo.
L'omicida, a cui si fa carico della vita di un uomo, se anche fosse quella di un malfattore, teme
che venga preso e tratto in giudizio. Ora colui al quale si fa carico della vita di Dio, come non
trema? Oh che tremenda cosa e per una vile creatura entrare in giudizio col suo Creatore e
dover rendere conto del Sangue di Gesù Cristo, il cui prezzo è infinito! Che cosa potrà addurre
in discolpa per questo e per gli altri benefici di cui gli si chiederà strettissimo conto dal più
grande al più piccolo? E Cristo gli dirà: (S. Giovanni CRISOSTOMO, Hom. 24 in Matth):

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Io, non esistendo tu, feci che tu fossi, ti ispirai l'anima, e ti posi sopra tutto quanto è di creato
nella terra. Per te io trassi dal nulla cielo e aria e mare e terra ed ogni altra cosa, e fui da te
disonorato e ritenuto peggiore e più vile che il demonio medesimo: e con tutto ciò non
tralasciai di aggiungere ai benefici antichi altri innumerevoli. Per tua cagione, Io essendo
Dio, volli farmi servo, ma fui schiaffeggiato, sputacchiato e condannato ad un supplizio da
schiavi: per redimerti dalla morte Io soffrii la morte di croce e nel cielo pregai per te e ti
diedi lo Spirito Santo, ti invitai al Regno dei cieli. Mi piacque di essere tuo capo e sposo e
vestimento ed abitazione e cibo e bevanda e pastore e fratello, Io ti scelsi per erede del Cielo e
ti trassi dalle tenebre mortali alla luce.
Ad estremi di tanto amore che potremmo noi rispondere, se non rimanere confusi ed attoniti
di essere stati ingrati e di aver dato occasione al demonio di schernire sfacciatamente il nostro
Redentore col dirgli: Tu creasti questo uomo, nascesti per lui nella povertà, vivesti in affanni e
moristi con dolore. Io non ho fatto nulla per lui, anzi gli desidero mille inferni e vorrei averne
bevuto il sangue, e con tutto questo egli si è studiato di dar gusto a me, non a te. Tu gli tenevi
apparecchiato un premio di gloria eterna, io desidero di tormentarlo nell'inferno, e con tutto
questo egli ha servito a me senza interesse e non a te con tutte le lue promesse. Io avrei
vergogna di averlo creato e redento, poiché egli ha avuto l'ingratitudine di pagare in tal modo
tante grazie. Ma poiché egli ha voluto piuttosto me, anzi che te, lo si dia a me, che ben deve
essere mio, mentre tante volte ed in tante guise mi si è donato.
Non solamente si deve rendere ragione di questi benefici generali, bensì anche di quelli
particolari, dei buoni esempi avuti, della verità appresa, delle ispirazioni sentite, dei
Sacramenti ricevuti.

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Abbiamo molto da fare per corrispondere a tutti i benefici.


Tremiamo di quel giudizio stretto e tremiamo di noi stessi, poiché tanto ci trascuriamo in cosa
in cui ogni diligenza non è sufficiente. E se non fosse per il Sangue di Cristo che sarebbe di
noi? Ma allora non sarà più tempo di approfittarne come ora.
E se ora lo disprezziamo ed oltraggiamo, che sarà allora di noi? Non disprezziamo ora il tempo
della vita, poiché ci avranno da domandare conto stretto di tanti benefici, e uno di questi è il
tempo della stessa vita e tutti i beni di essa. Vediamo come ci serviamo di tutti; non perdiamo
tempo, poiché anche di questo avremo da rendere conto.
Questo faceva tremare il beato Talileo, (SOPH., in Prato spirituali, cap. 59, de Beato Thalileo)
il quale, interrogato perché si abbandonasse così sovente al pianto, rispose: Ci è stato
concesso il tempo per far penitenza e ci si domanderà stretto conto, se lo disprezziamo. Non è
nostro ciò di cui dobbiamo rendere conto. Non siamo signori del tempo; non disponiamo di
esso per nostro gusto, ma solo per il servizio di Dio. Se non avessero altra ragione i beni
temporali, perché non si ponga in essi la nostra affezione e si aspiri ai beni eterni, basterebbe
la sola considerazione di dover rendere ragione del tempo e di tutte le cose temporali. E
poiché dobbiamo rendere conto del modo con cui ne usiamo per il servizio di Dio, non
usiamone mai senza ragione e per il solo nostro piacere.

CAPITOLO QUINTO.

Dio fa già in questa vita rigorosissimo giudizio.

E' inferiore alla realtà ciò che abbiamo detto del rigore del tribunale di Dio, che avrà luogo
quando, alla fine della vita, l'anima si presenterà al suo

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Redentore per darne conto. Acciocché più vivamente apprendiamo con quale severità sarà
giudicata l'anima, consideriamo un poco la severità con la quale Iddio anche in questa vita
giudica coloro ai quali usa misericordia, affinché se ne deduca ciò che sarà nell'altra quando
sarà usata soltanto giustizia. Per bocca del Profeta Ezechiele Dio dice al suo popolo: Adesso da
vicino verserò sopra di te la mia ira e sazierò il mio furore, e ti giudicherò secondo le tue vie, e
porrò sopra di te tutte le tue scelleratezze (Ez.7, 8). Ed il mio occhio non ti risparmierà e non
userò misericordia, ma porrò sopra di te tutte le tue opere e le tue abominazioni saranno in
mezzo a te: e conoscerete che io sono il Signore che punisco. Subito dopo aggiunge: La mia ira
sta sopra tutto il suo popolo. Di fuori la spada e di dentro la peste e la fame, chi è al campo
morirà di spada e chi è in città, la peste e la fame lo divoreranno. Si salveranno quelli di loro
che fuggiranno e staranno sui monti come le colombe delle convalli, tutti pieni di paura,
ciascuno per la sua iniquità. Tutte le mani diverranno fiacche e tutte le ginocchia si
scioglieranno in acqua.
E non è a stupire che questo si facesse con i peccatori che abbandonarono Dio, se si usò ogni
rigore con quelli che pure erano zelanti del suo onore.
Vediamo come il profeta Zaccaria (Zc.3) ci presenta il gran Sacerdote, figlio di Josedec,
mentre subisce questo giudizio. Davanti ad un Angelo che faceva ufficio di giudice stava egli
tutto ricoperto di lordi cenci, in modo che il Signore lo chiamò tizzone, tratto dal fuoco, ed
aveva al suo lato

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Satana che lo accusava. Ora, se al cospetto di un Angelo questo gran Sacerdote, zelante della
gloria di Dio, era sì abbattuto e confuso che pareva un carbone acceso d'inferno, con le vesti
immonde ed affumicate, quale sembrerà un peccatore grande e disprezzatore del servizio di
Dio dinanzi al medesimo Dio?

I sette Angeli dell'Asia.


Ma più esattamente ci fu significato questo giudizio nell'Apocalisse, là dove Cristo fece
giudizio con i sette Vescovi dell'Asia, i quali erano ancora viventi ed erano grandi servi di Dio e
santi, come San Timoteo, caro discepolo dell'Apostolo San Paolo, San Policarpo, San
Quadrato, San Carpo e San Sagaris e tutti godevano grande fama di santità. Ora vediamo in
primo luogo come stava Cristo quando li giudicò e che rigoroso processo fece con essi.
Prima di tutto, per significare che nulla gli era celato, stava in mezzo a sette candelabri accesi
che spandevano una luce intensa. Di più egli aveva in mano sette splendidissime stelle. Sopra
tutto splendeva il suo volto, che quale sole di mezzogiorno e nel suo massimo vigore non
lasciava intorno a sé cosa alcuna che non si potesse minutamente distinguere. Con tanto
splendore di torcia, stelle e sole non vi era alcun'ombra, per darci ad intendere che non si può
nascondere alcunché, per minimo che sia, al nostro giusto Giudice, il quale vedrà tutto tale
quale è con somma chiarezza. Non contento però di tanti segni che fossero testimoni della
rigorosa esattezza con cui egli distingue tutti i peccati, quando vuoi farne giustizia, si aggiunge
che Cristo aveva occhi come una fiamma di fuoco, poiché erano più penetranti che quelli di
linee, per veder tutto e scrutare tutto. E perché intendessimo non meno la severità ed il rigore
con cui scruta i peccatori, quando vuole far giudizio con essi, lo farà con occhi di fuoco.

189

Questo certamente poteva bastare per farci conoscere il rigore della sua giustizia. Ma essendo
questa giustizia somma, volle spiegarla con altro segno, paragonando le sue parole a una
spada acutissima a due tagli, che aveva in bocca, per dire che il rigore delle sue opere sarebbe
ancora maggiore di quello delle sue parole, sebbene le sue parole siano come una spada
tagliente. Finalmente Egli era in ogni circostanza così terribile e giusto, che San Giovanni, cui
non riguardava questo rigore, non essendo egli colui che veniva giudicato, ne ebbe però tale
spavento, che cadde privo di sensi per terra. Ora, se San Giovanni, che pur non aveva il
Signore adirato contro di sé, al solo vedere quanto terribile fosse la sua ira contro altri, verso i
quali voleva pure usare pietà, cadde per terra come privo di vita, che sarà quando alla fine di
questa vita Egli si mostrerà pieno di sdegno contro il peccatore senza speranza di misericordia
alcuna? Credo che, se le anime potessero morire, perderebbero mille vite ad una vista così
terribile.
Vediamo ora che cosa riscontrarono gli occhi di fuoco, coi quali Cristo esaminò le opere di
quei sette Vescovi, nei quali, sebbene fossero chiamati dal Signore col nome di Angeli, egli
trovò pure molto di che riprendere, affinché si verificasse la sentenza di Giobbe che anche nei
suoi Angeli riscontrò macchia (Gb.4, 18). Chi direbbe che un San Timoteo, nel quale
l'Apostolo aveva tanta confidenza, dovesse essere minacciato da Cristo, che gli si toglierebbe la
sua Chiesa di Efeso, se non faceva penitenza e non si emendava del raffreddamento del suo
fervore? Chi crederebbe che i Vescovi di Pergamo e di Tiatira avessero difetti tali, da dover
esser esortati alla penitenza? Chi crederebbe che il

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Vescovo di Sardi, il quale era in concetto di tanta virtù, fosse trovato da Cristo carico di colpe
mortali? Chi crederebbe che il Vescovo di Laodicea, che in nulla si sentiva rimordere la
coscienza, comparisse agli occhi di Dio tale da doversi chiamare miserabile, degno di
compassione, povero, nudo di ogni virtù e cieco?
O Dio Santissimo! Chi non temerà, se colui il quale era tenuto per un angelo dagli uomini, da
Dio fu reputato per demonio? Con ragione disse il Savio che non sa l'uomo se sia degno di
amore o di odio, e Davide domandava con ragione a Dio che lo liberasse dai peccati che non
conosceva. O Signore, santissimo e rettissimo Giudice! Come non vi temono gli uomini,
mentre dovrebbero tremare per ciò che voi sapete di essi, giacché, sebbene essi si tengano per
giusti, voi li potete condannare? Temiamo che Dio ci abbia a domandare conto dei peccati che
non conosciamo, come fece con questo Vescovo di Laodicea, e anche dei peccati altrui, come
fece col Vescovo di Tiatira.
Gli occhi di Cristo però non solo arrivano a vedere i peccati più occulti ed altrui, ma altresì a
scoprire quelli di omissione. Così riprende le omissioni del Vescovo di Pergamo, sebbene fosse
molto fedele a Dio nelle opere buone, cercando la sua gloria e l'esaltazione del suo Santo
Nome. Dappertutto Cristo riscontrò opere cattive, tanto conosciute quanto occulte, sia proprie
sia altrui, e anche nelle opere buone, perché non si compivano con perfezione e fervore.
Tremiamo noi, se non ha trovato opere fervorose in un San Timoteo.
Ma quel che è più si è che nel santo Vescovo di Filadelfia, essendo questi tanto irreprensibile e
non essendo venuto meno in cosa alcuna, trovò da riprendere, non per aver egli commesso
opere cattive, né per omissioni di opere buone, né per diminuzione di fervore, ma solo perché
hai virtù piccole. Pur avendo questo

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Vescovo grandi meriti, per cui era molto amato e favorito da Dio; essendo però le nostre
obbligazioni infinite, non si dà virtù, né santità che alla sua vista non sembri piccola.
Tanto minuto ed esatto è il giudizio divino, che di sette Vescovi che erano ritenuti per Angeli,
trovò nei primi sei di che giudicare e riprendere, in uno negligenza, in altro incostanza e
diminuzione, in un altro fiacchezza, in un altro stanchezza, in un altro tiepidezza ed
imprudenza, ed in due almeno trovò che stavano in peccato mortale: ora, se in tali Angeli gli
occhi divini trovarono colpa, in noi peccatori che cosa troveranno?
Giovò tanto a questi Vescovi il saper di essere stati giudicati da Cristo che si allenarono a gran
fervore, e di quelli i cui nomi sono giunti a nostra conoscenza, si sa che morirono santamente
e come tali sono venerati dalla Chiesa. Serva anche a noi il sapere che saremo giudicati con
rigore uguale, per non commettere colpa contro Colui a cui dobbiamo tanto, per non aver
tiepidezza nel suo servizio e per fare opere sante e perfette. Temano i tiepidi queste parole che
disse il Signore a uno di questi vescovi: Oh se tu fossi freddo o caldo; siccome però sei tiepido
e non sei né freddo né caldo, comincerò a vomitarti dalla mia bocca. (Apoc.. 3, 15-16).
Nota un interprete che questa minaccia è più da temersi di una condanna, perché ha questo di
particolare che la sorte comune dei reprobi ci è indicata dalla metafora del vomito, che ci
denota una detestazione del Dio irriconciliabile, un abbandono della sua Provvidenza paterna,
una negazione di aiuti efficaci, una gran durezza di cuore. Tremiamo dinanzi a questa
minaccia del giusto

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Giudice, affinché non ci perdiamo per la sua sentenza e condanna.


Trema ancora dinanzi alla sentenza che udirai dalla bocca di Cristo, diretta al Vescovo di
Sardi: Non trovo le tue opere piene dinanzi al mio Dio (Ap 3. 2).
Considera quale sia la tua carità, se veramente è piena; perché non sarà piena, se alcuni amerà
ed altri no; se amerà solo il benefattore ed aborrirà chi gli dà fastidio; se opererà soltanto, ma
senza soffrire. Rifletti se sopporti le fatiche del prossimo come se fossero proprie, se preferisci
il gusto degli altri al tuo, se abbracci cose molto penose e dure, col desiderio di essere grato a
Dio, se ami non soltanto a parole, ma anche con le opere.

Considera, o cristiano.
Vedi se la tua umiltà è piena, se non solo fuggi gli onori, ma li fuggì anzi col disprezzo di te, se
non solo non ti anteponi a nessuno, ma ti posponi a tutti. Vedi se la tua pazienza è piena, se
non preferisci di soffrire di più una cosa che l'altra, se non solo soffri, ma anche non ti
lamenti.
Vedi quale sia la tua obbedienza, se sia piena, se ubbidisci nelle cose facili e nelle cose difficili,
se all'uguale e non all'inferiore, se guardi all'uomo e non a Dio, se con ripugnanza o con gusti”.
Guarda alle altre virtù, se siano piene; di tutto avranno da domandarti ragione; procura di
poterla dar buona. Vedi di non trovarti con le tue opere vane nel giorno del rendiconto, perché
lo dovrai rendere non solo sopra quelle opere che hai fatto, ma anche se le hai fatte bene.
Anche in questa vita Dio ci castiga per la trascuranza che abbiamo; che sarà nell'altra?

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Facciamoci forza per servire davvero a chi ci fa tanto bene. Guarda ciò che hai ricevuto,
perché tu sappia ciò che hai da dare. Guarda alla grandezza e ai benefici che ti ha fatto Dio,
perché tu sappia misurare la finezza della tua riconoscenza e come i benefici di Dio siano
colmi e pieni, mentre le nostre opere sono alle volte manchevoli e difettose.
Non si dimenticò il Signore di rammentare la riconoscenza per i suoi benefici a quei sette
Prelati. Dice infatti al Vescovo di Sardi; Ricordati adunque in qual modo hai ricevuto. [In
mente habe, qualiter acceperis (Ap. 3, 3).]
Non dice ciò che ha ricevuto, ma solo la maniera con cui ha ricevuto, perché nei benefici divini
non si deve guardare solo alla sostanza di essi, ma esser riconoscenti altresì del loro modo e
delle circostanze, affinché la nostra gratitudine non consista soltanto di opere sante, quanto
alla loro sostanza, ma bensì anche quanto al loro modo. Le opere non solo siano buone, ma
siano pure ben fatte, compite e piene. Se Dio Nostro Signore nel suo amore ti fece benefici così
grandi, tu servilo con grande amore; se Dio impiegò la sua onnipotenza per tuo giovamento,
adopera tu tutte le tue forze e facoltà per la sua gloria e per il suo servizio.

CAPITOLO SESTO.

La fine di tutto il tempo

Oltre la fine del tempo particolare della vita di ciascuno dobbiamo pure considerare la fine del
tempo in generale.
Perché l'ambizione umana non arrivi ad oltrepassare i limiti della vita, desiderando anche
dopo

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morte onori e celebre memoria, pensiamo che dopo la nostra morte vi avrà un'altra fine ed
un'altra morte in cui dovrà cozzare la nostra ricordanza per svanire come fumo.

Ogni fama si spegne.


Pensi ognuno che, finito il tempo della sua vita, avrà da terminare pure tutto il tempo in
generale, e col tempo dovrà finire tutto quanto egli lasciò in questo mondo; si convinca perciò
che non sono meno vane le cose con cui dopo la sua morte si procaccia memoria, che le cose
delle quali egli godé vivendo. Innalzi superbi mausolei eriga statue di marmo, edifichi città
popolose, lasci numerosa famiglia, scriva libri dottissimi, imprima il suo nome nel bronzo,
fissi con mille chiodi la sua memoria, tutto avrà da aver fine. Le città affonderanno, le statue
cadranno, la stirpe finirà, i libri si bruceranno, il suo nome si cancellerà, insomma tutto finirà,
perché finirà tutto il tempo. Importa molto che noi ci persuadiamo di questo per disinganno
delle cose, perché non solo hanno da finire i piaceri con la morte, ma eziandio le memorie con
la fine del tempo, e poiché tutto avrà fine, tutto deve disprezzarsi come transitorio e caduco.
Cicerone (Epist. ad L. Lucium) era tanto avido di fama, che scrisse a un amico domandandogli
istantemente che gli scrivesse la storia della congiura di Catilina, ch'egli aveva scoperta,
aggiungendo che accennasse anche alla loro amicizia e che la pubblicasse ancor lui vivente,
perché potesse godere ancora vivo della gloria che ne sarebbe risultata. Con tutto ciò,
considerando egli la fine che dovrà avere il mondo, bene si avvide che nessuna gloria e
nessuna memoria può aver fermezza, onde scrisse: Per i diluvi e gli incendi su la terra, che in
certo tempo è

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necessario che avvengano, non possiamo raggiungere gloria, non dico eterna, ma neppur
duratura (In Somno Scipionis).
Si sappia dunque che in questo mondo non si avrà memoria immortale; poiché è mortale il
tempo e lo stesso mondo. Verrà tempo in cui più tempo non si avrà. Questa verità è come la
memoria della morte, la quale quanto è più importante, tanto meno i mortali pensano ad essa
e praticamente non se ne convincono.

Il grande annunzio.
Ma Dio, perché non ci mancasse la sua Provvidenza e guida a questo riguardo, volle che si
annunciasse verità tanto importante con tutta solennità. La prima volta per mezzo del suo
stesso Figlio, di poi per bocca dei suoi Apostoli e anzi per mezzo degli stessi Angeli. Così scrive
San Giovanni nella sua Apocalisse: Vidi un angelo forte e polente che discese dal cielo, avendo
per vestito una nube, per diadema l'arcobaleno sul capo, con un volto risplendente come il
sole: aveva i piedi come colonne di fuoco e pose quello destro sopra il mare e quello sinistro
sopra la terra e diede un grido forte e spaventevole come un leone, al quale risposero sette
tuoni con altrettante voci spaventose. Subito quell'angelo prodigioso che stava sopra il mare e
la terra levò la mano al cielo. Perché questa cerimonia? Perché vestito tanto strano, tanto
apparato e voci di tuono? Tutto fu per promulgare la morte del tempo e perché la sua
infallibilità convincesse di più, fece un solenne giuramento, non solo con quell'alzare la mano,
ma con una formola molto legittima di parole di tutta solennità.

196

Alzando la mano giurò per colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato il cielo e quanto
v'è in esso e la terra e quanto v'è in essa, e il mare e quanto v'è in esso, che mm vi sarà più
tempo (Ap. 10, 1-6). Con che mai potevasi autenticare questa verità della fine che dovrà avere
il tempo, più che con un giuramento così maestoso e potente?
Il peso e la gravità del giuramento da ad intendere quanto importante sia questa cosa in se
stessa. Chi dubita che sia di grande spavento il considerare come finirà il tempo? Se il dover
morire un monarca od un principe di un angolo di questo mondo causa spavento, il dover
morire il mondo e con esso tutto ciò che è temporale ed insieme il medesimo tempo, e tutto
questo pronosticato da un Angelo con un'apparizione tanto prodigiosa e voce spaventevole,
quale spavento non dovrà cagionare? È tanto conveniente la considerazione della fine di tutte
le cose, che non solo per il finirsi di una, ma per il finirsi di tutto questo mondo basta per
disprezzarle tutte.

Non vi sarà più tempo!


Persuadiamoci di questo; che non solo finirà questa vita temporale, ma anzi non dovrà più
esservi tempo. Il tempo dovrà mancare alla vita dell'uomo, e il tempo dovrà mancare alla vita
del mondo, la cui fine non sarà meno orribile che quella dell'uomo; anzi quanto maggiore è la
distanza tra il mondo intero e la stirpe umana ed un uomo particolare, tanto più spaventosa
sarà la morte del mondo che quella di un uomo solo.

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Per questo sono tanto spaventevoli le profezie riguardanti la fine del mondo, che, se non
fossero dette dallo Spirito Santo, non si potrebbero credere. Perciò Cristo Nostro Signore,
dopo averne rivelate alcune ai suoi discepoli, siccome sembravano eccedere tutto ciò che si
poteva immaginare, finì con confermarle con quel modo di giuramento o asserzione di cui
soleva usare in cose di grande importanza, dicendo cioè: In verità vi dico che non finirà il
mondo senza che si compiano tutte queste cose, perché il cielo e la terra scompariranno, ma
non verranno meno le mie parole. (Lc 21, 32) Crediamo dunque che il tempo ha da finire, che
il mondo avrà da morire e questo, se così può dirsi, disastrosamente. Crediamolo, perché lo
giura l'Angelo ed il medesimo Signore degli Angeli. Se è così, anche le memorie più immortali
degli uomini avranno fine, poiché il genere umano avrà fine. Procuriamo soltanto di rimanere
nella memoria eterna di Colui che non avrà mai fine e non meno disprezziamo di restare nella
memoria degli uomini che dovranno finire, che di godere dei piaceri dei nostri sensi, che pure
avranno da morire. Come è inganno per la nostra avarizia raccogliere tesori sulla terra, così è
pure errore della nostra ambizione volere in questo mondo eternare la nostra memoria.
L'avaro dovrà lasciare i suoi tesori, se non glieli toglierà il ladro. La fama e il nome dovranno
finire col mondo, se non sarà cancellato già prima dall'oblio degli uomini o dalla loro invidia.
Tutto ciò che ha fine è vano, e tutto questo mondo avrà fine. Tutto quanto in esso si stima è
vano, e tutto il mondo è vanità di vanità. Procacciamoci soltanto ciò che è eterno ed a questo
solo aspiriamo. Soltanto il giusto rimarrà nella memoria eterna di Dio, come disse il profeta,
perché la memoria degli

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uomini è tanto caduca e passeggera quanto gli uomini stessi.


Quale ambizioso non preferirebbe di essere stimato da dieci uomini di perfetta memoria, che
avessero da vivere cento anni, piuttosto che da mille, che avessero da morire appena che lui
fosse spirato? Non stimiamo se non di stare nella memoria di un Dio, la cui vita è eterna,
perché la memoria fra gli uomini non può durare più degli uomini stessi che moriranno come
tu stesso. Così non vi avrà mai memoria immortale fra coloro che sono mortali.
E' pure di grande importanza che la fine del mondo sia accompagnata dal giudizio universale,
giudizio che si farà di tutti gli uomini. Questi dovranno manifestare le cose più occulte e
segrete, perché non si fidi l'omicida della morte che diede al suo prossimo a fin di coprire la
sua malvagità, né osi alcuno di peccare per mancanza di testimoni, poiché ha da sapere tutto il
mondo quello che, se lo sapesse altro uomo, lo farebbe morire di pena.
CAPITOLO SETTIMO.

Come si altereranno gli elementi ed il cielo al termine del tempo.

Le potestà dei cieli saranno sommosse.


Vediamo ora la maniera con la quale dovrà finire l'universo, dalla cui terribilità potrà scorgersi
l'abuso con cui gli uomini si servono delle loro cose, la vanità e l'inganno di esse, perché senza
dubbio il mondo non avrebbe fine tanto disastrosa, se non fosse per la malizia che lo riempie.
Scrive

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San Clemente Romano (Liber Recognit.) che aveva imparato da San Pietro Apostolo, che Dio
fin dall'eternità ha determinato un giorno nel quale facciano, per così dire, giornata campale
l'esercito di tutte le pene e l'esercito di tutte le colpe.
Questo giorno suole chiamarsi nella Scrittura il Giorno del Signore, nel quale l'esercito delle
pene darà battaglia campale alle colpe e si finirà una volta per sempre con esse e col mondo
dove hanno regnato. E se la terribilità di questo giorno è proporzionata alla moltitudine e
gravità dei peccati, non mi sembra strana la terribilità di cui parlano le Sacre Lettere ed i Santi
Padri.
Come è solito accadere nelle guerre, che prima di venire all'ultima battaglia si fanno varie
scorrerie e scaramucce, così pure prima di quel giorno formidabile nel quale s'incontreranno
tutte le pene con tutte le colpe, manderà Iddio qua e là varie calamità che come cavalleggeri
correranno per primi nel campo, come fu rivelato a San Giovanni nell'Apocalisse, con quei
soldati che vide salire su vari cavalli, uno rosso, l'altro nero, l'altro bianco. Ora manderà fame,
ora peste, ora guerra, ora terremoti, ora inondazioni, ora diluvi, ora aridità della terra. E se
queste cose affliggono ora tanto, che sarà quando la giustizia divina farà l'ultimo sforzo ed
ogni creatura si armerà contro i peccatori, essendo capitano generale lo zelo della divina
giustizia, come lo dichiara il Savio con queste parole: Il suo zelo prenderà armi e armerà le
creature per vendicarsi dei suoi nemici. Si rivestirà di giustizia quale corazza, e come elmo
prenderà l'infallibile giudizio. Impugnerà come scudo inespugnabile l'equità. Aguzzerà con
una lancia la sua ira inflessibile e l'intero universo combatterà con lui contro gli insensati.
Partiranno dirette le folgori scagliate e scoccheranno dalle nubi come

200

da ben curvato arco e voleranno al luogo destinato. E dalla fionda verranno lanciate grandini
impetuosamente. Contro di essi si leverà un vento fortissimo e come un turbine li dissiperà.
(Sap 5, 18-24)
Ben spaventose sono queste parole, sebbene non contengano più che la guerra che devono
fare i tre elementi contro i cattivi. Ma non soltanto il fuoco, l'aria e l'acqua li dovranno
atterrare, ma altresì la terra e il cielo, come dicono altri passi della Sacra Scrittura; tutte le
creature mostreranno il furore di quel giorno adirandosi contro gli uomini. E se le nubi
lanceranno fulmini e pietre ai peccatori, il cielo lascerà cadere globi non minori delle stelle, le
quali, come disse Gesù Cristo, cadranno dal cielo. Se la grandine così piccola come pietruzze,
cadendo dalle nubi distrugge i campi e uccide gli animali, quando cadranno a pezzi le stelle
del firmamento e da altre regioni sublimi, quale strage faranno e che spavento causeranno alle
genti?
Non è esagerazione ciò che dice il Vangelo che gli uomini inaridiranno per spavento di ciò che
sopravviene all'universo, perché come in un uomo particolare, che si chiama piccolo mondo,
quando deve morire, si turbano gli umori, che sono i suoi elementi; gli occhi che sono come il
sole e la luna si oscurano, gli altri sensi, che sono come astri minori, svengono e la ragione,
che è come una virtù del cielo, si sganghera dai suoi cardini; nella stessa maniera nel mondo
maggiore che è questo universo, il sole si cangerà in tenebre, la luna in sangue, le stelle
cadranno, ed il mondo, sentendo vicina la sua morte, si scuoterà con fracasso orrendo prima
di sciogliersi e ruinare.

201

Se il sole, la luna e gli altri corpi celesti, che si ritengono per incorruttibili si hanno da alterare
ed oscurare tanto, che si farà negli elementi che da loro dipendono e sono per se stessi tanto
mutabili? Se questo mondo inferiore dipende dal cielo, come dissero i filosofi, alterati e
sconvolti i corpi celesti, in quale stato possono rimanere gli elementi, quando le virtù del cielo
tituberanno e le stelle sviate non si conserveranno nel loro ordine? Come sconvolta sarà allora
l'aria da violenti turbini, da tenebrose tempeste, da orrendi tuoni, da furiosi fulmini! Da quali
spaventevoli terremoti sarà agitata la terra e, spalancata in mille bocche, andrà vomitando
vulcani di fuoco! Saranno così fieri gli scotimenti che non solo atterreranno e seppelliranno le
torri più alte, ma saranno inghiottite nei suoi cupi abissi le città intere e saranno assorbite le
montagne più alte. Ma del mare, chi potrà dire la furia, quando le sue onde si solleveranno
tanto gonfie che sembrerà che abbia da annegare, anzi annegherà di fatto, per la maggior
parte, la terra? Rimbomberà con tali muggiti l’oceano che farà cadere storditi coloro che
abitano nel cuor della terra ferma. Onde disse Cristo: Sarà in terra costernazione di popoli per
lo sbigottimento del fiotto del mare e dell'onde. (Lc., 25, 35)
Che faranno in questo scompiglio gli uomini? Resteranno tutti attoniti e pallidi come la morte.
Quale consolazione avranno? Si staranno guardando gli uni gli altri e ognuno nelle sembianze
del vicino raddoppierà i propri spaventi ravvisando in esso un'immagine di morte. Quale
spavento concepiranno per la fine spaventosa, che prodigi tanto orrendi e sconvolgimenti
della natura loro predicono. Cesseranno allora i commerci, si spopoleranno le piazze,
resteranno vuoti i tribunali,

202

l’ambizioso non si curerà più degli onori, né il sensuale dei suoi diletti, nessuno cercherà più
passatempi, nessun avaro si curerà dei suoi tesori, né ci sarà chi vada a rifugiarsi nei palazzi
dei re; non si ricorderanno né di mangiare, né di bere, ognuno procurerà di scappare dai
diluvi, terremoti e folgori, cercando luogo sicuro e anche questo non lo troverà. Chi farà caso
allora della sua stirpe? Chi della nobiltà delle sue armi, della sapienza e del suo talento? Chi si
ricorderà allora della bellezza del viso, dell'edificio che ammirò, dell'acuta composizione che
lesse, dello spiritoso motto che disse? E se nessuno avrà memoria delle cose sue, chi si
ricorderà delle cose altrui? Qual memoria ivi sarà delle prodezze di Alessandro Magno, della
scienza di Aristotele e di tutti i più rinomati sapienti del mondo, la cui fama resterà d'allora in
poi seppellita per sempre e morirà col mondo per tutta l'eternità?
I naviganti, quando in una fiera tempesta stanno in procinto di annegarsi, come sono fuori di
sé di spavento per la furia del mare minaccioso! Quante grida, quante preci, quanti voti! Come
sono disinteressati delle cose della terra, giacché gettano nel mare le stesse loro merci! Ora,
come saranno gli uomini quando non soltanto li spaventerà il mare coi suoi ruggiti, ma altresì
il cielo e la terra con mille prodigi? Quando il sole si veste a lutto e la luna è tutta insanguinata
e le stelle cadono dal cielo e la terra si scuote per l'inquietudine del suo spavento, e turbini
furiosi li gettano dal loro stato ed i fulmini roventi li spaventano, che faranno allora i
peccatori, per causa dei quali avvengono cose tanto spaventose?

Si scompiglieranno gli elementi.


Si potrà scorgere il terrore e la sorpresa nel concorso della natura armata contro i peccatori da
quello che la stessa natura ha cagionato con alcune sue mutazioni particolari.

203

Queste ci faranno conoscere quanto spaventevole sarà la unione di tutte le calamità, dato che
una parte di esse è già tanto terribile.
Incominciando dalla terra, che sembra il più pesante di tutti gli elementi, scrive il cardinale
Giacomo di Pavia, riferendo ciò che avvenne nel suo tempo, cioè il 5 dicembre dell'anno 1456,
che tutto il Regno di Napoli traballò, tre ore prima di farsi giorno, sprofondandosi paesi interi,
con mortalità così grande, che vi perirono circa 60 mila uomini, parte inghiottiti dalla terra,
parte oppressi dalle rovine degli edifici. Qual sicurezza possono aver gli uomini in questa vita,
non potendola avere nella terra che calpestano? Quale fermezza può avere il mondo, poiché
quella sola parte che ci è di fermo, è sì instabile? Da dove non potrà venirci la morte, mentre ci
spunta tra i piedi? Non è molto però che il terremoto di un regno cagionasse strage così
grande, se una città sola non fece meno.
Scrive Evagrio, (EVAGRIUS, Lib. VI, cap. 8) che la notte in cui l'imperatore Maurizio si sposò,
sulle tre ore della notte si scosse con tale violenza la città di Antiochia che caddero quasi tutti i
suoi edifici, restando sepolti sotto essi ben 60 mila persone. Se in questi terremoti così
particolari la terra fu tanto crudele, che sarà stato in quello che racconta Plinio (PLIN., Lib. II,
cap. 84; SENECA, Quaest. natur., lib. VI; NICEPH., Lib. IV, cap. 46) esser successo sotto
Tiberio, che spiantò dodici città principalissime dell'Asia e le subissò? Anche più spavento
cagionò ciò che riferisce Niceforo dei tempi dell'imperatore Teodosio, nei quali durò per sei
mesi interi un continuo terremoto così orrendo e così diffuso che per causa di esso si spaventò
quasi tutta la terra, perché arrivò al Chersoneso, ad Alessandria, alla Bitinia, ad Antiochia,
all'Ellesponto, alle due

204

Frigie, a grandissima parte dell'Oriente ed a molte regioni dell'Occidente.


Per non tacere in tutto della violenza del mare, anche per coloro che sono lontani dalle sue
onde e stanno sicuri nelle loro case, fu orribile il terremoto di cui parlano San Gerolamo ed
Ammiano Marcellino, (S. HIER,, in Vita S. Hilarionis; AMMIANUS MARCELLINUS, lib. XX;
NICEPH., Lib. X, cap. 35) come testimonio di vista, e successe dopo la morte dell'imperatore
Giuliano. Tutta la terra patì orrore ed i mari oltrepassarono i loro confini,
e come se tornasse un'altra volta il diluvio o andasse in frantumi il mondo, per ritornare nel
caos primitivo, furono le navi balzate sulle cime dei monti; in Alessandria superarono gli
edifici più alti e dopo essersi acquietato il mare, le navi rimasero sopra i tetti di quella città,
come racconta Niceforo, ed in altre parti sopra altissime rupi, come attesta San Gerolamo.
Ma ascoltiamo Ammiano Marcellino, le cui parole sono le seguenti: “Essendo ancor vivo
Procopio tiranno, il 21 luglio dell'anno in cui Valentiniano fu la prima volta console insieme
col suo fratello, si scorsero repentinamente per tutto il giro della terra sollevamenti così
orribili degli elementi, che né le favole li hanno mai finti, né le storie più vere hanno mai
raccontato. Poco prima del farsi giorno, essendo il cielo percorso da una tempesta di fulmini,
tremando tutta la stabilità del peso della terra, gettato il mare indietro, questo si ritirò con le
sue onde in tumulto in tale maniera, che scoprendosi la profondità del suolo, si vide gran
varietà di pesci giacenti nel fango; i raggi del sole videro la prima volta quelle profondità, che
la natura fin dal principio del mondo incatenò sotto quelle acque immense; molte navi
rimasero incagliate nel suolo ed altre, in alcuni canali di

205

acqua, che in alcune parti si formarono, davano modo ai naviganti di poter con le mani
pigliare i pesci. Le onde del mare poi, quasi come molestate nel vedersi spostate dal loro luogo
naturale, si ribellarono e si alzarono furiosamente contro le isole ed altri lunghi spazi di terra,
scaraventandosi con grande violenza contro gli edifici delle città, dovunque le incontravano,
rasandole al suolo in tal modo che, cambiata la faccia del mondo con la discordia furiosa degli
elementi, mostrarono varie sorta di prodigi. Riversandosi sulla terra repentinamente
l'immensità del mare, morirono molte migliaia di uomini annegati, e quando le onde si
ritirarono al loro luogo e si ripose il mare gonfiato, si videro le navi frantumate ed i corpi
morti in quel naufragio, chi supino, chi con la bocca a terra. Le acque lasciarono altre navi
grandissime sopra i tetti delle case, come avvenne in Alessandria, altre lontane dalla sponda,
come abbiamo visto noi stessi, perché passando per Methion vedemmo colà una nave già tutta
tarlata”.
Non meno spaventevole è la tempesta che ci riferiscono Nauclero e Tritemio (NAUCLERUS,
Gener., 41 sub finem; TRITEM., Chronicon) quando nel 1218 entrò scatenato il mare nella
Frisia e morirono in mezzo alle sue onde nelle loro proprie case più di centomila persone.
Aggiunge Lango che un'altra volta, nell'anno 1287, tornò l'Oceano furioso ad inondare quella
provincia, né si ritirò senza aver prima affogato ottantamila persone. Non è gran cosa questa
mortalità in una provincia in confronto a ciò che ha fatto il mare in una sola città. Scrive Surio
nei suoi commentari che l'anno 1509, nel giorno dell'Esaltazione della Croce, nel mese di
settembre, il mare fra Costantinopoli e Pera imperversò tanto che balzò i suoi marosi sulle
muraglie dell'una e dell'altra città, con tanta strage, che solamente i turchi morti in

206

Costantinopoli giunsero a tredicimila.


Con questi esempi tanto certi non era necessario addurre ciò che scrive Platone ed approva
Tertulliano e molti autori moderni, che l'isola Atlantide, che giaceva in quell'immenso tratto di
Oceano, che si trova tra la Spagna e le Indie Occidentali, piena di innumerevoli genti,
rimanesse sepolta nell'acqua con tutti i suoi abitanti per un diluvio di un giorno e di una notte,
nel quale il cielo si disfece in pioggia ed il mare trapassò i suoi limiti. Non intendo servirmi di
questa storia per far capire la forza degli elementi adirati contro l'uomo, perché bastano quelle
più moderne, che abbiamo riferito con più fede e certezza, e sono già abbastanza spaventevoli
quelle che successero nella Frisia nelle quali si vede la furia, con cui il mare imprigionato
entro i suoi limiti, esce quando Dio gli dà il permesso di combattere i peccatori. Ora, che sarà,
quando il Signore dell'Universo comandi a tutti gli elementi di dare addosso a tutti i peccatori
e ad ogni creatura dia armi per vendicare le ingiurie divine contro gli uomini troppo ingrati
verso i suoi benefici infiniti?
Anche l'aria, che è elemento si piacevole e soave, nel quale respiriamo e viviamo, quando
Iddio le scioglie la briglia, cava forze da debolezza, e sono così grandi che fa strage di tutto ciò
che incontra. Si sono veduti schiantare boschi foltissimi, trasportando in parti ben lontane le
piante. Scrive Surio che il 28 di luglio del 1507 sorse a mezzanotte un tale vento in Germania,
che fece vacillare gli edifici, scoperchiò le case, scagliando i tetti molto lontano. Scrive Corrado

207

Argentino che sotto l'imperatore Enrico VI vide volare per aria per lo spazio di un miglio travi
grandissimi, che il vento schiantò dalla cupola della Chiesa di Magonza pur essendo di legno
così pesante come quello della quercia.
Sopra tutto, chi non si spaventa, quando legge nelle Antiquitates di Giuseppe Flavio e
nella Praeparatio Evangelica di Eusebio di Cesarea che la torre di Babilonia, che era la
fabbrica più forte e prodigiosa del mondo, fu da Dio distrutta a forza di vento? Che dirò delle
orrende tempeste che hanno scatenato da una parte all'altra i venti, per castigare i peccatori
con fulmini e pietre che uccisero in Egitto tutti gli armenti? In Palestina una gragnola di
straordinaria grandezza estinse una moltitudine innumerevole di Amorrei. Scrive Clavitelo
che nell'anno 1524 cadde in Cremona tale grandine che aveva grani grandi come uova di
gallina. Nell'anno 1537 piovvero in Bologna pietre sì grandi che pesavano 28 libbre.
Afferma Olao Magno che nel settentrione è caduta una grandine così grossa come il teschio di
un uomo. La Historia Tripartita narra che nell'anno 369 venne sopra Costantinopoli tale
tempesta, che la grandine era come pinnacoli di montagna. Certamente non esagera il profeta
Ezechiele (Ez. 38) quando dice che cadranno alla fine del mondo pietre immense. San
Giovanni (Ap, 16) scrive che peseranno un talento. Tempesta che lancia pietre così grandi, con
quali tuoni orrendi risuonerà? Nelle tempeste della Scizia si sono uditi tuoni così formidabili
che ne sono rimaste morte di spavento molte persone.

208

Che fracasso apporteranno quelle tempeste estreme, quando Dio vorrà finire questo universo?
Tutte le altre alterazioni passate degli elementi non sono altro che scaramucce e minacce;
quale sarà la battaglia campale che ha da scaricarsi sopra i peccatori, quando anche il cielo gli
investirà con tutte le sue frecce e si servirà come di arma di tuoni prodigiosi e si mostrerà
adirato con sembiante orribile?
San Gregorio Magno (Lib. IV, Dial., c. 36) scrive come testimonio di aver veduto coi suoi occhi
una pestilenza in Roma, nella quale cadevano visibilmente frecce dal cielo e ferivano gli
uomini. Giovanni Diacono (In Vita S. Gregorii, lib. 1, cap. 37) dichiara che era una pioggia di
strali. Che sarà, quando l'aria e il cielo pioverà a pezzi le stelle? Si sbigottì il mondo quando al
tempo d'Irene (ZONARAS. in Irene) e di Costantino si oscurò il sole per diciassette giorni e
scomparirono per dodici giorni il sole e la luna al tempo di Vespasiano. (PLIN., Lib. 1, cap. 13)
Che sarà negli ultimi giorni, quando il sole copre i suoi raggi di mestissimo lutto e la luna si
veste di sangue, per dimostrare la guerra con cui le creature metteranno a ferro e fuoco i
malvagi che sprezzarono il loro Creatore? Quando da una parte sorga contro di costoro la
terra e quasi non potendo più sostenerli, li scagli lontani da sé; quando dall'altra li investa il
mare e li cerchi nelle proprie case e l'aria non li lasci star sicuri nei campi, che sarà?
Certamente non sarà meraviglia che chiedano allora alle montagne che vogliano coprirli ed
alle colline che li nascondano nelle loro caverne. Queste cose sono più da pensarsi che da
potersi spiegare, ed il solo riflettervi agghiaccia il sangue.

209

Gemono adesso le creature per vedersi malamente adoperate dagli uomini in disprezzo del
Creatore; ma in quel tempo scuoteranno il giogo e vendicheranno gli aggravi nostri;
vendicheranno altresì gli oltraggi che abbiamo fatto al loro Creatore.
Le violenze degli elementi ed i turbamenti della natura che avvengono prima della fine non
hanno nulla a che vedere con quelli che succederanno negli ultimi giorni del mondo, poiché
questi, dice S. Agostino, saranno più orribili e tremendi di quelli passati. Ora, se quelli passati
sono tali, quali abbiamo visto, che sarà allora, cacche verranno tutti insieme da tutte le parti,
quando si ribellerà tutto il mondo contro gli uomini, quando tutto sarà confusione, quando
l'inverno si scambierà con l'estate e l'estate con l'inverno, quando nessuna creatura conserverà
più legge fissa per causa di quelli che non osservarono la legge di Dio?

Il fuoco distruttore.
Ma che sarà quando dopo tutto questo venga quell'incendio divoratore, annunziato dalla
Sacra Scrittura, il quale precipiterà dal cielo o balzerà dall’inferno? Secondo S. Alberto Magno
sarà anzi l'uno e l'altro, e tutto ciò che incontreranno, sarà tosto ridotto in cenere. Che faranno
i miserabili per liberarsi, quando vedano quel fiume di fiamme o, per dir meglio, quella
inondazione e quel diluvio che a loro ai avvicineranno e non sapranno dove fuggire? Che cosa
potrà allora valere, se non la vita santa? Tutto il resto sarà consumato da quell'inesorabile
incendio.
Che cosa gioveranno allora ai mondani i loro vasellami di oro e di argento, i loro preziosi
ricami, le superbe tappezzerie, i giardini fioriti, i magnifici palazzi, e tutto quanto apprezzano
in questo mondo? Che potrà loro giovare ciò che vedranno ardere dinanzi ai loro occhi
insieme con loro?

210

Coi loro propri occhi essi vedranno bruciarsi i broccati delle loro tappezzerie, disfarsi le
stanze più ricche di oro e bruciarsi i giardini più ameni e floridi, senza potervi rimediare, né
poter liberare se stessi; tutto brucerà e con questo morirà il mondo e quanta memoria e fama
in esso si trova, poiché allora finirà nella morte ciò che i mortali pensavano di avere fra gli
uomini.
Già non si citerà più Aristotele sulle cattedre, già più non si allegherà Ulpiano nei tribunali,
già più non si leggerà Platone tra gli eruditi, già più non sarà imitato Cicerone dagli oratori,
già più non sarà ammirato Seneca dai sapienti, già più non sarà dai capitani celebrato
Alessandro, poiché ogni fama è morta, ogni memoria è dimenticata.
Oh vanità degli uomini, dei quali la memoria più salda non può durare più che il mondo, la cui
memoria è tanto vana come essi medesimi, memoria che in pochi anni si perde; dov'è ormai la
statua di oro massiccio che venne collocata in Delfo da Georgia Leontino, per eternare il suo
nome, e quella di Gabrione dorata, in Roma, e quella di Beroso con la lingua di oro, in Atene
ed altre innumerevoli di bronzo e marmo che furono erette in onore di diversi capitani?
Certamente saranno distrutte già da molti anni, e se ancor non lo fossero, le distruggerà
questo incendio. Solamente la virtù non potrà essere arsa da alcun fuoco.
Gli Ateniesi innalzarono trecentosettanta statue a Demetrio Falereo per aver egli governata la
Repubblica per dieci anni con grande dimostrazione di virtù e prudenza; ma questa memoria
fu così poco durevole, che la invidia distrusse ciò che la gratitudine aveva innalzato, ed il
medesimo che vide innalzarsi statue in così grande numero le vide pure atterrate. Questi ebbe
però la consolazione che potrebbero avere anche i cristiani, di poter dire, vedendo atterrare le
sue immagini: “Per lo meno non potranno atterrare le virtù, per

211

causa delle quali mi si innalzarono le statue”. Disse bene, se erano vere virtù, perché l'invidia
non può distruggere queste, né potere umano alcuno le può atterrare e, ciò che è più, neppure
il potere divino le consumerà in questa strage del mondo, anzi le eternerà nella sua memoria
per tutti coloro che perseverano in esse, morendo nella grazia. Solo la carità e la virtù cristiana
non finiranno, neppure con la fine del mondo.
Ben poco durò la vista e la memoria del trionfo di grandi capitani che vinsero dei re potenti.
Anche ora, quanto pochi sono quelli che sappiano che Metello ebbe trionfo sopra il re
Giugurta, Aquilio sopra il re Aristonico, Attilio sopra il re Antioco, Marco Antonio sopra il re
di Armenia, Pompeo sopra il re Mitridate. Aristobulo e Jarba, Emilio sopra Perseo, Aurelio
imperatore sopra Zenobia, regina dei Palmireni. Se questo lo sanno appena più i libri muti e la
carta morta, quando anche questa finirà, come resterà la loro memoria? Quante storie avrà il
fuoco già consumato e non si sa di esse più di quello che se non fossero avvenute? Non giova
operare, né scrivere per rendere immortale la memoria degli uomini. Aristarco scrisse più di
mille commentari diversi e già non rimane neppure una riga sua. Crisippo scrisse 700 volumi
e non se ne trova neppure un foglio. Teofrasto scrisse 300 volumi e sono rimasti appena tre o
quattro. Ma più di questi, il Gramatico Dionigi giunse a scrivere 3500 libri e non ce ne rimane
neppur una facciata. Più ancora è ciò che ci attesta Giamblico, il quale dice del grande
Trimegisto che compose 36.525 libri e adesso è lo stesso che se non ne avesse scritto neanche
una lettera, perché i pochi fogli che girano sotto il suo nome, neanche sono suoi.
Il tempo non lascia in piedi né libri, né librerie, anche prima che finisca il tempo. Tolomeo
istituì una grandissima libreria nella sua corte di

212

Alessandria, facendosi aiutare da Aristotele e di poi da Demetrio Falereo. Raccolse in essa


quanto più libri poté della Caldea, dell'Egitto e di Roma e giunse fino a 700 mila volumi. Ma
nella guerra civile dei romani andò distrutta tutta la libreria nell'incendio appiccato da Giulio
Cesare. Altra libreria rarissima dei greci, quella di Policrate e Pisistrato, fu spogliata da Jerge.
La libreria di Bisanzio, che conteneva 120 mila libri, s'incendiò pure nel tempo di Basilisco.
Quella dei Romani nel Campidoglio si ridusse in cenere per un fulmine che cadde al tempo di
Commodo. E ora, che cosa abbiamo della libreria di Pergamo, nella quale si trovavano 200
mila libri? Già prima del mondo muoiono le cose più costanti del mondo; che meraviglia, che
si brucino le memorie di carta, giacché si perdono quelle di bronzo e si disfanno quelle di
marmo? Quel prodigioso anfiteatro di pietra che fu innalzato da Statilio Tauro al tempo di
Nerone, non poté difendere la sua durezza dalla violenza del fuoco. Le grandi ricchezze che
ebbe Corinto di oro e d'argento temprato in un incendio si liquefecero, e non poterono questi
metalli preziosi resistere, né per la loro durezza, né trovare chi li difendesse. Ora, se questo
fuoco particolare fece tale strage nel tempo più florido del mondo, quell'incendio generale che
dovrà finire l'universo quale distruzione apporterà?
Sarà allora grande tribolazione
Consideriamo l'orrore e la paura che deriva da un grande incendio, per comprendere quindi
quale sarà per essere quella cagionata dall'incendio universale del mondo. Che scompiglio si
doveva sentire per Roma, quando arse per 7 giorni? Che lamenti, che strida dovevano
risuonare in Troia, quando si vide tutta esca di mille fiamme? Che confusione, che pianta si
doveva vedere e sentire nella Pentapoli, quando furono incenerite dal fuoco le sue città?

213

Dicono alcuni che le città furono dieci. Strabene dice che erano tredici, Giuseppe e Lira dicono
che furono cinque. Ciò che è di fede è che furono almeno quattro le città che si incendiarono
con tutti i loro abitanti. Che angosce erano quelle di Gerusalemme, quando vide presa dal
fuoco la casa di Dio, la gemma del suo regno e la meraviglia del mondo?
E per avvicinarci più ai tempi nostri, un fulmine che cadde nella città di Stoccolma, capitale
della Svezia, cagionò tale fuoco, che la incendiò quasi tutta, bruciando circa 1600 uomini. Gli
altri, che erano una moltitudine innumerevole di donne e bambini, volendo scappare
dall'incendio per via del mare, caricando soverchiamente le navi, si annegarono tutti. Si
giudichi, che cosa sentisse quella gente, quando vide bruciarsi le loro case, le loro sostanze
senza potervi rimediare. Il marito sentiva i gemiti della sua sposa, il padre quelli dei suoi figli
che si stavano bruciando senza poterli liberare. E se qualcuno si trovò all'improvviso
circondato da tutte le parti dalle fiamme, pur gridando, non ebbe alcuno che venisse a
liberarlo, qual sentimento avrà avuto in cuor suo? Quelli i quali erano costretti a fuggire dal
fuoco della terra nelle acque del mare, con quale spavento e fretta si saranno imbarcati? E
quale spavento avrà loro cagionato nel vedersi affondare nelle onde dell'Oceano, e dover
lottare con esse per scampare dall'incendio della loro patria?
Che oppressione sarà quella di quell'incendio generale, poiché coloro che scamperanno dai
terremoti, dalle inondazioni del mare, dalle furie dei turbini, dai fulmini, andranno a finire nel
fuoco, in quel diluvio di fiamme che li brucerà e che distruggerà gli uomini e la loro memoria?

214

Di quelli che esistevano prima del diluvio, fuor di quelli dei quali parla la Sacra Scrittura, non
sappiamo nulla, e per quanto abbiano compiuto gesta eroiche e guadagnato per queste fama
incomparabile, questa restò sepolta nelle acque e di essi non si sa più nulla, come se non
fossero mai esistiti. Ora non sarà più grande la fama di quelli che ora sono famosi nel mondo:
Ciro. Alessandro, Annibale. Scipione, Cesare. Augusto, Platone, Aristotele, Ippocrate, Euclide;
poiché, non rimanendo il mondo, non resterà neppur fama di esso: con questo fuoco finirà
pure tutto il suo fumo.
Non senza conveniente ragione il mondo dovrà finire nel fuoco, essendo ora tutto pieno di
fumo. Vi sono poche comparazioni più adatte per dichiarare ciò che è il mondo, di quella che
apprese San Clemente Romano dall'apostolo San Pietro. Dice che il mondo è come una casa
piena di fumo, il quale acceca gli occhi e non ci lascia vedere le cose. Così è, che questo mondo
coi suoi inganni ci acceca, perché non vediamo come sono le cose.
L'ambizione e l'onore umano, di cui esso è pieno, non è più che fumo, senza sostanza, senza
corpo che acceca la nostra intelligenza per non farci conoscere la verità. Non è meraviglia che
tanto fumo finisca nelle fiamme. Il fumo dei monti Vesuvio ed Etna, quando si cambia in
fuoco e si riversa con prodigiosi incendi, ha spaventato il mondo e numi di fuoco sono corsi
sui loro pendii. Il Vesuvio vomitò alcune volte fuoco con tale impeto che le ceneri sono
arrivate fino a Costantinopoli ed Alessandria, come attestano gravi autori. Del Monte Etna
scrive S. Agostino (De Civitate Dei, lib. III. cap. 31) che le sue ceneri affogarono la città di
Catania. Nei tempi nostri, le eruzioni del Vesuvio, hanno intimoriti anche i più lontani al solo
sentirne parlare.

215

Nell'anno 1638, il 3 di luglio, vicino all'isola di San Michele si accese un gran fuoco di sotto
del mare alla profondità di 150 cubiti, il quale, nonostante il peso di tanta acqua, arrivò con le
sue fiamme fino alle nubi e fece tremare anche coloro che stavano ben lontani. Con quale furia
uscirà l'incendio generale dell'orbe terrestre? La parte che uscirà dall'inferno, o dal di sotto
della terra, riempirà il mondo di tenebre, prima che s'involga di fiamme; la parte che scenderà
dal cielo, con quale impeto e violenza verrà? Se un solo fulmine spaventa, quella pioggia di
fuoco con quanto impeto darà fine al mondo? Il nipote di Abramo, Lot, pur avendo sicura la
sua coscienza e la promessa degli Angeli di Dio che per cagione sua non si sarebbe bruciata la
città di Segor, finché egli vi rimanesse, fu tanto spaventato del fuoco, senza vederlo, che cadde
sopra le altre città di quella valle di Pentapoli, che, non tenendosi per sicuro, fuggì ai monti.
Ora a qual consiglio si appiglieranno i peccatori che avranno la coscienza contro di sé e
vedranno incendiarsi l'orbe? Dove andranno a ripararsi, poiché nessun luogo sarà sicuro?
Saliranno ai monti ed ivi saranno perseguitati dalle fiamme. Scenderanno alle valli e di là
saranno cacciati dal fuoco. Si chiuderanno nei castelli e nelle città più difese da fossa e
muraglie, ma ivi li cercherà l'ira di Dio e quell'incendio assalterà le fossa e brucerà le pietre
vive e darà fine perfino ai loro nomi, poiché ha da finire tutto.
Oltre il disprezzo di tutto quanto è tenuto dal mondo in pregio, possiamo anche imparare da
questo incendio quanto sia abominevole il peccato, dato che Dio, per purgare il mondo
dall'immondezza che le nostre colpe gli hanno appiccata, lo condanna a perire di fuoco, come
fece anticamente col diluvio. Tali sono i nostri peccati che, per essere stati commessi nel
mondo, è il mondo stesso condannato alla morte; che sarà degli stessi peccatori?

216

Da questo fuoco però così tremendo i Santi che allora saranno vivi, ne andranno esenti,
(LESSIUS, Op. cit., lib. XIII, cap. 20) perché si veda il fuoco essere effetto solamente dei
peccati e che nulla può esser di utilità se non la virtù e la santità. Non potranno aiutare nella
fuga al ricco le sue ricchezze, né al robusto le sue forze, né all'astuto le sue industrie, ma solo
le virtù libereranno il giusto. Non vi avrà rimedio per liberarsi da questo incendio, né le navi
per il mare, né per terra il cavallo, perché il fuoco brucerà le stesse acque e raggiungerà il
corriere più veloce: solo la santità e carità difenderà i servi di Gesù Cristo, ai quali saranno
anzi di giovamento le tribolazioni di quei tempi e serviranno per purificare le loro anime.
Soddisfacendo con esse ai loro peccati, purgheranno con merito ciò che nel Purgatorio
dovrebbero fare senza di esso.
Notò S. Alberto Magno la convenienza degli elementi coi quali Dio determinò due volte la fine
del mondo. La prima volta usò dell'acqua contro il fuoco della carne e l'ardore della
concupiscenza, che prima del diluvio universale tiranneggiò così enormemente la virtù. La
seconda volta prenderà il fuoco contro la freddezza della carità che ci sarà negli ultimi giorni
del mondo invecchiato. Ora, come dal diluvio delle acque scampò solamente Noè con la sua
famiglia per premio della loro castità e continenza nel matrimonio, così parimenti
nell'incendio estremo del mondo non moriranno di fuoco quei giusti che saranno pieni di
carità. Non vennero le acque del diluvio sopra chi non ebbe il fuoco dell'amor carnale, né il
diluvio del fuoco verrà su chi avrà il fuoco dell'amor divino.

217

CAPITOLO OTTAVO.

Il giudizio universale

L'abuso delle cose temporali.


E' sufficiente per disprezzare il mondo il fatto che le cose temporali hanno fine, poiché tutto
ciò che ha da finire è molto vicino al non essere e dista pochissimo dal nulla e quindi si deve
stimare poco più del nulla. Si aggiunge però a questo la circostanza speciale del modo della
fine tanto spaventevole e terribile che avranno le cose, e perciò mi sono intrattenuto tanto
nello spiegarla, affinché si possa vedere in questa fine tanto strana ciò che ha aggiunto la
nostra malizia, con l'abuso che abbiamo fatto delle cose, usandole per i nostri vizi.
Esse sono molto minori per colpa nostra di quello che siano per natura loro e, così come si
trovano ora, sono più ancor da disprezzarsi. I piaceri naturali, più puri e meno dannosi per
loro natura, la malizia umana li ha resi più costosi, più pericolosi, più difficili, e quindi tanto
minori quanto più hanno di rischio e di difficoltà. Non può non esserci alcuna pena dove è
pericolo, e dove maggiore sarà la pena o preoccupazione tanto più verrà meno il diletto. Tanto
meno sarà dolce il miele quanto più con esso si mescoli di fiele; un vino generoso mescolato
con un poco di aceto si corrompe. Ed in questo si può vedere il disordine del nostro appetito
che volendo aumentare i suoi gusti, li ha diminuiti e non ha inventato meno pene di quel che
ha procurato di fabbricare contenti, volendo aggiungere nuovi gusti a quelli che gli dava la
natura.
La gola già non si accontenta più del mangiare saporito, ma vuole che questo sia costoso e sia
il

218

più peregrino; non si accontenta solamente del sapore nel mangiare, ma cerca altresì il colore
e l'odore; non si accontenta di ciò con cui si ammannisce il cibo, ma lo si vuole pure dipingere;
non solamente non si accontenta di quello con cui si dipinge, ma vuole pure che lo si condisca
con vari aromi; già non basta più sale o zucchero per condire ciò che si mangia, ma ci vuole
pure nettare e zibetto. Non si accontenta il ratto che il vestito ricopra il corpo, ma si cerca il
colore, la forma ed il prezzo. Essendo il vestito per coprirsi e per riparare le membra umane,
pure si spende di più per la sua fattura, perché apparisca elegante agli altri, anziché badare a
coprirsi chi lo porta. Dalla necessità della natura si prende occasione per alimentare i vizi, ed i
vestiti servono più alla superbia ed ambizione dell'animo che alla nudità del corpo.
Che meraviglia che non ci accontentino queste cose con il loro uso naturale, se la stessa nostra
natura non ci accontenta per se stessa e si cercano artifici per adulterarla? Si tingono i capelli,
non solo delle donne, ma anche degli uomini. Si cerca di simulare la faccia e la statura e, con
ingiuria al Creatore, osa la creatura farsi diversa da quello che Dio l'ha fatta. Neppur le
ricchezze si misurano conforme alle necessità umane e neppure alla comodità, ma solo
secondo arroganza, e nel loro acquisto ed uso non tanto si guarda alla vita e al gusto, quanto
piuttosto al fasto; per il che molti ne perdono l'uso, perché, essendo le ricchezze per rimediare
alla necessità, già più non bastano, quando aumentano le esigenze. Così suole avvenire che i
più ricchi manchino di più cose e che i più potenti sentano maggior necessità e siano i più
bisognosi. L'onore e la fama sono tanto adulterati che non solo si desiderano per la virtù, ma
altresì per i vizi. Tutti questi abusi delle cose sono delitti del mondo, che ha reso la vita umana
più faticosa e pericolosa di quello che sarebbe per sua necessità e condizione.

219

Così fu conveniente che il mondo trovasse una fine tanto disastrosa, poiché ha abusato senza
vergogna di tutto, e che insieme si faccia giudizio di esso che ha apprezzato cose tanto
disprezzabili, fomentando la vanità e stoltezza degli uomini. I filosofi antichi invece mettevano
la felicità dell'uomo e la virtù nel vivere secondo la natura.
Ora che contento può aver luogo, dove a tutto quanto deve servire per la vita, si provvede con
tanto artificio e malizia e in modo così contrario alla natura? E qual virtù si può aver in chi
vive conforme a tanta malizia? Ma considerando i cristiani che devono vivere non solo
secondo la natura, ma secondo la grazia e ad imitazione di Cristo, potranno vedere quanto sia
giusto che allora si domandi conto dell'abuso di cose tanto contrarie al beneplacito divino.

Il giudizio di Dio sarà severissimo.


E così non è solo terribile e spaventoso quanto abbiamo detto nel capitolo precedente sulla
fine del tempo, ma anche più il rendiconto che del tempo chiederà Dio a tutti i mortali. Perché
come si fa giudizio particolare di ogni uomo all'istante della sua morte, così ancora alla fine
del mondo si ha da far giudizio generale di tutto. Come la cosa più terribile della morte di uno
è il dover rendere conto a Dio di tutta la sua vita, così pure è la cosa più terribile della fine del
mondo il dover rendere conto universale a Dio ed aver luogo il giudizio severo di tutte le cose.
Quando domanderà conto alla stirpe umana dei suoi benefici divini e farà giudizio dell'abuso
di essi e di tutti i peccati degli uomini, facendo capire ciò che i peccatori furono verso Dio e ciò
che Dio fu verso di loro, questa sola verità, conosciuta com'è in sé, dovrà essere cosa più
terribile per i malvagi che tutte le piaghe di terremoti, inondazioni, tempeste, cavallette, pesti,
carestie, guerre, fulmini e fuoco.

220

Disse ottimamente Dionisio Cartusiano (In Medit.) che la cosa più terribile di quei giorno
sarà la verità che ha da manifestarsi contro i peccatori. E senza dubbio alcuno, né i prodigiosi
tuoni, né il mugghiare infuriato dei mari, né altra mostruosità alcuna di quell'ultimo tempo ha
da dare agli iniqui così gran tracollo, quanto il veder essi la ragione che Dio ha di essere
servito ed il torto che hanno avuto nel non servirlo. È perciò molto conveniente che dopo il
giudizio particolare di ciascun uomo, uno se ne faccia universale di tutti, nel quale Dio mostri
al mondo la ragione che ha in tutte le cose e dia soddisfazione generale della sua giustizia ai
dannati ed anche agli stessi demoni. E siccome insieme con l'uomo non sogliono morire le
altre sue cose, poiché restano dopo di lui come notò San Tommaso, (III p., q. 39, art. 5) la sua
memoria, i suoi figliuoli, molte sue opere, i suoi esempi, il suo corpo e tutte quelle cose che
furono oggetto dei suoi affetti, ragione vuole che tutto ciò entri nel vero giudizio che deve farsi
dell'uomo, affinché egli sappia che non solo ha da rendere ragione della sua vita, ma anche
delle cose che dopo la sua vita rimangono.
La memoria e la fama che di uno resta dopo la morte molte volte non corrisponde al merito
della vita; è giusto perciò che si riveli questo inganno ed il mondo riconosca il virtuoso, che
non aveva stimato durante la sua vita, mentre colui che ebbe fama e gloria senza merito si
trovi in confusione e vergogna.

Come sarà giudicata l'ambizione.


Oh quanto ingannati si troveranno allora gli ambiziosi, che, per lasciar fama di sé, non
osservarono giustizia verso gli altri, né esercitarono virtù per se stessi! In che ignominia si
convertirà la loro gloria!

221

Vediamo alcuni, che hanno riempito il mondo della loro fama, che patiranno tanto maggior
vergogna quanto fu più grande l'onore che a loro tributò il mondo. Chi più glorioso nel mondo
di Alessandro Magno e di Giulio Cesare? Eppure che cosa fecero se non ingiustizie,
tiranneggiamenti e spargimento di sangue innocente a fine di dominare? Tutte queste azioni
furono viziose e quindi indegne di onore, fama e memoria fra gli uomini; perciò, essendo stati
nella loro memoria ed ammirazione tante centinaia di anni, dovrà cadere sopra di essi in un
giorno tanta ignominia e confusione, che ricompensi tutto l'onore che nel passato
indegnamente ricevettero ed essi viziosamente desiderarono. Fu questa ambizione così
estrema in Alessandro che, sentendo dire da Anassarte filosofo che esistevano ancora altri
mondi sospirò con gran sentimento e disse: O me miserabile, e ancor non sono padrone di
uno!
Questa ambizione sfrenata fu lodata da molti per grandezza d'animo, essendo più grande del
mondo, poiché non si contenne nei limiti di uno, ma con un solo desiderio tiranneggiò molti
mondi; e commise milioni di ingiustizie. Quindi sarà castigato con pubblica ignominia,
davanti a tutti gli uomini del mondo, non solamente perché ricompensi la fama che possedette
indegnamente, ma altresì per il cattivo esempio che diede ad altri, principalmente a Giulio
Cesare, (VALERIUS MAX, Lib. VIII; Fulgosius, Lib. VIII) il quale, non solo lo imitò nella
tirannia, ma altresì nell'ambizione e nel desiderio del vano onore. Questi, quando era questore
nella Spagna, vedendo a Cadice una statua di Alessandro, sospirò dicendo: Ahimè, nell'età in
cui Alessandro aveva già assoggettato tutta l'Asia, io non ho fatto ancor nulla d'importante!
Tenne per cosa importante tiranneggiare tutto il mondo e rendere schiava la sua patria per
esserne lui il padrone.

222

Nella stessa maniera Aristotele, così celebre per i suoi studi, nei quali tanto s'impegnò per
acquistare gloria; per acquistarla maggiore confutò altri filosofi poco sinceramente,
prendendo le loro parole in senso diverso da quello in cui le avevano dette. Non fu certo
questo suo lavoro degno di gloria, perché il lavorare per la gloria e con sì poca sincerità e
moderazione, non è virtù. Quindi lo aspetterà confusione proporzionata all'onore che gli
rendono adesso. E poiché svergognò Teodete, suo discepolo, la sua ambizione gli sarà di
maggior confusione. Diede Aristotele a questo suo discepolo alcuni libri dell'Arte Oratoria,
perché li pubblicasse, ma di poi, invidioso dell'onore che un altro ne riporterebbe, pubblicò
che erano suoi. In altri libri che scrisse cita se stesso dicendo: Come dissi nei libri di Teodete.
In questo si può riscontrare l'ambizione della gloria di Aristotele e che quindi fu indegno di
essa e pagherà con giusta ignominia l'ingiusta gloria che oggi ha.
Di maniera che, non solo sono vani i desideri di memoria e fama fra gli uomini, dovendo finire
col mondo tutta la memoria degli uomini e aver fine con tutte le altre cose la fama, ma altresì
perché si ha da soddisfare per la gloria non meritata e desiderata con uguale turbamento e
confusione, dovendo uguagliare la vergogna di un giorno all'onore ed alla fama di migliaia di
anni. Non potranno in dieci secoli essere ammirati da tanti uomini, i più famosi del
paganesimo, da quanti saranno confusi in un giorno solo. Quanti oggi non conoscono che è
esistito Alessandro nel mondo, né hanno udito parlare nella loro vita di Aristotele? Ma in quel
giorno li conosceranno non per loro fama, ma per loro confusione. Alessandro tanto famoso
ed onorato è ignorato ora da più gente di quella che lo conosca. I Giapponesi, i Cinesi, i Cafri,
gli Angolani ed altri popoli numerosissimi e nazioni del mondo non sanno neppur chi egli

223

fosse, ma in quell'ultimo giorno sapranno che fu un ladro di regni, assaltatore pubblico del
mondo, gran bevitore e più grande ambizioso.

I genitori saranno giudicati nei loro figliuoli.


Né diversamente che della fama e dei nome, avverrà dei figliuoli, nei quali, dice San
Tommaso, (Ibid.) vivono i padri, poiché in quel giorno questi saranno la confusione di quelli
da cui furono generati, e tanto più, quanto i genitori diedero loro meno buon esempio, e tanto
più quanto maggiormente da essi impararono non solo i figli, ma altresì gli estranei; di tutto
questo dovrà farsi rigoroso giudizio dal Signore. E non solo dell'esempio, ma bensì di ogni
occasione di male che possono aver dato ad altri, specialmente con le opere cattive, o per
l'effetto di esse, che resta anche dopo la loro morte, come dall'errore di Ario e di altri eretici
nacquero molti errori ed eresie che dureranno fino alla fine del mondo.
Conviene che si veda nell'ultimo giorno dei tempi il danno o il bene che ognuno in ogni tempo
può aver occasionato, o causato con le sue opere, non solo per se, ma eziandio per mezzo di
altri. È cosa terribile ciò che nota il cardinale Gaetano sopra questo articolo dell'Angelico
Dottore, che cioè il giudizio divino si estenderà anche su quelle cose che sono per accidens
come dicono i teologi, cioè su quelle cose che non sono né volute, né intese.
San Tommaso nota altresì che per ragione del corpo, il quale rimane dopo la morte, conviene
che si replichi il giudizio particolare di ciascuno nell'universale di tutto il mondo. Molti corpi
di uomini giusti infatti sono stati seppelliti nel ventre delle fiere o sono rimasti insepolti. Al
contrario grandi peccatori sono stati onorati di esequie sontuose e di magnifiche tombe.

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Questo disunirne ha da essere ricomposto dal Signore in quel giorno. Il peccatore, che godé
ricco mausoleo, vedrà il suo miserabile corpo senza splendore, né vaghezza, né leggiadria, anzi
sarà afflitto da innumerevoli tormenti; ma il giusto che morì senza sepoltura, divorato dai
corvi, sarà cinto di celeste splendore con un corpo glorificato, mentre il malvagio porterà
maggior confusione per l'onore di cui godette il suo corpo.

Gli uomini saranno giudicati altresì nelle loro opere.


Considerino questo coloro che consumano grandi somme in edificarsi grandi sepolcri ed urne
vistose, coll'incidere nei marmi i loro nomi, le loro gesta e dignità. Tutto questo sarà per loro
maggior confusione e pena, se saranno dannati. Da questa vita non si ha a portare con sé altro
che le buone opere; ed a quelle cattive che uno può aver compiuto in vita, gloria vana dopo la
morte non aggiunge nulla. Che utilità arrecherà al re Persena (PLINIO. Libro XXXVI, cap. 15)
l'aver afflitto ed angariato il suo regno per fabbricare un sepolcro alle sue ossa, lasciando
scolpita nell'eccellenza e sontuosità del lavoro una testimonianza della sua superba pazzia?
Anche all'imperatore Adriano si volgerà in vergogna la gloria di quella tomba, onde sembrava
che tutta Roma fosse illustrata.
Insegna finalmente San Tommaso che le cose temporali, nelle quali pose ognuno il suo affetto,
ci cui alcune durano di più dopo la morte, altre di meno, tutte hanno da entrare nel giudizio
divino. Guardiamo dunque bene in quali oggetti mettiamo il cuore, poiché ci potranno servire
di castigo gli stessi nostri desideri. Le cose della terra, che maggiormente sono amate da noi e
desiderate che durino, se non durano, sarà giusto castigo del nostro

225

affetto terreno; ma se durano, tremiamo non sia in premio temporale di alcun'opera buona,
per cui il bene eterno ci si diminuisca o ci si tolga del tutto. Oltre a questo, perché non
solamente con l'anima, ma eziandio col corpo tutto l'uomo peccò, conviene che siano giudicati
e anima e corpo e ambedue compariscano dinanzi al tribunale di Gesù Cristo, e che questo si
faccia pubblicamente, affinché non sia chi confidi nella segretezza, quando egli pecca, poiché
dovrà vedersi in pubblico il suo peccato ed hanno da saperlo tutti gli uomini che sono, furono
e saranno. Caso terribile! Questo passo del giudizio divino, il quale, secondo quanto si è detto
del santo Giobbe, sembrò ai Santi più terribile che il patire i tormenti stessi dell'inferno, non
di meno deve eseguirsi due volte, e il ripetersi porta tanta amarezza ai peccatori, essendo loro
di maggior confusione la seconda volta che la prima.

CAPITOLO NONO.

L'ultimo giorno dei tempi

La venuta di Cristo Giudice.


Ora per discendere a trattare della maniera con la quale si ha da fare questo giudizio
universale di tutti i tempi e di tutti gli uomini, si sappia che il fuoco, che ha da venire prima
che Cristo discenda a far giustizia generale del mondo, ha da agire alla presenza stessa di
Cristo, e, tornato che Egli sia al Cielo con tutti i giusti, ha da finire di purificare gli elementi,
come avverte S. Alberto Magno, (In Comp. Theol., lib. VII, cap. 15; LESSIUS Op. cit., lib. XIII,
cap. 23 e 30) che lo raccoglie da più luoghi della Sacra

226

Scrittura. Si ha pure da supporre che questa venuta dovrà essere la più terribile e maestosa
che persona divina o per sé medesima o per mezzo di creatura alcuna abbia fatto, poiché, se
solamente per dar la legge un Angelo, che rappresentava Dio, venne al Monte Sinai con tale
maestà, che fece sbigottire il popolo ebreo, sebbene fosse già preparato e ben purificato per
questo; quando verrà il medesimo Signore della legge a domandare ragione dell'osservanza di
essa, con che apparato e maestà, con che terrore si farà vedere all'improvviso agli uomini che
tutti avranno da comparire ed essere giudicati in questo estremo giorno dei tempi?
Fu memorabile agli Ebrei il giorno in cui si diede la legge. (Deuter., 33.) Questo giorno finale
in cui si domanderà conto della legge dovrà essere orribile e resterà nella memoria eterna
degli uomini. Per dire ciò che dovrà passare in esso, diciamo prima ciò che avvenne nel giorno
in cui si diede la legge, perché dall'orrore di uno argomentiamo la terribilità dell'altro, e
perché dalla maestà con cui venne un Angelo, intendiamo la maestà con cui verrà il Signore
degli Angeli. In qual terribile maniera venne quell'angelo cinquanta giorni dopo ch'erano
usciti i figli di Israele dall'Egitto? Dopo spaventevoli flagelli in quel regno, dopo di essere
rimasti sepolti nelle onde del mar Rosso gli Egiziani persecutori, essendo accampati gli Ebrei
presso il monte Sinai, si vide venire molto da lontano per l'aria (cioè dal monte Seir che sta
nella Idumea) un signore di grande maestà, accompagnalo da infinita moltitudine di Angeli,
tanto che Davide cantò, che il suo cocchio era circondato da diecimila Angeli e Mosè disse che
erano migliaia, e portava nella sua destra la legge tutta di fuoco. Questi, che veniva con sì
autorevole sembiante, cinto da tanti

227

spiriti sovrani, non era lo stesso Dio, ma solo un angelo il quale, come avverti Santo Stefano,
era San Michele, ma siccome veniva in nome di Dio, è chiamato nella Sacra Scrittura Signore;
veniva con tanta corte accompagnato e sopra nuvole sì folte che scaricavano fulmini e
risuonavano di tuoni spaventosi. Gli Israeliti (Es 19) allo spuntare dell'aurora rimasero
sbigottiti, udendo repentinamente tuoni così orribili e vedendo lampeggiare innumerevoli
volte una nuvola nera e densa che ricopriva il monte Sinai di tempesta e di turbine e
scompigliando, come dice l'Apostolo, le cime di alcuni monti. L'incendio che giungeva dalla
terra al cielo, il fumo che avvolgeva tutto il monte, (Dt 4) un suono formidabile di tromba, che
scuoteva come un terremoto ed andava ognora più crescendo, faceva tremare di spavento gli
ebrei che stavano al piede della montagna: allora, avendo l'angelo comandato al popolo per
mezzo di Mosè, che nessuno si accostasse alla montagna per non morire, incominciò, pur
continuando incessantemente il fragore dei lampi e tuoni, a promulgare la legge in voce così
terribilmente sonora che le turbe tutte degli ebrei, attendati per quelle campagne, e con essi
una moltitudine innumerevole di Egiziani, che convertitisi li avevano seguiti, la udirono ed
intesero con ogni chiarezza e ne contrassero tanta paura, che si pensavano di morire, se
l'angelo avesse continuato a parlare. Quindi chiesero per grande grazia che, se li voleva vivi,
parlasse loro solamente per mezzo di Mosè. Lo stesso Mosè, tanto abituato a vedere ed
operare tanti prodigi, essendo di animo molto generoso, confessò il suo timore dicendo: Sono
spaventato e tremante (Eb 12, 21).

228

Pensate quindi qual giorno memorabile sarà stato quello per gli Ebrei, in cui videro tali
visioni ed udirono quelle voci e sentirono quei terremoti e si spaventarono talmente, che si
pensarono di morire. Chi non si sarebbe spaventato alla visione di quell'angelo che si
avvicinava con sì terribile maestà, accompagnato da tanta moltitudine di spiriti, fra tanti
tuoni, lampi e pioggia, al vederlo fermarsi sul monte Sinai, così presso a loro, vedere poi
tremare tutto il monte ed ardere in fiamme e coprirsi di fumo densissimo ed udire il suono
spaventevole di quella tromba e sopra tutto la voce tremenda dell'angelo con cui promulgava
la legge?
Non mi meraviglia certamente il timore che essi ebbero in un giorno pieno di tanti prodigi.
Però che ha a vedere questo col giorno nel quale verrà il medesimo Signore degli angeli a
chiedere conto della sua legge? Dopo di aver mandato al mondo piaghe molto maggiori di
quelle dell'Egitto, ed incendiato i peccatori del mondo con quel diluvio di fuoco, lasciando vivi
i santi, perché si adempia letteralmente ciò che è detto di Cristo, che verrà a giudicare i vivi ed
i morti, sopra la Valle di Giosafat, si apriranno i cieli e scenderà il Redentore con maestà
immensa, accompagnato da tutti gli Angeli del cielo, in forma visibile, con ammirabile
splendore. Precederà il grande Giudice dei vivi e dei morti la propria insegna, che sarà
conforme a San Giovanni Crisostomo (Serm. de Cruce et latrone) e molti altri dottori, la
propria Croce, sulla quale redense il mondo.
I giusti, che saranno vivi, avvalorate le membra dalla forza dello spirito, s'innalzeranno per
l'aria a ricevere il loro Redentore, come disse l'Apostolo. Il Redentore all'uscire dai cieli darà,
con una voce che si oda per tutto il mondo, questo comando: Sorgete, o monti, e venite al
giudizio (Surgite, mortui, et venite ad iudicium).

229

Quattro Angeli con trombe intimeranno a tutti i morti delle quattro parti dell'universo di
risorgere, con tale veemenza, che giungerà la loro voce fino agli abissi dell'inferno.
Sboccheranno allora dall'inferno le anime dei dannati e rientreranno nei loro corpi, che da
quel punto patiranno per sempre i tormenti terribili dell'inferno. Usciranno pure dal Limbo le
anime di coloro che morirono col solo peccato originale e possederanno i loro corpi senza
pena alcuna.
Verranno altresì le anime dei beati che ricolmeranno i loro corpi delle quattro doti di gloria,
rendendoli più splendenti del sole, sottili ed agili più che il vento ed impassibili. Quei giusti
che saranno rimasti vivi dopo l'incendio del mondo, non avendo forza da soffrire in carne
mortale la pienezza della gioia, della brama, della riverenza, dell'amore, e dell'ammirazione di
Cristo, moriranno e vedranno all'improvviso l'Essenza Divina e saranno riunite le loro anime
di nuovo coi loro corpi, prima ancora di essere tocchi dalla corruzione, prima ancora di cadere
al suolo, rimanendo all'istante stesso purificati di ogni malore e di ogni feccia terrena.
Anch'essi si adorneranno delle doti gloriose.
Si consideri che affetti differenti passeranno qui nelle anime degli uomini. Chi potrà spiegare
il gaudio delle anime sante, quando prenderanno possesso dei loro corpi tanto belli, mentre
prima erano stati pasto di vermi e fiere, o disfatti in cenere e polvere? Quali grazie renderanno
a Dio, che dopo tanto tempo venga loro restituito il loro antico compagno? E quali
congratulazioni si faranno vicendevolmente le anime di coloro che vissero in asprezza e
penitenza, per cilizi, mortificazioni, discipline e digiuni sofferti? Al contrario, quale rabbia
avranno i dannati contro i loro stessi corpi, che hanno voluto accarezzare con delizie,
diventate poi loro materia di pene eterne? Non avendo i miserabili dannati il dono della
agilità, non

230

potranno andare da se stessi al luogo del giudizio, ma saranno portati loro malgrado.

Le circostanze della venuta di Cristo Giudice.


Quando tutti gli uomini, giusti e peccatori, saranno radunati nella valle di Giosafat, Gesù
Cristo, Giudice sovrano scenderà sul monte Oliveto, portato da una nuvola candidissima e
lucidissima. Verrà Gesù Cristo col suo corpo glorioso, spandendo da ogni parte della sua sacra
persona tale luce che ogni vivo raggio di essa vincerà infinitamente il sole nel paragone. Anche
i predestinati splenderanno come soli e supererà la loro luce e chiarezza quanto il sole eccede
le stelle. Sarà questa una visione meravigliosa, sopra tutto per l'accompagnamento, perché
tutti gli spiriti celesti, e sono a migliaia di milioni, prenderanno corpi splendenti, conforme
alla gerarchia e dignità di ognuno, e riempiranno tutta la regione dell'aria e quanto spazio vi
ha fino al cielo, con ammirabile varietà e bellezza. Assise sul suo trono con grande maestà.
Gesù Cristo mostrerà un volto grazioso per i buoni, pur essendo terribilissimo verso i malvagi.
Nella stessa maniera le sue piaghe sacratissime manderanno lampi di chiarezza ineffabile, che
saranno soavi ed amorosi per i giusti, ma saranno come di fuoco e di ira per i peccatori, i quali
piangeranno amaramente per essersene approfittati così malamente. Sarà così grande la
maestà di Cristo, che i miserabili dannati e gli stessi demoni, per quanto odio gli portino, si
getteranno ai suoi piedi e l'adoreranno. E per quanto questo pesi a loro, lo conosceranno per
loro Dio e Signore, piegando le ginocchia coloro che più lo bestemmiarono ed oltraggiarono il
suo nome. Si compirà qui esattamente la promessa che fece il Padre Eterno di assoggettare
tutte le cose e di mettere i suoi

231

nemici sotto i suoi piedi e di far piegare dinanzi a Lui tutte le ginocchia: Ut omne genu
flectatur coelestium, terrestrium, et infernorum.
(Fil 2,10) Qui vedranno i giudei con grande loro confusione chi è Colui che essi hanno
crocifisso. Qui vedranno i cattivi Cristiani, chi è Colui che essi coi loro peccati tornarono a
crocifiggere. Qui vedranno i peccatori tanto glorioso Colui che essi disprezzarono
posponendolo alle cose vili della terra. Che spavento sarà vedere che quel re di tanta gloria e
magnificenza è il medesimo che patì tante ignominie sulla croce e le patì da quei medesimi
che egli redense col suo sangue!
Che diranno allora coloro che per beffa lo incoronarono di spine e gli diedero una canna per
scettro e lo vestirono di una veste rossa, lacera e cenciosa e lo caricarono di schiaffi e gli
sputarono in faccia? E che diranno coloro ai quali, ponendosi davanti Cristo con tutta la Sua
Passione e penosissima morte non vollero lasciarsi vincere, ma commisero tanti peccati
contro di lui senza far caso del suo Sangue sparso per amor loro, come se fosse sangue di una
tigre o di altro loro peggior nemico? Io non so come tale rimembranza non ci spezzi il cuore e
ci tolga poco meno della vita per dolorosa compunzione. Prendiamo il consiglio di un santo
padre dell'Eremo, il quale, essendo stato domandato del modo di intenerire il cuore, rispose a
chi lo interrogava, che dovesse ricordarsi della comparsa che dovrà fare dinanzi al Signore per
essere giudicato, la cui vista sarà tanto spaventosa ai cattivi che al dire d'un altro santo
monaco, se fosse possibile alle anime di morire alla venuta del Figlio di Dio al giudizio, tutto il
mondo resterebbe morto di spavento.
Al fianco di Cristo si erigerà un altro trono di grande gloria per la sua

232

SS. Madre, non perché faccia allora da avvocata per i peccatori, ma per maggior loro
confusione per non aver voluto valersi del suo patrocinio, e perché essa sia onorata nel
cospetto di tutto il mondo. Faranno pure corona a Gesù Cristo altri troni per gli Apostoli, e per
i poveri di spirito che lasciarono tutte le cose loro per Cristo. Questi hanno da assistere
insieme con il loro Redentore come giudici, condannando con la loro vita esemplare la vita
scandalosa dei peccatori, approvando la sentenza del sommo Giudice e dichiarando nel nome
Suo la sua grande giustizia; del che rimarranno i malvagi così attoniti e storditi che diranno
ciò che già da tanti anni, in persona loro, predisse il Savio: Questi sono coloro che altre volte
noi avemmo a scherno ed a proverbio d'improperio. Noi insensati stimavamo la loro vita una
pazzia e la loro fine disonorata: ed ecco che sono contati tra i figli di Dio e che la loro sorte è
tra i santi. Dunque traviammo dal cammino dell'eternità e la luce della giustizia non si levò
per noi. Ci stancammo poi sentieri dell'iniquità e perdizione, battendo strade disastrose e non
conoscemmo la via del Signore. Che ci giovò la superbia? E che ci apportò l'ostentazione delle
ricchezze? Tutte quelle cose passarono come ombra e come un rapido messaggero: e come
nave che fende l'onde agitate, della quale, dopo che è passata, non si trova più traccia, né il
solco della sua carena nei flutti. (Sap 5, 3-10)

233

I tiranni che afflissero e martirizzarono i martiri, quando li vedranno tanto gloriosi, che
diranno? Coloro che con le loro violenze o con le frodi chiusero il cammino alla giustizia dei
poveri, che faranno, quando se li vedranno costituiti per giudici? E che diranno allora i giudici
iniqui vedendosi condannati per le loro sentenze ingiuste? Si compirà qui ciò che disse
Salomone: Vidi un gran male sotto il sole, che nel trono del giudizio stava l'empietà e al luogo
della giustizia la malizia e dissi nel mio cuore: Dio ha da giudicare il buono ed il cattivo ed
allora si vedrà chi ognuno sia. (Eccl. 3, 16) In questa vita non sempre il peccatore ed il giusto
hanno il loro posto dovuto; molte volte l'iniquo occupa la destra ed il santo la sinistra.
Cristo disfarà questi torti e separerà il frumento dalla zizzania e posti i giusti alla sua destra li
eleverà in alto, acciocché tutto il mondo li onori come santi, e metterà alla sua sinistra i
malvagi, lasciandoli vilmente in terra, acciocché siano vilipesi con ignominia da ciascuno. Con
che invidia i peccatori guarderanno i buoni così onorati e se stessi così disprezzati! Che
confusione sentirà un re, quando veda il vassallo salito a tanta reputazione, quando scorga il
suo schiavo divenuto famigliare degli angeli e se stesso ridotto alla vilissima bassezza dei
demoni, poiché anche i demoni, come gli angeli, si cingeranno di corpi di aria, questi per far
gioire più sensibilmente i giusti con la loro bellezza, quelli per arrecare ai rei vergogna più
tormentosa con la loro deformità!

Si scruteranno i cuori.
Ora si apriranno i libri della coscienza e si pubblicheranno i peccati di tutti. Si vedranno i
secreti del cuore, i peccati turpi di opere che si

234

commisero di nascosto e quelli che per vergogna si tacquero nella confessione o si coprirono
con delle scuse. Si manifesteranno le intenzioni sinistre, i tradimenti ignorati e le virtù finte.
Ivi si conosceranno gli amici finti, le donne adultere, i servi infedeli, i testimoni falsi e tutti
questi con una grande confusione di vedersi scoperti. Se ora uno soffre tanto se si mormori di
lui o si palesi agli uomini un suo fatto infame, come si sentirà, quando si pubblichino tutti i
suoi misfatti a tutti gli uomini e gli angeli? Quanti sono che, se sapessero che il loro padre o
fratello sono al corrente di ciò che hanno commesso in secreto, o pensavano di commettere,
morirebbero di pena! Ma in quel punto lo sapranno i loro genitori, i loro fratelli, i loro amici e
nemici e tutto il mondo, per loro grande confusione. Si paleseranno pure le opere buone dei
giusti, per quanto segretamente le compissero, i loro santi pensieri, i loro pii desideri, le
intenzioni pure e le opere sante che il mondo tenne per cattive o per pazzie, calunniandole. Ma
in quel punto essi saranno onorati per questo. Si vedrà ivi la virtù in tutta la sua bellezza e il
peccato in tutta la sua bruttezza.
Ivi si vedrà quanto fu cosa conveniente e bella l'umiliarsi di un grande, il tacere di un
ingiuriato, il perdonare di un offeso e l'assoggettarsi ad altri. Al contrario si vedrà quanto sia
cosa insolente ed orrenda il voler urtare con tutto, l'ingiuriare l'umile, il voler vendicarsi e il
signoreggiare su tutti. Si scopriranno anche le opere buone che compirono i cattivi, per
maggior confusione loro, per non aver perseverato nel bene. Ricordandosi dei buoni consigli
che diedero ad altri che per mezzo di essi si salvarono, resteranno svergognati per non averli
utilizzali per sé. E se anche saranno pubblicati anche i peccati dei giusti, lo saranno però
insieme con la penitenza che fecero ed il bene che da essi ne cavarono, in maniera che non
siano loro di

235

confusione, ma motivo per lodare quel Signore che volle loro perdonare.
Sarà grande dispetto e confusione per i malvagi vedere in tanto onore coloro che commisero
peccati uguali e forse anche maggiori dei loro, per aver fatto in tempo la penitenza, che essi
disprezzarono. Crescerà la confusione dei peccatori per i carichi che Dio farà loro
interiormente dei benefici divini, in cui furono aiutati dagli stessi Angeli Custodi, i quali
attesteranno quanto essi fecero per dissuaderli e sviarli dalla vita malvagia e come essi invece
furono ribelli ai loro santi avvisi ed alle loro ispirazioni. Anche i santi li accuseranno per aver
deriso i loro consigli; altri per il pericolo in cui si videro posti per i loro cattivi esempi.

Si pronuncerà la sentenza.
Pronuncerà allora il giusto Giudice a gran voce la sentenza in favore dei buoni con queste
parole amorose: Venite, o benedetti dal mio Padre, e possedete il Regno che vi è stato
preparato dall'origine del mondo! (Mt 25, 34) Che giubilo in questa occasione sarà quello dei
santi! E come scoppierà da l'invidia e disperazione il cuore dei peccatori! Massimamente
quando sentiranno pronunciarsi la sentenza contraria, parlando Cristo contro di loro con
quella severità che significò il Profeta Isaia quando disse (Is., XXX, 27): Le sue labbra sono
piene di indignazione e la sua lingua è come fuoco vorace. Più terribile che tutto il fuoco ed
ogni tormento sembrerà ai miserabili la voce del Figlio di Dio, quando dirà loro; Via da me,
maledetti, al fuoco eterno, che

236

fu preparato per il diavolo e per i suoi angeli! (Mt 25, 41) Saranno con questa sentenza
atterrati e coperti di confusione e pianto. All'udire solamente la voce sdegnata di Pietro.
Anania e Saffira restarono morti; che faranno i malvagi all'udire la voce del medesimo Gesù
Cristo colmo di sdegno? Potrà argomentarsi da ciò che sentì Santa Caterina da Siena, (In Vita,
cap. 2) quando fu ripresa da San Paolo per un po' di tempo non bene speso, onde disse che
avrebbe piuttosto voluto essere svergognata alla presenza di tutto il mondo, che sentirsi
riprendere in tale guisa. Che faranno i rinfacciamenti del Dio delle vendette in quel giorno?
Se, quando fu condotto ad essere giudicato, col solo proferire due parole: Io sono, fece cadere
al suolo attonita tutta la moltitudine dei soldati, che sarà quando parlerà come giudice?
Nella vita dei Padri, che composero Severo Sulpizio e Cassiano, si scrive che volendo un
giovane farsi monaco, la madre, per sviarlo, gli apportava molte ragioni. Egli a nessun costo
volle cedere e venire meno ai suoi propositi ed opponeva sempre questo scudo: Voglio salvare
l'anima mia. Visto finalmente la madre che ogni sua insistenza era vana, lasciò che egli
eseguisse il suo intento e così il giovane entrò nella religione. Ma assai presto cominciò a
rallentare ed a vivere nella religione con notabile trascuratezza. Indi ad alcuni giorni morì la
madre ed egli cadde in una grave malattia, nella quale un giorno, come fuori di sé, fu rapito in
spirito e condotto in giudizio davanti al tribunale di Dio, dove trovò pure sua madre, che
insieme con molti altri stava aspettando la sua sentenza che la doveva condannare. La madre
rivolse gli occhi e vedendo ivi tra i molti che dovevano essere condannati anche suo figlio,
rimase attonita e gli disse:

237

“Come mai, figlio mio, tu sei giunto a questo termine? Dove sono quelle parole che mi dicevi;
Io voglio salvare l'anima mia? Non entrasti per questo nella religione"? Egli ne rimase tanto
oppresso e svergognato che non seppe che cosa rispondere. Ritornò in sé, e piacque a Nostro
Signore che egli uscisse sano da quell'infermità. Considerando che quello era stato un avviso
del cielo, fece una mutazione così grande che da allora in poi la sua vita non era altro che
piangere i tempi passati e farne penitenza così aspra, che molti lo consigliavano a moderarsi
per non perdere la salute. Ma egli, rifiutando tale consiglio, rispondeva sempre: “Se io non
potei soffrire i rimproveri di mia madre, come potrò soffrire quelli di Cristo e degli Angeli,
quando comparirò dinanzi al tribunale di Dio per essere giudicato?”.
Scrive Raffaele Colomba (Fer. II post Dominicam I Quadrag.) che il re della Spagna, Filippo
II, assistendo alla santa Messa, udì due grandi vicino a lui che chiacchieravano. Egli dissimulò
per allora, ma, terminata la S. Messa. disse loro con sembiante severo: “Voi non mi
comparirete più dinanzi”. Queste sole parole pesarono tanto che uno di essi mori scoraggiato,
l'altro restò per tutta la sua vita insensato. Che sarà l'udire il Re del cielo e della terra, quando
dirà: Via da me, maledetti? E se le parole del Figlio di Dio sono così terribili, che saranno le
opere della giustizia?

L'esecuzione della sentenza.


In quel punto i miserabili saranno investiti dal fuoco, si aprirà la terra, l'inferno spalancherà la
sua bocca per seppellirli eternamente nel suo abisso. Al loro cadere si eseguirà ciò che è stato
detto: Cadranno sopra di loro carboni ardenti; tu li getterai nel

238

fuoco; non remeranno alle miserie. (Ps. 139, 11). Ed in altra parte: Pioverà sopra i peccatori
fulmini, fuoco e zolfo. Finalmente si eseguirà ciò che disse San Giovanni, che il demonio, la
morte, l'inferno e tutti coloro che non erano scritti nel libro della vita, furono cacciati in un
pozzo di fuoco e di zolfo, dove saranno tormentati di giorno e di notte per tutti i secoli dei
secoli, insieme con l'Anticristo e il suo falso profeta. Questa è la morte seconda, amara ed
eterna, che comprende anime e corpi, i quali morirono di morte spirituale per la colpa e della
morte corporale che ne seguì.
I giusti per il contrario si rallegreranno, secondo Davide, vedendo la vendetta che la divina
giustizia prende dei peccatori. Essi canteranno un cantico come quello di Mosè, quando gli
Egiziani furono annegati nel mare (Es 15) ed il cantico dell'Agnello che riferisce San Giovanni
(Ap 15, 3-4) dicendo con grande affetto: Grandi e meravigliose. Dio Onnipotente, sono le tue
opere: giuste e vere sono le tue vie, o Re dei secoli. Chi non ti temerà, o Signore, e non
glorificherà il tuo nome? Con questi ed altri mille canti di allegria e di giubilo essi si andranno
sollevando con gloriosissimo trionfo sopra le stelle fino a giungere al Cielo Empireo, che
hanno da godere per l'eternità dell'eternità.

Sarà purificata e rinnovata la terra.


Finalmente finirà la terra di essere purificata da quell'incendio universale, (Cfr. Summa
contra Gentes. IV, cap. 97) liberandosi così dalla macchia che in un certo modo avrà contratta
dall'aver sostenuto i corpi dei dannati.

239

Tutto ad un tratto si rinnoveranno terra, cielo, stelle ed il sole e risplenderanno sette volte più
che prima, poiché le creature che con indegno oltraggio erano state volte violentemente con
abominevole uso dei peccatori contro chi le creò, dopo essersi vendicate, gioiranno di vedersi
libere da quelle pesti e liete del trionfo di Cristo, si ammanteranno tutte di abiti di allegrezza.
Questa è la fine di ogni tempo. A questo punto così tremendo tutte le cose devono ridarsi per i
rei. Guardiamo dunque come ne usiamo e per usarne bene, ci sia sempre nella mente la loro
fine e questo ultimo giorno, questo giorno di calamità e giustizia, giorno di timore e spavento.
Questo ricordo servirà molto per riformare la nostra vita. Scrive Giovanni Curopalata (In Vitis
PP. Occidentis) che il pagano Bogois, re dei Bulgari, godeva tanto della caccia alle fiere che
voleva veder la sua casa dipinta nei modi più feroci. Egli comandò al monaco Metodio, che era
un buon pittore, di fargli un quadro di figure così terribili, che il vederle gli cagionasse
spavento. Il prudente monaco altro non fece che dipingere il Giudizio Universale. Finito che
ebbe il quadro, chiamò il re, perché vedesse ciò che aveva dipinto. Questi, quando lo vide,
rimase tanto impressionato di quell'atto di giustizia, vedendo il Figlio di Dio giudicare gli
uomini, incoronare i giusti e castigare i malvagi, che tutto spaventato, abbandonò la sua vita
cattiva e si converti alla fede di Gesù Cristo. Ora, se il solo giudice dipinto è così terribile, che
sarà quello reale?
Quasi lo stesso successe a San Dositeo, (ANONYM., in Elogio Dorothei et Dosithei) il quale,
essendo paggio molto stimato, non aveva mai sentito in tutta la sua vita che un giorno dovesse
aver luogo il giudizio universale, fino a quando un giorno trovò per caso un dipinto, nel quale
vide

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le pene dei dannati; da questa vista restò attonito e non sapendo spiegarsi questo, chiamò una
matrona la quale glielo spiegò con tanto suo spavento che rimase come morto, non potendo
respirare per il timore da cui era dominato. Quando ritornò in sé, domandò che cosa dovesse
fare per non cadere in una sorte così miserabile, ed essa gli rispose: Digiunare, astenersi dalla
carne e pregare. Egli cominciò tosto ad eseguire il consiglio. Sebbene i suoi di casa lo
disturbassero e lo dissuadessero, a lui rimase tanto fisso nel cuore il timore santo di Dio e il
ricordo della dannazione eterna nella quale poteva incorrere il giorno del giudizio, che non
cessò dal suo proposito e continuò la sua rigorosa penitenza finché, facendosi monaco, la
continuò con più frutto.
Teniamo dunque sempre nella nostra memoria questo giorno di timore, acciocché viviamo
con esso questa vita e godiamo della beatitudine eterna.

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_______________________
LIBRO TERZO.

LA MISERIA DELLE COSE TEMPORALI

CAPITOLO PRIMO.

La mutazione delle cose temporali le rende degne di disprezzo.


Fin qui abbiamo parlato della brevità del tempo e per conseguenza anche di quella di tutte le
cose temporali e della loro fine. Niente si esime dalla morte, perché non soltanto la vita
umana, ma altresì tutte le cose che seguono il tempo ed il tempo stesso avranno fine e morte.
Perciò disse Esicchio, riportato da San Giovanni Damasceno: (In Paralip., Lib. I) Lo splendore
di questo secolo è fogliame caduto, campanelle di acqua, fumo, paglia, ombra e polvere agitata
dal vento, perché tutte le cose della terra hanno per fine la terra. Ma oltre la loro fine, esse
hanno un'altra grande piaga che le rende più spregevoli, ed è la instabilità e la mutazione
continua che patiscono.

La mutabilità delle cose.


Come il tempo è in una continua successione e mutazione, in quanto è fratello del movimento
e suo compagno inseparabile, così attacca questa brutta

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qualità a tutte le altre cose che passano con esso, le quali non solo hanno fine, ma la stessa
loro brevità ha mille mutazioni e molte morti prima della loro morte.
Quante mutazioni ha la nostra vita! Essa patisce tante morti quante sono le sue parti o i suoi
stati. Come infatti la morte è mutazione di tutta la vita, così le mutazioni sono morte di una
parte della vita. L'infermità è morte della salute, il sonno è la morte della veglia, la tristezza
dell'allegrezza, l'impazienza della calma, la gioventù della fanciullezza e la vecchiaia della
gioventù. La stessa condizione si trova nel mondo e in quante cose si trovano in esso, per il
che meritano di esser tanto disprezzate, che Marco Aurelio Imperatore (Lib. VI de vita sua) si
meravigliò che esistessero uomini che le stimassero, e così dice: Di quello medesimo che si fu
ora, già è svanita alcuna parte. Concorrenze ed alterazioni innovano continuamente il mondo,
nella stessa maniera che si va innovando un immenso spazio di tempo col suo perpetuo fluire.
Chi può scandagliare ciò che passa in questo fiume o in questa precipitosa corrente delle cose,
nella quale nessuno può fermarsi? Non si distinguerebbe da questo tale colui che mettesse il
suo affetto ed amore in un uccelletto che vide volare per l'aria e subito scomparve dalla sua
vista.
Questa medesima causa del disprezzo del temporale, data dalle mutazioni che patiscono e
dalla fine a cui stanno soggette tutte le cose, ci è significata nell'Apocalisse in quella donna che
aveva la luna sotto i piedi, come nota San Gregorio (Lib. XXXIV Moral., cap. 12). Essendo
tutto il suo ornato di stelle e pianeti, e potendo la luna servire di diadema come le dodici
stelle, non la tenne se non sotto i suoi piedi per le continue alterazioni e mutazioni che patisce
questo

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pianeta, per cui essa è figura delle cose temporali, le quali già per la loro instabilità meritano
di essere consultate, perché si mutano non solo ogni mese, come la luna, ma ogni giorno.
Onde ottimamente disse Euripide (EURIP., in Hispania) che essa in un medesimo giorno, ora
è madre, ora è matrigna degli uomini.
Lo stesso ci fu significato in quell'Angelo (Ap., 10, 1) che discese dal cielo coronato
dell'arcobaleno ad annunziare che il tempo aveva da finire. Questo angelo venne a calcare il
mare col piede destro, che è quello che nel premere ha maggior forza, e ci insegnò in questo
modo che il mare, essendo simbolo di instabilità, deve essere calpestato con ogni studio. Con
molta ragione quindi quel medesimo Angelo che con le parole ci insegnò che il tempo ed ogni
cosa temporale avrà da finire, con dei segni ci mostrò pure che il mondo deve essere
conculcato e disprezzato, anche per le sue mutazioni, già prima che venga la sua fine e, anche
se non venisse, perché ne basterebbe già la sua instabilità e poca fermezza.
Ancor più vivamente ci significò la stessa cosa San Giovanni (Ap., XV, 1-2) quando disse che
vide i santi in piedi sopra il mare. La causa di questo è perché essi disprezzarono e
calpestarono tutte le cose caduche e fragili di questo mondo e, per spiegarlo meglio, aggiunge
che il mare era di vetro, non sembrando esservi cosa più fragile del vetro, il quale, pur essendo
molto duro, è sommamente fragile ed instabile.

Grandissima è la instabilità delle cose.


Questa instabilità delle cose temporali non può che essere molto grande, e per questo sono
anche più disprezzabili.

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Questa instabilità nasce da molte cause. Il mare ha due sorta di movimenti, l'uno naturale,
l'altro violento, e non solo cresce e diminuisce ogni giorno per continuo flusso e riflusso e
prova incostanza anche nella maggior calma, ma patisce parimenti grandi turbazioni da cause
esteriori. Sono cause violente quando lo scompigliano turbini, tifoni, e venti contrari, che lo
rivoltano sotto sopra. Non differente è questo mondo, che per sua natura è sfuggevole,
mutabile, transitorio; anche quando non c'è violenza esteriore, le sue cose patiscono una
continua mutazione e vanno sdrucciolando verso la loro fine. Ma oltre a ciò succedono
impensati accidenti e violenze straordinarie, che cavano le cose dal loro posto ordinario e
sollevano nel mare di questa vita grandi burrasche, per cui ciò che più sì stima è soggetto a
repentino naufragio.
Così il fiore più appariscente per se stesso marcisce, ma molte volte prima di arrivare a questo,
se lo porta via il vento e lo abbatte una grandine. La più leggiadra bellezza viene disfatta dagli
anni: ma anche gli anni molte volte sono prevenuti da una febbre maligna che li distrugge. Il
vestito più ricco viene logorato dal tempo, ma bene spesso se lo porta via il ladro. Una fabbrica
sontuosa per l'antichità va disfacendosi, ma un incendio può far sì che non arrivi ad essere
antica. Nella stessa maniera la violenza e la natura delle cose temporali le privano perfino
dello stesso tempo e le portano in continue mutazioni, non lasciando loro alcuna stabilità.
Volgiamo gli occhi alle cose che furono destinate dagli uomini ad essere immutabili più che si
potesse. Quante mutazioni e quante morti hanno patito? San Gregorio Nazianzeno (In
Monodia; PLINIUS, Lib. XXXVI, cap. 8) mette per prima meraviglia, di quelle sette che
ammirò il mondo, la città di

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Tebe nell'Egitto, la quale era bellissima, perché aveva nelle vicinanze grande quantità di
marmo di alabastro, che era molto bello ed era lumeggiato di oro, il quale, quando era posto
negli edifici, li rendeva vistosissimi.
Questa città aveva giardini amenissimi, detti pensili, sulle muraglie, e non erano le sue porte
meno di cento, per le quali in qualunque stagione i suoi principi avessero voluto, uscivano
eserciti armati così quietamente che li popolo non lo sapeva. Scrive Pomponio Mela (Lib. I,
cap. 9; vedi SURIO, in Comm. anni 1517) che ciascuna porta ne mandava fuori 10 mila, così
che venivano ad assommare filtri insieme un milione di soldati. Eppure tanto apparato non
poté assicurarla contro un esercito comandato da un giovane di pochi anni, che la distrusse
conforme a quanto attesta San Girolamo (EUSEBIUS, De Praeparat. Ev.; S. HIER., Com. in
Dan., c. 11). Scrive Marco Polo (Lib. II, Rerum indic., cap. 68) che passando per la città di
Quinsai, avvertì che aveva due milioni di abitanti, con cui si poteva armare un grande esercito.
Alcuni anni di poi passò per la medesima parte Nicolò de Comitibus (In Itiner., tom. I;
PLINIUS, Lib. VI, cap. 26), il quale dice che trovò quella città tutta distrutta e riedificata in
altra forma. Anche maggiore di questa doveva essere quella di Ninive, poiché dice la Sacra
Scrittura che a percorrerla da un capo all'altro ci volevano tre giorni; eppure di essa più non
c'è orma già da tanti secoli.
Né più felice fu Babilonia, sebbene fosse più fortemente munita, e quella che era a capo
dell'impero del mondo fu rivolta, come cantarono i profeti, in deserto di orrore, in abitazione
di arpie, di onocentauri, di satiri, di mostri e demoni. Le mura, che avevano duecento piedi di
altezza e cinquanta di larghezza, non poterono difenderla contro il tempo.

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Ancora più forte, ci descrive la Sacra Scrittura, fu la città di Ecbatana, capitale della Media.
Essa fu edificata da Arfaxad, re dei Medi, di pietre quadre a scalpello, le mura si estendevano
per una latitudine di 70 cubiti e tutto all'intorno si elevavano cento torri. Eppure con una
capitale tanto grande e forte l'impero dei Medi non poté resistere agli Assiri. Lo stesso
monarca che la edificò e si era reso tremendo in essa, si perdette con essa, e, dopo aver
assoggettato al suo impero molte nazioni, finì sotto il piede del suo nemico.
Ma che dire delle città, quando hanno patito tante mutazioni gli imperi e le monarchie e tante
volte si è sconvolto il mondo? ... Quante monarchie si sono mutate, quante volte il mondo ha
cambiato aspetto, quanti dominatori e padroni ha avuto? Chi avesse visto il mondo al tempo
dei Persiani, già non lo conoscerebbe come stava al tempo degli Assiri, né chi lo avesse
conosciuto al tempo degli Assiri intenderebbe come era al tempo dei Greci; al tempo dei
Romani poi il mondo uscì con un aspetto non conosciuto prima, né lo si conoscerebbe ora; e
da qui ad alcuni anni esso avrà altra faccia, non somigliando questo a quello più che nel
continuo mutarsi. Per questo è sempre stato degno di disprezzo e ora più che mai, perché
peggiora sempre.
Nota a tale proposito San Cipriano: Hai da sapere, o Demetriano, che il mondo già si è
invecchiato e non sta più colle forze di prima, né il suo potere ha quel vigore e quella
robustezza di prima. Questo ci attesta si mondo stesso, anche se noi non lo dicessimo, anche
se i documenti della S. Scrittura e della predicazione non lo testimoniassero. Non vi ha
d'inverno tanta pioggia che fertilizzi la terra; non vi ha nell'estate l'usuale calore che maturi le
messi. La primavera non viene con l'allegria del suo tepore, né l'autunno è fecondo di tanti
frutti...

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È necessario che diminuisca ciò che va affondando ed avvicinandosi alla sua fine... Questa
sentenza fu data al mondo, questa è legge di Dio, che muoia tutto ciò che è nato, che tutto ciò
che cresce s'invecchi, che il forte s'indebolisca, il grande diminuisca e diminuito che sia,
perisca. Mentre anticamente la vita durava 800 e 900 anni, ora appena può raggiungere 100
anni. Vediamo i giovani già canuti i quali, anziché finire nella vecchiaia, cominciano da questa.
Già fin dalla sua origine la vita cammina verso la fine. Tutto ciò che ora nasce nella vecchiaia
del mondo, degenera, perché nessuno si meravigli che le parti del mondo cominciano a
disfarsi, poiché tutto il mondo è già arrivato alla sua fine (S. CYPR,, Epistola ad Demetrianum;
P. L.,IV, 546).
Ma non solo il mondo ha peggiorato nella natura, si è anzi perduto nella moralità. I costumi
degli uomini l'hanno cambiato più che le violenze ed il cozzo degli elementi. L'impero degli
Assiri distrusse la semplicità ed innocenza primitiva; ciò che ancora rimase, fu distrutto dai
Persiani: il resto fecero i Greci ed i Romani, e se ancora rimase qualche cosa, lo annientiamo
noi. Il fasto delle Monarchie è la tomba dei buoni costumi. Nelle suddette quattro Monarchie
si verificò la parola del Profeta Gioele: Quel che avanzò al verme, lo mangiò la cavalletta e
quello che avanzò la cavalletta lo mangiò il bruco, e quello che avanzò il bruco lo divorò la
ruggine (IOEL, 1, 4).

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L'incostanza dell'uomo.
Vi sono pili cause di alterazioni nella terra che nell'Oceano. Oltre la condizione comune delle
cose umane, che già per conto loro sono caduche, vi è l'ingegno umano, in sé tanto mutabile,
che è causa in esse di grande mutazione. Non senza grandissima convenienza disse lo Spirito
Santo che lo stolto si muta come la luna, la quale è mutabile non solo nella figura, ma anche
nel colore.
I filosofi notarono tre colori nella luna: giallo rosso e bianco. Con il primo cagiona acqua, col
secondo produce vento e col terzo fa sperare allegria e bel tempo. Con altri tre colori si muta il
cuore umano, per gli affetti veementi che patisce; l'uno è giallo, colore dell'oro, bramando egli
le ricchezze struggevoli più dell'acqua; il secondo è rosso, il colore di porpora, desiderando il
vento dei vani onori; il terzo è bianco, colore dell'allegrezza, desiderando i passatempi ed i
piaceri di questa vita. Con questi tre affetti di avarizia, di ambizione e di sensualità l'uomo si
muta. Come vi sono delle erbe che seguono la luna e si voltano secondo i suoi giri, così pure gli
affetti umani alterati fanno che molte altre cose si mutino per seguirli. L'avidità di Ciro, quanti
regni non sconvolse? L'ambizione di Alessandro fece cambiare faccia non solo ai regni, ma
allo stesso mondo. L'amor lascivo di Paride che cosa lasciò in piedi a Troia? Che cosa non
rivolse sotto sopra in Grecia? Ciò che non presunse il tempo di fare, suole attentare l'avarizia
del ladro. L'appetito della vendetta a quanti non ha tolto la vita prima della vecchiaia? Non vi
è dubbio che le passioni umane sono i venti più forti che rivoltano il mare di questo mondo.
Come l'Oceano suole crescere e diminuire al passo della luna, anche le cose di questo mondo
prendono il loro movimento dagli affetti umani. In nulla si trova stabilità, massime nell'uomo,
il quale non solo si muta egli stesso, ma fa che altre cose si mutino.

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L'uomo è tanto incostante e variabile, che Davide diede per titolo ad alcuni salmi queste
parole: In finem, pro iis, qui commutabuntur, per quelli che si mutano. San Basilio, spiegando
questo titolo, dice che s'intende degli uomini, la cui vita è una mutazione perpetua. Si
conforma al medesimo la versione di Aquila, nella quale in luogo delle parole dette, si ha: Per
il fogliame caduto, perché in verità qualsiasi vento muove l'uomo, come le foglie delle piante.
Ben si poté vedere questa mutazione nella Passione di Gesù Cristo, Nostro Redentore, della
quale si tratta nel Salmo 68, il quale porta il titolo su riferito. Si mutarono tanto gli abitanti di
Gerusalemme che, avendo ricevuto Gesù Cristo con trionfo, quattro giorni prima, e dategli il
maggior onore che ad uomo vivo si fosse mai dato, tosto e senza intervallo lo trattarono per il
più infame che sia mai nato.
Non è da fidarsi del cuore umano: ora ama, ora disprezza. Chi non stupisce della mutazione di
San Pietro, che dopo fante promesse e tanti proponimenti di morire per il suo Maestro, indi a
poche ore affermò di non conoscerlo con tanti replicati spergiuri? Che faranno la cannuccia ed
il giunco, se la quercia ed il cedro vacillano in tal modo? Che diremo di Amnone, che ama
ardentemente Tamar fino ad ammalarsi per questo e subito la aborrisce per modo che la
caccia dalla camera per non soffrirne la vista? Ma non so che cosa possa dichiarare di più la
mutabilità del genere umano di quel caso si memorabile che avvenne in Efeso.
Era ivi una matrona onestissima; essendole morto il marito, non si videro giammai eccessi di
maggior dolore dei suoi. Tutto era un pianto inconsolabile, un incrudelire con le proprie mani
contro se stessa. Non bastandole le cerimonie solite delle altre vedove, andò alla tomba del
suo defunto marito e siccome anticamente le sepolture erano scavate nell'aperta campagna si
chiuse ivi insieme col

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suo amato cadavere, senza voler gustare cibo e stette infatti quattro giorni interi digiuna. Ora
avvenne che ivi furono giustiziati certi assassini ed affinché non venissero tolti dai patiboli
donde pendevano, l'autorità giudiziaria mise a guardia alcuni soldati, uno dei quali sapendo
della matrona posta a piangere nel sepolcro, portò tutto pietoso la sua cena per persuaderla a
non voler morire di fame.
Sul principio nulla giovava per indurla a prendere un boccone, però il soldato tanto si adoperò
con ragioni e preghiere che la convinse a prendere un poco di cibo. Andò più innanzi, e quegli
che la indusse ad accettare la sua cena, la persuase pure ad accettarlo per suo marito. Ma reso
spensierato il soldato dal divertimento e dall'allegria delle nozze, i parenti frattanto di uno
degl'impiccati, veduto che non vi era la guardia, lo portarono via per seppellirlo; quando il
soldato se ne fu accorto, temendo il castigo della giustizia, tutto afflitto lo disse alla vedova, ed
essa prontamente lo consolò, prendendo il corpo di suo marito, per il quale poco prima aveva
ostentato tante e così amorose finezze, e lo attaccò al patibolo in luogo del giustiziato.
Tale è l'incostanza e poca fermezza del cuore umano, più mutabile e variabile di quello che
sembra possibile, e, mutandosi esso, tira dietro di se tutte le altre cose, che per mille ragioni
sono già vane, incostanti e fragili.
Considerando Filone (PHILO, Lib. De Joseph) questo, e ben meravigliato di tanta vanità e
mutazione, pronuncia questa sentenza: Non sono forse sogni le cose che toccano il corpo?
Non marcisce forse la bellezza momentanea prima della sua fioritura? La salute è incerta,
esposta a fante infermità, le forze saranno distrutte da mille malattie, che per varie occasioni
possono succedere.

251

L'integrità e il vigore dei sensi si corrompono coi vizi. Ora chi ignora quanta sia la viltà delle
cose esteriori? In un giorno finiscono spesse volte grandissime ricchezze. Molte persone
rispettate ed onorate, cambiandosi la fortuna, cadono in grande disprezzo ed infamia, imperi e
grandi regni si sono rovinati in pochissimo tempo. A queste mie parole fa credito Dionisio in
Corinto, il quale fu re di Sicilia, perché, scacciato dal suo trono e regno, venne a Corinto per
insegnare ai giovanotti, ed il grande re non era più che un povero fuggitivo.
La stessa cosa attesta Creso, re della Lidia, ricchissimo, il quale, credendo di distruggere la
potenza dei Persiani, non solo perdette il suo regno, ma cadde pure in potere dei suoi nemici e
poco mancò che lo bruciassero vivo. Non solo i particolari sono testimoni del come tutte le
cose umane sono sogni, ma le città, le genti, le regioni, i Greci ed i barbari, quanti abitano
nelle isole e nella terra ferma, l'Europa, l'Asia, nell'Oriente e nell'Occidente; niuna cosa resta
somigliante a se stessa. Certamente non soltanto la loro instabilità rende le cose umane come
un sogno, come dice Filone, ma anzi fa sì che siano come sogno di un'ombra, non di beni
consistenti.
Ascoltiamo ciò che riguardo a questo dice ed insegna San Giovanni Crisostomo: Tutte le cose
presenti sono più deboli della ragnatela e più ingannevoli che i sogni, perché tanto i beni,
quanto i mali hanno fine. Ora, tenendo per certo che tutte le cose presenti sono come ombra e
noi siamo come in un albergo od ospizio, poiché dovremo partire da qui, abbiamo cura del
cammino e prepariamo la provvigione ed il viatico per l'eternità. Vestiamoci di tali vestiti che
possiamo portarli con noi, poiché, come nessuno può afferrare la sua ombra, così nessuno
potrà ritenere le cose umane, le quali insieme con la morte ci sfuggono, in parte con la morte,
in parte già prima della morte, più velocemente che una corrente impetuosa.

252

Al contrario sono le cose future che non hanno né mutazione, né vecchiaia, in esse non ha
luogo nessuna rivoluzione; esse fioriscono senza alcuna intermissione e persevereranno in
una felicità moltiplicata. Evita di ammirare quelle ricchezze che non permangono coi loro
padroni, che invece si mutano ad ogni passo, saltando, da un luogo all'altro e da questo a
quello. Conviene disprezzare tutte queste cose e tenerle in poco conto. Basta ascoltare ciò che
dice l'Apostolo: “Le cose che si vedono, sono temporali, però le cose che non si vedono sono
eterne; spariscono le cose umane più presto che l'ombra” (Hom. De Poenit).

CAPITOLO SECONDO.

I mali temporali per grandi e disperati che siano possono essere alleggeriti dalla
speranza.

Da ogni male di questa vita si può uscire.


Questa incostanza delle cose deve cagionare nei nostri cuori costanza, prima coll'insinuarci un
generoso disprezzo delle cose mutabili e caduche, in secondo luogo con la sicura convinzione
che nemmeno nelle sventure si possa trovare stabilità e costanza. Come alcuni beni grandi
sogliono cagionare mali maggiori, così grandi mali possono produrre grandi beni. Come
alcuni grandi beni possono occasionare mali eterni più grandi, i quali, essendo immutabili,
mancano della speranza di uno stato migliore, così pure i mali temporali essendo mutabili,
possono avere la consolazione della speranza di mutarsi nel bene.

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Vediamo in questa materia avvenimenti impensati, acciocché teniamo solo quello che è
eterno, quello che non ha alcun rimedio e perché non disperiamo, né ci rendiamo tristi nel
temporale, che noi abbiamo, ma che poco importa anche non averlo.
Non spiega malamente questo il caso celebre fra i Romani che successe ad Appio, il quale,
essendo stato proscritto, più che la pena dell'esilio, temette per la sua vita, perché i suoi servi,
avidi della roba che portava nella sua nave, lo cacciarono dalla nave sopra una barca per
svaligiarlo e salvarsi sopra di essa? In questa disgrazia consistette la sua fortuna, perché da li a
poco la nave naufragò, perdendosi con essa tutti i suoi servi, mentre egli scampò da questo
pericolo con quel danno ed arrivò sicuro alla Sicilia.
Aristomene, preso dai suoi nemici e gettato in un carcere sotterraneo, era disperato della sua
vita ed aspettava in breve la morte o dalla fame o dal fetore o certamente dal ferro; però
quando era più disperato entrò in lui la speranza per una via ben strana. Entrata per un buco
del sotterraneo una volpe, e penetrata fin dove era Aristomene, egli l'afferrò fortemente e
seguendola sboccò per quello stesso pertugio per il quale era entrata la volpe.
Con la mano libera andava scavando la terra, allargando il sentiero, senza sciogliersi dalla sua
guida con l'altra mano. In questo modo andò scavando gran tratto, fin che riuscì in campagna
aperta e scappò vivo, quando i suoi nemici lo tenevano già per morto.
Non si dà in questa vita stato disperato; da ogni male si può uscire e non solo uscire, ma uscire
per il nostro bene. A quanti un danno successo è stato origine di grandi beni ed un'ingiuria
causa di grandi onori?
Essendo stato condannato Diogene sotto l'accusa di aver coniato monete false e tenuto per
infame,

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questo gli fu occasione di essere tanto onorato dal mondo, che lo venerarono i principi ed il
signore dell'orbe, Alessandro, il quale lo venne a trovare.( Plinio., Lib. VII, cap, 50) Essere
stato il Falereo ferito mortalmente nel petto dal suo nemico, questo gli procurò la guarigione
da una postema per la quale lo avevano già abbandonato i medici. Scrive Galeno (De simpl.
med. fac., lib. XI) di un lebbroso abbandonato, che guarì con un poco di vino, in cui era
annegata una vipera, e per questo non era stato bevuto da alcuni segatori, i quali lo diedero al
lebbroso, perché morisse subito, avendo avuto compassione della sua vita penosa. Ma egli
trovò la vita in quello in che gli altri pensavano trovarsi la morte; bevendo il vino gli caddero
le squame ed egli divenne sano. Benivenio (BENIV., cap. 15) attesta di aver conosciuto un
giovane così zoppo che non poteva camminare senza l'aiuto delle grucce. Fu colpito dalla
peste, dalla quale guarì restando sanissimo anche nelle gambe. Il medesimo scrive di un
architetto, che aveva un piede più corto dell'altro. Questi cadde un giorno da una torre alta e
restò con un piede uguale all'altro, Alessandro Benedetto (De corporum morbis, lib. III)
riferisce che conobbe un cieco il quale, essendo gravemente ferito alla testa, riacquistò la vista.
Rondeleccio (De melancolicis) attesta di una donna matta che, essendolesi rotta la testa,
acquistò il senno. Plutarco (De capienda ex inimicis utilitate) scrive di un tale che si chiamava
Prometeo, che aveva un gran tumore, ma un suo nemico, volendolo ammazzare, lo ferì in
quella parte, onde rimase sano e senza alcuna bruttezza, né alcun segno, mentre prima non gli
aveva giovato rimedio alcuno di medicina, né spesa di medici.

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Le ingiurie che fecero i fratelli a Giuseppe, gli cagionarono il maggior onore dell'impero
d'Egitto. La furia delle calamità, in cui venne a trovarsi il santo Giobbe, non finì col cangiarsi
in raddoppiata felicità e fortuna? L'uscita che fece Giacobbe, fuggendo dalla sua terra con
null'altro che il suo bastone nella mano, qual fine ebbe, se non perché ritornasse molto
prospero e ricco e con numerosa famiglia?

Dal male possiamo ricavare bene.


Non c'è da sconfortarsi per le avversità, poiché possono essere il principio di grande fortuna e
molte volte dovremmo essere contenti dei mali sopra i quali piangiamo. Acciocché vediamo
più chiaramente questa notevole mutazione delle cose e la speranza di condizione migliore,
alla quale si può giungere dopo la più grave disgrazia, racconterò qui la storia di Marco e
Barbula, cavalieri romani. Era Marco un pretore che seguiva il partito di Bruto, ed essendo
stato vinto nella battaglia di Filippi, fu preso e, mostrandosi egli uomo vile e schiavo, lo
comprò Barbula, il cavaliere romano. Vedendo questi che in lui era ingegno molto grande,
molta prudenza ed un animo nobile, sospettò ciò che poteva essere e chiamandolo in una
occasione lo pregò segretamente di dirgli chi egli fosse e se anche fosse uno dei ribelli, poiché
egli otterrebbe il perdono. Marco rompendo in risa, non disse chi era. Ma Barbula, per
obbligarlo a dichiararsi, disse che lo voleva portare con sé a Roma, dove senza dubbio lo
dovevano conoscere, se era dei ribelli e traditori condannati. Rispose Marco che ben volentieri
vi sarebbe andato, pensando che nel suo stato diverso nessuno lo avrebbe riconosciuto. Ma
appena arrivati a Roma, quando un giorno Marco stava aspettando il suo signore alla porta di
un console, fu riconosciuto da un cittadino romano, il quale avvisò subito in segreto Barbula,
il quale si comportò prudentemente, e senza dir cosa alcuna al suo finto schiavo, andò da

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Agrippa, perché per suo mezzo gli ottenesse il perdono di Cesare Augusto. Questi lo concesse
ben volentieri, restando Augusto pago di Marco, tanto da tenerlo per amico molto caro. Non
molto dopo, seguendo Barbuta il partito di Marco Antonio, fu catturato nella battaglia di Azio
e comprato fra altri schiavi da Marco, senza che egli lo sapesse. Riconoscendo poi che fra essi
era il suo antico amico, andò subito a domandare per lui il perdono dell'imperatore Augusto.
Con questo ripagò la buona opera che aveva ricevuto.
Chi non vede le vie segrete per le quali ci arrivano i beni e le fortune? Marco aveva la dignità di
pretore, di poi divenne schiavo, poscia amico di Cesare, indi si fece redentore del suo
medesimo redentore, giungendo per la perdita e prigionia ad eccellenza più grande di quella
che potesse raggiungere per via di fortuna.
Mentre dura la vita non ci è sventura senza speranza e molti mali vengono carichi di beni, pur
mirandoli entro i limiti della natura. Se poi mettiamo gli occhi, come pure deve farsi, nella
speranza divina, allora non c'è male alcuno senza rimedio. A quali angustie più miserabili può
giungere persona viva che ad esser condotto al patibolo col consenso universale, come
Susanna? Però nella stessa strada del supplizio, Dio seppe trovare la maniera di convenire
l'abominazione dell'ingiusta sua infamia in ammirazione della sua virtù.
Daniele era privo di ogni umano soccorso, quando fu nella fossa dei leoni. Però dove non vi
era rimedio, il cielo gli diede sollievo. I tre giovanetti altresì, che furono gettati nella fornace di
Babilonia, nel mezzo dell'incendio, invece della morte trovarono il refrigerio, il contento e la
vita. Davide, quando si vide circondato dai soldati di Saulle, era disperato, ma in un momento
si vide libero ed uscì dal pericolo. Non vi è male in questa vita a cui non possa sorridere alcuna
speranza già in questa
257

vita; ma con la speranza dell'altra chi non si ricreerà? Solo i mali eterni dobbiamo temere, i
quali non hanno né sollievo, né speranza, né possibilità di rimedio.

CAPITOLO TERZO.

Si deve considerare a quale stato ciascuno può venire.

L'incostanza delle dignità.


Acciocché non ci fondiamo nemmeno troppo sulle vicende favorevoli della fortuna abbiamo
da cavare un argomento molto importante da questa incostanza delle cose, cioè a dire non
tenersi sicuri della prosperità umana. Né il regno, né l'impero, né il pontificato assicurano dal
maggior abbattimento e da sciagura, ed ognuno deve considerare sempre quanto in basso può
cadere da ogni luogo, come faceva il santo Giobbe. Non vi è fortuna tanto alta alla quale non
possa succedere la sorte più bassa e disastrosa.
Consideri un potente che può ridursi alla necessità di mendicare. Consideri un re che può
diventare un ufficiale. Consideri un imperatore che nella stessa sua corte può essere dato
pubblicamente nelle mani del manigoldo, che gli possono gettare addosso il fango delle
strade, e che può essere giustiziato pubblicamente. Consideri il Papa ciò che può avvenire, e
che vi è qualcuno che baciò il piede ad altro Papa. Sembrano cose incredibili queste; eppure
tutti i mortali debbono pensare che possono succedere ad essi cose che non si potranno
credere, e che può avvenire ciò che nessuno penserebbe che possa succedere, e così non si
meraviglieranno di nessun avvenimento.

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Non solo il potente, il re, l'imperatore, il Papa, può essere condannato, ma anzi, anche uno che
facesse miracoli potrebbe cadere nell'inferno. Conserviamoci tutti nell'umiltà e non
confidiamo nella prosperità umana, e non presumiamo neppure delle virtù più eccellenti,
giacché ognuno può diventare ciò che nessuno può pensare.

La fine della dignità imperiale.


Chi penserebbe che ad un Imperatore Romano potessero accadere tali obbrobri ed affronti
quali accaddero all'imperatore Andronico, di cui voglio riferire qui la storia per rendere
credibile ciò che sembra incredibile? Scrive Nicola, (Chron. in annalibus, lib. II) e lo attestano
anche altri autori, che nel terzo anno del suo impero fu preso dai suoi stessi vassalli, i quali,
legatolo con forti catene, con un anello al collo e ceppi ai piedi, lo caricarono di vituperi.
Uomini molto ordinari gli diedero schiaffi sulla faccia, colpi nel corpo, tirandolo per la barba,
strappando i peli di essa, lo tirarono per i capelli, gli frantumarono i denti, lo flagellarono nelle
parti dove si usano battere i bambini per maggior loro vergogna, di poi lo posero in pubblico,
perché tutti lo oltraggiassero e perfino le donne giunsero a dargli schiaffi. Gli tagliarono poi la
mano destra e lo gettarono in un carcere pubblico, in una prigione dove stavano i più grandi
ladri, lasciandolo senza mangiare, impedendo perfino che gli si desse un bicchiere di acqua. Di
lì a pochi giorni gli cavarono uno degli occhi, di poi lo fecero salire sopra un cammello con il
corpo nudo e solo coperto di una tunica molto corta, rasata la testa e senza barba. Lo misero
sul cammello a rovescio, di maniera che portasse la coda nella mano al posto dello scettro, ed
invece della corona gli posero una corda alla testa.

259

In questo modo lo fecero svergognare, portandolo così fino alla piazza, nella quale il popolo lo
caricò di tante ignominie che non si possono pensare maggiori; alcuni gli scagliarono bastoni
nodosi alla testa, altri lo ferivano alle coste con spiedi, altri lo chiamavano con mille nomi.
Una donnetta prese in fretta dalla cucina una pentola di acqua che stava bollendo e gliela
gettò sopra la testa e la faccia. Non vi era né sarto, né calzolaio, né ufficiale che non si
scomodasse per oltraggiare il loro principe.
Finalmente lo appesero dai piedi fra le colonne, perché così morisse, ed anche ivi i suoi
cortigiani e vassalli non gliela perdonarono. Uno gli ficcò la sua spada fino nelle viscere, altri
due, per provare chi tenesse spada migliore, la sperimentarono nel suo corpo, traversandolo
da parte a parte. Allora il miserabile imperatore si sarebbe creduto fortunato se avesse potuto
bagnare la sua bocca secca col sangue che ancora scorreva dalla sua mano tagliata.
In questo modo finì quel monarca dell'Oriente, sebbene non finissero le sue ignominie, perché
dopo la morte lo lasciarono alcuni giorni sul patibolo, finché lo tolsero di lì, più per togliere
l'orrore ai vivi, che per compassione del morto. Lo sotterrarono come un cane rabbioso.
Si consideri in questo specchio, che cosa sono le cose di questa vita ed a che cosa può giungere
la fortuna. Si confronti Andronico con Andronico, Andronico Imperatore Augusto con
Andronico preso e giustiziato pubblicamente. Colui che vestiva ricca porpora, cui adoravano le
nazioni, che comandava in tutto l'Oriente, che cingeva la sua fronte di preziosi diademi,
impugnava scettri d'oro e portava nei suoi calzari perle preziose.
E tanto osano i calzolai, i macellai, i facchini ed i bricconi della piazza e della corte imperiale
da gettare sulla sua faccia lordure e schiaffeggiarlo come un delinquente. Chi crederebbe che
colui che era ammirato quando usciva per le vie di

260

Costantinopoli in carrozza imperiale, accompagnato da guardie splendenti, da capitani


eccellenti e dai principi dei suoi regni, fosse di poi preso in ludibrio ed ingiuriato
ignominiosamente da quelli medesimi, che gli avevano giurato fede e lealtà? Infine, colui che
mandò a giustiziare tanti, venisse giustiziato egli stesso con più affronto degli altri? Chi
avrebbe mai pensato che in un medesimo soggetto potessero succedere tanto repentinamente
tali estremi e che fortuna così grande andasse a finire così sfortunatamente? Basta questo per
disprezzare questi beni temporali ed ogni fortuna umana, la quale non solo passa col tempo,
ma si cangia col medesimo tempo in disgrazia tanto più profonda quanto prima fu maggiore la
fortuna. Come può meritare stima la fortuna più grande, la quale non è sicura ed è esposta a
tante miserie, che tanto più si sentono, quando si patiscono, quanto si pensavano più lontane
nella felicità precedente?
Si può aggiungere qui un'altra considerazione di non poca utilità. Se questo imperatore
traverso tanti affronti e tormenti enormi riusciva a salvarsi l'anima, che danno gli avrebbero
fatto? Che importa essere tanto sfortunato in questa vita, se nell'altra uno sarà felice? Egli
lasciò segni sufficienti di contrizione, perché in tanto trattamento acerbo e tragedia tanto
lamentevole, quale non si è mai udita, non diede segno di impazienza e non disse altre parole
fuori di queste: Signore, abbiate misericordia di me. E a quelli che lo ingiuriavano e lo
ferivano, diceva soltanto: Perché rompete questa canna già spezzata? Certamente, se seppe
approfittare, come sembra, di questa miseria, fu più fortunato per mezzo di questa, che per
mezzo dell'impero che possedette. È l'eterno che importa; la fortuna dell'impero e la miseria
delle sue ignominie già sono passate.
Grande imperatore fu Vitellio, poiché non solo l'Oriente, ma altresì l'Occidente lo riconobbe
come

261

suo signore e come monarca del mondo. Le sue ricchezze furono innumerevoli. L'oro gli
abbondava come ad altri le pietre della strada. In Roma era acclamato con titoli ossequiosi;
sembrava che fosse tutto ciò che poté essere, meno che Dio. In che cosa finì tanta maestà?
Nella maggior infamia del mondo. Annodatagli una fune al collo, legategli di dietro le mani,
stracciategli d'attorno le vesti, postogli un pugnale sotto la barba, lo trassero alla pubblica
vergogna per le strade di Roma, caricandolo d'innumerevoli ingiurie, tirandogli fango nella
barba, fino a che lo ammazzarono nella piazza e lo gettarono giù dalle scale Gemonie, strazio
solito a farsi coi cadaveri di scellerati, cui non era lecito dar sepoltura. Caso strano! Allevarsi
una vita a spese di diletti, di tesori, di onori, di applausi, con tanta industria, per venire infine
a dare di capo in una morte così sventurata! Chi sapesse la fine di Andronico e Vitellio e li
avesse visti nascere, crescere, studiare e pretendere e vestire sete ed oro, passeggiare, ridere,
essere acclamati per imperatori, direbbe nel suo cuore: tanta preparazione bisognava a una
tale fine?
Stoltezza è la grandezza umana, poiché ha da finire, e per giunta può finire con tale fine
disastrosa. Con ragione disse Archimede che era più sicuro fidarsi delle onde che delle cose
umane. Chi immaginerebbe che possa aversi una fine simile a quella che ebbe l'imperatore
Valeriano che fu chiuso in una gabbia dal re dei Persiani, il quale se ne servì di sgabello,
quando doveva montare a cavallo, ed a cui furono scorticate le spalle e poi salate come si fa del
lardo? Si confrontino qui gli stati tanto differenti in cui poterono trovarsi questi imperatori.
Chi avesse visto Valeriano sopra un cavallo brioso, ammantato di porpora e cinto il capo di
diadema imperiale, adorato dai popoli, e di poi questo medesimo trattato come una fiera,
colui che prima era come un dio, ora imprigionato in una gabbia e posto sotto i piedi di un re
barbaro!

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Sorti tanto contrarie possono trovarsi nella vita umana, sicché non ci fidiamo di nessuna
felicità della vita.

Neppure la tiara pontificia dà garanzia.


Ancor più incredibile sembra ciò che successe al Papa Giovanni XXIII, il quale essendo stato
Sommo Pontefice per quattro anni, avendo il suo piede ricevuto il bacio di molti principi
dell'Europa e di Cardinali, venne egli stesso a baciare il piede di altro Pontefice ed a ritenere
per grande mercede che lo si facesse Cardinale, dopo di aver dato egli stesso questa dignità a
molti altri. Sembra cosa incredibile, ma è storia vera. Casi tanto strani ha cagionato la
mutabilità e l'incostanza delle cose temporali, casi tanto strani che la stessa immaginazione
non oserebbe inventare. Chi immaginerebbe che questo Sommo Pontefice doveva essere
preso, come lo fu, nel Concilio di Costanza, che si riunì per terminare lo scisma della Chiesa?
Ivi egli fu privato della sua dignità, confermando egli stesso la sua deposizione. Patì nel
carcere grande necessità, angoscia e pena: ne fuggì ed andò ramingo, finché pigliò il buon
consiglio di andare a mettersi nelle mani del Sommo Pontefice Martino V, eletto dopo la sua
deposizione. Il Papa Martino V tenne con sé molti cardinali creati da Giovanni XXIII e fu
spettacolo raro che questi medesimi cardinali videro privato costui non solo del sommo
pontificato, ma altresì del cappello cardinalizio ed andare a domandare misericordia ad altro
Pontefice, riconoscerlo per tale e stimare per grande fortuna ricevere di nuovo il cappello
cardinalizio. A questo può arrivare l'instabilità dei beni temporali.

La fallacia delle ricchezze.


Chi potrebbe immaginare la fine a cui arrivò l'imperatore Zenone? Dopo anni in cui in ogni
maniera si era sprofondato nelle delizie e nella

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fortuna del mondo, cadde in tale necessità, che per fame mangiò i suoi calzari e le stesse sue
carni. Essendo svenuto, lo credettero morto e lo seppellirono in un sotterraneo; ma
ritornando egli in sé, gridò e chiamò la sua guardia ed altri suoi servi coi nomi loro. Sebbene
fosse stato udito, nessuno lo soccorse e restò ivi seppellito vivo, senza poter sostentare la sua
vita che mangiando le proprie sue carni, come scrive Cedreno. Chi crederebbe possibile questo
caso? Sono più le miserie in cui il più fortunato può cadere che quelle che si possono
immaginare.
La gloria e le ricchezze di Belisario furono più grandi di quelle di molti re. Il suo valore ed i
suoi sforzi sbigottirono il mondo, egli vinse più volte i Goti e ne imprigionò il re; trionfò dei
Vandali, dei quali pure prese il re Gilimer; conquistò l'Africa e la Sicilia. Nell'Oriente vinse
pure i Persiani, possedette tesori tanto grandi che in un'ora acquistò tanto quanto raccolsero i
Vandali in 80 anni. Chi crederebbe che questo capitano tanto ricco e dei più gloriosi del
mondo finisse per essere un povero cieco, che andava a domandare elemosina nella chiesa di
Santa Sofia e nelle pubbliche piazze? È un caso ben tragico, anche se lo avesse fatto per
necessità finta.
Un regno molto ricco possedeva nella Sicilia Dionisio II. Ma chi direbbe, che un re poteva
venire in tale necessità da dover far scuola e farsi maestro di bambini per sostentare la vita?
Come non meravigliarsi della falsità del mondo, vedendo prima questo re nel palazzo reale,
circondato da servitù e grandezze, con lo scettro nella sua destra, e vedendolo dopo nella sua
scuola attorniato dai bambini, con la bacchetta in mano?
Che dirò del re Adonibezec, (Lib. Iudic.. I.) vincitore di 70 re, ed egli stesso per ultimo fatto
vile schiavo, a cui

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per maggior ignominia tagliarono le estremità delle mani e dei piedi? E della regina Gosumda
della Spagna, amata e stimata dal suo marito, re Leovigildo, la quale venne giustiziata
pubblicamente nella piazza di Toledo, strozzata per mano di boia?
Non è di minor meraviglia ciò che successe all'imperatrice Maria, moglie dell'imperatore
Oddone III, (Chron., Coriolani ad annum 998) la quale venne condannata in giudizio e
bruciata, come riferisce Goffredo di Viterbo. Il caso è degno di memoria. Passando questi
principi insieme per Modena, l'imperatrice si innamorò di un conte, un gran gentiluomo, ben
disposto di corpo, ma più ancora composto di anima, il quale respinse i regali e le
sollecitazioni di quella principessa. Questa, vedendosi burlata, piena di collera e di vendetta
ripeté l'azione già compiuta dalla padrona nei rapporti con Giuseppe l'ebreo, per il che
l'imperatore condannò a morte il conte, la qual sentenza fu subito eseguita. Quando la moglie
del conte seppe il fatto, essendo convinta della bontà ed innocenza di suo marito, con animo
forte e confidente prese la testa ed andò a domandare giustizia all'imperatore. Quando questi
la ricevette in udienza, essa gettò nel mezzo della sala la testa del conte ed accusò l'imperatore
di essere stato un giudice ingiusto, domandandogli giustizia, dicendo che essa si offriva alla
prova, che anticamente si usava, di un ferro arroventato; a cui il Cesare accondiscese.
Arroventato il ferro, lo diedero alla contessa, la quale lo prese in mano senza bruciarsi,
maneggiandolo come se fosse un fiorellino. Vistala, l'imperatore si diede per vinto. Ma la
contessa non soddisfatta di questo, diceva che, se la conosceva per colpevole, era giusto che
morisse avendo dato morte ad un innocente, e non rimase contenta se non quando fu data
sentenza di morte contro l'imperatrice, la quale fu autrice di quella malvagità.

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Fu condannata ad essere bruciata e tale sentenza infame si eseguì in una principessa tanto
potente, moglie di un imperatore tanto grande e figlia del re di Aragona.
Né corona, né scettri sono sicuri dinanzi all'incostanza delle mutazioni umane. Disse bene San
Gregorio Nazianzeno che era più da fidarsi del vento e dei caratteri scritti nell'acqua che della
felicità umana.

Le vere cadute sono quelle spirituali.


Tutto ciò che abbiamo detto fin qui sono mutazioni, non cadute. Ciò che dobbiamo temere di
più è, che anche nella santità e virtù uno può mutarsi. Solo questa mutazione si chiamerà
caduta, cioè il mutarsi dallo stato di grazia a quello del peccato. Le altre mutazioni di fortuna
non si possono chiamare cadute, ma solo cambiamenti. Nessuno può cadere da uno stato
infimo e la felicità umana è una cosa bassa ed infima e chi la muta non cade da uno stato alto,
ma solamente la cambia, forse anche in uno stato migliore.
Le vere cadute sono quelle spirituali e dobbiamo meravigliarci al vedere che anche in questa
parte siamo esposti a mutazioni. Ci possiamo consolare che le mutazioni dei beni corporali
non sono in potere nostro, bensì invece quelle spirituali. I beni temporali, anche se non si
voglia, ci possono essere tolti, la grazia invece no; l'onore si perde anche contro la nostra
volontà, la virtù invece, se non si vuole, non si perde. Sono i beni temporali quelli che ci
vengono tolti, che ci si rubano, che svaniscono, che si perdono in mille modi; quelli spirituali
soltanto possono abbandonare e la loro perdita non è che l'abbandono, per mezzo del peccato,
di chi li possiede. Questo ci deve far tremare, che si perdono perché li vogliamo perdere, e
senza che siano mutabili, sì mutano perché siamo mutabili noi.

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Scrive San Pietro Damiani (Lib. 1, cap. 10) di aver conosciuto un monaco nella città di
Benevento, che si chiamava Madelmo, il quale giunse a santità così grande che, oltre a molte
altre meraviglie, avendo in un sabato santo fornito dodici lampade di olio e non
rimanendogliene più per l'ultima, con viva fede la riempì di acqua; appiccato il fuoco al
lucignolo, questa arse per tutta la notte come le altre. Altre meraviglie somiglianti aveva
operato questo monaco, per cui era molto stimato dal principe di quella città e da tutti i suoi
concittadini. Ma questo uomo taumaturgo, venerato da tutti, come andò a finire?
Rara mutazione! Ritirando Dio la sua mano, egli cadde in tanta disonestà, che fu imprigionato
e flagellato pubblicamente e per maggior vergogna gli rasero la testa. È una lacrimevole
tragedia quella della vita umana, nella quale si riscontrano estremi tanto contrari.
Non c'è che dire: Chi pensava che una cosa simile potesse succedere? Eppure vediamo
accadere cose che nessuno potrebbe pensare. Il medesimo San Pietro Damiani (Ibidem) scrive
che nella stessa città di Benevento viveva un sacerdote, gran servo di Dio. Quando celebrava
ogni giorno, il principe di Benevento vide che veniva un Angelo dal cielo e prendeva dalle sue
mani i divini misteri per offrirli al Signore, nel modo con cui è scritto nel Canone. Infine
questo uomo, tanto favorito dal Cielo, cadde pure in un simile vizio. Tutti dunque temano e
nessuno si creda sicuro in qualsiasi stato.
San Giovanni Climaco (Grad.. 15) scrive pure di quel giovane, del quale si legge nella vita dei
Padri, che arrivò a un grado tanto alto di virtù, che comandava alle fiere e le faceva servire nel
monastero ai monaci. Questi fu da S. Antonio paragonato ad una

267

nave carica di ricche mercanzie e posta in alto mare, della quale però non si sapeva dove
potesse andare a finire. Ora questo giovane così fervente venne a cadere miserabilmente, e
mentre stava piangendo i suoi peccati, disse a certi monaci che passavano di là dove egli
abitava: "Dite al vecchio, intendendo S. Antonio, che domandi a Dio con le sue preghiere dieci
anni di penitenza". Udito questo, il gran Santo pianse e strappatisi i capelli dalla testa, disse:
“E' caduta oggi una grande colonna della Chiesa" e dopo cinque giorni quel monaco morì. Di
modo che colui che prima comandava alle bestie e alle fiere fu atterrato e burlato dal demonio
e colui che prima si manteneva col pane del cielo fu di poi privato di questo gran beneficio e si
saziava col fango. Il prudentissimo S. Antonio non volle dichiarare quale fosse stata la sua
caduta, perché sapeva che era stata fornicazione. (Grad. 15, cap. 9).
E' pure doloroso il caso che racconta Eraclide, (HERACL., in Paradiso: FULGOSIUS, Lib. VI)
di Erone Alessandrino, il quale avendo fiorito in grande virtù e grande santità per molti anni,
venne a cambiamento così mostruoso, che andava per le case pubbliche ed infami. Non
altrimenti Tolomeo Egiziano, dopo aver passato 15 anni nell'eremo, vivendo solo di rugiada e
di pane ed in orazione continua, lasciò tutto e si abbandonò ad una vita scandalosa.
Se scorriamo le sacre Carte, troveremo mutazioni e cadute più dolorose. Chi avrebbe pensato
che Saulle, scelto da Dio per ottimo fra molti buoni, di umile e paziente che egli era, dovesse
venire a dare in una superbia da Lucifero ed in un rancore mortale contro l'uomo migliore che
vivesse in tutto Israele? Chi avrebbe pensato che un uomo così savio e religioso come

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Salomone venisse ad erigere tempi ai falsi dèi, ingannato da alcune donnicciole? Finalmente
chi avrebbe pensato che un apostolo di Gesù Cristo avesse a terminare la sua vita impiccando
se medesimo? Qual uomo può trovarsi che ardisca di presumere di se medesimo e non
rimanga attonito nel vedere ciò che egli può diventare?

CAPITOLO QUARTO.

Quanto siano degne di disprezzo tutte le cose temporali.

Tutte le cose temporali sono vanità.


Questa mutabilità incostante delle cose deve servire per conoscere la loro incostanza o, per dir
meglio, la loro grande vanità.
Adduco per testimoni di questo coloro che più sperimentarono la grandezza della felicità
umana. Gelimero, re dei Vandali, ebbe grande potenza, grande valore, grande ricchezza; ma
vinto e fatto prigioniero e spogliato del regno da Belisario, fu condotto a Costantinopoli al
cospetto dell'imperatore Giustiniano, di cui Belisario era capitano.
Arrivando dinanzi all'imperatore, il quale era seduto sul trono, d'incomparabile maestà,
vestito degli abiti imperiali ed attorniato dai grandi principi del suo impero, Gelimero,
vedendo Giustiniano in tanta maestà e se stesso nella schiavitù ed abbandono, non pianse, né
si lagnò, né diede segno alcuno di risentimento, ma disse soltanto quella sentenza piena di
verità del Savio: Vanità delle vanità e tutte le cose sono vanità (Eccl. 2).

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Chi conobbe questa verità, non è meraviglia che in tanta disgrazia tenesse asciutti gli occhi e
rimanesse senza pena. Sapendo che ogni grandezza umana era vanità e nulla, a che dovrebbe
pensarsi per ciò che essa non è? Non è degno di dolore ciò che non merita amore; non è degno
di compassione ciò che non è degno di stima. Cose tanto variabili come quelle temporali non
meritano che si ponga in loro affetto alcuno, quando si posseggono, né meritano di cagionarci
pena e dolore quando le perdiamo. In tal modo la loro conoscenza cagionò in questo principe
perfetta equanimità, quale la mostrò in questa ed in altre occasioni. Era tanto lontano dal
mostrare dolore della perdita della sua fortuna e del suo regno, che anzi se ne rideva. Come
quando, dopo aver ricevuta grande sconfitta, fuggì nella Numidia; essendosi fortificato sopra
un monte, ivi fu ancora assediato dai suoi nemici con la fame così strettamente che, volendo
arrendersi, mandò a chiedere al capitano nemico un pane, una cetra ed una spugna; il pane
per sostentare la vita, perché moriva di fame, la spugna perché aveva fatto conoscenza della
vanità delle cose e, pentito di aver pianto la loro perdita, voleva cambiare stile ed asciugare il
pianto e da allora in poi ridere, anziché affliggersi di ciò che aveva posseduto senza sicurezza e
perduto senza danno; la cetra la domandò perché, non contenta di asciugare con la spugna le
lacrime, voleva cambiare il pianto in un canto e la pena nel conforto, il quale non consiste
tanto nell'abbondanza della fortuna più grande, quanto piuttosto nella sufficienza di quella
moderata.
E con molta ragione prese la cetra perché, ben considerando, poteva far festa della sua stessa
disgrazia, giacché tutto il suo vastissimo regno non gli poté dare tanto contento, quanto gliene
diede la perdita, che gli procurò un disinganno tanto grande, e gli risparmiò tante
preoccupazioni, pene e colpe, le quali hanno campo più vasto nelle prosperità di questa vita
che nella fortuna avversa.

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Con questo disinganno lo trassero prigioniero e lo presentarono al vincitore Belisario. Veniva


il re prigioniero tanto allegro e festivo, che non faceva altro che ridere. Belisario pensò che
avesse perduto il giudizio, vedendo ridere chi egli giudicava non potesse far a meno di
piangere. Ma non ebbe mai tanto giudizio quanto allora, che si rise della grandezza umana e
sentì per cosa ridicola tutta la sua passata felicità e qualificava per vanità delle vanità ciò che
stima il mondo.
Credo che il medesimo giudizio dato da questo re, avrebbe dato intorno alla vanità delle cose
temporali l'imperatore Andronico, se glie l'avessimo domandato quando nudo e rasato fu
tratto alla vergogna per le pubbliche strade. Che si fece del diadema imperiale? Che avvenne
del trono e della sua maestà? Dove andarono a finire gli ornati di oro e di argento? Tutto fu
vanità e vanità delle vanità. Non contraddirebbe a questo l'imperatore Vitellio, quando per le
vie di Roma gli tiravano addosso il fango e quando fu tratto per esser giustiziato nella piazza.
Che avvenne delle delizie romane? Dove sono gli spettacoli dell'anfiteatro? Ed i giuochi del
circo? Ed il dominio del mondo? Vanità delle vanità e tutto è vanità. Lo stesso direbbe il re
Creso dal fondo della sua prigione ed il tiranno Bayaceto tra le sbarre della sua Rabbia ed il re
Boleslao dalla sua cucina e Dionisio dalla sua scuola. Se dissero questo, quando erano vivi, alla
vista soltanto della instabilità di questa vita, che diranno ora con la esperienza dell'eternità,
nella quale sono entrati?
Raccogliamo il giudizio dei principi che furono condannati. Che cosa sentono ora della maestà
di cui godettero in questa vita? Diranno che fu vanità, fumo, ombra, sogno. Senza dubbio
diranno la stessa cosa i re che stanno nel cielo alla vista di quei gaudi eterni: che cosa è questa
felicità diminuita e breve,

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se non vanità, più che vanità, e peggiore quanto più è occasione di peccato?
Non è però necessario chiamare i testimoni dell'altra vita, perché è tanto chiara la vanità di
tutte le cose di questa vita, che qualsiasi maggior grandezza del mondo che si volesse
considerare, darebbe da vedere che è tanto più vana quanto più è grande. Che vi ha di più
grande dell'Impero Romano?

La corsa alla morte.


Consideriamo ciò che in esso accadeva. Appena si sapeva l'elezione di un imperatore, già lo
avevano ucciso quelli che lo avevano eletto, o altri più potenti ed astuti; e sebbene essi di
nessuna altra cosa si mostrassero maggiormente ansiosi che di sostenersi nell'impero, proprio
questo era ciò che meno raggiungevano. Fra 19 o 20 imperatori che regnarono dall'imperatore
Antonino, il Filosofo, fino a Claudio II, tutti morirono violentemente, oltre a molti altri tiranni
che si chiamarono imperatori, i quali furono tanti che nel solo tempo dell'imperatore Gallieno
ve ne furono trenta che usurparono il nome di imperatore, tiranni che si uccidevano gli uni gli
altri, di maniera che chi si chiamava imperatore contraeva l'obbligo di finire disastrosamente
con una morte violenta. Tale era la maggior felicità del mondo, quella cioè che era obbligata
alla maggior disgrazia.
E' spaventoso come potesse trovarsi qualcuno che volesse accettare la corona. Eppure tale è la
pazzia degli uomini che cercarono tutti i mezzi, anche i più infami per conquistarla, pur
avendo esempi di morti tanto disgraziate e di felicità disfatte dalla notte alla mattina. Alcuni
avevano appena trionfato, quando erano fatti a pezzi. Aureliano fu uno di quelli che ebbe i
trionfi maggiori che si videro in Roma, perché portò una infinità di prigionieri da tutte le parti
del mondo, grande

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varietà di animali, tigri, leoni, elefanti, dromedari ed altri molto rari; portò armi infinite dei
vinti e tre carri ricchissimi, uno del re dei Palmireni, l'altro di quello dei Persiani, l'altro di
quello dei Goti; andava trionfando di due che si chiamavano imperatori e della grande resina
Zenobia, adorna di pietre preziosissime e ricche perle, legate con catene d'oro. Egli entrò in un
bellissimo carro trionfale, che era del re dei Goti tirato da cervi.
Lo seguiva l'esercito vincitore armato riccamente, con corone di alloro e palme nelle mani, e
raggiunse tanta gloria quale nessun altro imperatore aveva ricevuto.
Ma quanto durò? In pochissimo tempo fu ucciso a pugnalate senza poter neppure ricordarsi,
non dico godere, della sua gloria. L'imperatore Elvio Pertinace salì all'impero nella sua
vecchiaia, ma lo perdette ancora prima che si sapesse che era imperatore. Fu figlio di uno
schiavo, fu prima mercante, e così imparò bene a fare i conti; di poi studiò grammatica e ne fu
precettore; di poi studiò legge ed ottenne licenza di difendere le cause, e per alcun tempo fu
avvocato; di poi si fece soldato e divenne capitano; privato di questo ufficio
ignominiosamente, ritornò a casa, fu fatto senatore, di poi console, di poi governatore della
Siria; alla fine, quando non aspettava più altro che la morte, gli entrò l'impero in casa, perché,
mentre stava aspettando che l'imperatore Commodo comandasse di ucciderlo, vennero a farlo
imperatore quelli che segretamente avevano ucciso Commodo. Quando questi arrivarono di
notte nella sua casa, egli disse loro che era quello che essi cercavano per dargli la morte. Ma
essi gli offrirono lo scettro e l'impero, che egli accettò all'età di 70 anni. Ma era appena caldo il
trono imperiale, quando, prima della fine di tre mesi, fu fatto a pezzi, mentre meno lo
pensava, essendo molto amato, stimato e lodato dai romani, i quali protestavano che
avrebbero dato

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per lui mille vite. Pochi soldati entrarono pubblicamente in Roma e alla vista di tutti
pugnalarono nel suo proprio palazzo l'imperatore che tanto stimavano e se ne riuscirono
liberi, senza che alcuno li fermasse, mentre avrebbero potuto essere uccisi a sassate per la
strada, tanto erano pochi gli uccisori.
Chi non vede qui la mutabilità delle cose umane, la loro incostanza e vanità, tanto nella vita di
questo principe, come nella sua morte? Per quanto sia con raggiri giunto alla cima
dell'impero, senza vie tortuose ne fu precipitato. Quanto tardò in salire, tanto più
precipitosamente cessò la sua fortuna. Settant'anni di vita venturosa andarono a finire in una
felicità finta di tre mesi ed in una morte disgraziata di un'ora. Vanità di vanità e tutta vanità,
poiché tanto costò ciò che durò tanto poco e la fortuna dei settant'anni di vita cozzò con la
morte in meno di un'ora.

La felicità terrena cessa con la vita.


Basterebbe per nostro disinganno il solo fatto che la felicità di questa vita cessa con questa
medesima. Ma già prima che arrivi alla sua fine essa merita ogni nostro disprezzo, perché la
felicità non solo finisce, ma si cambia in disgrazia e coi nostri occhi vediamo la fine delle
fortune più grandi. Non fidiamoci della vita, la quale ci può mancare, sebbene abbondino
ancora i suoi beni; nemmeno fidiamoci di questi, perché ci possono mancare, anche se ci resta
ancora la vita. Questa instabilità delle cose ci disinganni, e possiamo conoscere la loro vanità
dal modo con cui la loro grandezza e ricchezza abbandonano un disgraziato.
Ciò fu considerato bene da San Giovanni Crisostomo (Hom. in Eutropium) in un tal Eutropio,
patrizio di Costantinopoli, console, eunuco e cameriere maggiore dell'imperatore

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Arcadio, dal quale fu fatto catturare, perché era caduto in disgrazia. Il Santo Dottore considera
questo fatto in questo modo: Se mai in alcun tempo, ora più che mai può chiamarsi questa vita
vanità delle vanità e tutta vanità. Dove sta ora lo splendore tanto illustre del consolalo; dove, il
lustro di questa carica; dove gli applausi, i balli, i convivi, le musiche: dove sono le corone e le
tappezzerie; dove il rumore e le grida della città: dove le grandi acclamazioni negli spettacoli?
Tutte queste cose perirono: una forte tempesta parlò via le foglie lasciando l'albero spoglio,
quasi divelto ed ondeggiante. Tanta fu la violenza del vento che. Avendolo investito, minaccia
di sradicarlo completamente.
Dove stanno ora quegli amici mascherati? Dove le bottiglie e le cene, dove la moltitudine di
persone impudenti ed il vino con cui si brindò per tutto il giorno? Dove gli artifici dei cuochi e
quei servi abituati nel potere e nel comando secondo tutti i suoi gusti? Tutte queste cose non
furono, se non un sogno notturno che scomparve con il giorno. Furono fiori che col passare
della primavera marcirono; furono ombra e così passarono: furono fumo e così si dileguarono;
furono bolle di sapone e si disfecero; furono ragnatele e caddero: per cui ripetiamo
continuamente questo detto: “Vanità delle vanità e tutto è vanità”.
Questo detto dovrebbe stare scritto nelle pareti, nei vestiboli, nelle piazze, negli edifici, nelle
strade, sulle finestre, sulle porte, e soprattutto nella coscienza di ognuno ed in tutto il tempo
dovremmo pensare a questo, perché le occupazioni ingannevoli di questa vita, che sono
nemiche della verità, per molti hanno guadagnato autorità e credito. Questo detto dovrebbe
essere ripetuto e detto da un uomo all'altro ed essere udito dagli altri nel pranzo, nella cena,
nella conversazione: vanità delle vanità e tutto è vanità. Non ti dicono forse le ricchezze
quanto esse sono fuggitive, e tu le porti con te premurosamente?

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Non ti dice forse questo detto che esse sono come uno schiavo fuggitivo, e tu non lo vuoi
credere? Vedi come l'esperienza ti ha mostrato, che esse non sono solo fuggitive ed ingrate,
ma perfino omicide, perché ti hanno posto in un simile timore? Non volendosi però questo
eunuco emendare ed approfittare dei consigli che gli davano, almeno voi, che tanto vi vantate
degli onori e delle ricchezze, imparate a spese degli altri e convenite a vostro giovamento la
disgrazia e la calamità di questo uomo. Non vi è cosa più fiacca delle cose umane. Con
qualsiasi nome si voglia significare la loro meschinità, è sempre meno di quello che esse sono
in verità; sebbene le chiamino fumo, fieno, sogno, fiori che marciscono, tanto sono fragili che
sono meno che niente. Da qui si può vedere che esse non solo non sono nulla, ma sono anzi un
precipizio. Chi fu più sublime e potente di quest'uomo? Non era forse conosciuto in tutto il
mondo per le sue ricchezze? Non sali forse alla vetta degli onori mondani? Non lo riverirono
forse e lo temettero tutti? Vedilo ora che è più disgraziato degli stessi incarcerati, più
miserabile degli schiavi e più bisognoso che i mendicanti che muoiono di fame. Non v'è giorno
in cui non tengano la spada acuta e sguainata contro di lui i pericoli, i carnefici e la strada per
cui passa per condurlo al patibolo ed al supplizio. Non gode neppure il ricordo dei gusti
passati, né può godere di questa luce che è comune a tutti. Nel mezzogiorno sta come in una
notte oscurissima, posto nello spazio stretto tra quattro pareti privo della luce dei suoi occhi.
Però a qual pro devo ricordare questa cosa? Anche con spendere più parole non potrò
significare lo stato d'animo suo, mentre penso che fra momenti verranno a togliergli la vita e
trarlo al supplizio. Perché sono necessario le mie parole, mentre egli ha presente dinanzi ai
suoi occhi la sua calamità?

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Poco fa, essendo venuti i soldati, mandati dall'imperatore per levarlo dalla chiesa, divenne
pallido come un cencio ed ora non ha miglior colore di quello di un defunto. Si aggiunga che
strideva coi denti, tremava con tutto il corpo, la voce era infranta da singhiozzi, la lingua era
balbuziente; insomma era tale che l'anima era gelata per paura e spavento. Non è necessario
aspettare la fine della vita per vedere quanto è ingannevole; basta vedere le sue mutazioni.

CAPITOLO QUINTO.

La viltà e il disordine delle cose temporali.

Le cose temporali sono vili in se stesse.


Passiamo ora a considerare la viltà di tutto ciò che passa col tempo, la quale sembrava tanta a
Marco Aurelio (Lib. II) che disse: Tutte le cose sensibili, specialmente quelle che allettano con
il loro piacere, o atterrano con il loro dolore, o splendono per la loro bellezza, quanto sono vili,
quanto degne di disprezzo, quanto sudicie, quanto esposte ad essere perdute ed esposte alla
morte! Questo disse quel grande imperatore, il monarca del mondo, quando l'impero romano
stava nel suo massimo splendore e quando egli aveva la più grande esperienza dei beni della
terra, poiché in essi fu più potente che Salomone. Egli non solo dice che sono vane, ma vili,
sudicie, degne di disprezzo e morte.
Per intendere meglio questo vediamo che cosa sia in se stessa la sostanza ed il valore che
hanno le cose temporali, senza considerare la brevità

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della loro durata, né la varietà delle loro mutazioni, per le quali sono già molto disprezzabili,
anche se fossero in se stesse preziosissime. In se stesse però sono tanto piccole, tanto vili,
tanto dannose per la maggior parte, e tanto disordinate che, se anche fossero eterne,
dovrebbero essere disprezzate. Non soltanto si ha da guardare alla meschinità della loro
natura, ma anche al male che esse sono per l'abuso che ne facciamo.
Il mondo, che per sé sarebbe tollerabile, l'abbiamo reso tale, che, gli stessi che più lo amano,
non lo possono sopportare e sopra i beni naturali il nostro appetito insaziabile ha inventato
altri artificiali ed ha composto degli uni e degli altri un mostro tanto orrendo e fiero, come
quello che ci propone San Giovanni nell'Apocalisse. (Apoc., 13) Chi desiderasse vedere quale
sia la felicità mondana, diriga gli occhi a quella bestia orribile che egli dice che saliva dal mare
per la sua inquietudine ed incostanza. Questa bestia aveva il volto e il capo di leone, il corpo di
leopardo, che è un animale molto macchiettato, ed i piedi di orso ed aveva sette teste e dieci
corna.
Questa è un’immagine viva di quello che si trova nel mondo, poiché, come questo mostro si
componeva di tre fiere, dell'orso che è carnale e lussurioso, del leopardo la cui pelle è piena di
occhi, e del leone che è un animale superbissimo, così nel mondo non vi ha altre cose, come
dice San Giovanni, (Io., II) se non concupiscenza degli occhi, superbia della vita, e cupidigia
degli onori, cioè lascivia ed amore ai piaceri, avarizia e stima delle ricchezze, ambizione e
brama di onori. Di questi tre mostri orribili si compone il mostro dei mostri che chiamiamo
mondo, il quale ha pure le sue sette teste e dieci corna, che sono i sette vizi capitali con i

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quali si trasgrediscono e si combattono i dieci comandamenti e quindi l'osservanza della legge


di Dio.
La malizia umana ha sconvolto il mondo.
Consideriamo pure il modo misterioso con cui sono distribuite le parti di questa bestia, i cui
piedi si dice che erano di un orso, il corpo di leopardo e la testa di leone. Tutte le invenzioni ed
artifici di questo secolo si fondano sul diletto dell'appetito che è naturale, e sopra questo
fondamento la nostra malizia ha messo le ricchezze e gli onori che non sono cose naturali, ma
invenzioni umane. Le ricchezze sono il corpo del mondo, perché sopra di esse si innalza la
superbia come degna testa. Inoltre esse stanno nel mezzo, come luogo ben adatto a loro,
poiché tanto i diletti quanto gli onori hanno bisogno del denaro, il quale per soccorrere gli uni
e gli altri forma perciò il corpo di questa bestia dell'avarizia.
Ci si propone la immagine di questo mondo sotto questo mostro composto, cioè di questa
figura di chimera, per spiegarci la sua confusione e anche per significarci che essa non ha un
essere, né sostanza, ma solo è immaginazione e vana apparenza.
I filosofi chiamano chimera un mostro composto di vari animali, il quale non esiste, ma è solo
un'immagine. Per questo, anche volgarmente si dà nome di chimera a ciò che non ha alcun
essere, né fondamento, né ragione di essere, ed è solo fantasia e vanità. In verità le cose di
questo secolo sono tanto confuse e turbate che non hanno alcun valore né essere, ma solo
apparenza ed inganno. Alcune ci sembrano grandi, mentre sono piccole, altre ci ingannano di
più perché ci sembrano essere dei beni e non sono altro che mali.
Per intendere tutto questo e conoscere la vanità del mondo si ha da supporre che la malizia
umana

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le ha corrotte ed appestate, inventando nuovi piaceri, aggiungendo a loro con la


immaginazione ciò che loro manca di realtà e togliendo le cose dal loro fine. Donde succede
che tutte le cose sono vane e che il mondo è un mostro di molte teste, per il che Filone chiamò
testa delle cose il loro fine.
Avendo le cose del mondo abbandonato il loro fine ultimo, che è uno solo, si sono disordinate
con la moltitudine di fini e di vizi particolari. Per questo quella bestia aveva non una sola
testa, ma molte, per cui era tanto mostruosa.
Non cercavano gli uomini nell'uso delle cose il fine di piacere e di servire Dio, ma di piacere e
di servire alla passione, all'appetito proprio. Siccome gli appetiti sono diversi ed hanno
patimenti fini diversi, ne deriva la mostruosità di tante teste. Questa deformità deriva dalla
moltitudine dei fini cui fa compagnia la vanità che vi si racchiude. Nello stesso tempo in cui il
mondo va dietro a questa varietà di fini adulterini, i quali sono falsi in quanto sono contro la
ragione e la natura, esso abbandona il suo fine vero e legittimo. Tutto ciò che si allontana dal
suo fine si fa inutile e vano, come un uomo destrissimo nel tiro, perderebbe la sua arte e
destrezza se gli cavassero gli occhi, e per conseguenza l'arma diverrebbe inutile, non potendo
più senza quell'arte conseguire il suo fine; così tutte quante le cose furono create, perché
l'uomo se ne servisse ed egli servisse a Dio, ma mancando loro questo fine esse diventano
inutili e vane.
Da questo esempio si può vedere con chiarezza quanto vano è il mondo, giacché non ha
indirizzato le sue cose per servire al Creatore di tutto, ma le ha divelte totalmente dal suo fine
ultimo e con questo le ha rese tutte vane. La moltitudine di oro, argento, perle, diamanti ed
altre gioie preziose che si ostentano in prezioso vasellame ed ornati, è questo forse per servire
a Dio? Ce lo dica

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Sant'Alessio se egli le abbia scelte come mezzo al suo fine. Se non sono per servire al Signore
di tutto, esse tutte sono vane. L'abbondanza dei piaceri, diletti, giuochi, divertimenti e gusti, è
forse per piacere a Dio? Ce lo dica San Brunone, se li abbia scelti per questo. Se non sono a
proposito per questo fine, tutti questi contenti sono vani. La maestà e l'ostentazione dei titoli e
degli onori, è forse per servire a Dio? Ce lo dica San Giosafat, il quale fuggì dal regno
temporale per servire al re del Cielo.
Vana è ogni grandezza della terra se per mezzo di essa non si consegue quella del Cielo. La
cosa più preziosa, mancando il fine, diventa vile e non merita più alcuna stima. Sono degne di
disprezzo tutte le cose del mondo, se vanno fuori del loro fine.

Le cose temporali deviate dal fine ultimo.


Questo solo deviamento delle cose mondane dal loro legittimo fine è già sufficiente per
conoscerne la vanità ed il disordine. Ma vi ha in esse un altro errore, il quale mostra quanto
esse sono ancora più vane. Non soltanto vanno deviando dal loro ultimo fine, ma altresì dal
fine che i vizi umani hanno loro proposto; esse non conservano proporzione neppure con
questi secondi fini. Ciò che l'appetito umano ha voluto e preteso di trovare nelle ricchezze, nel
fasto e negli onori, è la felicità umana di questa vita. Per questo stesso esse sono tanto poco a
proposito che sono disposte le cose piuttosto in maggior miseria e tormento degli uomini,
onde è che esse sono vane invenzioni.
Quante leggi conturbatrici egli non ha inventato per sostenere l'onore, con grande pericolo
della vita e della felicità degli uomini? Ha reso l'onore così fragile che molte volte una parola
basta a rovinarlo, ciò che diventa causa del perturbamento in cui molti vivono.

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Se volessero riacquistare l'onore perduto, questo ha da costare a loro o la vita, o i beni


temporali, o la tranquillità. Qual pazzia maggiore è questa che del bene più stimabile del
mondo si sia fatto un'occasione dei mali con tale malaugurata proprietà che facilmente si
possa perderlo e difficilmente acquistarlo? Che non si possa acquistare da chiunque, né possa
quegli stesso che lo possiede conservarlo; che il distruggerlo dipenda da mano aliena ed il
ripararlo non sia nella mano propria? Quale legge tanto ingiusta del mondo come quella,
secondo la quale, se un infame dice che menti, tu stesso abbia a rimanere disonorato, sebbene
sia l'altro che mente nel suo dire e questo onore, perduto per una parola detta dall'altro, tu
non lo possa riavere con altre parole che tu gli possa dire?
Quale sproposito maggiore, che pretendere di rimettersi nell'onore col far apparire la verità
per vie di forza; prima perché l'essere più robusto e valoroso non ha nulla che lare con l'essere
più onorato, in secondo luogo perché è troppo ingiusto pregiudizio dei virtuosi nei quali il più
delle volte, dove l'animo è guernito di bontà, nel corpo suole essere minore la robustezza?
Finalmente in questa parte dell'onore gli uomini hanno posto tali cose con tanti obblighi e
precetti che, se tutti fossero realmente e veramente matti, non l'avrebbero potuto rendere
peggiore. Quale pazzia più grande che il dire e fare una cosa senza proporzione, senza ordine,
senza ragione? Ora come non vi è cosa più senza proporzione, senza ordine, senza ragione
quanto il mondo, non esiste neppure una cosa più pazza.
Venendo ora alle ricchezze, che si inventarono per la comodità della vita, tali le ha rese la
malizia umana, che servono ormai più per afflizione che per comodità della vita. Infatti colui
che è ricco non si contenta se non lo è pure la casa sua con tutte le sue cose. Non gli basta di
essere ben vestito,

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ma meglio ancor di lui hanno da apparire vestite le pareti e le sue stanze con ricche
tappezzerie, scrigni preziosi che non servano alla comodità, ma solamente all'apparenza. Onde
nasce che colui che possiede di più ha più bisogno per se e per la necessità che hanno le cose
che egli possiede. Una casa grande ha bisogno di grandi ornati e di molti abitanti. Così i ricchi
si caricano di servitù, di tappeti, di vasellami ed altre cose superflue alla necessità e comodità
umana, per il che non vi è persona più bisognevole del ricco, avendo egli maggiori bisogni. Per
lo meno non manca questa incomodità alle ricchezze, sebbene siano state inventate dalla
comodità umana. Chi le possiede più grandi, ha maggiori preoccupazioni, invidie e pericoli e
spesse volte dei danni.
Questo medesimo torcimento ed abuso si trova nelle cose particolari che inventò la necessità
umana per suo rimedio e sollievo, facendosene maggior carico. Il vestito, che era una
necessità, ormai non è più che un ornato, e prendendo ciò che non è necessario, quello diventa
un peso ed un carico. I calzari e le cinture non si stimano, se non si stringano fino a diventare
una tortura, si da impedire molte azioni. Le gale e le collane di oro ed altre soverchie pompe
sono molestia più che ornamento. Per cui disse S. Ambrogio: “Le collane poste al collo ed i
tacchi troppo alti sono occasione di cadute e pericoli, servono piuttosto di pena alle donne,
come se fossero delinquenti. Infatti, quanto al fastidio di un carico pesante, non v'è differenza
alcuna nell'essere di oro o di ferro, se con l'uno o con l'altro In cervice è ugualmente oppressa
e se è il medesimo impedimento nel camminare. Nulla rivela di più il valore e il prezzo
maggiore che il peso dell'oro, il quale però serve di maggiore angoscia per il timore con cui
vivono le donne di poterlo perdere o che venga loro rubato. Secondo questo poco importa che
la pena sia

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data per propria sentenza, come in questo caso in cui le donne se la danno contro se stesse, o
per sentenza di altri contro i rei, in cui essa è di condizione peggiore e più miserabile. Questi
infatti desiderano essere alleggeriti dalla pena dei loro ceppi, quelle per il contrario
desiderano sempre di essere soggette ad essa ed averla legata a sé” (Lib. I, De Virginibus).
Anche il mangiare che è ordinato a conservare la vita, è stato rivolto dalla malizia umana, con
la varietà degli intingoli, alla distruzione della medesima vita e contro il medesimo gusto,
mentre da questa derivano nuove infermità ed acuti dolori come affermano i medici. Marcello
Donato attribuisce molte malattie nuove a questa causa. Ettore Boezio, nel libro secondo della
Storia degli Scozzesi, dice che i nostri antenati non conoscevano tanti generi di malattie come
si vedono all'età nostra. Anticamente appena qualcuno si ammalava dei mal di pietra o d'altra
malattia causata dal freddo o dall'umidità; vivevano bene e la parsimonia conservava i corpi
senza malattie ed allungava la vita per molti anni. Ma tosto che si abbandonò il cibo della
patria e la gente si diede ad ogni genere di squisite vivande, entrarono ira noi moltissime
infermità peregrine. E nel libro nono dice che nella Scozia non si conoscevano né la peste, né
le febbri fino a tanto che non si usarono cibi squisiti.
Questo deviamento delle cose dal loro fine, specialmente dall'ultimo di tutti che è Dio, causa
tale dissonanza alla ragione che l'uomo finisce per divenire un mostro. A ragione quindi San
Giovanni ci dipinse il mondo nella figura di un mostro, composto di tre bestie e senza testa
umana, ma con sette grugni da bruto. E su un uomo senza testa umana, ma con sette teste di
animati è un gran mostro che solo a vederlo ci spaventerebbe per la sua deformità, non lo è
meno quella del mondo al

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quale manca il suo fine naturale che è Dio, il quale dovrebbe essere il fine unico, conforme alla
ragione, mentre avrebbe tanti fini adulterini e falsi contro la stessa ragione. Manca al mondo
la testa dell'uomo, perché non si conforma al fine della ragione e gli abbondano invece le teste
di bestie, perché si guida secondo la passione e l'appetito conforme ai fini delle bestie.
Se guardiamo alla grande vanità delle cose, che gli uomini con la moltitudine dei vizi rivoltano
e peggiorano ogni giorno, a chi potrebbe essere tollerabile questa bestia così irritala con tanti
pungoli quanti sono i nostri vizi? Quante ingiustizie non si commettono, quante adulazioni,
quanti inganni, quante vendette! Quanti pericoli non sovrastano! L'avarizia inquieta tutto, la
lussuria corrompe tutto e l'ambizione confonde tutto. Dal detto segue esser molto dannose e
pregiudizievoli tutte le cose del mondo, il che è pure significato da San Giovanni nei tre
animali, i più fieri di tutti, dei quali ci si rappresenta composto il mondo, e cioè: leopardo,
leone e orso. Come esse sono disordinate e noi ne usiamo disordinatamente, esse sono
dannose al corpo e all'anima. Oh se vedessimo ciò che serba il mondo sotto le sue false
apparenze! Noi resteremmo spaventati e vedremmo e leoni e tigri che vogliono farci a pezzi, e
serpenti che vogliono avvelenarci, e accadrebbe a noi quanto accadde al servo di Dio Volcone.
Era questi un santo sacerdote mollo zelante, il quale desiderò guadagnare a Dio un uomo
molto ricco e cercò a tale fine un'occasione per mangiare con lui. Entrato in casa gli disse:
"Signore, che cosa mangeremo?". "Non c'è da preoccuparsi, rispose l'altro, perché mangeremo
il meglio che si trova in città".
Il fervoroso Volcone andò in cucina accompagnato da molta altra gente. Comandò al cuoco
che gli facesse vedere una per una le portate.

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Ma strana meraviglia! Di mano in mano che gli andava scoprendo le imbandigioni più
preziose di pavoni, fagiani, tortore, questi diventavano rospi, vipere e scorpioni. Il ricco ne
restò molto meravigliato e fu ammaestrato che il darsi in preda ai diletti è uguale danno come
il pascersi di velenosi animali, e che più uomini furono uccisi dalla voluttà, che da leoni e fiere.

CAPITOLO SESTO.

La piccolezza, delle cose temporali.

Lasciando da parte che le cose di questo mondo sono tanto vane, consideriamo più in
particolare la loro quantità e vedremo che non ostante tutta la loro vanità, che le gonfia,
restano molto limitate e corte, soprattutto se le confrontiamo con quelle eterne.

La meschinità dell'onore.
Cominciamo a considerare quel bene temporale che ha maggior ampiezza ed estensione, cioè
l'onore, il nome, la fama; vedremo quanto sia limitato. Desiderano gli uomini che la loro fama
suoni nel mondo e tutti conoscano il loro nome. Ma che cosa avremmo, se essi lo
raggiungessero, dato che tutti i regni della terra non sono più che un punto rispetto al cielo? E
chi c'è che possa essere conosciuto da tutti quelli che vivono? Vi sono milioni di uomini nel
mondo che non sanno che esiste un imperatore di Germania, né un re di Spagna. Non merita
che alcuno si ammazzi per questo vano onore, poiché neppur entro i limiti della propria patria
uno forse è conosciuto. Che se anche diventasse l'uomo più famoso del mondo, tutta la

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sua fama resterebbe rinchiusa in questo mondo, il quale è tanto piccolo che dal sole appena si
scorgerebbe.
Prima che tu nascessi passarono migliaia di anni senza essere conosciuto: dopo la morte, chi
si ricorderà di te? e se anche vivrà la tua memoria tra coloro che dopo di te nasceranno,
anch'essi moriranno un giorno e con essi il tuo ricordo, e resterai per un'eternità senz'essere
celebrato, come prima di nascere: ed anche ora che vivi ben pochi ti conoscono, e fra questi
dei malvagi, la cui lode per te potrebbe essere disonore. Ora dunque, perché ti distruggi tu per
cosa così vana, breve e vile?
Tutte queste ragioni sono certissime e da esse puoi conoscere la vanità degli onori umani,
poiché perfino i gentili le conobbero. Ascoltane solamente uno, il quale era posto nel massimo
grado di stima e di dignità nel mondo, poiché ne fu il dominatore, l'imperatore Marco Aurelio,
(Lib. III) il quale dice: Ti sollecita forse la gloria? Considera quanto velocemente si cancellano
tulle le cose nella dimenticanza; guarda al caos dell'eternità da una parte e dall'altra, quanto
vano sia il rumore della fama, quanta la incostanza ed incertezza dell'opinione e dei pareri
umani ed in qual mondo piccolo siano rinchiuse tutte queste cose. La terra è un punto: e
quanto è piccolo quell'angolo di essa dove tu abiti e quanto poche sono le cose che hai e quali
sono coloro che ti dovrebbero lodare! Di poi aggiunge: Colui che desidera onori e fama dopo la
morte, non pensa che quegli che dovrebbe ricordarsi di lui, dovrà ugualmente presto morire, e
nella stessa maniera colui che a questi succederebbe fin che si venga a cancellare ogni
memoria che si profuga traverso gli uomini mortali.

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Fingi però che siano immortali quelli che vorranno aver memoria di te. Che t'importerà tutto
questo dopo la tua morte? Ma non dico solo dopo la morte; anzi, quando ancora vivi, a qual
pro esser lodato? Tutto ciò che è bello, lo è in se stesso, ed in se stesso si perfeziona: non è
parte della sua bellezza l'esser lodato. Perciò chi è celebrato, non è per questo né peggiore, né
migliore. Questi antidoti trae questo principe pagano contro il veleno dell'ambizione
disingannandoci della sua vanità. Noi cristiani, qual onore abbiamo da stimare di più che
quello di Dio?
Che dirò della vanità dei titoli, che molti si sono dati per farsi conoscere contro ragione e
giustizia? Vediamo come l'hanno conseguito quei dell'Europa per mezzo di coloro che l'hanno
procurato in Asia, perché, se i più celebrati in Asia non giungono all'orecchio degli abitanti
dell'Europa, tanto meno i nomi dei più famosi in Europa saranno conosciuti in Asia. Il nome
di Echebar, (IARRIC., in Thesauro rerum indicarum) pensarono i suoi sudditi che dovesse
durare in eterno e che, mentre egli viveva, tutto il mondo non solamente lo conoscesse, ma ne
tremasse; ma se avessero domandato di lui in Europa, nessuno avrebbe saputo di chi
parlassero. Domandate ora ai più eruditi, e pochi sapranno, se non è perché lo scrivo io qui,
che regnò nella Mongolia. Quanto pochi avranno udito nominare Vencatapadino Ragiù!
Costui credeva non vi fosse uomo al mondo cui non fosse pervenuta notizia di sé. Lo stesso si
giudicava dai sudditi. Lo chiamavano il signore dei re e l'imperatore supremo, i titoli dei quali
egli si fregiava e che metteva in fronte ai suoi editti, erano questi: Lo sposo della buona
fortuna, il re di grandi province, re dei grandissimi re, dio dei re, il signore di tutta la
cavalleria, maestro di coloro che non sanno parlare, imperatore di tre

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imperatori, vincitore di quanto vede, conservatore di quanto ha vinto, formidabile alle otto
parti del mondo, signore delle province che percorse, distruttore degli eserciti maomettani,
spogliatore delle ricchezze di Ceilan, quel che levò la testa all'invitto Viravalano, il cacciatore
degli elefanti; questi elogi di onori godette l'eccellentissimo delle forze belliche Vencatapadino
Ragiù che regna e governa questo mondo. Quanti direbbero, fin che non lo dichiari qui, che
costui fu re di Narsinga? Ora, come questi potentissimi principi non sono conosciuti in
Europa, così nemmeno lo sarà in Asia e nell'Africa Carlo V il Grande con altri eccellentissimi
eroi in armi e lettere, che fiorirono in queste partì dell'Occidente.
Se poi riflettiamo alla verità dei titoli che si prendono, vedremo che essi altro non sono se non
vanità. Quante volte si sono chiamati eccellentissimi ed altezze uomini di animo vilissimo,
affondati nel peccato, che è la bassezza maggiore di ogni altra, ed hanno voluto il nome di
serenissimo coloro che avevano la mente offuscata e turbata da mille passioni e la volontà
corrotta! Altri si appropriano titoli molto magnifici, non con più verità di quello che fece
Nerone chiamandosi clementissimo. È arrivata questa vanità a tale estremo, che gli uomini
usurpano nomi e titoli che convengono soltanto a Dio. Per il che disse San Giovanni (Ap. 13)
che quella bestia che saliva dal fondo del mare aveva sulla testa il nome di bestemmia. Di poi
dice che la bestia rossa era piena di nomi blasfemi (Ap. 17) per il sangue che già si sparse nel
mondo. Per questi titoli tanto vani, ed alcuni tanto contrari a Dio, le cose nelle quali si è posto
l'onore, sono ridicole.
Altri si onorano delle grandi forze. Senza accorgersi che in questo sarebbero superati

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facilmente da un orso o da un toro. Altri vanno molto orgogliosi del loro vestito, mentre
dovrebbero piuttosto aver vergogna di essere stimati più per l'opera meccanica di un sarto,
che per le proprie virtù. Altri si onorano degli stessi disonori e delle loro viltà, cioè degli stessi
loro vizi, vantandosi dei loro omicidi e delle loro disonestà.
Altri si stimano per la nobiltà del loro sangue, senza attendere alla virtù, di maniera che
vengono a far vizio ciò che dovrebbe essere obbligo di virtù e convertono in loro infamia ciò
che dovrebbe essere il loro onore, stimandosi più di esser nobile che di esser cristiano.
Nessuno è qualcosa più di quello ch'egli è agli occhi di Dio. La stima che Dio ha di uno non è
per la sua schiatta, ma per il suo essere cristiano; non per essere nato in palazzo, ma per
essere rinato nelle acque del Battesimo. Quale differenza vi ha tra il nascere nobile ed il
nascere dal costato di Cristo!
Ad una vergine penitente, donna Sancia Carillo, tutte le volte che assisteva al Battesimo di un
bambino, appariva Gesù Cristo sulla croce col costato aperto, che dallo stesso suo Cuore
traeva il bambino che stavano battezzando, dandole così ad intendere la nuova nascita dal
sangue di Cristo, per la quale Dio stima gli uomini, non per la nascita secondo il loro sangue
peccatore. Questa nascita è di disonore, quella è di onore; questa è di peccato, quella di
santità; questa è di carne che uccide, quella di spirito che vivifica; per questa siamo figli degli
uomini, per quella figli di Dio; per la nascita della carne i figli, sebbene siano eredi delle cose
temporali, sono però molto più eredi delle loro miserie, poiché nascono peccatori; per la
rinascita del Battesimo siamo eredi del cielo, e nell'atto stesso riceviamo la grazia e
nell'avvenire la gloria. Quale errore, stimarsi per la nascita umana che ci fa peccatori, più che
per la nascita divina, per la quale acquistiamo la giustizia!

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Quanto stolto sarebbe colui il quale, essendo figlio di un re e di una schiava vile, si vantasse
più di essere figlio della schiava che d'essere figlio del re! Ma più stolto è chi apprezza più la
nobiltà del suo sangue, essendo cavaliere, che la nobiltà dello spirito, per cui è cristiano.
Finalmente tutti gli onori della terra sono tali che Matatia disse ai suoi figliuoli, che la gloria è
sterco e vermi. S. Anselmo paragona coloro che cercano onori, ai bambini che cercano
lucciole. Isaia li paragona ai ragni, i quali si sviscerano per ordire una tela, che imprigioni le
mosche e che dalle mosche viene poi lacerata. Oltre a essere piccoli e vili, tali onori hanno
fatto perdere molte anime. Se Davide scaricò maledizione sopra i monti di Gelboe, perché in
essi erano morti Gionata e Saulle, con molto più ragione avrebbe dovuto maledire gli alti
monti degli onori, nei quali moltissimi si sono visti perdere.

La vanità delle ricchezze.


Consideriamo che cosa siano le ricchezze cui San Gregorio Nazianzeno fece molto onore
chiamandole stereo prezioso. Antonino filosofo disse che l'oro e l'argento sono escrementi e
fecce della terra; i marmi preziosi disse che erano i calli, e generalmente dice della materia di
tutte queste cose che non è se non polvere. Plotino disse che l'oro non era altro che acqua
viziata, altri dissero che era terra gialla. E le pietre preziose che altro sono se non gingilli rossi
o verdi o splendenti? Le sete che sono altro se non bave di vermi? Le tele ed altri lini preziosi
che cosa sono, se non filamenti di piante? Altri tessuti di valore sono peli di animali, dei quali,
se ne trovassimo uno nel cibo, ci causerebbe schifo e nausea, eppure molti portandoli nei
vestiti se ne invaniscono. L'ambra è la superfluità di una balena, il muschio è il sangue
corrotto di un animale.

291

Che cosa sono le grandi possessioni, città e province? Certamente fanciullaggini di uomini, i
quali, sebbene vecchi, sono bambini, se le stimano.
Non dico questo in confronto all'eternità, non guardando queste cose dal cielo empireo, ma
solo dalla luna, di dove i regni della Grecia non occupano di più, come disse Luciano, che lo
spazio di quattro dita e tutto il Peloponneso non è più grande che una lenticchia o per meglio
dire, tutta la rotondità della terra non è più che una briciola. Meglio ancora disse Seneca, che
essa non è più che un punto e, come disse San Giovanni Crisostomo, tutto non è più che una
cosa da ridere o da giuoco. Questi con ragione paragona i grandi palazzi, le città popolate ed i
regni estesi con quelle casette di arena e di fango che i bambini fabbricano per loro
divertimento, case che, mentre i bambini le costruiscono, i grandi se ne stanno ridendo di essi
e molte volte il loro padre o maestro, quando vede che con l'occuparsi di tali fabbriche
trascurano la lezione, viene e disfa in un momento ciò che con molto tempo e lavoro avevano
edificato.
Così suole fare Iddio con quelli i quali, per raccogliere molti beni temporali, trascurano il suo
servizio. Egli distrugge grandi palazzi, fortezze, castelli, città murate e regni poderosi con
tanta facilità come se fossero casette di sabbia fatte dai bambini. Più ridicoli infatti e puerili
sono coloro i quali mettono il loro cuore nelle grandezze di questa vita breve, che non i
bambini che si divertono con quelle di arena. (Homil. 14, De avaritia) San Giovanni
Crisostomo dice ancora in altra parte che, guardando dipinti sulla parete, un ricco ed un
povero, un uomo vile e uno potente, non invidiamo l'uno, né disprezziamo l'altro, essendo la
pittura un'ombra e non la verità. Questo stesso giudizio dobbiamo fare di quelle cose
medesime, perché poco più

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meno tutto è nulla e, conforme alla Sacra Scrittura, tutto è una commedia e farsa. Come
importa molto poco trovare ivi la persona di Alessandro o di Creso, che fu il re più ricco del
suo tempo, o quella di un povero mendico, così importa ben poco aver ricchezze in questa vita.
Gli stessi stimatori di esse ci dicano che cosa sono, perché, se il re Erode, per la danza di una
ragazza, offre la metà del suo regno, che cosa può valere tutto intero? E Amano che possedeva
ricchezze grandissime, confessò di sua propria bocca che non le stimava nulla, solo perché
Mardoccheo non gli faceva riverenza.
Gli stessi piaceri, quanto sono miserabili! Oltre ad essere di brevissima durata, sono mischiati
con l'assenzio di molte pene che li accompagnano, li precedono e li seguono. Un disonesto
quanti pericoli e dolori suol passare prima di conseguire il suo desiderio! E nello stesso
possesso, quante cose impreviste gli pungono il cuore! E dopo, quanta pena gli apporta ciò che
tanto desiderò! E quante infermità lunghissime e dolori penosissimi sono il risultato di ciò che
durò un momento! Si confrontino le pene ed i dolori della vita con i piaceri di essa e si troverà
che, tanto nella moltitudine quanto nella loro grandezza, i dolori e le pene li eccedono senza
paragone. I generi dei piaceri che può aver il tatto sono due o tre, ma le pene non si possono
contare, essendo moltissimi i dolori che lo possono affliggere: i dolori di sciatica, di mal di
pietra, di gotta, di denti, di testa ed altri innumerevoli dolori e violenze, che si succedono gli
uni agli altri con tanti generi di tormenti quanti ne hanno inventati i tiranni, sono intensissimi
ed orribili, e non ha paragone il maggior diletto del senso neppure col dolore della disgiuntura
di un membro o di quello della sciatica o di un mal di capo.

293

Le piccolezze dei piaceri mondani.


Ben si può vedere la meschinità e la brevità dei piaceri di questa vita dal fatto che il nostro
appetito cerca di allargarli inventando nuovi divertimenti, perché suppliscano con la loro
moltitudine alla loro meschinità e piccolezza. Non accontentandosi dei piaceri naturali ha
inventato molti artificiali, cercando nuovo pasto dei sensi e generi peregrini di comodità. Ben
si può vedere quanto è stanca la vita, poiché si cercano tanti riposi e sollievi per essa.
Quali generi di vestiti delicati e tele preziose non si sono tessuti! Quante specie di letti comodi
non si sono fabbricati! Quante sorta di sedie, di lettighe e di carrozze non si sono inventati!
Scrive il Vescovo di Pamplona, (Fr. PRUDENZIO SANDOVAL, Storia di Carlo V, p. II, lib.
XXVIII, § 36) storico di Carlo V, che nell'anno 1546 non si usavano ancora carrozze nella
Spagna, ed essendone venuta una, in quel tempo dello stesso imperatore, tutti i cittadini
uscirono a vederla meravigliandosi di essa come di un centauro e di un mostro. Ed ora che
cosa c'è di più ordinario? Incontrò tanto questa invenzione, sembrando tanto comoda, che in
pochi anni gente molto ordinaria usava carrozza, tanto che fu necessario di proibirle. Questo è
di meraviglia tanto più grande, quanto prima i signori anche più grandi non ne usavano. Si
scrive del Duca di Medina Sidonia, la cui grandezza e ricchezza era delle maggiori di questi
regni, che quando voleva andare in compagnia della duchessa a visitare Nostra Signora della
Regola, che è un gran santuario dell'Andalusia, andava in un carro tirato dai buoi, e questo
avveniva nell'anno 1540. Entro sei o sette anni venne in Spagna la carrozza, di cui abbiamo
parlato, e dopo nove o dieci anni ve ne era

294

tale moltitudine che per legge pubblica si vietarono nel 1577 tutte le carrozze a due cavalli, per
il solo fatto che vi era tanta gente ordinaria che le usava con grande danno degli affari, della
cavalleria e del decoro. Con tanta fretta il nostro appetito cerca la sua comodità, inventando
artifici in ciò in cui sembra vada troppo scarsa la natura. Lo stesso successe a Roma con le
portantine, le quali, secondo quanto riferisce Dione Cassio, si cominciarono a introdurre nel
tempo di Giulio Cesare; ma tosto, come scrive Svetonio, fu necessario che lo stesso Giulio
Cesare le proibisse. (SVETONIUS, cap. 43)
Lo stesso è succeduto e succede nei vestiti costosi, che è tale disordine della nostra malizia che
Tullio (Oratio pro Milone) dubita quale di queste cose sia più indecente all'uomo, se l'uso della
carrozza o l'uso dei vestiti. Egli chiama l'una e l'altra cosa svergognatissime, e lo è veramente
in non pochi il modo con cui usano di queste comodità. Disse Cicerone che i soldati romani
computavano le armi per membra, essendo come le loro braccia. Questo medesimo conto
fanno molti dei vestiti composti e pomposi, che a toccarli sentono, come se disgiungessero
loro un membro. Scrive Macrobio di Quinto Ortensio, senatore romano, che metteva tanta
cura nell'ornato e nell'assestamento del vestito, che si guardava tutto nello specchio e con
somma attenzione distribuiva e disponeva le pieghe della toga raccogliendole in un nodo, con
cui le disponeva più pomposamente. Una volta, essendo console, presentandosi al pubblico
vestito con grande cura, soltanto perché un compagno in un gran concorso e ressa di gente gli
disordinò un poco la toga, non potendone più giudicò per delitto capitale l'avergli mutata in
quell'incontro una piega di essa, onde

295

lo accusò in pubblico e sporse querela contro di lui, come se gli avesse torto o rotto un braccio.
Che dirò degli ornati tanto costosi e tanto sciocchi che lo stesso mondo sembra condannare: la
mescolanza d'intingoli per il gusto, la confezione di paste dolci, i profumi per l'olfatto, le
melodie di varie musiche per l'udito, le amenità, le pitture e gli spettacoli per la vista, il cui
intrattenimento sia procurato anche a costo di sangue umano, come fra i gladiatori di Roma
ed i toreri della Spagna? Tutta questa macchina di piaceri che ha inventato l'appetito è segno
chiaro della sua meschinità. Ma tanta moltitudine non lo soddisfa, né uguagliano tanti
contenti artificiali i dolori reali.
Per cosa tanto piccola si perde ciò che è tanto grande, come l'eterno; stracciamo facilmente la
legge di Dio e siamo ingrati al nostro Redentore, il quale pure ci premierà con grandi favori
del cielo per il disprezzo di questi piaceri tanto brevi e meschini della terra, affinché, se non
vogliamo disprezzarli per quello che sono in sé, facciamolo almeno per quello che Egli ci dà.
Disprezziamoli mortificando i nostri sensi, la cui mortificazione ci è di tanto giovamento ed è
tanto gradita a Dio, come si vedrà da questa storia che riferisce Glicas. (GLICAS et RADERUS,
in Aula sancta, cap. 12).
Aveva passato un anacoreta quarant'anni nell'eremo, pensando soltanto a sé e alla salvezza
dell'anima sua con grande osservanza della sua professione. Gli venne il desiderio di sapere
chi sopra la terra avesse uguali meriti e domandò a Dio che glielo manifestasse. Lo fece il
Signore e gli fu risposto dal Cielo che l'imperatore Teodosio, sebbene stesse nella maggior
grandezza del mondo, con tutta la sua maestà non gli era inferiore neppure nell'umiliarsi, né
nel vincere se stesso.
Con questa risposta data da Dio andò tosto a parlare con l'imperatore ed avendo l'eremita
fama di

296

santità ed essendo l'imperatore tanto religioso pur tanto umano ed amico dei servi di Dio,
trovò modo di parlargli e saper da lui i suoi santi esercizi. Da principio l'imperatore non
esplicò più che virtù comuni, che dava grandi elemosine, che portava cilizio, che digiunava di
frequente, che osservava continenza con la sua moglie e procurava di far giustizia. All'eremita
sembravano molto buone queste virtù, tanto più in un re, ma giudicò che tutto questo aveva
fatto egli con più perfezione, perché aveva rinunciato a tutto per Cristo, lasciando tutte le cose
sue che possedeva, il che è più che dare elemosina; moglie non ne aveva conosciuta in tutta la
sua vita, il che è più che avere osservato per alcun tempo la castità, a nessuno aveva fatto
ingiuria né ingiustizia, il che giudicava miglior cosa che farla osservare; i suoi cilizi e digiuni
erano stati continui, il che era più che astenersi alcun giorno dalla carne.
Con ciò insistette di più verso l'imperatore supplicandolo che non gli nascondesse nulla,
giacché era stata volontà divina che egli sapesse ciò che egli faceva e che per questo il Signore
lo aveva mandato a lui. Gli disse allora l'imperatore: “Sappi che quando hanno luogo i giuochi
dei cavalieri e spettacoli del circo, sebbene io assista, sono tanto assente da essi che non voglio
guardarli, né godere del gusto di quella vista, sicché nel tempo migliore volgo altrove i miei
occhi e non voglio vedere quando si gettano le sorti, di maniera che sono come cieco, sebbene
tenga gli occhi aperti”. Rimase stupito l'eremita di tanta mortificazione di quel gran monarca e
comprese come gli scettri e le porpore non impediscono di meritare molto dinanzi a Dio, se si
privano dei piaceri. Aggiunse inoltre Teodosio: “Sappi pure che io mi sostento col guadagno
delle mie mani, perché trascrivo alcuni scartafacci in bella scrittura; rivendendoli di poi e col
prezzo del mio sudore compro l'alimento della mia vita”.

297

Con questo esempio di povertà fra tanta ricchezza e di temperanza fra tanto lusso, l'anacoreta
rimase attonito e conobbe che il privarsi di riposo e di gusti, di bevanda e di vivanda, era ciò
che dava grandi meriti a quel principe. Tanto perversi sono i piaceri della terra che, oltre a
essere tanto piccoli, perfino quelli che sono leciti impediscono grandi profitti e quelli illeciti
cagionano grandi danni.

Le dignità imperiali e regie sono piene di pericoli.


Che cosa diremo degli imperi e della dignità regia che abbraccia tutti i beni del mondo, onori,
ricchezze e piaceri? Quanto piccolo è un regno della terra, essendo la terra in confronto al
cielo solo un punto! Di tutto ciò che un re della terra può godere, non si dà maggiore onore, né
ricchezze più sicure, né piaceri più grandi di quello che abbiamo detto! Ma anche tutto questo,
sebbene piccolo, non lo gode sicuramente, per cui disse San Giovanni Crisostomo (Hom. 66
ad populum) parlando degli imperatori del suo tempo: Non guardar alla corona, ma alla
tempesta delle preoccupazioni che l'accompagnano; non mettere gli occhi nella porpora, ma
nell'animo stesso del re, che è più triste e più cupo della stessa porpora: non tanto il diadema
cinge il capo, quanto piuttosto la sollecitudine e lo sbigottimento accerchiano la sua anima.
Non guardare allo squadrone della sua guardia, quanto piuttosto all'esercito delle molestie che
lo seguono: non si potrà trovare alcuna casa particolare più ricolma di preoccupazioni dei
palazzi reali. Ogni giorno li aspettano non una, ma molte morti; non si può dire quante volte il
cuore patisca soprassalti e l'anima sembra che loro debba uscire.

298

Questo avviene anche quando regna la pace; ma se si accende la guerra, che cosa si avrà di più
miserabile di questa vita? Quanti pericoli incorrono i loro stessi famigliari e sudditi! Il suolo
del palazzo reale è pieno di sangue dei parenti. Se volete che specifichi alcune cose di quelle
antiche e moderne ben lo conoscerete. Quello, sospettando della sua moglie, la legò nuda fra i
monti, consegnandola alle fiere, dopo essere stata madre di molti re. Che vita avrà condotto
tale uomo, giacché non è possibile eseguire tale vendetta senza un cuore infermo e
consumato! Questo decapitò il suo proprio figlio: quello si tolse la vita da se stesso, essendo
fatto prigioniero dal tiranno. Quello uccise il suo nipote cui aveva fatto partecipe dell'impero.
Questi uccise suo fratello, quello fu ucciso col veleno, e la coppa non bevuta del tutto cagionò
la morte a lui ed a suo figlio innocente. Dei principi che seguirono, uno fu bruciato vivo con
tutti i suoi cavalli e le sue carrozze e non è possibile che le parole spieghino le calamità che egli
fu costretto a patire.
E colui che ora regna, dopo che fu coronato, non ha forse patito molti affanni, pericoli,
tristezze, ed insidie? Ma non è così il palazzo del cielo.
In questo modo San Giovanni Crisostomo dipinse la fortuna più grande del mondo, quale è la
maestà imperiale, la quale perciò non può a meno di essere piccola. È infatti tanto disgraziata,
che non lascia godere sicuramente neppure i beni passeggeri della terra ed i loro possessori
periscono prima di essi. Sarà ben diversamente nel regno dei cieli, nel palazzo e nella casa di
Dio, dove i giusti avranno da regnare e godere senza diminuzione, né affanno dei beni eterni,
come vedremo a suo luogo.
E finalmente dalle cose dette dobbiamo conchiudere che non si deve guardare alle grandezze
del mondo, né desiderare le comodità della terra, come insegnò

299

Santo Spiridione (SURIUS, in Vita S. Spiridionis) al suo discepolo. Avendolo portato una volta
con lui alla corte dell'imperatore, lasciò che andasse in giro per il palazzo per ammirarne le
bellezze. Queste gli cagionarono grande meraviglia, essendo un giovane di poca esperienza;
vedeva la grandezza della corte tanto illustre, vestiti tanto ricchi, tante gioie, perle e pietre
preziose, ma ciò che lo sbigottiva sopra tutto era veder seduto l'imperatore nel suo trono con
la grandezza e maestà imperiale. Tutto questo lo rendeva stupefatto. Volendolo correggere del
suo errore, Santo Spiridione gli domandò un giorno, dissimulando lo scopo, quali di quelli che
ivi stavano fosse l'imperatore, e facesse il favore di mostrarglielo, perché non gli sembrava di
conoscerlo bene. Il discepolo non capì la domanda e così indicandolo con la mano, disse con
semplicità: “E' quello lì". Gli replicò il santo: “Per qual ragione questi merita più stima degli
altri, se non è forse perché ha più virtù? Forse perché è più illustre e di maggior ornato
esteriore? Non ha colui da morire come qualsiasi altro poveretto sconosciuto? Non lo avranno
da sotterrare come quello? Non ha anch'egli da comparire come tutti gli altri dinanzi al
giustissimo Giudice? Perché dai tanto valore alle cose che passano, come a quelle che sempre
dovranno durare? Come ti meravigli nel vedere delle cose che non hanno alcuna consistenza,
essendo più ragionevole che mettessi tu gli occhi ed il cuore nelle cose eterne ed incorruttibili
e che di queste t'innamorassi, non essendo soggette né a mutazioni, né alla morte?".
Lo stesso discepolo di Santo Spiridione, essendo già vescovo, passeggiava col suo maestro, che
era arcivescovo di Tremitonte. Arrivando ambedue ad un luogo, dove vi erano campi ameni e
fertili, il discepolo si dilettava nella fertilità e cominciò a

300

considerare fra sé stesso quali progetti potesse fare per ottenere alcuna eredità in terra così
buona a vantaggio della sua chiesa, facendo gran caso di questa comodità. Ma il Santo, che
indovinò i suoi pensieri gli diede una riprensione soave ed amorosa: "A che ti serve, fratello
carissimo, andar pensando tanto di proposito nel tuo cuore cose tanto vane e di sì poco
valore? Perché desideri ora con tanto ardore terra da lavorare e vigne da coltivare? Non ti
accorgi che sono cose di pura apparenza per quello che sono di fuori e che con la loro
apparenza ci ingannano? Essendo nulla, esse non valgono nulla. Abbiamo un'eredità nel cielo
che nessuno ci può rubare. Ivi abbiamo casa, che non è fatta da mani umane. Tendi dietro a
questi beni, comincia a godere di essi già in questo tempo con la virtù della speranza. Essi
sono tali che, se tu una volta te ne rendi signore e padrone, sarai eterno erede e questa eredità
non passerà mai ad altri”.
Si ponga uno sul punto di morte e guardi da quel punto alla piccolezza di ciò che lascia ed è
passato, e d'altra parte guardi alla grandezza delle cose eterne nel cui possesso entra e mai
passerà. Egli scoprirà come tutte le grandezze e comodità di questa vita, essendo tanto piccole
e passeggere, non sono degne di ammirazione, ma solo di disprezzo.

CAPITOLO SETTIMO.

Quanto sia miserabile la vita temporale.

La vita temporale è insaziabile.


Vediamo pure in particolare qual sostanza e valore abbia la vita temporale, che è quella che i
mortali tanto stimano.

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Non ci meraviglieremo poco come in uno spazio tanto breve possano contenersi disgrazie
tanto grandi e frequenti. Disse perciò Falaris di Girgenti che, se uno prima di nascere sapesse
quanto avrebbe da patire nella vita, non vorrebbe nascere, né prenderebbe questa inutile vita.
Essa infatti non è altro, se non un monte di miserie, una tela continua di pericoli. Per questo
alcuni filosofi, pentiti o stanchi di vivere, giunsero a bestemmiare la natura, lamentandosi di
essa ed ingiuriandola in mille guise, poiché aveva dato vita tanto cattiva al migliore dei viventi.
Non comprendevano che questo era effetto e pena della colpa umana e non colpa della natura
e Provvidenza divina. Plinio giunse a dire che la natura non era altro, se non matrigna degli
uomini. Sileno, interrogato qual era la più gran fortuna dell'uomo, rispose: il non esser nato o
morire subito.
Il grande filosofo ed imperatore Marco Aurelio, considerando la miseria umana, disse questa
bella sentenza: La battaglia di questo mondo è pericolosa, la sua fine ed uscita tanto terribile e
spaventevole, che sono certo che, se qualcuno degli antichi risuscitasse e fedelmente
raccontasse la sua vita trascorsa in terra dall'istante in cui nacque fino all'ultimo respiro,
mostrando il corpo per esteso i dolori che ha sofferto, scoprendo il cuore gli affanni che gli ha
cagionato la fortuna, tutti gli uomini si spaventerebbero di un corpo che ha patito e di un
cuore che ha vinto e dissimulate tante battaglie. Tutto questo io l'ho sperimentato in me stesso
e lo confesso qui liberamente, sebbene sia infamia mia, per l'utilità che può ridondare ai secoli
venturi. In cinquant'anni che ho vissuto ho voluto provare tutti i vizi e peccati di questa vita
per vedere, se la malizia degli uomini ha dei limiti o termini; e trovo per conto mio, dopo aver
ben considerato e contato, che, quanto più mangio, più muoio di fame, quanto più bevo,

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più ho sete, se dormo molto, più vorrei dormire, mentre più riposo, più mi trovo stanco, più
posseggo, più desidero e, stanco di cercare, trovo di aver meno conseguito. Infine nessuna
cosa raggiungo che non mi imbarazzi e stanchi subito e non la abbonisca e desideri altra.
Tutto questo sentivano i filosofi delle miserie di cui è piena la nostra vita. Considerando
questo, il Savio dice: Tutti i suoi giorni sono pieni di dolori e di miserie, e neanche di notte
riposa il suo spirito (Eccl., II, 23). Con ragione disse Demetrio che la condizione umana è
miserabilissima, poiché quelli che cercano alcun bene, difficilmente lo trovano, mentre i mali,
senza essere cercati, arrivano e ci entrano per la porta senza vederli, di maniera che la nostra
vita è sempre esposta ad innumerevoli pericoli, ingiurie, danni ed infermità le quali sono
tante, secondo Plinio e molti medici greci ed arabi, che nello spazio di alcuni anni si
scoprirono più di trenta specie di malattie nuove; ogni giorno se ne vanno scoprendo di più ed
alcune tanto crudeli, che non se ne può sentir parlare senza orrore.
Non dico soltanto le infermità, ma gli stessi loro rimedi, poiché anche certe malattie molto
conosciute e comuni si curano con l'applicazione del fuoco, col taglio delle membra, con
cavare ossa dalla testa e viscere dal venire, come se si trattasse di fare inventario o anatomia
di esse. Altre si curano con dieta tanto strana, per la gran furia del male, che Cornelio Celso
scrive che gli infermi si bevevano l'orina per la sete che pativano e si mangiavano gl'impiastri
per la fame che li tormentava. Altri, per guarirli, fanno mangiar loro serpenti, vermi ed altre
cose molto nauseanti.
Soprattutto qual genere più crudele di cura di

303

quello che patì il Paleòlogo, secondo imperatore di Costantinopoli, il quale, dopo aver patito
dolori per un anno, alla sua infermità non trovò altro rimedio che perire a furia di dispiaceri!
Così l'imperatrice sua moglie, che era quella che più desiderava la sua salute, procurò, per
ottenerla, di non dargli piacere in nessuna cosa, cagionandogli dispiaceri quanto più poteva,
affettandogli ubbidienza. Se anche i rimedi sono grandi mali, che saranno i mali delle stesse
infermità? In Angelo Poliziano fu tanto veemente la sua malattia che batteva la testa contro la
parete, in Mecenate fu tanto strana, che in tre anni non dormì, né chiuse mai gli occhi, in
Antioco fu tanto nauseante, che il suo odore contaminò tutto l'esercito, il quale non poteva
soffrire il fetore pestilenziale che usciva dal suo re; vermi uscivano dal suo corpo e le carni si
consumavano di dolore. Nella stessa maniera patì Feretrina, regina dei Barcei; tutte le carni le
si convertirono in vermi, disfatte le quali venne a morte. Si consideri qui la fine che ebbe la
maestà reale, senza poter nulla tutto il potere della terra contro alcuni vermi tanto schifosi, né
poterle essere utile la pulizia di delicate lenzuola contro la nausea dei vermi immondi. Con
ragione entra l'uomo piangendo in questo mondo, profetizzando così le molte miserie, che,
pur avendo tempo per patirle, non avrà il tempo per piangerle, per cui comincia tanto presto.

Pesti strane.
Che dirò delle infermità pestilenziali e strane che hanno consumato grandi città e province
intere? Molti autori scrivono che quelli di Costantinopoli furono tormentati da una pestilenza
tanto orribile che ai colpiti sembrava di essere morti per mano del loro vicino. Caduti in
questa frenesia, morivano arrabbiati per questa immaginazione, di pura paura, credendo di
essere stati uccisi per mano altrui. Nel tempo di Eraclio vi fu una pestilenza

304

così mortale nella Romania che in pochi giorni morirono molte migliaia di uomini. La furia e
frenesia dell'infermità era tanto grande che la maggior parte dei colpiti si gettavano nel fiume
per spegnere l'eccessivo calore che come fuoco bruciava le viscere.
Tucidide, autore greco, scrive che nel suo tempo vi fu nella Grecia tale corruzione di aria, che
morì un'infinità di gente, senza poter trovare rimedio per mitigare quel disastro. Egli aggiunge
altra cosa più strana e meravigliosa che, se per gran fortuna guarivano alcuni da
quell'infermità e sfuggivano a quel veleno, restavano senza memoria alcuna delle cose passate,
fino a non conoscere più né genitori, né figli.
Marco Aurelio, autore degno di fede, scrive che al suo tempo vi ebbe una grande pestilenza in
Italia, e volendola descrivere gli storici, fu loro più facile contare quelli che restarono vivi, che
dire il numero dei morti. I soldati di Avidio Cassio, stando in Seleucia, città dell'impero di
Babilonia, entrarono nel tempio di Apollo, e trovandovi uno scrigno, lo aprirono, sperando di
trovare molto denaro, dal quale invece uscì un'aria tanto fetente e corrotta, che contaminò
tutta quella regione di Babilonia e da lì passò alla Grecia e dalla Grecia a Roma, corrompendo
in tal modo l'aria che non restò viva la terza parte degli uomini.
Nei tempi più vicini a noi non vi furono calamità minori. Non diminuendo i peccati, tanto
meno trascura la giustizia divina di castigarli. Un anno dopo che il re Francesco di Francia si
sposò con donna Leonora di Austria, regnò nella Germania un'infermità pestifera che tutti i
colpiti da essa morivano entro ventiquattro ore, sudando un umore pestilentissimo. E sebbene
questo male cominciasse nell'occidente, si estese di poi, in tal maniera, per tutta la Germania,
che sembrava una rete che volesse portare via tutti. Prima che si trovasse il

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rimedio morirono tante migliaia di uomini che molte terre e province rimasero deserte ed
abbandonate, perché la grande putrefazione dell'aria non lasciava vivo alcuno. Era tanto
questo veleno dell'aria che tutte le abitazioni erano segnate da una croce rossa.
Si scrive che nel tempo in cui questa pestilenza trovavasi nella sua fase più acuta, si propagò in
Inghilterra con tanta furia che per la forza del veleno non solo morirono gli uomini, ma gli
stessi uccelli lasciavano i loro nidi, le uova ed i piccini; gli animali abbandonavano le loro
caverne, i serpenti ed i topi fuggirono in massa non essendo più loro possibile sopportare il
veleno che era rinchiuso nelle viscere della terra e si trovarono molti animali morti sotto le
piante con le membra ferite.
Nell'anno 1546, l'ultimo di maggio, nella città di Stix della Provenza, cominciò una pestilenza
mortale che durò nove mesi e morirono moltissime persone di ogni età, in maniera che i
cimiteri stavano pieni di cadaveri e non vi era più luogo per sotterrarli. La maggior parte dei
colpiti diventavano frenetici il secondo giorno e si gettavano nei pozzi, altri si gettavano dalle
finestre ed altri erano afflitti da un flusso di sangue dalle narici abbondante e continuo, e il
cessare di questo era tutto uno con la fine della vita. Il male era sì grande che i genitori
abbandonavano i loro figliuoli e le donne i loro mariti. Non servivano le ricchezze per non
morire di sete, non potendosi qualche volta trovare neppur un bicchiere di acqua a costo di
qualunque somma. Se per caso trovavano qualche cosa da mangiare, era il male tanto
avanzato, che molti morivano con il cibo in bocca. La furia del contagio era tanto grande,
essendo l'aria della città tanto corrotta dal male pestilenziale e per il calore grandissimo, che,
su qualunque parte del corpo arrivasse un alito di vento, scoppiavano subito grandi vesciche e
piaghe mortali.
Quanto è mostruoso e orribile sentire ciò che

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racconta un medico, il quale dai reggenti era stato destinato a soccorrere e curare gli infermi;
Egli dice che questa infermità era tanto grave e perversa che non si poteva impedire con
salassi, epitemi, triache, né altri cordiali. Tutto si distruggeva, si annegava, si uccideva, di
maniera che il rimedio che il colpito aspettava era la morte. Essendo certi di questa si
cucivano essi stessi i lenzuoli funebri: questo fatto pietoso, afferma di averlo visto molte volte
e in molte persone, specialmente in una donna da cui era chiamato da una finestra, perché le
ordinasse alcuni rimedi contro il suo male e la vide che stava cucendo il suo panno funebre.
Entrando in questa casa coloro che seppellivano i morti, la trovarono già stesa morta sul
panno funebre non ancora cucito. A tanto sta soggetta la vita umana, e lo ricordino coloro che
hanno salute, perché sappiano a qual punto possono arrivare.

Carestie celebri.
Non è miseria minore della vita umana la fame che non soltanto uomini particolari, ma
province intere hanno patito. Una di queste patirono i Romani dopo la distruzione generale
dell'Italia. Quando Alarico, nemico capitale del genere umano, assediò Roma, gli abitanti
caddero in tanta povertà, fame e mancanza assoluta di ogni cosa che, non avendo più ciò che
comunemente erano soliti mangiare, cominciarono a mangiare cavalli, cani, gatti, topi, talpe e
tutti i vermi che poterono trovare. Quando questi cominciarono a mancare, gli uni
mangiavano gli altri. Cosa certamente spaventevole ed orribile è quando la giustizia di Dio ci
mette nelle strettezze; la necessità ci porta a tali estremi da non perdonare neppure ai nostri
simili, né i genitori ai figli, né le madri a coloro che partorirono.
Lo stesso accadde nell'assedio di

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Gerusalemme, come racconta Eusebio nella Historia Ecclesiastica. È cosa strana udire, è cosa
la più abominevole e mostruosa il vedere come Scipione, quando assediò la città di Numanzia,
dopo di aver tagliato ogni mezzo di mantenimento e di approvvigionamento, mise i suoi
abitanti in tanta necessità e li fece patire talmente la fame e la sete, che ogni giorno andavano
alla caccia dei Romani, come si va alla caccia delle bestie selvagge per mangiarseli, di modo
che senza nausea alcuna mangiavano le carni dei nemici e ne bevevano il sangue, come se
fosse acqua di una fonte chiara o sangue di un capretto o carne di una pecora. Non
perdonavano a nessun Romano e decapitavano e squartavano subito chi capitava nelle loro
mani e si vendeva la carne al minuto nelle macellerie pubbliche, di maniera che valeva di più
fra di loro un Romano morto che uno vivo o riscattato.
Nel libro IV dei Re si fa menzione di una carestia che si ebbe nella Samaria al tempo di Eliseo
Profeta, la quale era molto maggiore di quella che abbiamo ora raccontato. Vi era tanta
mancanza di alimenti, che la testa di un asino si vendeva a 80 monete di argento, la quarta
parte di certe misure di sterco di piccioni si vendeva per cinque monete di argento; il peggiore
ed il più inumano di tutto fu, che, essendosi esauriti tutti i viveri, le madri mangiavano i
propri figli. Una cittadina di Samaria si lamentò col re d'Israele, perché la sua vicina non
intendeva mantenere la promessa fattale, che era di mangiare prima il figlio suo, terminato il
quale si doveva mangiare quello della vicina; il che riferì al re dicendo: “Io feci ciò poiché
mangiammo il mio e ora essa nasconde il suo per non darmi parte di esso". Udendo ciò, il re si
sconvolse per il dolore e stracciò i suoi vestiti.
Giuseppe, nel Libro VII, c. III de La guerra dei Giudei, racconta altre cose simili a questa, ma
eseguite con più furia ed in modo più strano.

308

Vi era in Gerusalemme, dice, quando era assediata, una donna nobile e ricca che aveva
nascosto in una casa della città parte delle sue ricchezze e mangiava poveramente e con
parsimonia di quello che possedeva. Il che non lo poté fare in santa pace, perché i soldati e la
gente della guarnigione le tolsero in poco tempo quanto aveva in casa e fuori e così andò a
mendicare qualche cosa da mangiare per sostentarsi, ma subito le toglievano anche questo
dalle mani e le rubavano perfino i bocconi dalla bocca.
Vedendosi morire di fame e senza rimedio alcuno contro la sua necessità e, nessun consiglio
sembrandole buono, comincio a pigliare le armi contro la legge naturale. Contemplando un
bambino che portava al petto, cominciò a gridare dicendo: “Oh che figlio disgraziato; è più
disgraziata la madre! Che potrò io far di te? Dove ti custodirò? Le cose vanno tanto male che,
se anche ti salvo la vita, avrai da essere schiavo dei Romani. Meglio sarà, figlio mio, che tu
mantenga e sostenti tua madre e faccia paura ai soldati maledetti che non mi hanno lasciato
alcuna cosa per vivere e tu sia esempio di pietà ai secoli futuri e muova a dolore i cuori di
coloro che stanno per nascere”. Finite queste parole decapitò suo figlio lo divise in mezzo,
prese una graticola, lo arrostì per metà e se lo mangio conservando l'altra parte per un'altra
volta.
Terminando questa dolorosa tragedia arrivarono i soldati e, odorando carne arrostita,
cominciarono a minacciarla di morte, se non mostrava loro la vivanda. Ma ella era tanto fuori
di sé di pura rabbia per quello che aveva fatto che non desiderava altro che far compagnia al
suo figlio morto. Senza paura e vergogna alcuna disse loro: “Tacete, amici, che divideremo
come fratelli"; così dicendo e facendo tolse la carne del figlio, la mise sulla tavola. Del che i
soldati stupiti e confusi, sentirono dolore

309

tanto grande nei loro cuori, che non poterono dir parola per pura vergogna. Essa al contrario
con sguardo furioso, con sembiante crudele e voce rauca e stonata, disse loro: “Che è questo,
signori? Non è mio frutto? Non è questo mio figlio? Non è questa la mia malvagità? Perché
non mangiate voi, avendo mangiato io per prima? Siete forse più schizzinosi e scrupolosi di
me o più delicati della madre che lo generò? Non mangiate ciò che io mangio per prima e
mangerò un'altra volta con voi?”. Non potendo essi vedere cosa tanto orribile ed aborrendo
spettacolo tanto doloroso, si misero alla fuga e lasciarono la miserabile madre sola con quel
poco che le restava del figlio che era tutto quanto le rimaneva dei suoi beni.
Non è meno orribile delle cose dette ciò che andiamo riferendo. Successe in Francia che
dall'anno 1528 per tre anni, a causa di molte piogge, il frumento non poté arrivare a maturità,
dal che derivò una tale carestia spaventevole che gli uomini andavano armati alla caccia di
persone per mangiarle e sì scopri che sopra alcune mense davano per cibo carne umana ai
passeggeri. Era cosa dolorosa il vedere come ogni momento cadevano delle persone al suolo,
perché non potevano tenersi in piedi per debolezza e d'udire per ogni parte: Ho fame! Ahi, mi
muoio di fame! Dava compassione il veder passare a bande uomini, bambini, donne, famiglie
intere cercando qualche cosa da mangiare, tanto pallidi e magri che sembravano scheletri
ambulanti o ritratti della stessa morte. A quella calamità seguì altra molto grande, perché la
gente, per non perire di fame, mangiava ogni specie di erbe, riempivano lo stomaco di
qualunque cosa, causando così le più forti indigestioni, e gonfiamento del ventre con una
moltitudine di infermità e morti che faceva spavento.

310

Mali di guerra.
La maggiore di tutte queste calamità è quella che porta seco la guerra, perché dei tre flagelli
con cui Dio suole castigare i regni, quello della guerra è il più grande, sia perché gli altri due
seguono questo, sia perché porta con sé pene maggiori, e ciò che è peggio, tira appresso colpe
maggiori, di cui manca la peste, nel tempo della quale tutti procurano di mettersi in pace con
Dio e disporsi alla morte, sebbene siano ancora sani.
Colui che invia la peste è Dio, che è la somma santità, e le mani degli uomini non attraversano
i suoi disegni, come avviene nella guerra. Per il che Davide ritenne per una fortuna che il suo
popolo patisse la peste e non la guerra, perché giudicò per miglior partito cadere nelle mani di
Dio piuttosto che in quelle degli uomini. Anche la carestia, sebbene porti seco alcuni peccati,
ne diminuisce altri, sebbene l'accompagnino molti furti, non consente tanti fasti e tante vanità
e non vi sono tanti generi di vizi, quali sono causati dalla guerra.
Per rappresentare le disgrazie che questa calamità porta con sé, basta che assommiamo qui
alcune di quelle che ha patito la Germania nelle guerre che l'hanno infestata ai tempi nostri
con la venuta degli Svevi. In Inghilterra uscì un libro intero, il cui argomento si occupa nel
raccontarle, e non le poté riferire tutte. Ne appunterò solamente alcune, scegliendo due luoghi
che si sono spopolati e bruciati. Nella sola Baviera furono incendiati duemila paesi. Le
insolenze e crudeltà dei soldati vincitori furono inaudite, perché i vinti dicessero loro dove
avrebbero trovato di che rubare, altrimenti li ammazzavano. E per scendere ai particolari basti
dire che con una corda di archibugio cingevano loro la fronte e legandoli ad un palo, andavano
stringendo loro la tempia finché sprizzava il sangue

311

e si rompeva il teschio e saltavano le cervella.


Altri li gettavano a terra o sopra una tavola, legati mani e piedi, e mettevano sopra di loro gatti
e cani affamati, perché mangiassero loro le viscere. Altri sospendevano con le mani in alto,
restando tutto il peso del corpo sostenuto da esse, di poi accendevano il fuoco sotto i piedi. Ad
altri tagliavano il naso e le orecchie e ne facevano gingilli per i loro cappelli, reputando per
maggior gala il più grande orrore cagionato dalla loro crudeltà, stimandosi più uomini quando
si mostravano più fieri sopra gli uomini. Ad altri gettavano acqua nella bocca per mezzo di un
imbuto e li riempivano come una botte. Di poi calpestavano coi loro piedi violentemente il
ventre e lo stomaco, facendo loro uscire l'acqua per la bocca e il naso. Altri, legandoli nudi ad
un palo, scorticarono come S. Bartolomeo. Altri li dividevano in molte parti, squartandoli vivi.
Violentavano le donne e per divertimento tagliavano loro le braccia.
Altri soldati erano non soltanto crudelissimi, ma come tante fiere si mangiavano i bambini. Ai
prigionieri non legavano solamente le mani, ma foravano le braccia e vi infilavano dentro la
corda, facendoli trascinare dai cavalli, ai quali davano da mangiare nel ventre degli uomini,
perché, liberati dalle viscere, servivano ai cavalli da mangiatoia. Ad altri legavano le mani fino
a farle versare sangue; li derubavano di tutto e uccidevano gli uomini nelle loro case. Alcuni
magistrati, risparmiando loro la vita, i soldati più vili li facevano servire alle loro mense a testa
scoperta. Molti, per non vedere, né passare tali cose, prendevano veleno.
Con queste calamità della guerra andarono congiunte la peste e la fame. Gli uomini che erano
riusciti a scampare dal nemico restavano morti di peste nei campi, altri di fame. Non avevano
chi li seppellisse, se non i cani e gli uccelli che li mangiavano.

312

E coloro che morivano sotto un tetto, non avevano sepoltura più onorata, essendo mangiati
dai topi. Gli uomini però si vendicavano di questo, perché la fame fu tale in molte parti che
essi mangiavano i topi, che si vendevano nelle macellerie pubbliche a prezzo molto alto. Erano
molto fortunate le città nelle quali si potevano comperare simili carni, giacché in altre era
inutile la diligenza di ognuno. Facevano baruffa per un rattone e nella lotta lo facevano a
pezzi, ritenendosi fortunato colui che pigliava un quarto di quest'animale così nauseante.
Colui che mangiava carne di cavallo si riteneva per un principe. Era una fortuna sapere dove si
trovava un cavallo morto. Alcune donne trovarono un lupo morto, marcio e pieno di vermi e si
gettarono sopra di esso, come se fosse una torta. I giustiziati non stavano sicuri nella piazza.
Vi era chi andava a tagliare loro pezzi di carne per mangiarseli; neppure i defunti nei sepolcri
erano risparmiati, poiché di notte li dissotterravano per sostentamento ai vivi. Ma che
meraviglia che si mangiassero i morti, poiché uccisero i vivi per sostentarsi nella carestia? Due
donne uccisero un'altra per mangiarla. Con esempi tanto recenti non è necessario
rammentare altre calamità di guerre antiche. Basta ciò che si è detto per vedere la moltitudine
delle fortune che si trovano in questa vita.

Miserie causate dagli affetti umani.


La calamità maggiore della vita umana non è la peste, né la carestia, ma le passioni umane
non regolate dalla ragione, per cui disse San Giovanni Crisostomo: L'uomo è il peggiore dei
mali. Ogni bestia ha un solo male proprio, mentre l'uomo possiede tutti i mali.

313

Il Diavolo infatti non osa avvicinarsi al giusto; l'uomo cattivo invece non lo teme, ma lo
disprezza. (Hom. 7 super Matth)
Ed in altra parte dice: È stato paragonato ai giumenti ed è simile ad essi; però peggio è
paragonarsi ai giumenti, che nascere giumento, poiché non è colpevole essere per natura
privato dell'uso della ragione, ma è un delitto della volontà dell'uomo, dotato della ragione,
farsi uguale alle bestie (Hom. in Ascensionem). Così ci riducono a condizione peggiore le
nostre passioni. Non è credibile ciò che patiscono gli uomini dagli uomini: da un invidioso, da
un collerico, o da qualsiasi schiavo di passione. Che cosa non ha patito Davide per l'invidia di
Saulle? Esili, fame, pericoli e guerre. A che fu ridotto Elia dall'ira di Jezabelle? Fu afflitto più
che da una pestilenza, poiché la stessa vita gli era di fastidio. A Nabot l'ingordigia di Acab tolse
la vita più presto di quello che avrebbe fatto la peste.
Qual contagiosa infezione cagionò giammai tanta strage, quanta l'ambizione di Erode, sugli
innocenti bambini? Qual contagio più mortale si può temere della condizione di Nerone e di
altri i quali, posseduti dalla loro passione, tolsero a molti la vita per un puro loro gusto?
Per questo disse Tullio: I desideri sono insaziabili e non solo distruggono persone particolari,
ma bensì famiglie intere, rovinando anche tutta una repubblica. Dai desideri nascono gli odi, i
processi, le discordie, le seduzioni e le guerre (De finibus).

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Che genere di tormenti e morti non ha inventato l'odio e la crudeltà umana? Qual sorta di
veleno non ha trovato la passione degli uomini? Orfeo, Oro, Medesio. Eliodoro e molti altri
autori trovarono cinquecento maniere di dare il tossico celato, ed altri molti le hanno
accresciute. In paragone dei nostri tempi ne seppero poco, poiché già non ci è via da
guardarsi; anche nel porgersi la mano per rappacificarsi si sono avvelenati gli amici. Solo nel
senso dell'udito non è stata aperta porta alcuna al veleno. In tutti gli altri sensi ha già fatto le
sue prove. Con l'odore di una rosa, con la vista di un foglio, col toccare di un filo, col gustare di
un acino, la morte ha saputo farsi strada.
Non è cosa che cagioni all'uomo maggiori miserie che le passioni, con le quali gli uomini non
la perdonano a se stessi. Il superbo si rode per la felicità altrui. L'invidioso si muore nel vedere
uno fortunato nella vita. L'avaro perde ogni pace per ciò, di cui non ha bisogno. L'impaziente
si precipita per ciò che non gli deve far né freddo, né caldo; il collerico si perde per qualunque
altra cosa. Quanti, per non vincere una sola passione, hanno perduto tutti i loro beni, il riposo,
la vita temporale ed eterna! Testimonio ne è Aman, che per volere più riverenza che non gli
era dovuta, perdette onore e roba e vita, sino a terminare su una forca. Parimenti l'ambizione
di Assalonne non sarebbe morta se non lo avesse appeso per la propria chioma ad un albero.
Non meno costò la vita a Ammone l'adempimento della sua brama sfrenata, che prima di
essere soddisfatta lo agitava più di qualunque febbre maligna.
Oltre a questo per molti le passioni non mortificate divennero veri carnefici crudeli, che hanno
tolto a loro l'anima. Scrive Dulcravio, (Historia Bohemiae, lib. II, anno 1418) che Venceslao, re
di Boemia, avvampò di tanta ira contro

315

un suo cortigiano, perché non lo aveva avvisato di un tumulto sollevatesi in Praga, che gli si
avventò sopra con la spada sguainata per ammazzarlo; ma essendo trattenuto dai circostanti
morì improvvisamente di apoplessia.
Anche Nerva (AURELIUS VICTOR., in Epitome vitae Nervae) morì improvvisamente per
un'ira, come riferisce Aurelio Vittore. Di Diodoro Crono scrive Plinio (PLINIUS, Lib. VII) che
per vergogna di non aver risposto bene ad un quesito di Strabene, morì repentinamente,
Quanti sono morti di paura, tristezza, gioia ed amore!
Voglio qui riferire un caso lacrimevole, narrato da Paolo Giovio (Lib. XXXIX Historia sui
temporis). Un uomo ammogliato aveva avuto pratica disonesta con altra donna, tanto
scandalosamente che il Vescovo della città fu costretto a scomunicarli ambedue. L'adultero
infelice accecato dalla passione, disprezzato il divieto del Vescovo, andò a visitare
segretamente la sua donna. Ma essa già pentita del male passato, lo ricevette con parole molto
aspre, riprendendolo della sua audacia ed intimandogli di partire senza indugio, né mai più
venirgli dinanzi. L'uomo disonesto cominciò a darle nome d'ingrata. Ed incrociando
disperatamente le braccia per rabbia, alzando gli occhi al cielo come per lamentarsi, restò ivi
morto, perdendo in un momento la vita temporale ed eterna, né fu data sepoltura sacra al
cadavere.
Ora, se le passioni non mortificate sono di tanto danno alla vita propria, che cosa saranno a
quella degli altri e a tutta la vita umana? Certamente, se anche mancassero tutte le altre
disgrazie umane, sono già molto grandi quelle causate dalle passioni umane. Vi è molto da
soffrire dagli uomini per i loro cattivi termini, per le loro ingrate corrispondenze, per le
ingiurie volontarie e le volontà avverse. Tutto l'uomo è miseria, e cagione di miserie. Chi v'ha
così fortunato, che contenti tutti, o che nessuno l'invidii? Chi v'ha benefattor così grande, che
niuno di lui si lamenti? Chi tanto liberale, che non incontri un ingrato? Chi tanto stimato, che
noi disprezzi un mormoratore? Gli Ateniesi trovavano da mormorare nel loro Simonide,
perché parlava assai alto. I Tebani accusavano Panicolo che sputava molto. Gli Spartani
notavano il loro Licurgo, che andava sempre a capo basso. Ai Romani pareva male il dormir di
Scipione, perché sonnecchiava forte. Gli Uticesi diffamavano Catone, perché mangiava presto,
e a quattro ganasce. E tenevano per incivile, e rozzo Pompeo, perché si grattava con un solo
dito. I Cartaginesi dicevano male d'Annibale, perché andava sempre sbottonato, e spettorato
nello stomaco. Altri burlavano Giulio Cesare, perché andava malamente cinto: Non v'è
nessuno così ben assettato, che non trovi che riprendere in esso l'invidia, e l'altrui mal affetto,
o talento stravagante.
Le miserie maggiori di tutte sono quelle, che gli uomini cagionano a se stessi coloro sfrenati
affetti. A questi principalmente indirizzò l'Ecclesiaste quella sentenza notabile, nella quale
oltrepassò quanto dai Filosofi della umana miseria fu detto: Lodai, dice, i morti più che i vivi,
e degli uni e degli altri più fortunato stimai chi tuttora non nacque, né vide i mali, che si
fanno sotto del Sole. Avvegnaché non c'è cosa che più offenda la umana vita, che i torti degli
uomini, gli odi, le ingiustizie, le violenze, le inumanità cagionate dalle passioni. Per lo che
ebbervi Filosofi, che grandemente aborrivano tutto il genere umano per vedere che guidavasi
dalla passione, e non dalla ragione. Tra quali Timone Filosofo Ateniese fu l'inventore, ed il più
appassionato promotore di questa Setta; imperocchè non solo si nominava nemico capitale
degli uomini, dicendolo a tutti in faccia; ma tali opere faceva, che confermavano le sue parole,
come fu non conversare, né dimorar tra la gente, viver sempre nel deserto con bestie, e fiere,
lontano da ogni abitato, perché nessuno noi visitasse; e vivendo in quel deserto non voleva
giammai esser veduto, né trattato, né visitato da uomo di sorte alcuna, fuorché da un Capitano
Ateniese , chiamato Alcibiade; nol trattava però per amor, o amicizia che gli avesse, ma perché
prevedeva che doveva esser il flagello degli uomini, nato a loro tormento; specialmente perché
sapeva, che i suoi vicini gli Ateniesi avevano per sua causa da patir molti travagli, e danni; né
si contentava di questo aborrimento, che aveva agli uomini col fuggire la loro compagnia,
quasi d'animali furiosi e crudeli, ma procurava di far tutto il danno che poteva per distruggere,
e rovinar il genere umano, inventando nuove maniere di spiantare, e finir gli uomini. Però
fece porre tra gli alberi del suo orto molte forche, acciò i disperati, e stanchi di vivere vi si
andassero ad impiccare. E siccome alcuni anni appresso per allargar la sua casa fu costretto a
spiantar quelle forche, si portò ad Atene, ove senza vergognarsene fece radunar il Popolo,
alzando gridi per le strade, quasi banditore, che volesse pubblicare qualche cosa di nuovo. Il
Popolo udendo la voce rauca, e barbara di quel sì orrendo mostro, e sapendo da alquanti
giorni di che umor peccasse, subito gli si affollò d'intorno, aspettandosi di udire una qualche
novità. Vedendosi già egli la maggior parte de' principali Cittadini, e de' Plebei adunati,
cominciò a dire a gran voce: Sappiate, Cittadini d'Atene, che

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per una certa necessità sopravvenutami, voglio abbattere le forche del mio orto; perciò, se
qualcuno desidera di impiccarsi, lo faccia subito”. E senza far altra arringa, terminata questa
amorosa offerta, ritornò a casa sua, dove passò il resto della sua vita in questa opinione,
filosofando sempre della miseria dell'uomo.
Quando fu assalito dalle ansie della morte, aborrendo gli uomini fino all'ultimo respiro,
comandò che il suo corpo non fosse seppellito nella terra essendo questa l'elemento, in cui
comunemente riposano gli uomini e dove comunemente si sotterrano i corpi umani, temendo
che le sue ossa non venissero a star vicino agli uomini visti e le sue polveri fossero toccate da
essi, ma che lo sotterrassero sulla sponda del mare, dove la furia delle onde allontanasse tutte
le creature e difendesse la sua sepoltura. Comandò che sopra la sua sepoltura si ponesse
l'epitaffio riferito da Plutarco: “Dopo la mia vita miserabile, mi seppellirono in questa acqua
profonda; non curarti di sapere il mio nome, o lettore, che Dio ti possa confondere”.
A questo filosofo mancò la fede e la carità e così, non distinguendo tra la malizia e la natura
umana, la aborrì del tutto, mentre si dovrebbe aborrire solamente la malizia per amare la
natura. Egli diede ad intendere con dimostrazioni tanto strane, quanto siano mostruose le
passioni, quanto devono essere aborriti i loro vizi, e quanto sia degno di odio tutto questo
mondo che si guida con la passione e non con la ragione. Se compatendo il genere umano, si
aborrisse solamente il suo fasto, la sua pazzia e la sfrenatezza delle sue passioni, senza dubbio
si starebbe nel vero.
I servi di Gesù Cristo devono desiderare di veder distrutta questa pompa ed il fasto degli
uomini, come Timone aborriva tutti gli uomini. Impiccate dovrebbero essere tutte le gale
superflue, tutti i delitti illeciti, l'ostentazione vana delle

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ricchezze, tutto l'oro e l'argento che serve per questo, tutti gli onori vani, tutti i titoli di
superbia, tutte le invidie rabbiose, tutta la collera disordinata, ogni vendetta ingiusta, ogni
passione disordinata, tutte queste passioni degli uomini, acciocché questi vivessero bene.

Il male della morte.


Sono tante le miserie della vita che non si possono contare tutte. Essa è piena di mali, il minor
dei quali si ritiene quello che fu qualificato per maggiore da Aristotele, cioè la morte, perché
vince in grandezza la moltitudine degli altri. Così molti hanno ritenuto per minor miseria la
maggiore di tutte le miserie. Perciò disse uno di essi che l'ultimo dei medici era la morte,
perché finisce con tutti i mali, pure essendo essa un male grande.
Per consolazione dei mali della vita davano come medicamento efficace la memoria della
morte che finirà con tutto.
Siccome però questa non è una consolazione comune a tutti, essendo tanto naturale il timore
della morte e trovandosi tra le miserie della vita i molti modi di perderla ed i pericoli della
morte, non ebbero da dar altro rimedio e consolazione filosofi molto grandi, se non disperare
del rimedio, come fece Seneca. Questi, essendo accaduto al suo tempo un grande terremoto
nella Campania, nel quale si affondò una città insigne, di nome Pompei, con molti altri villaggi
e perdita di bestiame, sicché gli uomini perdettero il giudizio e molte persone, che fuggirono
da quelle province, vivevano esuli dalla patria, e pieni di spavento, da loro per consolazione il
consiglio di tornare alla loro terra, dicendo che i mali non hanno rimedio, né potersi fuggire
dai pericoli della morte.
Tutto ben considerato, qual sicurezza si può avere della vita, giacché la stessa terra che si
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dice essere madre degli uomini, non le è fedele ed è causa di miserie e morti a città intere? Che
cosa vi può essere di sicuro nel mondo, se non lo è neppur lo stesso mondo e tremano le sue
stesse fondamenta? Se quello solo che vi ha di immobile e fisso per sostentare in sé i viventi,
vacilla con terremoti, se perde ciò che la terra ha di proprio, che è lo star ferma, dove potranno
i nostri timori trovare rifugio? Dove potremo essere accolti in luogo fermo, se la paura ci può
nascere tra i piedi ed uscire da quello stesso luogo in cui stiamo? Quando si disfa e trema il
tetto della casa, si può fuggire da essa al campo, perché possa cadere nella casa vuota; ma
dove potremo fuggire quando vacillerà lo stesso mondo? Dove potremo uscire quando
tremano le fondamenta delle città? Che consolazione ci può essere dove il timore ha perduto
la porta donde fuggire? Ai nemici resistono le città con le loro mura; durante le tempeste si
trova rifugio nei porti; contro le nevi ci difendono i tetti delle case; in tempo di peste si può
cambiare luogo; ma da tutta la terra chi potrà fuggire? Non si potrà dunque fuggire da tutti i
pericoli. Per questo, dice Seneca, può essere di consolazione il non aver i mali alcun rimedio; è
stolto il timore senza speranza.
La ragione allontana la paura in coloro che sono prudenti; a coloro che non lo sono può dar
sicurezza la disperazione del rimedio, per lo meno per togliere loro il timore. Chi desideri non
temere nulla, pensi che tutte le cose sono da temersi. Consideri per quali cause leggerissime
egli corra pericolo; perfino le stesse cose con cui si sostenta la vita gli tendono insidia. Il cibo e
la bevanda senza i quali non possiamo vivere, vengono a toglierci la vita. Non è accorgimento
il temere di essere inghiottiti dalla terra e non temere la caduta di un tetto.

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Nel punto della morte ogni sorta di morire è uguale. Che importa che un tale venga ucciso da
una pietra sola invece che da una montagna? La morte consiste nel lasciare l'anima il suo
corpo, il che può succedere per mezzo di cose ben deboli. Una ferita che faccia un coltello nella
tua carne basta per ucciderti.
Ben altra consolazione devono avere i cristiani in tutti questi pericoli e nelle molte miserie
della vita, ed è la buona coscienza, la speranza della gloria, la conformità con la volontà divina,
l'imitazione e l'esempio di Gesù Cristo. Con queste quattro cose essi avranno merito nella vita
e sicurezza nella morte, consolazione nella vita e nella morte e un premio nell'eternità.
Stando Giusto Lipsio molto angosciata nell'ultima infermità, per la quale morì, volendolo
alcuni consolare con ragioni filosofiche e sentenze di storici, che quell'uomo erudito aveva
tanto studiato, come si vede in quello che scrisse nella sua introduzione alla Dottrina Stoica,
rispose molto cristianamente: Vane sono queste consolazioni, ed indicando col dito
un'immagine di Gesù Cristo crocefisso, che ivi era appeso, disse; Questa è la vera consolazione
e la vera pazienza. Di poi, con un sospiro che usciva dal profondo del cuore, esclamò: Signore
mio Gesù Cristo, datemi la pazienza cristiana. Noi tutti, redenti dal Signore amoroso avremo
questa consolazione considerando che le nostre colpe sono maggiori delle nostre pene in
questa vita e che il Figlio di Dio, pur essendo esente da ogni colpa, volle patirne anche
maggiori, meritandoci che le miserie della vita occasionate dal peccato si convertissero in
strumenti di soddisfazione per gli stessi peccati, cavando rimedio dal veleno e convertendo il
veleno in antidoto.
Dalle cose dette possiamo anche dedurre quanto fosse ingiusto il lamento di Teofrasto, per
aver la natura dato vita più lunga a molti uccelli ed
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animali che agli uomini. Se la nostra vita fosse meno molesta, avrebbe qualche ragione; ma
essendo tanto miserabile, molti si stimeranno felici in averla più breve, perché, come disse
San Gerolamo ad Eliodoro, è meglio morire giovane e morire bene che morire vecchio e
morire malamente. Essendo faticoso questo viaggio, la fortuna non consiste nell'essere lungo,
ma in questo che sia prospero e che arrivi alla meta desiderata.
Dice Sant'Agostino (Sermo Quadragesimae) che il morire è lasciare un carico molto pesante
che portiamo nella vita; non è una fortuna che lo si lasci alla sera della vecchiaia, ma che al
tempo in cui lo dobbiamo lasciare non ci si carichi di uno maggiore. Viva un uomo dieci anni o
viva mille, la morte ha da venire, come dice San Gerolamo, ed è questa che rende uno
fortunato o disgraziato. Se vivi mille anni di una vita triste, sarà certamente una grande
sventura; ma sfortuna maggiore sarà, se li vivi di vita cattiva, anche se molto allegra. Così,
supposte tante miserie, non ci potremo lagnare di Dio, perché ci ha dato vita breve, ma
dovremo lamentarci di noi che l'abbiamo vissuta malamente.
Da ultimo, come dice Sant'Ambrosio, (Tract. V super loannem. hom. 57) siccome la nostra vita
è accerchiata da tante miserie, in suo confronto la morte non sembra una pena, ma rimedio
dei mali. Per questo fece Dio che fosse tanto breve, perché le sue molestie e disgrazie, alle
quali nessuna moltitudine di beni, di gioie, di piaceri può far da contrappeso, restino meno
pesanti per la brevità del tempo. Per lo meno, se con tante miserie non ci dispiace questa vita,
ce la renda più lieta la eterna con la maggiore felicità.
Non operiamo dunque meno per la vita immortale del cielo di quello che facciamo per la vita
mortale della terra, come dice Sant'Agostino.

323

Se per questa vita corri centomila leghe, quante migliaia di leghe dovrai correre per la vita
eterna? Se ti dai fretta per raggiungere alcuni pochi giorni incerti, come si dovrà correre per
raggiungere la vita eterna?

CAPITOLO OTTAVO

Il poco che è l’uomo nella vita mortale.

Ciò che è l'uomo.


Non tralasciamo di considerare ciò che è più grande nella natura, cioè l'uomo, e vedremo
quanto meschino esso sia mentre è nel tempo. Che a l'uomo? dice Seneca. Un vaso che si
rompe e si frange per qualsiasi movimento. Che cosa è l'uomo? Un corpo debolissimo e
fragile. Nudo per sua natura e senza armi, bisognevole di aiuto, esposto ad ogni ingiuria della
fortuna, impaziente del freddo e della fatica e composto di elementi deboli e corruttibili. Le
stesse cose, senza le quali non può vivere, gli cagionano la morte: l'odore, il sapore, la fatica, la
vigilia, le vivande e le bevande. Non rispose più favorevolmente il sapiente Solone, quando era
interrogato, che cosa fosse l'uomo. È un marciume nella nascita, una bestia nella vita, una
vivanda dei vermi nella morte. La stessa domanda fecero ad Aristotele (ARIST. apud
Aesthobiun, Sermo 46) e rispose: L'uomo è un'idea di debolezza, un rifiuto del tempo, un
giuoco della fortuna, un'immagine d'incostanza, un bilanciarsi d'invidia e calamità, e per di
più malattia e collera. Ascoltiamo anche

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Secondo, il filosofo, (Dionysus CARTH., De Novissimis. art. 15) il quale interrogato


dall'imperatore Adriano che cosa fosse l'uomo, rispose: È un'intelligenza incorporata (meglio
l'avrebbe significata, se avesse detto infangata), un fantasma del tempo, uno che entra nella
vita schiavo della morte, un ambulante passeggero, un ospite del luogo, un'anima affaticata,
un'abitazione di poco tempo. Dice San Bernardo che nel tempo della sua mortalità l'uomo è
un animale da soma. (Sermo 15 in Ps. Qui habitat). Il medesimo Santo dice in altra parte: Che
cosa è l'uomo? Un vaso di sterco. Nelle sue Meditazioni aggiunge: (In Formula bonae vitae -
Medit,. cap. 3.) Se guardi a ciò che ti esce dalla bocca e dalle narici e dagli altri canali del
corpo, non vedesti concimaia tanto fetente. Nella stessa parte dice: Non è altra cosa l'uomo, se
non un seme puzzolente, un sacco di cibo dei vermi.
Più esattamente disse Innocenzo III Papa: (De Contemptu mundi, lib. I, cap. I) Considerai con
lacrime di che cosa sia fatto l'uomo, che fa l'uomo e che cosa sarà dell'uomo. Fu formato di
terra, fu concepito in colpa, e nato per la pena. Fa cose cattive e turpi, che non gli sono lecite,
fa cose vane, che non gli convengono. Sarà alimento del fuoco, mangime dei vermi e massa di
putridume. O indegna viltà della condizione umana! O condizione degna della viltà umana!
Guarda come gli alberi e le piante producono fiori, foglie e frutti, mentre tu produci lendini,
pidocchi e lombrici. Quelli danno olio, vino e balsamo, mentre tu dài flemmoni, orine e sterco.
Quelli mandano odore buonissimo, mentre tu sei una puzza abominevole; come è l'albero, tale
è il frutto, perché l'albero cattivo non può far frutti buoni. Che cosa è l'uomo, se non un albero
a rovescio, le cui

325

radici sono i capelli? Questo è il fogliame che il vento porta via o paglia seccata dal sole. Tale è
l'uomo anche nella sua gioventù; ma se arriva alla vecchiaia, il che si ritiene per una felicità, il
medesimo Innocenzo Papa aggiunge: (Ibid., cap. 9) Tosto si affligge il cuore, la festa se ne va,
lo spirito gli manca, gli puzza il respiro, gli si corruga il volto, gli si incurva la persona, gli si
annebbiano gli occhi, gli tremano le membra, dalle narici corre umore cattivo, gli cadono i
capelli, il tatto si rende insensibile, i denti gli si marciscono, l'udito gli si insordisce. Non meno
si muta nella condizione dell'anima che in quella del corpo. Un vecchio facilmente si arrabbia,
difficilmente riposa, crede presto, si disinganna tardi, è tenace, ingordo, tetro, parla molto,
loda gli antichi, disprezza e vilipende i presenti, sospira, si angoscia, s'intorbidisce e si
ammala.
Puoi vedere pure che cosa è l'uomo per la materia dalla quale è stato fatto e in cui deve
risolversi. Ascoltiamo un pagano il quale dice delle miserie dell'uomo: È compassionevole e
vergognoso il pensare quanto frivola è l'origine dell'animale superbissimo sopra a tutti, cioè
dell'uomo. Molte volte l'odore di un recentemente morto è causa di aborto. Da questi princìpi
nascono i tiranni; da questi un animo di carnefice e flagello crudele. Tu che confidi nelle forze
del corpo, tu che prendi con due mani i doni della fortuna e non solo ti tieni per suo alunno,
ma per suo figlio, i cui pensieri ritieni per grandi vittorie, tu che ti tieni per dio, gonfiandoti
per qualsiasi successo, considera che potevi essere perito con molti altri ed ora lo puoi con
meno, con la ferita di un dentino di serpente, o come Anacreonte poeta, con un granello di un
acino di uva, o come Fabio senatore,
326

per un pelo inghiottito con il latte. Queste parole sono di Plinio, (Lib. VII, cap, 7) il quale non
solo si meraviglia della bassezza della natura umana, ma altresì della facilità della sua fine.
Considera pure dove va a finire l'uomo, cioè ad essere il suo corpo mangime dei vermi,
mandando da sé un odore pestilenziale. In vita, dice Innocenzo Papa, (Op. cit., lib. III. Cap. 1)
l'uomo vivo genera pidocchi e lombrici, morto, vermi e tafani. Vivo, egli produce sterco e
vomiti, morto, produrrà putridume e fetore. Vivo, egli può ingrassare solo un uomo, cioè se
stesso, ma morto, moltissimi vermi. Che cosa vi è di più nauseante che un cadavere umano?
Che cosa è più orribile che un uomo morto, i cui abbracci erano tanto gradevoli in vita, mentre
la sola sua vista in morte è tanto molesta? Che cosa gioveranno le ricchezze? Che cosa i
conviti? Che cosa i diletti? Non libereranno dalla morte, non difenderanno dai vermi, né
leveranno il fetore. Colui che poco prima sedeva molto glorioso in un trono, ora è gettato in
una tomba; colui che mangiava cibi preziosi in banchetti ameni, ora è mangiato dai vermi in
un sepolcro oscuro.
Anche San Bernardo, (Medit., cap. 7) considerando questa miserabile fine, dice: Tutto l'uomo
si converte in non uomo. Allora perché t'insuperbisci? Attendi a ciò che fosti, cioè un seme
vile, sangue agglomerato nel ventre, esposto poi a molte miserie di questa vita ed al peccato;
di poi nella sepoltura sarai mangiato dai vermi. Perché t'insuperbisci, polvere e cenere, la cui
concezione avviene nella colpa, la nascita nella miseria, la morte nell'angustia? Di che cosa si
insuperbisce l'uomo, poiché nel suo concepimento assume la colpa, nel nascere trova la pena,
nel vivere incontra la fatica e nel morire

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la necessità? Perché ingrassi ed abbellisci le tue carni con cose preziose, poiché tra pochi
giorni le mangeranno i vermi nella tomba? Perché non adorni con le opere buone l'anima tua,
la quale sarà presentala a Dio ed agli Angeli nel cielo?

L'uomo è incostante.
Oltre ad essere cosa tanto meschina e di materia tanto vile, l'uomo, anche in questa stessa
pochezza e viltà, non ha consistenza, perché non è altro che un fiume di mutazioni, una
corruzione perpetua e un fantasma del tempo, come disse il filosofo Secondo. Questa
instabilità è spiegata da Eusebio di Cesarea (De praeparatione evangelica, lib. III. cap. 7) con
queste parole: La nostra natura, che sta tra la nascita e la morte, è instabile e quasi fantastica.
Se la vuoi comprendere totalmente, come l'acqua raccolta nelle mani, quanto più la stringi,
tanto più presto si sparge; così le cose mutabili, più la ragione le considera, più sfuggono da
essa. Tutte le cose sensibili stanno per così dire in flusso perenne e continuamente si stanno
facendo e disfacendo e corrompendo, incapaci a conservarsi le stesse.
Disse Eraclito che era impossibile entrare due volte in un fiume, perché non appena è arrivata
l'acqua, già è passata e succede altra e così non si può attraversare due volte la stessa acqua.
Se consideri la sostanza mortale, non troverai la medesima, quando ritorni a considerarla, ma
solamente troverai una meravigliosa lestezza della sua mutazione. Ora si estende, ora
diminuisce. Ma non dissi bene, dicendo ora e ora, perché in un medesimo tempo,
simultaneamente, perde da una parte ed acquista dall'altra, e già è altra di quello che era; non
arriva alla consistenza e non sta mai ferma. L'embrione nasce dal seme, da quello il bambino,

328
il giovane, l'uomo, il vecchio e infine il decrepito. Passate le prime età, passa per le altre e
viene finalmente a morire.
Siamo certamente ridicoli noi uomini, temendo una sola morte mentre già molte volte siamo
morii e molte ancora moriremo. Non solamente la corruzione del fuoco è generazione
dell'aria, come disse Eraclito; ma questo medesimo avviene in noi più chiaramente, perché
corrotto il giovane, subito si genera l'uomo, da questo corrotto subito viene il vecchio, e dal
giovanotto l'uomo e dal bambino il giovanotto e da colui che fu ieri, quello che è oggi e da
quello che e oggi, quello else sarà domani e mai rimane il medesimo. Nessuno si conserva
immutato: però in un momento noi ci mutiamo con vari fantasmi in una materia comune.
Infatti se fossimo immutati perché le stesse cose le giudichiamo ora diversamente di prima?
Già diversamente amiamo ed aborriamo, già altre cose lodiamo e biasimiamo: usiamo altre
parole, ci muoviamo per altri affetti, non conserviamo la stessa forma, né facciamo i medesimi
giudizi delle cose, ciò che non sarebbe possibile se noi non fossimo cambiati. Ora chi si è in tal
modo mutato, non è più certamente il medesimo e se non è il medesimo, non è altro che una
continua mutazione, come quella dell'acqua, il senso si inganna per l'ignoranza di ciò che è e
pensa di essere ciò che non è. Allora che cosa sarà il vero essere? Quello che è eterno, che non
ha nascita, che è incorruttibile, che non si muta in nessun tempo. Mobile è il tempo ed unito
alla materia pure mobile continuamente corre come l'acqua del fiume, e come un vaso di
corruzione e di generazione, nulla ritiene, di maniera che il prima e il poi, ciò che fu e ciò che
sarà, è un nulla e ciò che è in questo tempo e sembra essere presente, questo medesimo passa
come un fulmine. Perciò, come il tempo si definisce essere misura delle cose sensibili e
siccome il tempo non sta mai

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fermo, né esiste, con ragione diremo delle stesse cose sensibili che non rimangono mai, non
stanno ferme e non hanno alcun essere. (EUSEBIO DI CESAREA, Op. cit.)
Più brevemente e con significato più profondo dichiarò la medesima cosa Davide, quando
disse che l'uomo era simile alla vanità, e un'altra volta che l’uomo era, mentre viveva, una
vanità universale. Onde disse San Gregorio Nazianzeno, che siamo un sogno instabile,
un'ombra e uno spettro che non si può afferrare.
Si rifletta su quanto fu detto, si guardi l'uomo in questo specchio, ed osservi di che cosa si
insuperbisca, perché presuma di sé, perché si affligga per cose della terra. Consideri ciò che
egli è e ciò che sono le cose. Pensi perché si sacrifica per questa vita mortale, perché si
insuperbisca e perché si turba per cose così da poco. Con ragione disse il profeta Davide che
invano si turba l’uomo (Ps. 38, 12). Considerando queste parole San Giovanni Crisostomo,
(Comm. in Ps. 38) molto meravigliato dice: Si turba l'uomo e perde il fine; si turba e come se
non fosse mai nato, si spegno e si consuma,- si turba e, prima che si calmi, si annega;
s'infiamma come fuoco e ritorna cenere come una stoppa; s'innalza come una tempesta in alto
e scompare e si sparge in polvere; come fiamma si sveglia e come fumo si disfa; come fiore
ostenta la sua bellezza e secca come fieno; si estende come una nube e scema come una goccia;
si gonfia come una bolla di sapone e come una scintilla si spegne; si turba e non ha con sé, se
non il fango delle ricchezze; si turba per guadagnare un fetore; si turba e senza frutto alcuno il
turbamento passa: suoi sono i turbamenti, ma di altri il regalo; sue

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sono le preoccupazioni, ma di altri i divertimenti; sue sono le afflizioni, ma di altri sono i
frutti; sue sono le preoccupazioni, ma di altri sono i diletti; sue sono le maledizioni, ma di altri
il rispetto e la riverenza. In lui s'innalzano i gemiti, in altri l'abbondanza delle cose; egli sparge
le lagrime, ma le ricchezze stanno con gli altri; lui sarà tormentato nell'inferno, ma altri spesse
volte trionfando e disprezzando i negozi temporali, staranno cantando. “Vane conturbatur
omnis homo”.
L'uomo non ha che una vita in prestito e per poco tempo; l'uomo è un debito della morte, che
deve pagare senza ritardo; è un animale indomito per la sua volontà e l'appetito dell'animo
suo; è una malvagità insegnata senza maestro, un'insidia volontaria, è astuto per la malizia,
ingegnoso per l'iniquità, inclinato all'avarizia, insaziabile per desiderare i beni altrui, spirito
fanfarone e pieno di temerità insolente e pieno d'una precipitazione inconsiderata di parole:
feroce, ma facilmente cedevole; arrischiato, che però facilmente è vinto.
Fango arrogante, polvere insolente, cenere superba, scintilla che al momento si spegne!
Fiamma che presto si disfa, luce che svanisce nell'aria, fogliame che presto si disperde, fieno
che in un istante si secca, erba che presto muore, natura che sempre si consuma, che oggi
nasce e domani finisce la sua vita; oggi in ricchezza, domani nella sepoltura; oggi con diadema
e domani tra i vermi: oggi fra i tesori e domani sotto la terra; oggi sei e domani non sarai più;
oggi trionfi e ti diverti e domani sei in pianto; oggi nella prosperità hai un fasto insolente e
nell'avversità non ammetti consolazione; non conosci te stesso e investighi con curiosità ciò
che è nell'interno degli altri: ignori il presente e ti burli del futuro; sei per tua natura mortale e
per la tua superbia li giudichi eterno; sei un albergo aperto ai turbamenti, un insieme di varie
infermità, un composto di calamità

331

quotidiane e un ricettacolo di ogni tristezza. Oh quanto grande è la tragedia della nostra viltà,
quanto grande il trionfo delle nostre debolezze! Oh quante cose ho detto! Ma tutto questo non
si può dichiarare meglio che con la voce del Profeta: Vane conturbatur omnis homo, invano si
conturba ogni uomo che vive. Infatti, le cose di questa vita che più splendono ed abbondano,
sono di minor utilità che un cadavere putrefatto. Tutto questo dice San Giovanni Crisostomo,
con cui dichiara bene la miseria dell'uomo, la brevità della sua vita e la vanità delle cose
temporali.

Che cosa è l'anima.


Ma non solo nel corpo l'uomo e tanto vile, mentre vive, e più ancora dopo morto, ma anche
nell'anima non merita maggior stima, mentre essa sta nel corpo. Sebbene lo spirito sia una
sostanza nobilissima, la rendono vilissima i nostri vizi, che la fanno più abominevole del
corpo, e senza dubbio, quando l'anima è morta nel peccato mortale, è dinanzi agli Angeli più
corrotta e fetente di un corpo morto da otto giorni. Se il corpo è pieno di vermi, essa è piena di
demoni e di vizi. Ma anche quando l'anima vive e non sta in peccato grave, siccome commette
peccati veniali ed è piena di imperfezioni, sebbene non sia morta, è però più fiacca, inferma e
nauseante del corpo. Se uno si conoscesse bene, si spaventerebbe per la miseria della sua
anima più che per quella del suo corpo.
Il divoto Padre Alfonso Rodriguez, insigne maestro di spirito, scrive di una Santa che
domandò luce a Dio per conoscersi, e vide in sé tanta bruttezza e miseria che non la poté
soffrire e tornò a supplicare Dio dicendo: Non tanto, o Signore, poiché vengo meno. Il Padre
Giovanni d'Avila dice che egli conobbe una persona che domandò a Dio molte volte che le
scoprisse il suo interno.
332

Dio le aprì un tantino gli occhi, ma ciò le veniva a costare caro. Si vide tanto brutta ed
abominevole che a grandi grida diceva: Signore, per la tua grande misericordia, levami questo
specchio dai miei occhi, non voglio più vedere la mia figura.
Dopo di aver condotto una vita ammirabile e molto perfetta, la fervorosa sposa di Cristo,
donna Sancia Cariilo, supplicò nostro Signore che le facesse il favore di farle vedere la sua
anima, perché, conoscendosi in essa la bruttezza delle sue colpe, si animasse ad aborrirle.
Condiscese il Signore alle sue suppliche e gliela mostrò in questa forma: Stando una notte
seduta nella sua sala con la porta aperta, ecco passarle davanti col suo bastone in mano un
eremita venerando, canuto. La persona, l'abito, in quel luogo, e così fuori di ora le cagionò
alcuno spavento nel cuore, ma fattasi animo: “Padre, gli disse, che cercate voi qui"? Quegli le
rispose: "Alzate questo mio manto e lo vedrete". Ella ubbidì e vide sotto la tonaca dell'eremita
una bambina molto debole che aveva la faccia tutta coperta di mosche. La prese in braccio e
disse all'eremita: "Padre che vuol dire questo?". Quegli replicò: "Non ti ricordi quando tu
pregasti insistentemente il Signore che ti facesse vedere l'anima tua? Ora vedine il ritratto;
tale la possiedi". In questo si dileguò la visione. Essa rimase così stordita ed intimorita, che le
sembrava, secondo quanto essa di poi affermava, di sentirsi venire meno per il dolore. Passò
turbatissima tutta la notte. Lo squallore, la magrezza, e la debolezza estrema della fanciulla
veduta le erano come tanti colpi di stile al cuore. Considerandola poi come ritratto della sua
anima, temeva fortemente del proprio stato.
Quel viso pieno di importuni e stomachevoli animaletti le raddoppiava il dolore, sembrandole
che sapessero di cosa morta o di piaga vecchia, onde mandava al cielo mille sospiri,
domandando a

333

Dio soccorso e misericordia. Venuto il giorno, andò subito a dar conto al suo confessore, uomo
dotto e ragguardevole in scienza e virtù. Con molte lacrime gli chiese di spiegarle la visione e
se per avventura quegli animaletti significavano peccati gravi, che ella non avesse conosciuti.
Il confessore prese un poco di tempo per raccomandare a Dio la risposta. Di poi ritornò e le
disse: "Signora, non affliggetevi, rendete anzi molte grazie a Dio del favore che vi ha fatto e
sappiate che la debolezza che vedeste nel ritratto della vostra anima è effetto dei peccati
veniali che snervano, ma non uccidono, indeboliscono la carità, ma non la estinguono. Se
fossero peccati mortali, avreste visto la fanciulla interamente morta". Ora, se a serve del
Signore così grandi si fece vedere l'anima loro piena di tante miserie, di che può mai l'uomo
miserabile gloriarsi, se egli in tutto quanto è, tanto riguardo all'anima quanto riguardo al
corpo, non è altro che miseria?

CAPITOLO NONO.

Quanto è ingannevole tutto ciò che è temporale

Dalle cose dette fin qui si può concludere quanto bugiardo ed ingannevole sia tutto quanto
passa col tempo, e che le cose della terra, oltre che essere tanto vili, incostanti e passeggere,
sono pure ingannevoli e piene di pericoli.
Le cose temporali ingannano.
Questo ci è significato nell'Apocalisse da quella meretrice che veniva a cavallo di una bestia
mostruosa, ossia la prosperità mondana che ha sopravvento in questo mondo. Dice la Sacra

334

Scrittura che era circondata di oricalco, che sembrava oro, per dar ad intendere la sua falsità,
perché non era oro fino e genuino quello che portava, ma solo apparente e finto; sebbene
sembrasse oro, non era che ottone, avendolo però indorato lo mostrava come oro genuino.
Così è della prosperità umana, la quale è attorniata dai beni della terra, che essa vende per
beni genuini, dipingendoli grandi, sicuri e durevoli, mentre essi sono meno che niente,
essendo tutto inganno e finzione. Di tutto questo si accorse bene Seneca, quando disse:
Solamente l'onesto è un bene; le altre cose sono beni falsi e adulterini. Come non sarà finzione
ed inganno ciò che, essendo vile, appare grande e di tanta stima che gli uomini non cercano
altra cosa, e pur essendo questi beni più mutabili che la luna, i beni ci sembrano sicuri,
trovando noi in essi soddisfazione, come se non avessero mai da mutare, ed essendo caduchi e
transitori, si cercano come se fossero immortali ed eterni, non ricordandoci della loro fine e
della nostra, dimenticando totalmente che quelli avranno da finire e noi avremo da morire con
loro; come non sarà questo finzione ed inganno?
È chiarissimo che essi sono falsi, poiché promettono tutto il contrario di quello che hanno e
sono. Come le prospettive, si sogliono rappresentare con figure bellissime, nelle pareti d'una
stanza oscura, quando entra la luce per un foro sottilissimo, ma se si aprono le finestre, in
modo che per ogni parte si faccia chiaro, allora altro non si vede fuorché tutt'al più alcune
linee di ombre nude di ogni colore; così avviene delle cose del mondo, le quali per
mancamento di luce dal cielo poco si conoscono, si spacciano ingannevolmente per belle e
grandi. Ma quelli a cui giunge il lume vivo del disinganno e della fede non ritrovano in esse
sostanza di bellezza, né di bontà. Tutta la felicità di questa vita è un inganno e una finzione e
non

335

fortuna vera, ma solo apparenza di felicità. I suoi beni non sono veri beni, ma solo ombre di
beni e così sono qualificati dalla Sacra Scrittura che, chiamandoli col nome di ombra, dichiara
bene la loro natura. L'ombra non è corpo, ma solo apparenza di corpo: pur sembrando
qualche cosa, è un nulla. Anche la sua incostanza e la sua fugacità meritano questo nome,
perché l'ombra sta sempre morendo e finisce presto; l'ombra, quando arriva al sommo del suo
crescere, è più vicina al suo termine e alla sua fine. Quanto più crescono i beni temporali, e
quanto più sale fino alle stelle la fortuna umana, tanto è più vicina a svanire ed a scomparire
repentinamente. Per questo uno degli amici di Giobbe disse: Vidi lo stolto che aveva messo
profonde radici nella sua fortuna, ma in tal punto io maledissi alla sua bellezza. (Job., 5, 3)
Quanto più gli sembrava di star fermo, era più vicino alla sua caduta.
Davide disse che vide il peccatore innalzato come cedro, ma non durò più di quanto può
durare un volgere d'occhi.
Che cosa è ingannare, se non pubblicare ciò che non è così e promettere ciò che non si può
adempiere? Ognuno può essere testimonio di quante volle gli riuscirono vane le sue speranze,
non trovando quel riposo che sperava e che pretendeva, promettendosi ricchezze, pace e
riposo, mentre non trovò altro, se non inquietudine, preoccupazioni, molte volte pericoli e
grandi danni. Per questo il nostro Divin Redentore chiamò le ricchezze inganni, dicendo che la
parola divina si soffocava con la falsità e l'inganno delle ricchezze. Non si accontentò di
chiamarle ingannevoli e false, ma le volle chiamare col nome stesso di inganno e falsità. Che
cosa infatti è più infedele ed ingannevole di quello che promette il contrario

336

di quello che dà? La prosperità di questo mondo promette beni e da mali; promette riposo e
dà sollecitudini; promette sicurezza e dà pericoli; promette contenti grandi e dà scontentezze
maggiori; promette vita dolce e la dà amarissima. Con ragione si dice nel libro di Giobbe che il
pane, mangiato dal mondano gli si convertirà in fiele di serpenti velenosi, perché in quelle
cose che sembrano tanto necessario alla vita, come il pane, in queste troverà la morte, mentre
caverà fiele dalle cose da cui sperava gioia. Non vi sarà nessun boccone che non porti qualche
amarezza. Non vi è felicità sopra la terra che non poni un gran contrappeso; non vi è fortuna,
per quanto innalzata, che non sia aggravata da qualche calamità. Come anticamente
dipingevano il genio dell'uomo in forma di un giovane con un braccio alzato e con delle ali con
cui volava, mentre l'altro braccio portava un gran peso che lo atterrava; così la felicità umana,
per quanto sia salita in alto, sempre ha qualche cosa che la opprime.

Il mondo non sazia il cuore umano.


Se vogliamo vedere con evidenza quanto ingannevoli siano le cose di questo mondo, un
argomento chiaro si trova nel fatto che nessuno di coloro che le stimano è contento di quelle
di cui gode nel suo stato. Prima di raggiungerle pensavano di essere felici nel loro possesso,
ma si ingannarono. Nessuno lascia di desiderare di più di quanto goda e possegga, il che pure
è segno della bruttezza delle cose, che così poco bene fanno, che non arrivano neppure a
soddisfare colui che le possiede. Si cercano per trovare gioie nella vita, poiché sembrava che le
promettessero; ma non hanno mai mantenuta la loro promessa, poiché non vi ha nessun
mondano contento del suo stato. Gli uni hanno invidia della vita degli altri, gemendo ognuno
e lamentandosi della sua, anche se essa è la più

337

fortunata del mondo. Esiste forse stato alcuno che all'apparenza possa essere più felice di un
re? Che disse della sua sorta e felicità l'imperatore Costantino? (EUSEB. CAESAR., Oratio de
laudibus Constantini) Che era vita un poco più onorata di quella dei vaccari e pastori, ma più
molesta e più penosa.
Meglio lo significò il re Alfonso di Napoli dicendo che essa è vita di asino per i molti carichi
che porta un re. Così non senza ragione si dice nel libro di Giobbe che gemono i giganti sotto
le acque. E ci avverte S. Alberto Magno, che per giganti s'intendono i potenti della terra, sopra
i quali piovono tante fatiche, significate dai nome di acque nella Sacra Scrittura, ossia un peso
intollerabile. Sono come i giganti che nelle grandi feste delle città si tirano fuori. Essi sono
delle figure multo vistose, coperte di oro e di seta, di molta grandezza e maestà; questo è ciò
che apparisce, ma quello che non apparisce è un ometto molto stanco e sudato che, affranto e
quasi morto, porta quella grandezza sulle sue spalle.
I muli dei grandi vanno caricati di ricchezze, di vasellame, di letti di broccato, cofani ornati,
collane d'argento, corde di seta, pennacchi, quando fanno la prima entrata nella corte; ma poi,
sebbene il carico sia tanto ricco e lucido, infine li ammazza e li schiaccia. Così è l'onore
dell'impero e del comando. Lo stesso Davide confessò di se stesso di essere come un
giumento, e che dal grande peso si sentiva i lombi sconquassati ed era tanto oppresso da
sentirsi disfatto. Alcuni re confermano ciò che volgarmente si racconta di Antigono, re della
Macedonia, il quale nell'atto di coronarsi disse: O corona più nobile che avventurosa, se i
pericoli ed i pesi dei quali tu sei carica,

338

fossero conosciuti, io non so se vi sarebbe chi ti alzasse dal suolo, anche se ti trovasse per la
strada! Il re Dionisio, per far capire le pene della vita di un re, lo dichiarò paragonandola con
quella di un condannato a morte. Questo fu significato pure nel vaso di oro tenuto da quella
donna che stava seduta sopra il mostro delle sette teste, figura del mondo. Infatti, sebbene il
vaso avesse buone apparenze, si dice che fosse pieno di abominazione, perché non vi è
nessuno che non dica male del suo stato e molti che sembrano i più fortunati sono soliti
abominare la loro fortuna, sebbene ad altri sembri la migliore.
Salomone fu il re che nel godere dei beni di questa vita superò lutti, poiché decise di saziarsi di
diletti fino a rimanerne satollo. Ebbe mille donne, settecento regine, trecento concubine, fece
grandi edifici, giardini, ville, boschi e peschiere attissimi alla pescagione ed alla caccia.
Godette di eccellentissime musiche, di cantori e per maggior sua ricreazione di vezzosissime
cantatrici. Fu servito da più scelto numero di valletti, che ebbe mai re alcuno. Oltre la
moltitudine della famiglia, l'ordine e l'abbigliamento della sua corte, rese la regina Saba
attonita di meraviglia. Aveva il più ricco vasellame che in Israele fosse mai stato veduto. I
cavalli per la sua cavallerizza ascendevano al numero di quarantamila, tutti con finimenti
preziosi. Il tesoro di argento e di oro che gli fu lasciato da Davide superava ben dieci volle le
ricchezze del re Dario, conforme al computo che fa Budeo. Finalmente giunse a tal punto della
fortuna e della felicità in ogni genere che egli stesso si meravigliava e si riconobbe per il re più
fortunato e ricco del mondo e disse; Chi si sazierà e nuoterà nelle delizie tanto quanto io?
(Eccl. 2, 25)

339

Eppure, quando sopra tutte queste felicità egli gettò l'occhio non abbagliato, qual giudizio ne
diede? Disse che tutto era vanità ed afflizione di spirito. Stava tanto scontento della sua vita
che confessò che pativa tedio e detestava l'industria che aveva impiegato per questo, e,
nutrendo invidia a un contadino od operaio, giudicava per miglior cosa mangiare del proprio
lavoro ed essere contenti di tanto. Tutta questa montagna di fortuna e felicità, ricchezze e
diletti, ingannò un re tanto sapiente come Salomone. Chi non resterà ingannato? Come
potremo fidarci di una parte di felicità, poiché tutta la quantità di gusti, ricchezze e fasti non
fu sufficiente per una vita tranquilla a colui che le possedeva? Qual altro argomento migliore
si troverà, se non la piccolezza di tutti i beni temporali, giacché tutti insieme non bastarono a
riempire un cuore umano? Siccome le cose non sono quello che appariscono, non si raggiunge
con esse ciò che si spera, e così nessuno è contento di quello che possiede, sembrandogli
sempre migliore la sorte degli altri.
Questo è un altro inganno delle cose che quando uno ha raggiunto ciò che desiderava per
conseguire il suo contento e, non trovandolo in esso, porta invidia allo stato altrui, pensando
che in quello troverebbe il contento che non trovò nel proprio, e cercandolo in casa altrui,
ritiene per minori quelle cose che si trovano in casa sua per maggior sua pena. Egli non ha
sperimentato ciò che succede ad altri, che egli troverà non meno scontenti della sorte loro.
Una favola antica descrive molto bene questo stato di cose.
Gli abitanti di Creta domandarono al loro Dio Giove, il quale era nato in quella provincia, che
concedesse loro il privilegio di essere esenti dalle fatiche tutti quelli che vivevano in essa. Ma
essendo loro stato risposto che quella era cosa impossibile sopra la terra, ed era una
prerogativa solamente di coloro che vivevano nel cielo, tornarono

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a supplicarlo perché, non potendosi loro concedere l'esenzione dalle fatiche, fosse almeno loro
concesso di poterle scambiare con chiunque le desiderasse. Furono esauditi in questa seconda
domanda. Nelle prime ferie ognuno fece il suo fagottino di fatiche e se ne caricò. Ma uscendo
poi per la piazza e cominciando a guardare ed aprire i lavori degli altri e a tastare i pesi altrui,
ad ognuno sembrarono maggiori quelli degli altri e non volendo nessuno cambiarli con le sue,
ritornarono alla casa loro, come ne erano usciti.
Il rimedio contro le fatiche non è il fuggirle, ma il rivolgersi a Dio, poiché da lui vennero, e fu
altissimo consiglio della Provvidenza divina che a nessuno mancassero quelle pene, perché
ognuno sconti le sue colpe e sperando il riposo soltanto nell'altra vita ed in Dio, lo riconosca e
lo serva. Perciò disse il profeta Osea che Dio fece con noi ciò che fa il marito con una donna,
lasciandola andare in cerca di altri amici, ma seminandole il cammino di spine, perché
addolorata dica: "Voglio ritornare al mio sposo primitivo (OSEA, 2, 7). Così Dio seminò i beni
di questa vita mescolati con fiele ed amarezza, perché l'anima che ne va in cerca rimanga ferita
e ritorni a Dio.
Altro argomento del grande inganno che procurano le cose temporali è il fatto che più se ne
posseggono, più se ne desiderano e che, dopo aver sperimentato la loro poca sostanza ed il
loro poco potere per soddisfare il nostro cuore, ancora non abbiamo cuore per abbandonarle.
Questo è certamente un grande inganno, è una specie di maleficio col quale avvincono l'affetto
umano, anche quando di più si dovrebbero fuggire. Nulla soddisfa e con tutto questo si
desidera ciò che non soddisfa. Quanto vane sono anche per chi le possiede tutte, il quale non
si contenta di averle, ma

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sempre ne vuol di più! Non bastò al re Acab tutta la potenza e la felicità del suo regno, né la
grandezza del suo palazzo per essere contento, ma, essendo signore di tante città e di tanti
campi, desiderò con tale estremo una triste vigna di un buon uomo, che non potendola avere,
cadde infermo dalla bile e per rabbia non voleva nemmeno più mangiare.
O beni della terra! Dove è la vostra grandezza? Tanti beni come quelli di un regno così grande
non bastarono per rendere contento il cuore di un sol uomo non soltanto, ma la mancanza di
un'unica miserabile cosa gli dava più dolore che non tutte le altre cose possedute gli dessero
contento. Tanto sono vane le cose di questa terra, poiché non possono dare quello che si cerca.
Per cui disse l'Ecclesiaste: L'avaro non si riempirà di denaro e colui che urna le ricchezze non
ne avrà frutto, e questo è vanità (Eccl. 5, 9)
Da tutte le cose dette in questo libro e in quei precedenti si può trarre quella conclusione che
l'imperatore Marco Aurelio ricorda nella sua Filosofia; (MARC. AUREL., Phil., lib. II) Il tempo
della vita umana è un momento, la natura è un continuo sdrucciolare, il senso è incerto nel
giudicare, il temperamento di tutto il corpo si corrompe e marcisce facilmente; l'anima è vaga,
la fortuna è difficile a giudicarsi quale sia, la fama è incerta, e, a dirlo in poche parole, quante
cose appartengono al corpo hanno la natura di un fiume e quelle che toccano l'anima sono
come sogno e fumo. La vita è guerra e pellegrinaggio. La fama, dopo la morte, è oblio. Ora, che
cosa vi ha che possa guidare l'uomo con sicurezza? Non vi ha altra cosa, se non la filosofia, la
quale consiste in questo: che tu conservi la tua anima senza macchia e lesione, incontaminata
ed

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integra, superiore al diletto e al dolore, che tu non faccia nulla senza un buon fine, che tu non
faccia nulla con finzione ed inganno, che tu non ti preoccupi di ciò che fa o deve fare l'altro.
Oltre a ciò che tutte le cose che succedono tu le riceva come venute dal medesimo principio
dal quale venisti tu stesso. Finalmente che tu aspetti la morte con animo pronto.

CAPITOLO DECIMO.

I pericoli e i danni delle cose temporali.

Il meno che fanno i beni di questo mondo è ingannare e rendere vane le speranze umane; ma
meno male, se dall'amicizia falsa di questi beni, uno uscisse solamente burlato, senza ritrovare
in essi ciò che sperava; il peggio è che egli vi trova quanto aborriva. Invece di trovare riposo vi
incontra affanno ed invece della vita trova la morte, convertendoglisi in veleno ciò che più
amava. Assalonne tra tutte le sue bellezze di nessuna andava più fastoso che dei suoi capelli, e
questi stessi che egli pettinava come fili d'oro gli servirono di capestro, rimanendo appeso ad
una quercia. Quanti amano al pari della vita le loro ricchezze che poi sono occasione della loro
morte! Questa è la calamità dei beni della terra, che notò il Savio quando disse: Vi è altra
infermità pessima che vidi sotto il sole: le ricchezze conservate per il danno del loro padrone
(Eccl., 5, 12). Questa è un'infermità universale ed incurabile delle ricchezze, nelle quali uno
mette l'affetto del cuore, che si convertiranno in danno

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del possessore, o del corpo o dell'anima, e non poche volte dell'uno e dell'altra.

I beni temporali nuocciono a chi li possiede.


Di maniera che dobbiamo considerare i beni temporali non soltanto come vani ed
ingannevoli, ma come traditori e parricidi. Con molta ragione i due grandi profeti Isaia ed
Ezechiele paragonano l'Egitto, il quale è il mondo con tutti i suoi beni, con un bastone di
canna sulla cui fermezza, se alcuno confidando si appoggia, si rompe il bastone, e si trafigge la
mano. Tra tutte le imperfezioni dei beni di questa vita ve n'è una molto grande ed è che fanno
del gran male alla stessa vita per il cui bene si desiderano. Infatti sogliono essere molto
dannosi per la vita eterna non solo, ma anche per la vita temporale. Quanti perdettero per
causa loro la felicità del cielo, e la felicità e quiete sopra la terra? Anche prima della morte
danno una vita di morte e, prima che nell'altra vita, fanno provare in questa un inferno con le
sollecitudini, con le inquietudini, con le agitazioni, con le angosce, coi crepacuori, con gli
affanni, con le fatiche, con le necessità, che per opera loro germogliano anche in mezzo alla
maggior felicità. Così scrive San Giovanni nell'Apocalisse (Ap. 20, 14), che la morte e l'inferno
furono gettati in uno stagno di fuoco, perché la vita del peccatore, di cui egli letteralmente
parla è una morte, è un inferno, e dice che questa morte e questo inferno saranno cacciati in
altro inferno. Colui che mise tutta la fortuna sua nei beni di questa terra, passerà da una
morte all'altra, da un inferno all'altro, e dall'inferno temporale, che ebbe in questa vita,
all'inferno eterno che avrà in morte.

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Guardiamo a quale stato i beni temporali ridussero Aman, poiché l'abbondanza di essi lo mise
a tal punto che, soltanto perché gli negarono una cortesia ingiusta, viveva morendo,
conservava nel suo petto un inferno di furore, vendetta ed odio, non contentandosi di cosa
alcuna della vita in mezze al fasto massimo della sua felicità, come confessò egli stesso. Quale
stato somiglia di più alla morte e all'inferno? Come nell'inferno vi ha la privazione di ogni
contento e gusto, così suole essere la vita per il più fortunato dei beni della terra, priva cioè di
ogni piacere.
Lo stesso che aveva confessato Aman, senti pure Dionisio, re di Sicilia, (CICERO, in Tuscul)
che non si dilettava di nulla fra i maggiori piaceri del suo regno. Disse Boezio (De
Consolatione phil.) che, se potessimo levare il velo a quelli che stanno sui troni più onorati,
vestiti di porpora e circondati di guerrieri, vedremmo le catene pesanti con le quali sta legata
la loro anima; il che è conforme a quanto disse Plutarco, che essi sono principi solo di nome,
mentre in realtà sono servi. Cosa meravigliosa che altri circondato da diletti, da passatempi e
piaceri non goda: accerchiato da ricchezza, porti un inferno nel cuore ed in mezzo ad una
vicenda concatenata di gioie, sia ripieno di pene! Che nell'inferno, dove sono tanti tormenti, il
peccatore non trovi contento, non è da meravigliarsi; ma che in questa vita, in mezzo ad ogni
sorta di beni terreni, non l'abbia, questo è un gran mistero ed una malvagia condizione di
quelle gioie che sono incapaci di accontentare.
Ma è provvidenza divina che, come i santi, avendo questi disprezzato tutto il temporale, si
sentivano in mezzo a grandi tormenti trasformata l'anima in un cielo di piacere e di giubilo,
come San Lorenzo, il quale tra le brage aveva

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un paradiso nel cuore; così parimenti il peccatore, il quale altro non ama, né apprezza che il
temporale, provi le amarezze della morte in mezzo alle soavità della vita. Sono tanto grandi gli
affanni che cagionano i beni della terra, che essi opprimono colui che più ne possiede e gli
chiudono la porta ad ogni allegria, lasciandolo in una notte tetra di tristezza e di patimenti.
Questo si rappresentò al profeta Zaccaria, quando in visione vide una donna, che prima di
esser trasportata dai demoni sulla terra straniera di Sennaar, fu messa in un'anfora, e,
spintavi in fondo, venne chiusa con un talento di piombo, posto sull'apertura. (ZACH., V, 5-8)
Nella stessa guisa, prima che un mondano sia annientato dai demoni per portarlo nella terra
tenebrosa dell'inferno, già in questa vita è schiacciato e messo in un'oscurità tanto grande che
non vede un raggio di luce, di disinganno, ed è come tappato, perché non entri nel suo cuore
né contentezza, né allegrezza completa.

Molestie causate dai beni temporali.


I beni di questa vita molestano la stessa vita per i pericoli che essi portano con sé, per gli
obblighi che ci fanno contrarre, per la preoccupazione che richiedono, per i timori che
cagionano, per le disgrazie di cui sono occasione, per le angustie in cui mettono, per le fatiche
che apportano, per i desideri disordinati che li accompagnano e finalmente per la cattiva
coscienza di colui che li stima. Con ragione Cristo Nostro Redentore chiamò le ricchezze spine,
perché ingrovigliano e feriscono in molte maniere con rischi, con danni, con disturbi e con
timori. Per questo disse Giobbe del ricco: Quando è satollato, si
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angustia ed è in ansia e tutto il dolore lo investirà" (Gb., 20, 22). Il che è spiegato da San
Gregorio (Lib. XV Moral., cap. 13) con queste parole: Prima ebbe dolore nella stanchezza della
sua cupidigia, pensando come raggiungere ciò che desiderava, alcune volte con carezze, altre
con terrore; quando sia arrivato a soddisfare i suoi desideri, altro dolore lo affatica: custodisce
i suoi beni con sollecitudine, teme i ladri, è sorpreso dal potente che gli può far violenza;
vedendo il povero sospetta che lo voglia derubare, e di più anche quello che possiede teme si
consumi. In ogni cosa poi vi è la pena del timore: e il disgraziato soffre tanti dolori, quanti
teme di dover soffrire.
Dice pure San Giovanni Crisostomo: (Homil, ultima in Matth) Il ricco necessariamente deve
aver difetto di molte cose, perché di niente si accontenta, va schiavo delle sue cupidigie, e
pieno di timori e di sospetti, va mormorando ed è additato e fatto nemico di tutti. Questo non
succede nella vita del povero, perché questa è la via regia, sicura, difesa e risparmiata dai
ladri, è un porto senza tempeste, scuola di sapienza, vita di pace e di quiete. In altra parte
dice: (Homil. 47) Se vuoi ben considerare il cuore di un uomo avaro ed insaziabile, lo troverai
con un vestito sciupato e consumato dalla polvere e dalle tignole, tanto guasto, stento e sfinito
dalle preoccupazioni che già non sembra più cuore di un uomo. Ciò non avviene nel cuore del
povero, che splende come oro ed è forte come pietra preziosa: è come una rosa che si
contempla volentieri, libera dal tarlo, dai ladri, dalle sollecitudini e preoccupazioni, e vive
come un Angelo del cielo, presente a Dio e al suo servizio, la cui conversazione è più con gli
angeli che con gli uomini, il

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cui tesoro è Dio, senza aver necessità di chi lo serva, mentre esso serve a Dio, tenendo per
schiavi i pensieri e le cupidigie che esso signoreggia. Ora, che cosa vi ha di più prezioso e di
più bello?
Meglio non si può esprimere quanto poco servano le ricchezze alla vita temporale, che con le
parole di Davide: i ricchi ebbero necessità e morirono di fame: ma quelli che cercano Dio non
saranno defraudati di bene alcuno. Se anche l'abbondanza temporale non può togliere la
necessità al corpo, come potrà levare dall'anima le sue angosce?
Gli onori non sono più benigni. Quale angoscia cagionano essi al cuore per non perderli e
quanta angustia per conservarli! Gravissimo è il tormento fino a privarsi del cibo per
sostenerlo. Come Faraone (Es., 5) comandò ai figli d'Israele cose impossibili, ordinando che
non si desse loro neppur la paglia per accendere i loro forni, come la si dava prima, e che ciò
nonostante non lasciassero di attendere alla loro mansione e al loro lavoro, di arte muraria,
che facevano prima quando si provvedevano di paglia, ed essi gemevano e davano voci al cielo,
perché si comandavano loro cose impossibili; la stessa tirannia esercita il mondo sopra molti,
togliendo loro l'abbondanza con cui prima si sostentavano, comandando loro di mantenere il
medesimo fasto ed onore e, non potendo sostentarsi e mangiare, sono obbligati a sostentare
l'onore, lasciando il mangiare per aver una carrozza, di cui non hanno bisogno, tenendo molta
servitù, che a loro avanza. In questa maniera l'onore trascina e stanca i suoi schiavi.
In altri poi quante melanconie causa il solo sospetto, che di loro si sia pensato e parlato male!
Sono tante le pene ed i mali che questo bene finto

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porta con sé, che molti lo abominarono e diedero grazie a Dio per aver levato loro il carico
dell'onore per vivere tranquillamente. Plutarco (De Vita Demosthen) dice che se offrissero a
uno due strade da farsi, di cui una portasse agli onori e l'altra alla morte, dovrebbe scegliere
questa e non quella. Luciano, volendo accentuare questo, scrive di una divinità che non voleva
essere Dio, perché non poteva soffrire il vedersi sempre onorata. Egli finse questa bugia per
dare ad intendere la verità che qui andiamo illustrando.
Ed anche l'esagerazione dei piaceri, oh quanto costa! Quanti mali ed infermità non cagiona!
Ma è già sufficiente il tormento che suole cagionare nella coscienza. Come uno, che ha deviato
dal retto cammino senza accorgersi, è avvertito dai crepacci e dagli intoppi che incontra, i
quali subito gli fanno capire di essersi perduto, restandone afflitto, anche se vada ben
comodo; nella stessa maniera il cammino per il quale va un uomo, desideroso di diletti, gli
dice che ha errato e così, per necessità, soffre melanconia e pena.
Ben disse San Gregorio (Hom. 10 super Exechielem) che cammina molto stoltamente chi
aspetta riposo e gioia nei diletti mondani. La pace e la gioia sono effetti dello Spirito Santo e
compagni della giustizia. Non può raggiungere tranquillità chi la cerca nel mondo, il quale è
tanto lontano dallo spirito di Dio, dalla giustizia e santità. Inoltre fra i diletti si intromettono
tante pene ed imbarazzi, che diventa più faticoso il cercare i propri gusti. Perciò Epicuro,
come scrive San Gerolamo, (S. HIER., Contra Iovinianum) pure essendo maestro di una vita
di piaceri, arricchì tutti i suoi libri di sentenze contro la gola ed altri gusti, riempiendo

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tutti i suoi ripostigli di ortaggi, frutta ed altri cibi molto vili, che procurano minor fatica ed
angoscia che i grandi conviti, che non si preparano, se non con grande cura e fastidio; cosicché
non è diversa in essi la pena del prepararli al diletto dell'abusarne.
Nella stessa maniera Diogene ed altri filosofi soltanto per la comodità di questa vita non
cercavano diletti e si privavano di tutti i beni per essa, vivendo in grande povertà. Crate gettò i
suoi beni nel mare, Zenone si augurò che i suoi beni si fossero annegati. Aristide non volle
accettare ciò che gli offriva Calisia, ed Epaminonda si accontentò di una tunica e, vivendo in
povertà e temperanza, viveva con gusto ed onore e senza necessità alcuna di quelle che
sogliono essere maggiori nei ricchi che nei poveri.
Il possedere molto non rende ricchi i padroni, bensì i loro scrigni e le loro casse, giacché essi
vivono sempre nella loro cupidigia, senza aver mai abbastanza di quello che posseggono.
Perciò di questi cosiddetti ricchi e dei poveri del Vangelo disse molto bene lo Spirito Santo: È
come ricco e non ha cosa alcuna: è come povero pur possedendo ogni cosa. Per il che notò San
Gregorio, che Gesù Cristo aveva chiamato le ricchezze del mondo, non ricchezze
assolutamente, ma ricchezze false ed ingannevoli, e perché sono ingannevoli, non possono
durare molto con noi, e non possono soddisfare le necessità dell'anima.

Il danno causato dai beni temporali.


Da temere di più è, quando i beni di questa vita cagionano i mali dell'altra, e non soltanto
tolgono la contentezza della vita presente, ma sono occasione dei tormenti della vita futura.
Dopo aver procurato un inferno nella vita, precipitano con la morte nell'altro. Ben disse San
Gerolamo in una lettera, che è cosa difficile che uno possa godere

350
dei beni presenti e dei futuri, e passare dai piaceri temporali ai contenti eterni, e che uno sia
riguardevole qui e là; poiché colui che pone la sua felicità solamente nell'essere arricchito, sarà
tormentato, colui che qui è adulato ed onorato senza merito, colà sarà giustamente
disprezzato.
Lo dichiarò bene San Vincenzo Ferreri con la similitudine del falcone e della gallina. Infatti,
quanta differenza è nella vita e nella morte di questi due uccelli, altrettanta suole essere fra i
ricchi e ben agiati delle cose temporali e coloro che per seguire Gesù Cristo se ne privano
vivendo in povertà e temperanza. La gallina, mentre vive, se la passa fra vilissima spazzatura e
letamai e tutt'al più si pasce di poca crusca; il falcone è ben provvisto e portato in pugno, è
pasciuto con petti di altri uccelli e con cervella di pernici. Ma nella morte si cambia la fortuna.
Il falcone viene gettato al letamaio e la gallina è posta sulla mensa dei re. Come Giacobbe
mutò la positura naturale delle mani, dando la destra al nipote che gli stava alla sinistra e
mettendo la sinistra sopra l'altro che gli stava a destra, anteponendo in tal maniera il minore
al maggiore; non altrimenti suole Dio cambiare nella morte le mani, dando la precedenza ai
piccoli, ai poveri ed ai disprezzati in questa vita.
Per questo disse Gesù Cristo Nostro Redentore: Guai a voi altri, ricchi, perché avete ricevuto
la vostra consolazione; guai a voi che siete saziati perché soffrirete la fame; guai a voi che
adesso ridete, perché piangerete e gemerete (Lc 6, 24-28). Il ricco fu colto dai mali eterni in
morte. Lazzaro invece venne accolto in seno a Dio. Il ricco, che nuotò fra vini preziosissimi,
non poté impetrare in morte una goccia di acqua; il povero Lazzaro, cui si negavano anche le
briciole di pane, nella morte godette di cena tanto abbondante quale è quella della

351

beatitudine eterna. Scrive il profeta Geremia, (GEREMIA, 39) che Nabuzardan condusse
prigionieri i ricchi in Babilonia lasciando i poveri in Gerusalemme, perché il demonio mena gli
schiavi ed amatori delle ricchezze a Babilonia, cioè alla confusione dell'inferno e lascia i poveri
di spirito in Gerusalemme, che è visione di pace, acciocché godano chiaramente della presenza
di Dio.
La felicità dei beni temporali cancella la memoria della grandezza dei beni eterni. Essa ci fa
dimenticare di Dio e dell'altra vita, acceca colui che li possiede, occupandolo tutto nelle cose
della terra, sciupa nei vizi sostanze e tempo, il che non succede al povero, il quale lavora o
serve o prega. Per tutto questo è tanto pericoloso il godere dei beni temporali, che san Paolo
(1Tim, 6, 9) chiamò le ricchezze laccio del demonio. Se in ogni laccio vi ha falsità e pericolo,
quanto ingannevole e pericoloso sarà il laccio del demonio? Anche Diogene (LAERTIUS, Lib.
VI, cap. 4) si accorse di questa verità e perciò chiamò questi beni velo di malizia e di
perdizione. San Gerolamo (Epist. 84 ad Algas) dice che anticamente vi furono due proverbi
celebri contro i ricchi; il primo: che il molto ricco non poteva essere uomo buono; il secondo;
che il ricco o è stato uomo cattivo od è erede di un uomo cattivo. Egli avverte ancora che il
nome di ricco nella Sacra Scrittura è un nome odioso e tanto infame, quanto è accettevole
quello di povero.
La verità è che la Sacra Scrittura tutta è piena di minacce contro i ricchi di questo secolo.
Soprattutto il Figlio di Dio disse sentenze molto importanti e tremende contro quelli che
abbondano di beni temporali. Dopo aver insegnato le beatitudini, delle quali la prima è in
favore dei poveri,

352
quando parla delle disgrazie riferisce la prima ai ricchi. In altra occasione disse che ad un
ricco è impossibile entrare nel regno dei cieli; volendo poi temperare questa sentenza, lo fece
dicendo che era difficile e di tanta difficoltà che c'è da spaventarsene, essendo più facile che
entri un cammello per la cruna di un ago, che un ricco in Paradiso; però a Dio nulla è
impossibile.
Da tutto ciò che è stato detto fin qui, si può raccogliere quanto degni siano non solo di
disprezzo, ma di odio i beni temporali, essendo essi ingannatori in cosa di grandissima
importanza e per conseguenza dannosissimi, atteso che ci ingannano per farci perdere non
solo la parte gioconda di questa vita, ma altresì la felicità dell'altra ed il medesimo Dio. Qual
odio sarebbe quello di una sposa fedelissima ed onestissima contro di un adultero, il quale
prendesse l'abito ed il sembiante del suo sposo e poi le scoprisse il malvagio inganno? Quando
sapesse e l'inganno e il danno che quel traditore le aveva arrecato in cosa tanto importante,
come lo aborrirebbe? Questo tradimento fa a noi la felicità temporale; essa si spaccia per vero
bene, rendendo il nostro cuore suo adultero, facendo che esso abbandoni il suo legittimo
sposo ed il suo vero bene, che è Dio.
Non vi è infatti vera felicità, né bene alcuno che non sia in suo servizio, che si trova soltanto
nel compimento della sua santissima volontà, per goderlo di poi eternamente. Per
conseguenza i beni temporali che coi loro inganni sogliono farci perdere i beni eterni, non
devono essere amati, ma aborriti come mille morti.

______________________
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LIBRO QUARTO

LA GRANDEZZA DELLE COSE ETERNE

CAPITOLO PRIMO.

Della grandezza delle cose eterne.

Sebbene la piccolezza e la viltà delle cose temporali sia per se stessa tanto grande, come
abbiamo detto, esse sembreranno molto più piccole ancora e vili a colui che consideri la
grandezza e maestà delle cose eterne, delle quali cominceremo ora a trattare.
La grandezza della gloria è tanto grande che dice S. Agostino: Se fosse necessario patire ogni
giorno dei tormenti, se fosse necessario star nello stesso inferno per molto tempo, per poter
vedere Gesù Cristo nella sua gloria e star nella compagnia dei Santi, non sarà molto degno e
conveniente patire quanto vi ha di tristezza e dolore per poter partecipare ad un bene ed una
gloria tanto grande? (Manuale) Questo detto di S. Agostino non

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si deve ritenere per una esagerazione, come non lo è neppure la sentenza che si attribuisce a
San Gerolamo, che cioè è da meravigliarsi che le pietre sotto i piedi di coloro, che dovranno
esser dannati, non si cambino in rose per sollievo anticipato a quei mali che dovranno patire, e
al contrario più ancora è da meravigliarsi che sotto i piedi di coloro che si salveranno, le pietre
non si cambino in tante spine che li feriscano dai piedi fino alla testa per castigare i loro
peccati, giacché avranno dei beni ineffabili per una fatica brevissima.

I beni eterni sono sommi.


Questa grandezza dei beni eterni non deriva soltanto dall'essere essi eterni, ma dal fatto che
sono anche sommi. Per il che, se il loro godimento fosse anche solo per breve tempo, non si
dovrebbe sfuggire da gravissimi tormenti di mille anni per goderli solo qualche giorno. Così
dice S. Agostino: È tanto grande la bellezza della giustizia e la dolcezza della luce eterna che,
sebbene non si potesse perseverare in essa più che un giorno, si potrebbero disprezzare
innumerevoli anni di questa vita, benché fossero pieni di piaceri e ricchezze (De libero
arbitrio).
Non si disse falsamente o con affetto cattivo quella sentenza: Meglio è stare un giorno nei tuoi
atri che mille nei tabernacoli dei peccatori (Psal. 83, 11). Ordinariamente si dice che per i
gaudi eterni del cielo si possono abbandonare quelli della terra, perché sono brevi e caduchi,
ma a S. Agostino sembrò

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di più: Se anche quelli del cielo fossero brevi e quelli della terra eterni, essendo quelli sommi,
si dovrebbero preferire, sebbene siano brevi, a quelli di questo mondo, sebbene fossero eterni.
Conferma questo ciò che scrive Tommaso di Cantiprato, (Lib. II. cap. 57. n. 67) il quale avendo
domandato al demonio che vorrebbe patire per veder Dio, gli rispose: “Patirei per questo
quanto patiscono i dannati nell'inferno uomini e demoni fino al giorno del giudizio, per veder
Dio per un momento”. Che uomo vi ha nel mondo che possa con ragione lamentarsi delle
fatiche che gli capitano, se per mezzo di queste gli si apre il cammino per godere di un tale
bene? Infatti, conforme a quanto disse il maggior nemico di Dio, non è molto quanto
patiscono e fanno gli uomini per servire a Dio, poiché saranno premiati con la vista chiara di
lui. Se a Catone, dopo aver letto la disputa di Socrate intorno alla immortalità dell'anima,
sembrò poca cosa dar la vita per andare a godere quella libertà eterna dell'anima senza
imbarazzo della gravità di questo corpo; qual cosa potrà sembrarci troppo grave per una
eternità di quel sommo gaudio, di quella vita beata e gloria senza fine?
Scrisse Eroldo (HEROLTUS, in Prompt. exemplorum) che mentre faceva gli scongiuri ad un
ossesso, fra Giordano, generale dell'Ordine dei Predicatori, avendo chiesto al demonio dove
andrebbe di preferenza, il demonio rispose: “Al cielo”. “E perché?”. "Per vedere la faccia di
Dio”. “Quanto ti sarebbe caro il vederla?”. “Quanto? rispose il demonio; io la vidi una volta per
poco più che un batter d'occhio e per vederla altrettanto patirei con gioia fino al giorno del
giudizio tutte le pene che patiscono i miei compagni”. Restò come fuori di sé fra Giordano per
questa risposta, e stando ancora un po' sopra

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pensiero, gli domandò poi: "Hai risposto bene, ma esprimi un poco con alcuna somiglianza la
bellezza divina". "Stoltamente chiedesti, rispose, perché se le bellezze delle creature si
unissero, se ogni stella risplendesse come il sole ed il sole quanto tutte queste stelle, ciò non
sarebbe niente più, rispetto alla bellezza di Dio, di quello che sia la notte più tenebrosa
rispetto al giorno più chiaro”. E qui dobbiamo ancora avvertire che il demonio non arrivò mai
a vedere chiaramente Dio, come lo vedono ora gli Angeli nella gloria; soltanto arrivò ad avere
una conoscenza particolare e più grande della bellezza, della grandezza e delle altre perfezioni
divine, con il gaudio che da questa conoscenza soprannaturale, sebbene non chiara,
proveniva. Il che bastò perché dicesse che per riavere quella illustrazione e quel gaudio
patirebbe tanti tormenti per tanto tempo. Che sarebbe poi il veder Dio chiaramente nella sua
gloria? E se per godere di un bene tanto sommo anche un giorno solo, non sarebbe troppo il
soffrire per migliaia di anni tutti i tormenti dell'inferno, che sarà allora il gaudio di essa, che
un solo giorno si può uguagliare a moltissimi anni?
Stando un monaco cantando mattutino insieme con gli altri religiosi del monastero ed
arrivando a quel passo del salmo che dice: "Mille anni nel suo cospetto è come il giorno di ieri
che già passò" (Psal. 89, 4), gli pareva cosa strana e cominciò a fantasticare come ciò potesse
essere. Egli era un gran servo di Dio e quella notte rimase dopo il mattutino, secondo che egli
era abituato, nel coro e pregò istantemente nostro Signore a spiegargli il vero senso di quel
versetto. Apparve allora ivi nel coro un uccelletto che cantando soavissimamente gli andava
svolazzando davanti e fra questi scherzi trasse

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bel bello il monaco dalla chiesa e lo guidò ad un bosco fuori del monastero. Si fermò sopra il
ramo di un albero a far la sua musica ed il monaco sotto l'albero ad udirlo; né andò molto, che
volò via con grande rammarico di quel buon servo di Dio. "O uccelletto amatissimo, diceva,
dove andasti? Tornerai tu?”. E vedendo che non tornava, ritornò al monastero, convinto di
essere uscito dal monastero quella stessa mattina, dopo mattutino e di giungere in tempo per
l'ora di Terza. Arrivando al convento che era presso la selva, ritrovò tutto muraglia ove era
prima la porta e la porta fabbricata in altra parte dove era muro. Dato il segno alla portineria,
il portinaio lo interrogò chi fosse, donde venisse ed a che scopo. Rispose: "Io sono il
sagrestano ed uscii poco fa e adesso ritorno e trovo, non so come, ogni cosa cambiata”. "E
quale è il nome dell'abate, del priore, e del procuratore?", chiese il portinaio. Questi glieli
nominò e si spaventava, perché il portinaio, mostrando di non aver mai udito tali nomi, gli
vietava l'entrata. Ottenne di esser condotto dinanzi all'abate, ma non si conobbero punto l'un
l'altro. Il buon monaco non sapeva né che fare, né che dire, tanto era confuso e meravigliato di
quella novità. L'abate gli domandò il suo nome e quello del suo abate. Cercando poi negli
annali, venne a sapere che erano passati più di trecento anni dalla morte dell'abate che egli
nominava fino a quel giorno. Allora il monaco si accorse di ciò che era successo sopra quel
passo del Salmo. Con questa relazione lo conobbero e lo ammisero come fratello della
medesima professione. Egli, dopo aver ricevuto i sacramenti della santa Chiesa, finì
soavemente la sua vita con molta pace nel Signore (IOANNES MAIOR., Verb. coelestis gloriae,
exempl. 14 ex collect.)

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Se la gioia di un solo senso così possedette l'anima di questo servo di Dio, che sarà quando
non solo l'udito, ma la vista, l'olfatto, il gusto, tutto il corpo e tutta l'anima saranno estasiati
nei loro gaudi proporzionati ai sensi del corpo ed alle potenze dell'anima? Se la musica di un
uccelletto sospese talmente i sensi, che cosa farà la musica degli Angeli? Che farà la visione
chiara di Dio? Che cosa sarà ciò che fu fatto da Dio per mostrare la sua onnipotenza? Come il
re Assuero, il quale regnava dall'India fino all'Etiopia sopra 127 province, per dimostrare la
sua grandezza e il suo potere, fece un convito solenne a tutti i principi, che durò per 180
giorni; così il supremo Re del cielo e della terra farà queste grandi cene della gloria, che hanno
da durare per tutta l'eternità, per mostrare il suo potere e il suo amore nell'onorare i suoi
servi. In questo sarà tanto grande il gaudio, che né l'udito udì, né gli occhi videro, né cadde in
cuore di uomo cosa tanto grande e beni tanto immensi. O viltà dei beni temporali! Che hanno
a vedere con questa grandezza, poiché sono tanto meschini, che non si possono sopportare
neppure da chi li possiede nel tempo? Chi vi ha che possa udire le migliori musiche di
strumenti sonori e voci soavissime di uomini per lo spazio di un mese senza far altra cosa? Chi
vi ha che non si stancherebbe di quel piacere continuato, senza cambiarlo, per un giorno
intero? Però la grandezza dei beni che Dio tiene preparati per coloro che lo temono e lo
amano, è tanto somma che per tutta l'eternità non stancherà, anzi sempre sarà gradita.

I beni eterni escludono ogni male.


Notò S. Anselmo questa differenza tra i beni ed i mali di questa vita e quelli dell'altra, che in
questa vita non si hanno né beni, né mali puri, ma

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solo mischiati e confusi. I beni sono imperfetti e mischiati con molti mali, mentre i mali sono
corti e mischiati con alcuni beni. Ma nell'altra vita, essendo i beni della gloria sommi, essi
sono purissimi, senza mescolanza alcuna di male e così non possono stancare. Se portassero
stanchezza, già avrebbero alcunché di male. Al contrario e nei mali dell'inferno, che sono
senza mescolanza di beni e così sono insuperabili e tremendi, di maniera che nel cielo vi sarà
questo sommo bene di aver ivi tutti i beni e di mancarvi ogni male; nell'inferno invece si avrà
questo sommo male di aver ivi tutti i mali e mancare di tutti i beni.
Per due ragioni è grande la gloria: per non aver alcun male ed essere i suoi beni sommi. Dice
Davide (Ps. 102, 12): "Quanto dista l'Oriente dall'Occidente tanto Dio pose lontane le nostre
colpe, ma non solo le colpe, bensì anche le pene Dio le pone tanto lontane dai suoi beati,
quanto dista il cielo dalla terra. Sebbene la distanza spirituale dei beni eterni sia maggiore di
quella materiale dal cielo alla terra, diremo ciò che si giunge a sapere o a dire di quello,
acciocché vediamo quanto lontani siano i mali dal cielo e quanti vantaggi abbiano i suoi beni
sopra quelli della terra. Il nostro insigne matematico Cristoforo Clavio (CLAVIUS, in Sphaer.,
c. 1) dice che dal cielo della luna, il più basso di tutti, fino alla terra vi sono 120.630 miglia, dal
cielo del sole 4.013.923 miglia, dal firmamento e ottavo cielo 161.884.943 miglia. Qui Platone
comanda che i matematici si fermino perché da quel punto in là manca la facoltà di misurare.
Ma v'è certamente molto di più dal firmamento

360

al cielo Empireo, (CORNEL. A LAPIDE, in cap. I Geneseos) perché soltanto il cielo stellato,
dicono che è altrettanto quanto vi ha tra la terra ed esso, di maniera che, se si gettasse una
pietra di mulino dall'alto del firmamento, per arrivare alla terra occorrerebbero 90 anni,
anche se cadesse a 200 miglia ogni ora. Affermano pure i matematici ed alcuni interpreti
dottissimi della Sacra Scrittura che è molto minore la distanza tra la terra fino all'ultimo del
firmamento di quella che vi ha tra questa e il più basso del cielo Empireo, e concludono che se
uno vivesse duemila anni e camminasse ogni giorno cento miglia, ancora non arriverebbe con
tutto il cammino di quei giorni al più basso del cielo stellato. Se poi camminasse altri due mila
anni nella stessa maniera, ancora non traverserebbe il grosso di questo cielo. Se poi
camminasse quattromila anni con la stessa velocità, ancora non arriverebbe al più basso
punto del cielo Empireo. Oh potere della grazia di Gesù Cristo, che in un momento fai
percorrere un cammino tanto lungo!
Quella generosa matrona che fu tormentata in Inghilterra e posta sopra una pietra acuta,
oppressa di poi con gran peso, ritenne per una grande fortuna il potere arrivare fino al cielo
entro sei ore e sembrandole corto il viaggio, disse a quelli che con orrore e dolore
contemplavano il suo martirio: "È tanto breve il cammino che porta al cielo, che entro sei ore
sarò innalzata sopra il sole e la luna, toccherò le stelle coi piedi ed entrerò nel cielo Empireo”.
E non in sei ore, ma in un momento l'anima santa, già purificata dalle sue colpe e pene,
entrerà colà, rimanendo più lontana dall'una e dall'altra di quello che sta la terra dal cielo.
Proporzionato a questa distanza di luoghi è il vantaggio che ha la grandezza del cielo sopra

361

quella della terra ed in questa proporzione stanno pure i suoi beni. Saliamo colà con la nostra
considerazione e, da quel luogo eminentissimo, disprezziamo tutto questo mondo mutabile,
giacché già i gentili lo disprezzarono. Perciò disse Tolomeo (PTOLOM., in Praef, Alma gestis):
"Colui il quale non si cura in che mani sia il mondo, è più alto che il mondo". Cicerone (In
Somno Scipionis) disse: "Qual cosa umana può sembrare grande a chi conosce che cosa è
l'eternità e tutta la grandezza del mondo? Tutta la terra mi sembra tanto piccola che mi
vergogno del nostro impero, col quale abbiamo toccato solo un punto di essa". Tutta la
grandezza dei regni della terra è un punto, e a Boezio sembrò che fosse il punto di un punto.
Del cielo disse Baruc: (Baruch., 3. 24) “Quanto è grande la casa di Dio, e quanto è grande il
luogo del suo dominio! È grande e non ha fine, eccelso ed immenso. Tali sono i vantaggi dei
beni eterni, anche se non fossero eterni. I suoi beni sono inesplicabili, grandi, senza
mescolanza alcuna di mali. Oh quanto stolti sono coloro che per un punto di terra perdono
tante leghe di cielo, coloro che per un gusto breve e piccolo disprezzano beni eterni ed
immensi! Oh grandezza dell'onnipotenza e liberalità divina che preparò beni che né occhio
vide, né orecchio udì, né caddero mai nel pensiero umano!
S. Agostino, il quale tanto altamente pensò e la cui intelligenza fu delle maggiori del mondo, si
trovò impari a dircelo e perfino a pensarlo. Mentre un giorno s'accingeva a scrivere qualcosa
su la gloria vide nella sua stanza un grande splendore, e sentì una fragranza tanto grande, che
lo trasse fuori di se, ed udì una voce che gli diceva: “Che cosa intendi, Agostino? Pensi che sia
possibile esaurire le gocce del mare o costringere in un

362

pugno tutta la rotondità della terra, o fare che i corpi celesti sospendano il corso del loro
movimento? Vuoi tu vedere ciò che nessun occhio vide? Vuoi tu udire ciò che nessun orecchio
percepì? Vuoi tu comprendere ciò che nessun cuore raggiunse, né intelligenza riuscì ad
intendere? Quale fine può trovarsi in ciò che è infinito? Come può essere misurato ciò che è
immenso? Prima saranno possibili tutte queste cose impossibili, di quello che tu possa
intendere la minor parte della gloria di cui godono i beati”. Se ad uno, il quale fosse sempre
stato in una prigione sotterranea, senza aver mai visto altra luce che quella di una piccola
candela, dicessero che sopra la terra vi è il sole, il quale è una luce che illumina tutto il mondo
per più di centomila leghe, questo tale, per quanto gli dicessero, non si farebbe un concetto
completo del sole. Ora molto meno può farsi un concetto della luce, della grandezza e gloria
delle cose dell'altra vita, per quanto si voglia dichiarare con il paragone delle più grandi
bellezze di questo mondo. Beni tanto ineffabili sono disprezzati da un peccatore, rendendosi
egli per questo disprezzabile e maledetto.

I mali eterni escludono ogni bene.


Nella stessa maniera i mali e le pene di questo mondo non sono paragonabili con la grandezza
di quelli eterni. Come trecento anni di un gaudio del cielo non sembrarono a quel servo di Dio
più che tre ore, così per il contrario tre ore delle pene eterne sembreranno molti anni. Oh
quanto cari costeranno i brevi gusti del senso, poiché si pagheranno con tormento tanto lungo
e moltiplicato! Se anche nell'inferno si dovesse soffrire una pena non più lunga del piacere
provato non sarebbe sopportabile e sembrerebbe infinitamente più lunga. Che sarà dovendo
essere eterno il castigo, mentre il piacere della trasgressione della legge divina non duro che
un momento?

363

Un religioso dell'Ordine Francescano (Chron. S. Francisci, p. II, lib. IV. cap. 8), per i
dispiaceri che cagionava ai frati infermi, domandava per castigo gli stessi loro disagi. Un
Angelo gli diede da scegliere tra un giorno di Purgatorio ed un anno di malattia. Egli scelse di
morire. Ma aveva appena passato un'ora nel Purgatorio, quando cominciò a lagnarsi
coll'Angelo perché l'aveva ingannato. L'Angelo gli apparì dicendo che il corpo suo non era
ancora sepolto e non era passata ancora un'ora. Gli permise di scegliere una seconda volta.
Ritornò l'anima del frate al suo corpo e si alzò dal letto con spavento di tutti.
Se questo avviene nel Purgatorio, che sarà nell'Inferno? Se un'ora di Purgatorio sembra un
anno di malattia, che sarà un'eternità d'inferno? Oh quanto caro costano i brevi gusti del
senso, giacché vengono pagati con tormento tanto lungo e moltiplicato!
Oh pene di questo mondo, infermità, dolori e miserie, come siete cose da burla in paragone di
quelle eterne, mentre il vostro durare è poco e il vostro affliggere non è molto! Oh cristiani, se
per le vostre pene temporali sfuggite quelle eterne, siete fortunatissimi e dovreste accettarle
con grande serenità e gioia!

CAPITOLO SECONDO.

La grandezza dell'onore eterno dei giusti.

Consideriamo in particolare la grandezza dei beni dell'altra vita fra i quali sono onori,
ricchezze, piaceri, beni dell'anima e del corpo. Di ognuna di queste cose faremo
considerazione particolare cominciando dagli onori.

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Non vi è dubbio che in paradiso sarà sommo il premio dell'onore concesso ai giusti. Prima di
tutto l'appetito dell'onore è il più forte della creatura ragionevole; in secondo luogo Gesù
Cristo ci ha esortati all'umiltà, per la quale ci ha promesso grande esaltazione ed onore. Così
in quel luogo della sazietà e del compimento di tutti i desideri, di rimunerazione e premio,
sarà certamente molto grande l'onore che toccherà al servo di Cristo, imitatore della sua
umiltà, conforme alle molte promesse contenute nella Sacra Scrittura. Il medesimo Gesù
Cristo disse che suo Padre lo onorerà nel cielo. Davide cantò: "Li ha coronati di gloria e di
onore" (Ps. 8, 6). L'Ecclesiastico dice e la Chiesa lo applica in questo senso: "La corona di oro
sopra la sua testa, dove era scolpito il sigillo della santità, con la gloria dell'onore ed opera di
virtù" (Eccl., XLV, 14).

Il trionfo del vincitori.


Inoltre tutto ciò che possono fare i servi di Dio, è soltanto dargli onore, poiché non possono
aumentare altro bene divino. Né il gaudio eterno di Dio può aumentarsi, né i servi suoi gli
possono essere di giovamento in cosa alcuna. Soltanto la gloria e l'onore, in quanto sono beni
esteriori, sono capaci di aumento. È questo che i santi con le loro opere danno a Dio, Essendo
Dio tanto riconoscente, li paga con la stessa moneta e non può fare a meno che onorare molto
coloro che onorano Lui.
Giunge quest'onore a tanto che Gesù Cristo stesso pronunciò queste parole: "A chi sarà
vincitore, darò la manna nascosta e gli darò una pietra bianca e sulla pietra scritto un nome
nuovo non

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saputo da nessuno fuorché da chi lo riceve" (Ap. 2, 17). Della quale promessa un santo Dottore
(S. BELLARMINO, De Aeterna felicitate, cap. 4) spaventato esclama: "Quanto grande sarà
quella gloria dell'anima giusta, assisa davanti alla infinita moltitudine degli Angeli sul
medesimo trono di Dio e di Gesù Cristo, e dal retto giudizio di Dio proclamata per vincitrice
del mondo e di tutte le potestà invisibili dei demoni! E con quanta allegria gioirà la stessa
anima quando si veda libera da ogni pericolo e affanno, trionfare felicemente di tutti i suoi
nemici! Che cosa ci sarà che essa possa ancor desiderare, se non di partecipare a tutti i beni
divini, fino alla stessa compagnia nel medesimo trono? Oh! quanto allegramente lottano sulla
terra, quanto facilmente sopportano le cose avverse per Gesù Cristo, coloro che conoscono e
vedono con viva e certa speranza onori tanto sublimi! Certamente con molta ragione fu
chiamata con il nome di gloria questa beatitudine, essendo tanto eccessivo l'onore che ivi
hanno i santi".
Qual onore sarà questo dell'altra vita, quando i giusti si vedano premiati della loro santità con
un premio non minore dello stesso Dio? La natura dell'onore è l'essere premio della virtù, e
quanto più un re potente intende premiare un grande capitano, per i suoi servizi, tanto più gli
dà onore. Ora quale onore sarà quello che Dio dà a quelli che lo servirono, non solo di
ascendere sopra le stelle, di abitare i palazzi del cielo, di essere signori del mondo, ma di
essere superiori a tutto il creato, non trovando fra tutte le sue ricchezze premio sufficiente per
onorarli, se non la sua stessa essenza infinita, che loro si darà da possedere e godere, non per
un giorno, ma per tutta l'eternità?

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L'onore maggiore che rendevano i Romani ai loro grandi capitani era dar loro un giorno di
trionfo, consegnando loro in quel giorno una corona di erbe o foglie di albero che all'indomani
si seccavano. Oh virtù onoratissima dei cristiani, il cui trionfo dura eternamente nel cielo,
dove riceverà per corona immarcescibile lo stesso Dio! O ricchissimo diadema dei giusti! O
preziosissima ghirlanda dei santi, poiché non è di minor prezzo dello stesso Dio! Sapore, re
dei Persiani, essendo avidissimo di onore e per ciò chiamandosi fratello del sole e della luna,
amico dei pianeti, fabbricò in un luogo molto sublime una macchina di vetro come una palla,
di tal congegno artificiale che, in mezzo ad essa, si rappresentava il sole, la luna e le stelle e
sembrava che salissero dal di sotto dei suoi piedi.
Esser coronato sopra questo ritratto dei cicli, dei pianeti quel re lo ritenne per sommo onore.
Quale sarà l'onore dei giusti che realmente ed in verità staranno sopra lo stesso sole, sopra la
luna ed il firmamento, coronati dalla mano di Dio? Se è onore il plauso degli uomini e la
buona opinione che hanno di alcuno, che onore sarà il plauso che avranno i giusti nel cielo e il
buon concetto non solo degli Angeli e dei beati, ma dello stesso Signore di tutti, il cui giudizio
vale più che quello di tutte le creature? Ora qual gloria può essere maggiore di quella che Dio
aggiudichi ad un giusto, ritenuto degno di un premio non minore di se stesso? Per Davide fu
di sommo onore che il re Saulle giudicasse il suo valore degno di un premio non minore che
ricevere sua figlia. Dio supera questo ed onora tanto i servizi di un predestinato che giudica
essere i suoi meriti tali da meritare cosa non minore che se stesso. Oh quale fortunata fatica
della virtù che raggiunge tale guiderdone! Oh fortunata lotta e battaglia dei giusti contro i vizi,
poiché merita tale corona nel trionfo della loro vittoria!

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Se uno è conosciuto da più uomini ed è lodato come buono dalla maggior parte di loro, si
ritiene per più glorioso; tutto questo mondo però è solitudine rispetto ai cittadini del cielo,
dove gli Angeli senza numero approvano e lodano le virtù dei Santi. Tutte le creature sono
come un nulla e tutti gli uomini ed Angeli insieme, come un eremo solitario rispetto al
Creatore. Che confronto ha la fama che possono dare gli uomini di un regno o di tutta
l'Europa, rispetto alla gloria che al giusto cagionerà l'approvazione di tutti i beati. Angeli e
uomini, e anche di tutti i dannati nel giorno del giudizio? Non ha paragone l'approvazione di
ogni intelligenza creata rispetto alla sola approvazione dell'intelletto divino, il quale solo può
onorare più che tutte le creature. Qual uomo è esistito tanto glorioso sopra la terra di cui sia
stato conosciuto da tutti gli uomini il valore? Coloro che nacquero prima del suo tempo non Io
conobbero, molti di coloro che nascono non lo conosceranno, ma non vi ha nessun
predestinato nel cielo che non sia conosciuto da tutti gli uomini del mondo, nati o che ancora
hanno da nascere, ed oltre che da questi, dagli Angeli e dal Re degli uomini e degli Angeli.
La fama umana si fonda nel plauso degli uomini mortali, i quali oltre che sono minori degli
Angeli, si possono ingannare, possono mentire e la maggior parte sono peccatori. Allora
quanto eccederà l'onore che si rende nel cielo ad un giusto dagli Angeli, dai santi e da quelle
anime purissime e santissime dei beati che non possono ingannare, né ingannarsi? Se uno
stima l'essere onorato dai re della terra, dai grandi del suo regno e dai dottori sommi
dell'università, più che dai rustici di un piccolo villaggio, ignoranti e barbari, quanto più deve
stimare l'onore che gli renderanno nel cielo tutti quei beati che sono re e grandi della corte di

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Dio e pieni di somma sapienza? Ben può uno soffrire di essere disprezzato dagli uomini per
essere poi onorato dagli Angeli; ben possiamo beffarci dei detti e giudizi ingannevoli dei
mondani, se sono contrari ai giudizi degli spiriti celesti.
Ogni onore umano è ridicolo e il suo appetito, come dice S. Anselmo (De Similitudinibus. cap.
65) non è più prudente di quello di un verme che desiderasse essere lodato dagli altri vermi ed
essere preferito ad essi. Una borgata è la terra o, per meglio dire, una capanna stretta rispetto
al cielo. Non preoccupiamoci di guadagnare nome in essa, ma curiamo che si scriva il nostro
nome nel cielo, nel cui paragone la terra non è più che un punto, come dice Seneca. Boezio (De
Consolatione phil., lib. II) prova che è ancor meno e dice: Se togliessi a questa piccola
particella di terra quanto occupano i mari, i laghi, i luoghi inabitati e pieni di fiere, appena
appena si lascerebbe agli uomini un luogo strettissimo di abitazione. Ora, rinchiusi in questo
piccolo punto, come peniate di estendere la vostra fama e di pubblicare il vostro nome? Si
confronti ciò che è la terra con quello che è il cielo e si vedrà il vantaggio dell'onore che si dà
nel cielo di fronte a quello che può dare la terra, perché non vi è minor differenza, tra un
onore e l'altro, della distanza ch'è tra il cielo e la terra.
Coloro che avranno la fortuna di salvarsi, saranno onorati da tutta la corte celeste. Che onore
si può sperare maggiore? Quale paragone possono avere tutte le riverenze ed adorazioni di
tutti gli uomini di questo mondo, con un solo inchino o riverenza di un santo del cielo? E
quella di tutti i santi insieme quale sarà? Dice la Chiesa di San Martino che quando entrò nel
cielo fu onorato con inni celesti, cioè cantati dai beati in sua lode. Se a Saulle sembrò troppo
l'onore di Davide che le

369

donzelle gli tributarono con canti di lode, che onore sarà quello celebrato a uno da tutti gli
Angeli e santi con mottetti celesti? A San Roberto Bellarmino Cardinale sembra che quando
un servo di Dio entra nel cielo, venga ricevuto con musica, cantandogli molte volte i beati
quelle parole: Rallegrati, servo buono e fedele, poiché fosti fedele in poche cose, ti costituirò
sopra molte, entra nel gaudio del tuo Signore. (Mt 25, 21) Essi ripeteranno a coro queste
parole. Questo sarà cantare vittoria, questo sarà onore sopra tutti, gli onori del mondo, perché
sarà onore vero dato da grandi sapienti, da persone sante e sincere. È quanto scriveva S.
Agostino: (De Civitate Dei. Lib. XXII, cap. 30) “Colà sarà vera gloria dove nessuno sarà lodato
per errore o adulazione di chi loda; onore vero che non si negherà al degno, mai si concederà
all'indegno.
I beati saranno onorati da Dio.
Ma se questo plauso ed onore, che nel cielo si renderà ad un giusto dai cittadini di quella città
Santa, è incomparabile, ben più lo sarà l'onore e l'espansione con cui dallo stesso Dio verrà
trattato. Per darcene un'idea, Cristo nostro Redentore lo volle paragonare all'onore che rende
un servo al suo signore. Disse che lo stesso Dio nel cielo si comporterà verso i beati come chi
loro serve a mensa. Qui tra gli uomini è sommo onore, se un re fa sedere uno alla sua mensa.
Ma che poi il re serva come uno schiavo al suo vassallo, quando si è visto od anche solo
immaginato? Certamente con ragione disse Davide a Dio: “I tuoi

370

amici sono troppo onorati.(Ps. 138, 17) Lo stesso Davide rese un grande onore a Mifiboset
facendolo sedere alla sua mensa, essendo questi nipote di re e figlio di un principe, il migliore
d'Israele, a cui Davide doveva la vita; ma non gli rese onore e cortesia più grande di questa.
Aman, che fu il più ambizioso e superbo degli uomini del mondo, giudicò che l'onore più
eccessivo che gli potesse fare il re Assuero era di comandare al primo dei principi e dei grandi
di tutto il regno di reggere il freno del suo cavallo, (Ester, 6, 9) mentre cavalcava per la città
sul cavallo del medesimo re. Ma non pensò nemmeno che lo stesso re dovesse andargli alla
staffa.
Eccede ogni pensiero umano l'onore che fa Dio ai suoi giusti senza saziarsi di onorarli. Oltre il
coronare tutti i beati con la sua medesima divinità, dando loro a godere e a possedere se
stesso, egli li onora con nuove corone per le imprese e le vittorie che riportarono. Di
Alessandro, fratello di Santa Matilde e figlio del re di Scozia, scrive Tommaso di Cantimprato
che egli apparve ad un monaco con due corone, e, domandato della cagione, rispose "quella
che io porto in capo, è quella che è bene comune a tutti i beati, ma quest'altra che ho nella
mano è mercede della mia rinuncia al regno per amore di Cristo". Così i martiri, le vergini ed i
dottori risplenderanno con aureole diverse, con le quali saranno distinti tra i beati nel cielo.
Insieme con il gaudio particolare che si comunica alle anime loro, si imprime loro un segno
bellissimo con cui saranno distinti e conosciuti fra tutte le altre anime, nello stesso modo che
coi sacramenti del Battesimo, Cresima ed Ordine si imprime un carattere che deve durare
eternamente.
Oltre a questo, quando risusciteranno, avranno una divisa particolare, perché siano conosciuti
ed onorati.

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Dei dottori disse il profeta Daniele che splenderanno come le stelle nel firmamento, dando ad
intendere che, come le stelle abbondano nel cielo per la luce maggiore, così i dottori saranno
conosciuti nella corte di Dio per il chiarore che manderanno da sé. E se il minore dei giusti
splenderà sette volte di più che il sole, che sarà quello che supera soli tanto splendenti? Dei
martiri dice San Giovanni che andavano vestiti di bianco con le palme nelle mani come segno
della loro vittoria. Come un re è onorato col vestirsi egli solo di porpora reale e col portare lo
scettro in mano, così pure sono onorati i martiri con quel vestito e con quel ramo di palma.
Il medesimo San Giovanni dice delle vergini che hanno impresso nella fronte il nome di Cristo
e di suo Padre. È questo un'insegna particolare che le distingue da tutte le altre, il che è
conforme alla profezia di Isaia, (ISAIAS, XXXVI) il quale dice che alle vergini si doveva dare
un nome superiore e più nobile di quello comune dei figli di Dio. Dice S. Agostino (De Civitate
Dei, lib. XXII) che per questo forse si dà loro un nome cioè un distintivo speciale, perché per
mezzo di esso si distinguano dagli altri, come per mezzo del nome gli uni si distinguono dagli
altri.
Le membra dei beati, con le quali essi hanno servito Dio e dimostrato il proprio amore,
avranno un segno o splendore particolare, come nota S. Agostino. Ora, che onore sarà quello
di Santo Stefano per il gettare raggi di luce più singolari da quelle parti, ove egli ricevette le
percosse delle pietre? E da che splendido manto sarà circondato San Bartolomeo, il quale fu
spogliato della sua stessa pelle? E San Giacomo l'Interciso, di che vaghissimi smalti avrà
fregiato ogni dito e membro,

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poiché glieli tagliarono uno ad uno per amor di Gesù Cristo?


Perfino i confessori in quei sentimenti, nei quali esercitavano mortificazione particolare,
avranno carattere particolare di luce. A Santa Matilde fu mostrato San Giovanni Evangelista
sotto uno splendore ed una grazia particolare negli occhi, per non aver mai osato alzarli per
guardare la Vergine, quando viveva con essa, per il sommo rispetto e riverenza che aveva per
lei. Non vi ha alcun modo di onorare che non lo si adoperi per gli atti eroici di virtù che si
compirono in questa vita, i quali si leggeranno in ogni predestinato senza aver bisogno di
storie, né di annali o statue, perché si sappiano e si eternino, come se ne ha necessità per gli
onori mondani. Questi sono manchevoli e caduchi ed hanno bisogno di queste cose per
conservarsi per alcun tempo, giacché non sogliono durare molto.
Per questo i Romani innalzarono statue a coloro che volevano onorare, perché essendo essi
mortali restasse dopo la loro vita quella immagine e memoria dalla quale si conoscessero essi
ed il bene che avevano fatto alla Repubblica. Nel cielo però non c'è bisogno di questo artificio,
poiché coloro che ivi si onorano sono immortali ed essi medesimi con una divisa particolare
daranno chiara testimonianza del loro valore e delle loro vittorie. L'onore dei giusti non
dipende da accidenti; non è esposto ai pericoli, non dipende soltanto dalla fortuna. Essi hanno
una gloria e dignità ben differente dalla gloria umana.
Le dignità dell'impero romano, come si desume dal diritto civile, erano quattro, i cui titoli
erano: perfettissimo, chiarissimo, spettabile ed illustre. Questi onori erano solo nel nome o di
riputazione, non nella sostanza e verità. Si chiamava perfettissimo chi era imprudente,

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stolto, appassionato, vizioso e in tutto imperfetto e mancante; si chiamava chiarissimo chi non
aveva chiarezza, né splendore alcuno, ma solo oscurità di molti vizi; si chiamava spettabile e
specioso chi, per non essere obbligati a guardarlo, si poteva fuggire per molte leghe; si
dicevano illustri quelli che erano involti nelle tenebre dell'ignoranza e dei vizi, senza aver virtù
che in essi rilucesse.
Perché si veda quanta distanza vi ha tra gli onori del cielo e quelli della terra, dalla verità alla
menzogna, nel cielo non solo si diranno beati, ma tutti saranno perfettissimi tanto nel corpo,
quanto nell'anima, senza nessuna imperfezione, né diminuzione, anzi saranno in tutto
consumati e perfetti. Non solo si chiameranno chiarissimi, ma lo saranno, poiché avranno il
dono della chiarezza, mandando da sé raggi più chiari che lo stesso sole.
Se il sole è la cosa più chiara della natura, coloro che dovranno trascendere sette volte la
chiarezza del sole saranno senza dubbio chiarissimi. Non solo si diranno spettabili o speciosi e
degni di essere visti, ma lo saranno, perché la loro bellezza e purezza sarà sommamente
spettabile, degna non solo di contemplarsi, ma di ammirarsi. Non solo si diranno, ma saranno
molto illustri, poiché basterà ognuno con la sua luce ad illustrare molti mondi, tanta sarà la
luce che manderà da sé. Se un solo titolo falso, di quelli che con verità i beati posseggono, era
ciò che onorava e rispettava l'Impero romano, quanto grande onore sarà avere di questi titoli
la verità e la sostanza nel cielo?
Con ragione Matatia chiamò la gloria del mondo sterco e vermi, essendo tutto l'onore e la
gloria umana viltà e nausea, ignominia ed infamia rispetto a quella che si rende nel cielo ai
giusti; tutta la dignità e grandezza della terra è oscurità e piccolezza rispetto alle dignità dei
Santi nel cielo. Quale onore maggiore che essere amici di Dio, suoi figli ed eredi e re nel regno
dei cicli? San Giovanni

374

nell'Apocalisse (Ap 4, 4) ci dipinse questo onore e questa dignità dei beati in quei ventiquattro
seniori che stavano attorno al trono divino, con tanta autorità e in tanta dignità che ognuno
stava alla presenza di Dio, non in qualunque modo, ma assise sopra un trono magnifico.
Erano inoltre vestiti di toghe e vesti più vistose, sopra ogni maniera bianchissime, in segno del
loro gaudio eterno e come dimostrazione della stessa loro dignità, ed erano coronati di corone
d'oro. Il coprirsi davanti a persona reale è l'onore più grande che i principi reali della terra
fanno ai loro grandi; Dio non solo rende questo onore ai suoi servi, ma permette che stiano
dinanzi a Lui, coperti di corone d'oro, seduti in un trono. Questo medesimo onore lo farà ai
suoi discepoli nel giorno del giudizio, quando saranno seduti con Cristo a far da giudici
insieme con Lui.

I Santi onorati nelle loro reliquie.


Certamente non è immaginabile onore maggiore di quello che raggiunge un predestinato. Se
guardiamo chi è che onora, è Dio; se guardiamo con che cosa onora, lo fa con minor prezzo
che con la stessa divinità e con altri doni sovrani: se guardiamo alla pubblicità dell'onore, lo è
davanti a tutto il teatro del cielo e nel giorno del giudizio, davanti al cielo e alla terra, davanti
agli Angeli, uomini e demoni; se guardiamo il tempo, è per tutta l'eternità; se guardiamo il
titolo, è la stessa verità e sostanza, non il vocabolo vuoto e il nome vano. Per tutto questo si
può ben vedere la causa, per cui, essendo la beatitudine un insieme di tutti i beni, si è
innalzato con questo nome di gloria, chiamandosi gloria per antonomasia, perché, sebbene si
trovino in essa contenti, piaceri, somme ricchezze e tutti i beni che si possono desiderare,

375

sembra che fra tutti, quello della gloria e dell'onore che si rende ai Santi superi tutto.
Si può vedere pure in qual modo Dio onorerà nel cielo le anime gloriose, da quello con cui si
onorano anche in terra le loro reliquie. Scrive in merito San Giovanni Crisostomo: (Hom. 26,
in II ad Corinth) “Dove sta ora il sepolcro di Alessandro Magno? Ti prego che me lo mostri e
che mi dica in che giorno è morto. Ma i sepolcri dei servi di Cristo sono tanto splendidi che
hanno occupato una città più importante e più imperiale di tutte, ed i giorni, nei quali
morirono, sono ben conosciuti e sono di festa per tutto l'orbe. Il sepolcro di quello è ignorato
dai più vicini, quello di questi è conosciuto dagli stessi barbari. Inoltre, i sepolcri di coloro che
servirono a Gesù Cristo eccedono in splendore i palazzi reali, non solo per ragione delle
magnificenze e bellezze degli edifici, poiché anche per questa parte li superano, ma il che è
molto di più, per la riverenza e per la gioia di quelli che vi accorrono. Infatti perfino colui che
veste porpora frequenta i loro sepolcri per far riverenze e, deponendo la sua maestà ed il fasto,
viene in abito umile supplicandoli che lo aiutino presso Dio, tenendo per patroni e protettori
un pescatore o un ufficiale di gabelle, che già sono morti, e con preghiere insiste presso loro
colui che è coronato con un diadema”.
Quali miracoli non ha compiuti Iddio per mezzo delle reliquie dei suoi servi? Che prodigi non
ha operato nei loro corpi? San Giovanni Crisostomo (In Sermone de Ss. Iuv. et Maximo) scrive
di San Giovenco e di San Massimo che i loro cadaveri dopo la morte mandavano tali raggi e
splendori che, chi li contemplava, non ne poteva tollerare la vista. Sulpizio Severo scrive di
San Martino che il suo corpo morto restò come glorificato, perché la sua carne era più pura
che il

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cristallo e più bianca che il latte. Coi corpi di Sant'Edoardo re d'Inghilterra e di San Francesco
Saverio che meraviglie non ha compiuto Iddio, conservandoli per tanti anni incorrotti? Se fa
questo coi corpi dei suoi servi che sono sotto la terra, che cosa farà col corpo e coll'anima,
quando i corpi gloriosi risusciteranno ed entreranno dopo il giorno del giudizio trionfanti
nella Città santa ed eterna di Dio?

CAPITOLO TERZO.

Le ricchezze e il regno eterno dei cieli.

Dio è il possesso dei beati.


Le ricchezze eterne non sono minori degli onori, sebbene siano tanto inestimabili, come
abbiamo detto; non vi sono ricchezze maggiori che il non mancare di nessun bene, né aver
difetto di ciò che si desidera. In quella vita beata non mancherà nulla ed ogni desiderio sarà
soddisfatto. Se non è ricco, come dissero i filosofi, colui che possiede, bensì colui che non
desidera, ivi avrà somma ricchezza, ove non si dà alcun desiderio da soddisfare.
Dissero anche gli stoici che il povero non era colui che difettava di qualche cosa, ma colui che
ne aveva bisogno. Come in quel regno celeste non vi avrà necessità alcuna, sarà ricchissimo
colui che vi entra. Quando Gesù Cristo tratta del regno dei cieli nelle varie parabole,
ordinariamente parla di queste ricchezze divine con nomi e parabole riferentisi a cose ricche.
Una volta lo chiamò tesoro nascosto, un'altra volta margherita preziosa, un'altra volta denaro,
poiché, se la beatitudine consiste nel possedere Dio interamente, quali ricchezze si possono
paragonare con esso? Quale possesso mai si può desiderare maggiore del possesso di Dio?

377

Quali eredità più vistose di quelle del regno dei cieli? Quali gioie più preziose della divinità?
Qual oro più eletto che il Creatore dell'oro e di tutte le cose preziose, il quale si dà ai Santi per
possesso e ricchezza, acciocché aborriamo tutte le cose temporali, se per causa di queste si
devono perdere quelle eterne?
Non si affliggano coloro che hanno da morire domani, per i beni che possono perire prima di
loro, né si affannino per possedere ciò che hanno da lasciare, né domandino con più istanza
ciò che è caduco di quello che preghino per la loro salvezza eterna, preferendo le ricchezze
periture a quelle che hanno da durare sempre, e la creatura al Creatore, non cercando Dio per
quello che è, ma per quello che dà e per quello che dà di meno, essendo temporale.
Di ciò scrive S. Agostino: (In Ps. 52) “Dio vuole essere servito gratuitamente; vuole essere
amato senza interesse, cioè con intenzione pura, e non per essere amato o perché dà qualche
cosa fuori di sé, ma perché si dà Egli stesso, e così colui che invoca Dio perché lo faccia ricco,
non invoca Dio, ma ciò che vuole che gli conceda. Che cosa è invocare o chiamare, se non
chiamare a sé? Quando si dice: Mio Dio, dammi ricchezze, non vuol che Dio venga a te, ma
che ti provengano le ricchezze. Se tu invocassi Dio, egli verrebbe a te, egli sarebbe la tua
ricchezza, ma tu vuoi avere lo scrigno pieno e vuoto il cuore, mentre Dio non gonfia lo scrigno,
ma il petto.

La grandezza del Regno dei Cieli.


Oltre che possedere Dio, importa molto farsi un concetto vivo del Regno dei Cieli che e di tutti
i giusti, dove regneranno eternamente con Gesù

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Cristo. Sono immense le ricchezze, perché essi sono re di un regno tanto grande. Il luogo dove
abiteranno i Santi nella beatitudine si chiama Regno dei cieli, perché è una regione
estesissima, molto più grande di quello che la nostra intelligenza possa immaginare. Se la
terra, pure essendo un punto rispetto al cielo, contiene in sé tanti regni e così grandi, quale
sarà quel Regno che è uno solo e che si estende per lo spazio immenso dei cieli? Consideri il
cristiano che cuore rimpiccolito avrà, se lo assedia l'amore delle cose presenti, sudando e
affannandosi per ottenere una particella dei beni di questo mondo, il quale tutto è una briciola
o meglio un puntino. Se si può possedere tutto ed essere signore dei Cieli, perché ci si
accontenta di briciole?
Sebbene questo regno di Dio sia tanto grande ed immenso, esso non è spopolato, anzi è pieno
di abitanti di sorti e nazioni diverse. Esso è tanto abitato quanto potrebbe essere una città o
una casa sola. Ivi c'è, come dice l'Apostolo, la presenza di molte migliaia di Angeli, ivi sta un
numero infinito di giusti, quanti morirono da Abele fino ad oggi, e già purificati, ed ivi
staranno coi loro corpi gloriosissimi e splendenti più che il sole.
Ivi risiederanno gli spiriti angelici in grande ordine e convenienza, distribuiti nei loro nove
cori, causando ammirazione con la loro bellezza, ai quali corrisponderanno con uguale
convenienza altri nove ordini di giusti: i Patriarchi, i Profeti, gli Apostoli, i Martiri, i
Confessori, i Pastori e Dottori, i Sacerdoti e Leviti, i Monaci ed Eremiti, le Vergini ed altre
sante donne. Tutta questa popolatissima città sarà abitata, non da popolo, ma da cittadini
tanto nobili, ricchi, giusti e sapienti, che tutti saranno come re sapientissimi e santissimi.
Quanta felicità sarà il vivere con tali persone! Soltanto per vedere Salomone venne la regina
Saba dagli ultimi confini della terra. A veder Tito Livio in

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Roma veniva gente dalle province più lontane; per vedere un re che esce dal suo palazzo
concorre tutto il popolo; che sarà non solo vivere, ma regnare con tanti Angeli e trattare con
uomini tanto eminenti e santi? Se soltanto per vedere S. Antonio nel deserto gli uomini
abbandonavano le loro case e la patria, che gaudio sarà veder tanti santi nel cielo, conversare e
trattare con essi? Ben si possono lasciare i beni della terra per assicurare il possesso di beni
tanto maggiori nel regno di Dio.
Se scendesse ora dal cielo uno dei Profeti o degli Apostoli, con quanta meraviglia e gusto
uscirebbero tutti a vederlo e udirlo! Ora nell'altra vita non solo un Profeta o un Apostolo
avremo da vedere e trattare, ma tutti insieme. Quando San Romano, ancora pagano, vide un
Angelo solo, lo ammirò tanto, che abbandonò tutte le cose della terra e la stessa vita per farsi
cristiano; che meraviglia sarà vedere in tutta la loro bellezza e grandezza migliaia e migliaia di
Angeli insieme con tanti corpi gloriosi con immensa chiarezza? Se un unico sole basta a
rallegrare il mondo, che faranno tanti soli vivi e tanto innumerevoli in quella regione di luce?
In virtù di questa grande frequenza di abitanti nel luogo della gloria, non solo si chiama Regno
dei Cieli, ma altresì Città di Dio. Si dice regno per la sua immensa grandezza e si chiama città
per la sua grande bellezza e per essere molto abitata. Quello non è come gli altri regni e le altre
province che non tutti sono abitati ed hanno grandi deserti, monti inaccessibili e boschi
foltissimi, sono divisi in molte città e villaggi, distanti gli uni dagli altri, mentre il Regno di
Dio, sebbene estesissimo, è tutta una città bellissima.
Chi non si meraviglierebbe, se vedesse che tutta la Spagna od Italia fosse una sola città e si
estendesse per tante leghe, quante contengono queste Nazioni, e che tutta questa città fosse
tanto bella, come fu Roma al tempo di Cesare

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Augusto, il quale la fece di marmo, mentre prima era fatta di mattoni? Quale vista sarebbe
quella della Caldea, se tutta fosse come Babilonia, e quella della Siria, se tutta fosse come
Gerusalemme, quando stava al colmo della sua bellezza? Quale sarà la città celeste dei santi,
che con la sua grandezza occupa tutto il Regno dei Cieli e più ancora, essendo, come la dipinge
la Sacra Scrittura, tutta di oro e pietre preziosissime, per significare le ricchezze che
possederanno i servi di Dio?
Dice San Giovanni che le porte della città erano ricchissime margherite; le mura erano tutte di
pietre preziose, di diaspro, zaffiro, calcedonio, smeraldo, topazio, giacinto, ametista ed altre
pietre preziosissime; le vie e le piazze erano di oro finissimo e tutta la città e le abitazioni e i
palazzi dei Santi erano ugualmente di oro puro, che sembrava vetro cristallino, unendo così in
una medesima materia la robustezza dell'oro e la trasparenza del cristallo con la bellezza
dell'uno e dell'altro.
Se tutta Roma fosse di zaffiri, il mondo se ne meraviglierebbe; che meraviglia sarà quella città
santa che estendendosi per milioni di leghe è tutta di oro, margherite e pietre preziosissime o,
per meglio dire, di più che di oro e perle, ed abitata da tanta moltitudine di bellissimi
cittadini! Come i suoi abitanti sono senza numero, la sua capacità è senza misura. Diogene
disse che il cielo era un tetto immenso, ma questo con più ragione si può dire del cielo
empireo, dove sta la corte di Dio, la sua città e il suo regno. Dicono di esso insigni matematici
che è tanto grande che, se Dio desse anche ad ognuno dei beati ed a tutti quanti uno spazio
maggiore che tutta la rotondità della terra, cionondimeno avanzerebbe tanto spazio che
sarebbe sufficiente a darne ad altrettanti.
Giungono pure a ponderare la grandezza di questo cielo tanto capace dicendo che avrà di
lunghezza più di diecimila e quattordici milioni di miglia

381

e di larghezza tremila e seicento milioni; che sorpresa sarà vedere una città di tante migliaia di
milioni di miglia tutta di oro lucidissimo e trasparente come un cristallo? I Teologi confessano
che questa capacità del cielo empireo è quasi immensa, ma più si divertono in ammirarla che
osare di prenderne la misura. Non manca Teologo (Io. GAILER, in Pellegrino) che dica che, se
Dio facesse di ogni granello di arena della sponda del mare che fosse tanto grande come
questo mondo terreno, sì da sembrare infiniti, con tutto ciò non riempirebbe la capacità del
cielo, occupato da quella città santa, tutta lavorata di materia più vistosa e più preziosa che
l'oro, di perle e di diamanti. Certamente la mente può appena concepire ricchezze e meraviglie
tanto prodigiose, per acquistare le quali dovremmo volentieri patire tutte le necessità e pene
di questo mondo.
Trovandosi una volta San Francesco fortemente tormentato da un dolore di occhi, che non gli
lasciava prendere punto di sonno, aggiungendosi le molestie del demonio che gli riempiva la
stanza di sorci, acciocché coi loro movimenti facessero maggiore la sua pena, egli con pazienza
meravigliosa rendeva grazie al Signore, perché con mano sì piacevole lo castigasse, e diceva:
“Signore mio Gesù Cristo, maggiori castighi io merito di questi; concedetemi che non valga
tribolazione alcuna ad allontanarmi da voi”. In questo sentì dirsi da una voce invisibile queste
parole: “Francesco, se tutta la terra fosse oro schietto, ed i fiumi corressero balsamo ed i monti
e dirupi fossero rubini e diamanti, non ti sembrerebbe questo un tesoro grande? Ora sappi che
c'è un altro tesoro tanto più stimabile quanto più del fango è l'oro, dell'acqua il balsamo ed
una pietra preziosa più che vile alga. E questo tesoro si deve alla tua infermità per premio, se
tu in essa stai di buon cuore. Godi dunque,

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Francesco; questo tesoro è quello della gloria, alla quale si va per via di tribolazioni”. (Chron.
Fratr. Min., p. 1, cap. 60)
Con ragione certamente si può patire qui qualche pena e povertà, poiché nella gloria si
raggiungeranno ricchezze tanto maggiori, di cui quella città santa è un immenso tesoro, a cui
spesse volte dobbiamo elevare l'anima, allontanando il cuore da ogni felicità caduca e dai beni
della terra, dicendo con Davide; Cose gloriose si dicono di te, o città di Dio! (Ps. 86, 3) Così
faceva San Fulgenzio, il quale, entrando una volta in Roma, tutta splendida per alcune
solennità, ed ammirandone la grandezza, la magnificenza e l'architettura, disse con
ammirazione: Quanto bella sarà la Gerusalemme celeste, se così è la Roma terrestre?
Un'ombra di questo fu mostrato al re Giosafat, la cui storia è scritta da San Giovanni
Damasceno. Stando in profonda orazione prostrato a terra, lo sorprese un dolce sonno e vide
due uomini di grave sembiante che lo portavano per regioni sconosciute in un campo pieno di
fiori e di piante di rara bellezza cariche di frutti mai visti. Le foglie degli alberi, mosse
blandamente da una brezza marina delicata, davano un suono dolce e spiravano fragranza
soavissima. Ivi scorse una moltitudine di seggi fabbricati di oro e pietre preziosissime di
nuovo splendore. Vi correvano ruscelli di acqua cristallina che davano un piacere
straordinario alla vista. Da qui entrò in una città bellissima; le sue mura erano di oro
trasparente, le sue torri di pietra mai vista eguale per valore e lustro, le sue vie e piazze piene
di fiumi celesti di luce; andavano per essa eserciti lucidi di Angeli e Serafini, intonando canti,
quali non udirono mai orecchie mortali. Fra tanto concento sentì una voce che diceva: “Questo
è il riposo dei giusti, questo e il gaudio di coloro che diedero a

383

Dio conto della loro vita”. Ma tutto questo non è altro che sogno e ombra in paragone della
verità e della grandezza e ricchezza di quella corte celeste.
In questa ricchissima città dunque avranno da regnare i beati insieme con Gesù Cristo.
Quanto grandi saranno le loro ricchezze! Chi fu tanto ricco da avere all'entrata della sua casa
una lastra di oro larga due metri? Che ricchezze saranno quelle del cielo, se sarà di oro tutto il
regno celeste e tutte le vie e case di quella città santa e non solo di oro, ma più che oro?
La Sacra Scrittura, per farci intendere da una parte le ricchezze del Regno di Dio e dall'altra
che sono di un genere superiore a quelle della terra, ce le disegnò con la somiglianza delle
ricchezze di questo mondo, quali sono oro, margherite, pietre preziose, perché noi
intendessimo con questi nomi ricchezze grandi. Dall'altra parte ci dipinse queste cose in una
maniera con la quale non si trovano sopra la terra, poiché, sebbene le chiamasse gemme,
significò che erano tanto grandi, che servivano di porte alla città, mentre le gemme anche più
grandi della terra non sono che come una nocciola; se le chiamò smeraldo e topazio le dipinse
tanto grandi che bastarono per essere fondamenta di mura grandi ed alte; se le chiamò oro,
aggiunse che era come vetro, non essendo il nostro oro trasparente, ma oscuro ed opaco.
Tutto questo per significare che nel cielo vi sono ricchezze grandi, ma di genere diverso e
superiore, di un valore superiore a quello della terra. Non senza ragione chiama quella città
santa Regno dei Cieli per significare che il vantaggio del cielo sopra la terra è fatto dalle cose
di là, sopra quelle di qua, gli onori eterni sono sopra quelli temporali, le ricchezze celesti sopra
quelle terrestri. Se tutta la terra non è più che un punto rispetto al cielo, che cosa possono
essere le sue ricchezze transitorie rispetto a quelle eterne?
384

La potestà regale dei beati


I beati saranno non soltanto padroni, ma re di queste ricchezze incomparabili, come si rivela
da molti luoghi della Sacra Scrittura. Non si diminuiscono né le ricchezze celesti, né il Regno
dei Cieli per il fatto che hanno molti padroni e re. Questo regno amplissimo ha questo in più,
che non è come i regni di questo mondo, che sono in se strettissimi e non consentono che vi
siano molti re simultaneamente e, se si dividono in parti, vengono a diminuirsi. Ma il Regno
dei Cieli è di tale natura che tutto è posseduto da tutti e tutto da ciascuno, alla stessa guisa che
il sole è comune a tutti ed a ciascuno e non riscalda meno ciascuno, perché riscalda molti altri.
L'effetto delle ricchezze è molto maggiore e più nobile nel cielo che sopra la terra. I beni
terreni sogliono servire per avere potere, onori e piaceri; e, per aver questi, tutto l'oro di
questo mondo, essendo accompagnato da fiacchezza, ignominia e pena, non può servire. Il
potere di un re molto ricco arriva soltanto a comandare ai suoi vassalli e non può che mandare
in carcere coloro che non ubbidiscono e punirli con togliere loro la vita; per questo è temuto e
rispettato; ma questa potenza dei re non è senza l'aiuto dei suoi sudditi, Infatti che cosa
gioverebbe al principe comandare di difendere una città, se i soldati che si trovano in essa non
lo volessero fare? Disse un buffone di pronto ingegno a Filippo II: “Sia ciò che vostra maestà
comanda; ma se tutti dicessero di no, che farebbe?”. Gli diede con questo ad intendere che la
sua potenza dipendeva dalla altrui volontà.
Non solo dipende il potere di un monarca dalla volontà dei suoi sudditi, ma anche dalle mura,
dalle sue fortezze, dalle armi, dagli strumenti militari e da molte altre cose, di maniera che, se
anche il popolo dipende da un uomo solo, che è il suo
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principe, il principe dipende da molti uomini e da molte cose. Si sono visti re ricchissimi senza
potere, come Creso ed Andronico; altri non hanno potuto difendersi con tutte le loro
ricchezze, perfino dai propri vassalli, come Domiziano, Commodo, Eliogabalo e Giulio Cesare.
Ma il potere del beato non dipende da altro potere, né da altro uomo. Dice Sam'Anselmo (De
Similitudinibus, cap. 52) che il beato sarà tanto grande che non vi avrà forza né resistenza che
lo superi. Se vuole muovere un monte e portarlo dal suo posto ad un altro, lo potrà fare con la
medesima facilità con cui muoviamo gli occhi da una parte all'altra. Non è questa una
meraviglia, poiché già in questa vita Gesù Cristo lo promise a quelli che con fede viva
volessero farlo, come si scrive di San Gregorio Taumaturgo e di alcuni altri che lo fecero. Se gli
Angeli e anche i demoni hanno questo potere, i beati non saranno di minor fortezza.
Quanto all'onore che desiderano i principi più ricchi, solo possono fare che si adorino in
ginocchio e che tutti si assoggettino a loro. Ma nessuno potrà impedire che mormorino di loro
nella loro assenza e che notino tutte le loro azioni e che il popolo le interpreti a suo
piacimento. Hanno dinanzi a sé molti adulatori che con la lingua li lodano, mentre li
disprezzano col cuore. Ma ordinariamente sogliono essere meno quelli che li onorano di quelli
che li disonorano. Sono pochi quelli che trattano con essi, ma sono molti quelli che trattano di
loro; sono pochi quelli che li lodano in presenza, ma molti quelli che li censurano assenti. I
principi non si accontentano di regali e gusti primitivi; per questo cercano spettacoli e
ricreazioni costose, commedie squisite, hanno giardini amenissimi, boschi di caccia
abbondante, mangiano splendidamente, ma niente di questo basta a loro, perché una febbre
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non li affligga e non li molesti il dolore di testa o di stomaco o la gotta od altri mali, e perché
preoccupazioni, timori o sorprese non tolgano loro il sonno.
Non vi è denaro, né oro in questo mondo che possa rendere i loro beni sicuri e sufficienti.
Questo si troverà solo nel cielo, per il che quello stato felicissimo in cui si trova più di quello
che possono dare tutte le ricchezze, è ricchissimo. Ivi i beati hanno un potere senza debolezza,
tale quale ha un Angelo solo, il quale una volta, senza esercito, senza cannoni, senza spada, né
lancia uccise 175.000 (IV Lib. Regum, 19. 35). Con quanta facilità i Santi liberano da grandi
pericoli coloro che li invocano e senza essere impediti dalla distanza del luogo, né disturbati
dalla violenza dei tiranni, hanno aiutato in un momento i loro devoti! L'onore dei beati quanto
sarà completo, giacché perfino i demoni li dovranno riverire! Sebbene molti sopra la terra non
li apprezzino, dopo la loro morte questi stessi faranno riverenza, vedendo le molte meraviglie
che Dio opera per loro intercessione. Anche i gaudi sono puri e genuini; senza mescolanza di
dolore e pena e tanto grandi come ora vedremo.
Si deve pure considerare che queste ricchezze somme dei Santi non sono come quelle dei re
della terra, che le cavano dai tributi dei sudditi, poiché sebbene giusti, questi non possono fare
a meno di defraudare i vassalli di ciò che ha da arricchire il principe, togliendosi ai poveri ciò
che si ha da dare ai re, i quali devono dividere tra i soldati e i ministri ciò che raccolsero dai
lavoratori e plebei. Le ricchezze del cielo non hanno nessuna macchia, poiché non sono a
carico di altri e non si toglie nulla a nessuno per dar tutto ai servi di Cristo che regnano nel
cielo.
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CAPITOLO QUARTO.

La grandezza dei gaudi eterni.

I gaudi eterni sono tutti uniti.


L'onore, l'utile e il dilettevole sono ben distinti sopra la terra, tanto che poche volte soltanto si
trovano uniti. L'onore non suole essere accompagnato dall'utile, né questo dal dilettevole.
L'infermo, a cui è utile la medicina, la beve, anche se è amara; i piaceri il più delle volte sono i
più vergognosi e non di minor costo e spesa; quanto più si aumentano divertimenti e piaceri,
tanto più diminuisce il patrimonio.
Non è così dei beni eterni, i quali si trovano tutti uniti; ciò che è onesto è pure utile e l'utile è
dilettevole. Gli onori eterni sono accompagnati da ricchezze senza fine; gaudi immensi
seguono gli onori e le ricchezze eterne. Tutto questo è indicato dal Signore in quelle parole con
cui introduce il servo fedele nella gloria, quando dice: Orsù, servo buono e fedele, poiché fosti
fedele nel poco, ti costituirò sopra molte cose; entra nel gaudio del tuo Signore. (Mt. 25, 21)
In queste parole lo onora molto, lodandolo di fedeltà e bontà, insieme lo arricchisce con
consegnargli beni infiniti e lo ammette al gaudio del suo Signore, significando nel medesimo
dire la grandezza di questo gaudio. Dice infatti di entrare nel gaudio, non che il gaudio entri in
lui. Dice ancora che questo gaudio non è altro che quello stesso del suo Signore, essendo tanto
grande il gaudio di

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quella patria celeste, che riempie e comprende per tutte le parti l'anima santa, la quale entra
nel cielo come in un pelago immenso di allegria e diletto.
I gaudi della terra entrano in coloro che li posseggono e non li possono riempire. È più grande
la capacità del cuore umano dei beni terreni in se stessi, onde succede che non lo soddisfano
mai. I gaudi del cielo invece ricevono coloro che li gustano, e riempiono e ridondano per ogni
parte. La gloria è come un oceano di gaudio nel quale entrano i santi, come una spugna che,
entrando nel mare, s'impregna secondo la sua capacità di acqua, e sovrabbondano le acque e
la circondano per ogni parte.
Dice S. Anselmo, (Op. cit.. cap. 71; P. L. , CLIX) che: Il gaudio sarà dentro e fuori: gaudio in
alto e in basso, gaudio per tutte le parti all'intorno e in tutte le parti gaudio pieno. Questa
stessa immensità di gaudio fu significata da Dio quando disse per bocca di Isaia: Guardate che
io creo Gerusalemme città di allegrezza ed il suo popolo, popolo gaudente (ISAIAS, LXV, 18).
Egli avverte la novità di questa sentenza, come di cosa meravigliosa, con quella parola
“Guardate”, cattivando attenzione per intendere e notare ciò che dice. È notevole il fatto che
non disse: Creo giubilo per Gerusalemme, né in Gerusalemme, ma con mistero particolare
dice che crea Gerusalemme allegra. Non dice: Darò gaudio al suo popolo, o che il suo popolo è
gaudente, ma che il suo popolo è lo stesso gaudio. Parla in questa maniera per significare la
grandezza dell'abbondantissimo gaudio di cui ha da essere circondata e come annegata quella
città santa e tutti i suoi abitanti. Come una lamiera di ferro nel mezzo di una grande fornace
s'incendia in tal modo che sia penetrata da quel

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fuoco, e da tutto l'ardore della fornace, sì da sembrare lo stesso fuoco; così pure l'anima beata
sarà tutta piena di quel gaudio eterno, di modo che non solo si possa dire che ne gode, ma che
è lo stesso gaudio.
Si uniscono nel cielo la moltitudine dei gaudi con la loro grandezza. Essi sono tanto grandi,
che uno solo, anche il più piccolo di tutti, basterebbe per far dimenticare tutti i contenti
maggiori della terra. Sono tanti che, se anche fossero mille volte più corti, supererebbero tutti
i gaudi temporali, anche se fossero mille volte maggiori di quello che sono. Ma unendosi
l'abbondanza dei gaudi eterni con la loro inesplicabile grandezza, quella beatitudine eterna è
inesplicabile. E questo dice San Bernardo: Il premio dei santi è tanto grande che non si può
misurare, è tanto moltiplicato che non si può contare, è tanto copioso che non si può esaurire,
è tanto prezioso che non si può stimare.
S. Alberto Magno dice: Sono ivi tanti gaudi e tanto grandi che tutti i matematici del mondo
non li saprebbero contare, né i retorici o teologi li potrebbero esplicare, perché né occhio vide,
né orecchio udì, né cadde in cuor di uomo ciò che Dio tiene preparato per quelli che lo amano.
I Santi godranno tanto di ciò che sta sopra di loro, che è la visione di Dio, di ciò che sta sotto
di loro, che è la bellezza del cielo e delle altre creature corporee, di ciò che sta dentro di
loro, che è la glorificazione del proprio corpo; di ciò che sta fuori di loro che è la compagnia
degli Angeli e degli uomini. Dio appagherà tutti i sensi spirituali con un diletto ineffabile. Egli
sarà l'oggetto di tutti, sarà specchio alla vista, cetra all'udito, miele al gusto, balsamo
all'olfatto, fiore al tatto. Ivi starà la chiarezza della, luce d'estate, l'amenità della primavera,
l'abbondanza dell'autunno e il riposo dell'inverno.

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La visione di Dio.
Il gaudio principale dei beati è Dio, ossia il possesso dello stesso Dio, che essi vedono
chiaramente come è in sé. Come dicemmo che l'onore, l'utile e il dilettevole non si distinguono
nel cielo, così pure l'anima beata ha tre doti inseparabili ed essenziali a quello stato di
beatitudine, corrispondenti a questi tre beni.
Queste tre doti sono chiamate dai teologi visione, comprensione e fruizione che ora veniamo
spiegando. Il primo è la vista chiara di Dio che si dà al giusto per premio dei suoi meriti. Con
ciò egli riceve un onore incomparabile, essendo le sue opere e virtù rimunerate dinanzi a tutti
gli Angeli con una corona e guiderdone non minore che il medesimo Dio. Il secondo è il
possesso che l'anima ha di Dio come eredità e ricchezza sua. Il terzo è il gaudio ineffabile che
accompagna la vita e il possesso di Dio.
Non vi ha lingua che possa dichiarare la grandezza di questo gaudio, né credo che lo potranno
fare gli stessi beati che lo sperimentano, anche se parlassero con lingua di Angeli. Ciò non di
meno non è bene tralasciare di considerare ed ammirare ciò che la nostra rozzezza può
raggiungere. Questo gaudio ha due pregi particolari che ci fanno conoscere la sua immensità;
il primo è che essa è tanto forte e potente da escludere ogni male, pena e dolore. Questo solo è
un bene tanto grande che molti filosofi lo ritengono per felicità dell'uomo. Così scrive Cicerone
(De Finibus et Tusculan., V) di Geronimo Rodio, insigne filosofo e di grande sapienza, a cui
aderiva anche lo stesso Diodoro, peripatetico, che, parlando del fine ultimo e del sommo bene,
insegnavano come questo consistesse nel mancare di dolore, giudicando questi filosofi che il
non aver

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male o pena alcuna era il maggiore di tutti i beni, Ma fu errore questo, poiché non è se non un
suo effetto, poiché l'amore e il gaudio che nascono dalla visione chiara di Dio, sono tanto
potenti che basterebbero a convenire un inferno in gloria. Se al più tormentato che ora si trova
nell'inferno si aggiungessero tutti i tormenti degli altri uomini e demoni e gli si desse subito a
conoscere Dio, basterebbe la sola sua vista chiara, sebbene fosse nel grado infimo, per
togliergli tutti i mali di colpa e di pena, di maniera che non sentirebbe né pena, né dolore
alcuno, tanto sarebbe felice la sua anima per la bellezza ineffabile veduta. Oh quanto forte è
quel gaudio che lanciato in un abisso tanto grande di dannati li renderebbe felici! Quale forza
sarà quella di quel fuoco che con una scintilla sola incendierebbe l'Oceano!
Non vi è gaudio in questo mondo che possa rendere insensibile il dolore di uno al quale
segassero un dito. Quel gaudio di Dio invece è tanto immenso che toglierà i tormenti e le pene
tutte della terra e, se fosse possibile dell'inferno, sebbene per sé i dolori siano più forti dei
gusti che di per sé non possono sospendere i tormenti. Per chi ha un dolore veemente non vi è
divertimento, né gioia che lo consoli ed a grandi e molti piaceri basta un dolore per
annientarli. Ciò nonostante la grandezza di quel gusto sovrano è tale che esso solo basta per
annegare tutti i dolori e tormenti, e non vi ha tormento nel mondo che lo possa diminuire.
L'altra meraviglia in cui si scopre la grandezza di questo gaudio è la moltitudine dei gaudi che
esso causa e che nascono da esso come da fecondissima radice. A chi non cagiona meraviglia il
fatto che tanti effetti e tanto meravigliosi ridondino nel corpo del beato, causati dalla
beatitudine dell'anima? Quella visione beatifica è tanto sovrana che con un gaudio ineffabile
occupa lo spirito e fa sì che il corpo prorompa in una

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meravigliosa espressione di bellezza e chiarezza e di tutti gli altri doni della gloria. Effetto
tanto prodigioso non può farsi, se non perché è somma quella beatitudine e immenso quel
gaudio dell'anima, del quale si riempie non solo l'anima, ma altresì il corpo.
In questo mondo vediamo che un grande gaudio non si può dissimulare, ma ridonda nel corpo
con qualche segno esterno. Ma i gaudi della terra sono tanto piccoli che non sogliono far di più
che rasserenare o rallegrare il volto senza aggiungere altre bellezze. Siccome però la vista di
Dio è un gaudio immenso, esso muta totalmente il corpo, rendendolo bello come un Angelo,
splendente come il sole, immortale come lo spirito o impassibile come Dio, operandosi
miracoli e grandi prodigi nella carne debole per l'abbondanza e ridondanza di cui gode lo
spirito. Questo non può se non essere un gaudio ineffabile.
Chi potrà mettere dinanzi agli occhi di tutto il mondo un corpo di un beato con tutte le sue
quattro doti di gloria, chiarezza, splendore e bellezza, emanante intorno a sé una soavità più
preziosa ai sensi dell'ambra e profumi, e delle cose più pregevoli della terra, perché gli uomini,
attraverso questa ombra vedano quanto sarà immensa la luce ed il gaudio di quell'anima che
tanto abbellì la carne! In qual mare di gaudio dovrà essere immerso lo spirito, se riempie il
corpo di raggi di bellezza e luce? O mortali! Perché desiderate altri piaceri con danno del
vostro corpo e dell'anima? Perché non bramate questo gaudio con profitto e gloria di
ambedue? Oh quanto differenti sono i piaceri temporali da quelli eterni! I temporali,
specialmente quelli illeciti, sono dannosi all'anima, perché la abbrutiscono e la uccidono,
dannosi al corpo perché lo rendono infermo e lo corrompono. Ma il gaudio di Dio abbellisce

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e chiarisce l'anima ed il corpo, dando bellezza all'anima, immortalità e bellezza al corpo.

La visione di Dio è fonte di altri gaudi.


Infine tutti i gaudi che i beati hanno nell'anima e nel corpo, e sono innumerevoli, tutti hanno
origine dal gaudio della chiara vista di Dio, nostro Signore. Come potrebbe essere minore il
gaudio causato dallo stesso Dio, il quale si dà agli uomini a gustare, essendo la dolcezza e
bellezza del mondo ed essendo il medesimo gaudio di cui gode Dio e basta per la felicità sua?
Non senza grande mistero, il Signore, ammettendo in cielo colui che fu servo fedele, gli dice:
Entra nel gaudio del tuo Signore. Non dice solamente; entra nel gaudio, ma aggiunge, per
determinarne la grandezza, che e lo stesso gaudio di Dio per cui Egli è beato. Non si poteva, in
verità, dichiarare meglio l'immensità di questo gaudio.
Perciò si avverte che non vi ha cosa in questo mondo che non abbia per fine qualche
perfezione, e quelli che sono capaci di conoscimento, hanno un gaudio particolare nella loro
perfezione. Così questo gaudio è maggiore in essi proporzionatamente alla loro maggiore
perfezione. Ora, come la perfezione divina è infinitamente maggiore, giacché come perfezione
divina è infinita, il gaudio che Dio ha di se stesso, perché non ha altro fine, né perfezione
distinta, è di per sé infinito e maggiore di tutte le altre cose. Ora la grande liberalità di Dio e
bontà infinita ha voluto rendere partecipi le anime e gli Angeli santi di questa sua felicita e
beatitudine propria e speciale di Dio, comunicandosi ai giusti conforme ai loro meriti, sebbene
ciò non sia dovuto alla loro natura. Così il gaudio, di cui i santi godranno della vista chiara di
Dio, è ineffabile. Tutto ciò che si voglia dire di questo

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gaudio è poco ed ignoranza ed in suo paragone qualsiasi altra contentezza e dolcezza si può
tenere per assenzio, fiele, disgusto, essendo partecipazione della beatitudine.
Inoltre, quanto un oggetto dilettevole si unisce più intimamente alla sua potenza, più diletto e
gaudio cagiona in essa. Siccome per la visione chiara di Dio in quella beatitudine eterna, Dio si
unisce all'anima coi vincoli e legami più intimi che possa avere una pura creatura, ed essendo
Dio l'oggetto più dilettevole che si possa trovare, quel gaudio che ne risulta è ineffabile ed
incomparabilmente maggiore di tutti i gaudi possibili ed immaginabili che le creature possano
causare, non solo quelle che si hanno ora, ma altresì quelle che sono possibili. Come la
perfezione divina racchiude in sé tutte le perfezioni delle cose create, possibili ed
immaginabili, tutte le loro bontà, grazie, dolcezze, amenità, bellezze e soavità e quanto può
dar gusto e causare gaudio; così il gaudio che Dio solo causa ai santi del cielo è maggiore di
quanti altri piaceri si hanno, si ebbero e si potranno avere. Quale felicità sarà godere
dell'infinita bellezza del Creatore con tutte le sue infinite perfezioni!
Se per la bellezza di Elena si disse che era poco lottare dieci anni; se per la bellezza di Rachele
sembrò poco a Giacobbe servire come schiavo quattordici anni, qual fatica ci potrà sembrare
soverchia per arrivare a godere Dio, il quale è tanto bello che in suo confronto anche ciò che è
più bello è brutto? Assalonne era bellissimo e la sua vista cagionava allegria e contento. Ma se,
mentre stiamo contemplando Assalonne, venisse un altro dieci volte più bello di lui, subito
guarderemmo quello, allontanando gli occhi da Assalonne; e se venisse un terzo cento volte
più bello, lasceremmo di contemplare il primo e il secondo e fisseremmo in lui gli occhi con
gusto tanto maggiore, quanto è maggiore la sua bellezza; e di questo passo, quanti

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venissero sempre più belli, li contempleremmo e li ammireremmo con gioia e contento


sempre maggiore.
Ora, essendo Dio infinitamente più bello di quanto possiamo vedere o pensare, anche se
creasse altre cose centomila volte più belle di quelle che possiamo immaginare, è
incomparabilmente più dilettevole la sua bellezza di quanto altro ci può dilettare. Non
essendovi in Dio soltanto la bellezza, ma altresì tutta la perfezione possibile, senza misura, né
termine, con sapienza infinita, onnipotenza, santità, liberalità, bontà e quanto è possibile
immaginare di buono, bello e perfetto, ne segue che annienterà subito il cuore di chi lo vede
per ammirarlo e amarlo necessariamente, anche se prima fosse stato suo nemico.
E questo è un altro argomento del gaudio causato dalla sua vista, giacché può tanto nella
volontà di chi lo vede che necessariamente lo converte a sé con amore intensissimo, sebbene
prima l'abbia aborrito, perché il gaudio sarà uguale all'amore di cui è effetto.
Se vi fosse ora nel mondo un uomo tanto sapiente come un Angelo o come Salomone,
desidereremmo certo di vederlo come ai suoi tempi lo desiderò la regina Saba. Se poi questo
uomo tanto sapiente fosse pure tanto forte come Ercole e Sansone, tanto valoroso come Giuda
Maccabeo e Alessandro Magno, tanto benigno e mansueto come Davide, tanto amico dei suoi
amici come Gionata, tanto liberale come l'imperatore Tito e nello stesso tempo più bello di
Assalonne, chi non amerebbe vedere e trattare con persona tanto rara ed amabile? Come si
sentirebbe felice chi fosse suo familiare ed amico! Con quanto amore dobbiamo quindi
desiderare di veder Dio nel quale sono unite tutte queste perfezioni e grazie infinitamente
maggiori, potendole poi godere noi stessi riposandoci nella sua infinita bellezza, sapienza,
onnipotenza, benignità, bontà, amore,

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liberalità e in tutti gli altri attributi divini, come se fossero nostri?


Oh quale grande e dolcissima visione sarà quella di Dio come è in sé, con tutte le sue infinite
perfezioni e con tutte le perfezioni di tutte le creature che egli comprende in sé
eminentemente! Che spettacolo gradevole sarebbe per uno, se in una volta gli mostrassero
quante cose piacevoli e degne di ammirazione sono esistite! Se lo mettessero in un campo, nel
quale si trovassero radunate le sette meraviglie del mondo con cui appagare gli occhi, tutti i
banchetti ricchissimi che tenne il re Assuero e tutti gli altri re della Persia, i più rari spettacoli
e le feste che facevano i Romani, gli alberi più vistosi, dai frutti più saporiti, che vi furono nel
paradiso terrestre, le musiche più sonore e dolci che si possono inventare, gli odori più soavi
che si trovano nell'India e nell'Arabia, tutti i tesori che ebbero Creso e Dario e tutti gli
imperatori dell'Assiria e di Roma, che meraviglia sarebbe vedere tanti diletti riuniti! Chi non
si terrebbe per fortunato, se gli facessero consegna di tutto questo per cento anni di vita
assicurata?
Ma non dico, se gli dessero questo solo, ma altresì tutto quanto vi avrà di grande e di
dilettevole nel mondo, con tutti quanti i gusti, contenti e perfezioni che hanno avuto tutti gli
uomini ed avranno fino alla fine del mondo; tutta la sapienza di Salomone. Platone e
Aristotele, la forza di Sansone, la bellezza di Rachele ed Ester, se tutte queste si dessero ad
uno, ciò non ha nulla a che vedere, anzi sarebbe tutto nausea ed amarezza, paragonato col solo
gaudio che proverà nella visione eterna di Dio, perché in Lui solo si godrà la visione di beni e
grandezze che comprendono tutti quelli di tutte le creature insieme, la ricchezza dell'oro,
l'amenità delle verdeggianti pianure, lo splendore del sole, il sapore del miele, il dilettevole

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della musica, il bello del cielo, la soavità dell'ambra, il piacevole di ogni senso e quanto vi ha
da ammirare e godere.
Si aggiunga a questo che tale gaudio ineffabile della vista di Dio, essendo tanto intenso, è pure
innumerevole, perché si moltiplica in numero tanto infinito come avranno da essere gli spiriti
e le anime che vedranno Dio. Della vista di ciascheduno dei beati ciascheduno avrà un
contento e gaudio particolare e, siccome i beati saranno innumerevoli, così saranno pure
innumerevoli i gaudi di ciascheduno, come dice S. Anselmo (Op. cit., ibidem) con queste
parole: Di gaudio sarà pieno il giusto! Ma per colmo della felicità avrà pur altra cosa da godere
ancor di più, perché ognuno amerà l'altro come se stesso, e sarà chiaro che così si riposerà
della felicità dell'altro come della sua. Secondo questo, quante e quanto grandi gioie
raggiungerà ognuno, il quale godrà di tante e tanto grandi felicità dei santi! E se tanto si
riposerà del bene degli altri che egli ama come se stesso, come godrà di Dio che egli ama sopra
se stesso? Finalmente sarà il beato circondato da un mare di innumerevoli gaudi che riempirà
tutte le sue potenze e tutti i suoi sensi, non in altra maniera che se una spugna, che avesse
tanti sensi del gusto quanti fori e pori possiede, la mettessero in un mare di latte e miele,
godendo con mille bocche tutta quella soavità e dolcezza. Dio è per il beato un mare di latte e
tutto un pelago di miele, un abisso di dolcezza ed un oceano di gaudi ineffabili.
Rallegriamoci noi cristiani cui Dio ha promesso beni tanto grandi. Godiamo che il cielo sia
stato fatto per noi e che la speranza di gaudi tanto grandi allontani ogni tristezza dal nostro
cuore. Scrive Palladio (PALLAD.. Historia Lausiac. cap. 52) dell'abate Apollo, che, quando
vedeva

398

qualcuno dei suoi monaci triste, subito lo riprendeva dicendo: Fratello mio, perché ci
affliggiamo in vane tristezze? Si affliggano e si addolorino coloro che non hanno la speranza di
andare al cielo; non noi, poiché Cristo ci ha promesso la beatitudine della gloria. Questa
speranza ci rallegri, questo gaudio ci incoraggi e cominciamo a godere di quello che abbiamo
da godere, perché la speranza, come disse Filone, è un gaudio anticipato del gaudio. A questo
solo dovremmo pensare, allontanando gli occhi da ogni bene e piacere della terra. Il profeta
Elia, una volta che godé una scintilla di quel gaudio celeste, chiuse subito le finestre dei sensi,
tappandosi gli occhi, le orecchie e tutto il suo volto con il mantello. Anche l'abate Silvano,
quando usciva dall'orazione, si chiudeva gli occhi, sembrandogli che le grandezze della terra
non fossero degne di essere viste, tanto meno di essere godute, in confronto a quelle del cielo,
nella cui speranza unicamente dobbiamo godere.

CAPITOLO QUINTO.

Quanto sia fortunata la vita dei giusti.

Basterebbe ciò che si è detto per vedere quanto fortunata e felice sarà la vita eterna dei giusti.
Ma sono tanti i suoi gaudi e le sue fortune che è necessario allungare di più la considerazione
sopra questa materia.
Per questo gli Ebrei quando volevano indicare uno beato non dicevano in singolare il beato,
ma in numero plurale lo chiamavano beatitudini; così quando si dà inizio al libro dei salmi
con la parola: Beatus, nel testo ebraico si ha: Beatitudines, cioè le beatitudini, chiamando così
colui che è beato, e questo certamente con molta ragione,

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giacché con quante potenze e sensi possiede, gode di altrettante beatitudini. Ha beatitudine
nell'intelletto, nella memoria, nella volontà, negli occhi, nell'udito, nell'olfatto, nel gusto, nel
tatto; anzi sono tante le beatitudini di quella vita beata, che mancheranno i sensi per esse,
perché ivi saranno più beatitudini che pori nel corpo.
E' quella vita veramente vita eterna, totale e perfettissima. Quanto l'uomo ha di vita, la vivrà
in cielo con la sua ultima perfezione e beatitudine perfetta. Ivi l'intelligenza vivrà con una
sapienza sovrana, vivrà la volontà con un amore ardente, vivrà la memoria con una
rappresentazione immortale di tutto il passato, vivranno ivi tutti i sensi in continuo diletto di
tutti i loro oggetti, vivrà tutto quanto si trova nell'uomo, e tutto sarà gioia, gaudio e
beatitudine.

Il gaudio dell'intelletto.
Incominciando dal gaudio e dalla vita dell'intelligenza, oltre quella conoscenza somma e
chiara di Dio, della quale già abbiamo parlato, essa avrà una sapienza somma, per la quale
potrà conoscere tutti i misteri divini ed intendere i libri santi. Conoscerà quanti Angeli e
uomini beati vi si troveranno, come se fossero uno solo; conoscerà i segreti della Provvidenza
divina; conoscerà quanti dannati vi saranno e le cause per cui andarono dannati; conoscerà
tutta la macchina del mondo; tutto l'artificio della natura, tutti i movimenti degli astri e
pianeti, tutte le proprietà delle piante, pietre, degli uccelli ed animali; e non solo conoscerà le
cose create, ma bensì molte di quelle che Dio avrebbe potuto creare. Tutto questo conoscerà
chiaramente e distintamente, e per quanto lo percepisca tutto insieme non ne avrà confusione.
Questa sarà vita di intelligenza che si nutrirà di verità altissime e certissime; questa sarà vera
sapienza, poiché quella che raggiunsero i sapienti e filosofi

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più grandi del mondo, anche solo delle cose naturali, è piena di ignoranze, di inganni e di
ombra, poiché non possono conoscere nessuna sostanza come è in sé, ma solo traverso la
fortezza degli accidenti.
Ma per rustico e semplice che uno sia, arrivando al termine desiderato della gloria, si ricolma
di una sapienza tanto grande che in paragone con essa la sapienza di Salomone e di Aristotele
è ignoranza. Scrive Lodovico Blosio (De monilibus spirit., cap. 14) che essendo morta una
donzella molto semplice, questa apparì dopo la morte a Santa Geltrude, e cominciò ad
insegnarle cose altissime. La Santa, meravigliata di tanta scienza e sapienza in persona tanto
ignorante e semplice, disse: Da dove sai tu tutte queste cose che mi dici, poiché di qua eri
tenuta per semplicissima? La vergine le rispose: Da quando vidi Dio seppi tutte le cose. Con
molta ragione disse San Gregorio: Non si ha da credere che i Santi, vedendo dentro di sé la
chiarezza di Dio ignorino alcuna cosa fuori di sé.
Quale contentezza avrebbe uno nel vedere riuniti in una sala gli uomini più sapienti del
mondo ed i principi di tutte le scienze e facoltà? Adamo, Abramo, Mosè, Salomone, Isaia,
Zoroastro, Platone, Scorate, Aristotele, Pitagora, Omero, Trimegisto, Solone, Licurgo,
Ippocrate, Euclide, Archimede, Teofrasto, Dioscoride e tutti i Dottori della Chiesa, come erano
in questa vita! Quanto venerando sarebbe questo consesso, quanto ammirabile congregazione
formerebbero, e gli uomini uscirebbero dalle loro case per vederli! Ora, se il solo spettacolo di
così poca sapienza, fatta di frammenti e ripartiti fra tanti, sarebbe di tanta ammirazione, che
sarà l'anima nella sua intelligenza, non frammenti così piccoli di sapienza, quale raggiunsero
in

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questa vita gli uomini più sapienti, ma tutta la sapienza intera? Il gaudio che avranno nella
conoscenza di tante verità, quale raggiunge questa sapienza, chi lo potrà spiegare? Che gusto
sarebbe per uno, se in un lampo solo gli mostrassero tutto quanto si trova e passa nella terra,
gli edifici tanto belli, i frutteti così variati, le amenità soavissime, gli animali differentissimi,
gli uccelli tanto strani, i pesci tanto mostruosi, i metalli tanto ricchi, le genti e nazioni più
remote? Certamente sarebbe questa una vista d'inestimabile gaudio. Ma che cosa dobbiamo
dire del gaudio che si proverà nel vedere tutto quanto vi ha in terra ed insieme quanto si trova
nel cielo e sopra il medesimo cielo? Alcuni filosofi, per la conoscenza di qualche curiosità o
verità naturale, rimanevano sospesi ed immersi in un'allegria maggiore di quella che potevano
dare i gusti di tutti i sensi. Per questo essi ebbero grande cura come Aristotele, e fecero lunghi
pellegrinaggi come Pitagora, e si privarono di tutti i loro beni e piaceri del mondo come
Crates, e fecero lunghe esperienze come Democrito, e non pensavano ad altra cosa di giorno e
di notte come Archimede, il quale, come scrive Vitturgo, non distoglieva mai il suo pensiero,
né di giorno, né di notte dalla ricerca di qualche dimostrazione matematica, per il contento
che provava nella scoperta di qualche verità. Mangiando stava in piedi e l'animo era intento a
far angoli e linee; mentre sì stava lavando ed ungendo, come si usava anticamente, con due
dita che gli servivano di compasso faceva circoli nell'unguento che aveva sopra le sue carni.
Per molti giorni andava sperimentando con la sua matematica quanto oro avrebbe una corona
di argento che voleva che gli indorassero, perché l'argentiere non lo ingannasse. Dopo averlo
trovato, mentre faceva il bagno in una vasca di metallo, diede improvvisamente dei salti per la
gioia dicendo con grande giubilo: L'ho trovato, l'ho trovato!

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Ora, se per aver trovato una verità tanto bassa, questo sapiente ebbe un contento tanto
grande, quale sarà quello che riceveranno i Santi dagli altissimi segreti che loro scoprirà il loro
Creatore e sopra tutto da quel segreto dei segreti che è l'Unità e Trinità di Dio, conoscendo
chiaramente e distintamente la Trinità delle persone insieme con l'Unità della natura?
Queste verità con tutte le altre che si scopriranno al giusto più semplice di tutti,
immergeranno l'anima nei gaudi più ineffabili. O sapienti del mondo ed ignoranti davanti a
Dio! Perché vi stancate in vana curiosità, occupati nell'intendere e dimentichi nell'amare,
molto attenti nel sapere, ma negligenti nell'operare? La speculazione arida non è il cammino
per raggiungere la sapienza, bensì l'affetto devoto, l'amore ardente, la mortificazione dei sensi
e le opere del servizio divino. Operate e meritate e vi daranno in un istante più scienza di
quello che acquistano tutti i sapienti del mondo con le loro scoperte, esperienze e
pellegrinaggi.
Per il gran gusto che si sperimenta nel trovare una verità, Aristotele insegnò che la felicità
dell'uomo consisteva nella contemplazione. Egli disse questo con l'esperienza che aveva del
gaudio provato, quando scopriva una verità nuova dopo molto discorrere e lavorare. Se questo
gran sapiente senti questo della contemplazione naturale e per essa si allenava, che dobbiamo
fare noi per raggiungere quella contemplazione divina e chiara visione di Dio? E qual gioia
sarà e quale beatitudine tanto abbondante?

Le gioie della memoria.


Là vivrà pure la memoria, la quale si ricorderà di tutti i benefici divini, rendendo grazie eterne
al Sommo Fattore, godendo l'anima di essere stata

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tanto fortunata nel ricevere, senza meriti suoi, misericordie tanto grandi. Si ricorderà pure dei
pericoli attraversati, e dai quali per favore divino fu liberata; cantando dirà: Si è rotto il laccio
e noi siamo liberi (De monilibus spirit., cap. 14). Sarà pure di gaudio particolare all'anima,
come insegna San Tommaso, la memoria delle opere di virtù e degli atti buoni coi quali
guadagnò il cielo; prima perché furono i mezzi della sua felicità e poi perché con essi servi e
piacque a un Signore tanto grande e tanto buono come vede ed esperimenta. Questo gaudio
che risulterà per la memoria delle cose passate non è piccolo, ma grandissimo, tanto che
Epicuro quale grande segreto di poter sempre godere, consigliò di ricordarsi dei piaceri
passati. Ma nel cielo non solo giubilerà uno con la memoria del gusto di Dio nel compimento
della sua volontà, nella disposizione e nell'ordine della sua vita, ma anche delle fatiche e dei
pericoli passati. La memoria di un bene perduto senza rimedio arreca grande tormento; per il
contrario, la memoria di un grande male evitato e di una fatica passata è dolcissima e soave. Il
Savio disse che la memoria della morte era amara, come lo è, per coloro che ancor la devono
affrontare; ma una volta passata e sicuri nel cielo, non può a meno di essere dolcissima ai
Santi, i quali avranno un gaudio grandissimo, ricordandosi che già non devono più morire, né
affrontare infermità o pericoli.

Il premio della volontà.


Anche la nostra volontà sarà felice nel veder compiti tutti i suoi desideri con l'abbondanza e la
soavissima sazietà di tanta felicità, non potendo a meno di amare bellezza tanto amabile quale
gode e

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possiede l'anima in Dio. L'amore fa sì che una madre gusti di più la vista di suo figlio, sebbene
sia meno bello e di condizione peggiore che quello della sua vicina. Ora, essendo
incomparabilmente maggiore l'amore di un beato per gli altri, ed essendo essi tanto belli,
perfetti e degni di essere amati, è sommo il gaudio che egli ha nel vederli e più dilettevole
ancora poiché lutti vedono Dio.
Dice Seneca che non vi è possesso saporito di alcunché senza aver compagno e, senza dubbio,
si farà molto soave e dolce il possesso del sommo bene con tanti compagni quanti vi saranno.
Se un uomo stesse molti anni solo in un bellissimo palazzo, non gusterebbe tanto lo starvi,
come star nel campo deserto con qualche compagnia. Ma la Città di Dio sarà piena di
nobilissimi cittadini e compagni di una medesima felicità. Crescerà ancora questo gaudio il
trattare con persone tanto sapienti, tanto sante. Se uno dei maggiori pesi del consorzio umano
è il soffrire condizioni e patire ingiurie e uno dei suoi maggiori gusti è la buona conversazione
e la soavità di coloro coi quali si tratta, che conversazione e consorzio divino sarà quello dei
cieli dove non vi ha condizione cattiva, né aggravio, né molestie, ma tutta soavità, pace,
dolcezza e miele. Dice S. Agostino: (De spiritu et anima) Tanto si riposerà ognuno nella
felicità dell'altro come nel suo gaudio ineffabile e, quanti compagni avrà, altrettanti gaudi
possederà. Ivi sta tutto ciò che importa e diletta, ogni ricchezza, ogni riposo, ogni
consolazione. Che cosa può mancare là dove sta Dio, al quale non manca nulla? Tutti
conoscono ivi Dio senza errore, lo vedono senza fine, lo lodano senza stancarsi, lo amano
senza tedio ed in questo amore riposano pieni di Dio.
Inoltre sarà ineffabile il gaudio che avrà la volontà per la sicurezza di tanti gaudi, perché le
gioie

405

quanto sono maggiori tanto più lì diminuisce il timore che possano mancare. Un pericolo
suole distruggere molti gusti. Non solo il sapere che una fortuna ha da finire, ma il sapere che
potrà finire, getta amarezza nel suo gusto. Ma quella felicità eterna, essendo eterna, né finirà,
né potrà finire, né avrà diminuzione, né potrà aver pericolo. Questa sicurezza sazierà con un
nuovo gusto tutti i gaudi dei Santi.

Il gusto dei sensi.


Oltre che le potenze dell'anima anche tutti i sensi avranno il godimento di oggetti a loro
proporzionati e soavissimi. Gli occhi si ricreeranno sempre con la vista soave di tanti corpi
bellissimi come saranno quelli gloriosi; di tanti soli meravigliosi che ivi si troveranno uniti. Un
sole basta nel creato a rallegrare tutto il genere umano. Quale gioia sarà dunque per il beato la
vista di tanti soli, tra i quali egli stesso brillerà glorioso? Quale gaudio proverà nel vedersi
irradiare dalle mani, dai piedi, da tutte le membra del suo corpo raggi di luce più fulgida che
quelle del sole meridiano? E specialmente quale gioia sarà la visione del corpo di Maria
Santissima, più bello e splendente che tutta la bellezza e luce dei Santi! Quando la vide San
Dionisio Areopagita, quando ancora trovavasi su questa terra, già gli appariva quale bellezza
di cielo; ma ora che veramente il suo corpo si trova in uno stato di immortalità e di gloria, qual
gioia sarà il contemplarne la bellezza meravigliosa? Ma infinitamente più grande, sarà la gioia
che si godrà in Cielo alla visione del Cristo! Tutta la bellezza e lo splendore degli altri corpi
gloriosi sorrideranno dinanzi al torrente di luce divina che divamperà dal Corpo di Cristo e
dalle sue piaghe gloriose. Di Ester (Esther, 2) si disse che era bellissima, anzi di una

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bellezza incredibile, graziosa agli occhi di tutti e molto amabile; con quanta maggiore
eccellenza sarà graziosa ed amabile la Regina dei cieli nello stato glorioso!
Soprattutto quanto colmerà di contento la vista di Cristo, nostro Redentore più splendente,
chiaro e bello, che tutti gli altri corpi insieme, le cui piaghe si mostreranno con gloria e
splendore particolare?

Il giubilo dell'udito.
Soddisferanno l'orecchio pure musiche soavissime e canti, come si rileva da molti luoghi
dell’Apocalisse. Se l'arpa di Davide dilettava tanto Saulle che gli calmava le sue passioni e ne
cacciò il demonio e la melanconia tanto profonda di cui s'approfittava lo spirito del male; e
l'arpa di Orfeo aveva un suono sì delizioso che gli uomini e perfino gli animali ne rimanevano
estasiati, quali delizie proveranno i beati alle melodie celesti?
La fervorosa vergine Donna Sancha Carillo trovandosi gravemente inferma, provò tale gioia al
sentire una melodia celeste che all'istante si trovò perfettamente guarita. San Bonaventura
scrive di San Francesco che, mentre un Angelo toccò una cetra, gli sembrò di stare già nella
gloria.
Ora che gusto sarà non solo udire la voce di una cetra sonata da un Angelo, ma le voci di
migliaia di Angeli con ammirabile melodia di strumenti? Il canto di un solo uccelletto tenne
sospeso un santo monaco per lo spazio di trecento anni, pensando egli alla fine di essi che non
fossero passate che tre ore. Che soavità sarà quella di tanti cantori celesti tanto Angeli che
uomini, che intoneranno l'Alleluia, come disse San Giovanni: I vergini canteranno quei
cantico nuovo che altri non potranno cantare? Di San Nicolò da Tolentino scrive Surio nella
sua biografia, che per sei mesi

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continui, prima della sua morte udì tutte le notti, poco prima del mattutino, musiche
soavissime di Angeli quale un saggio della dolcezza che il Signore avevagli preparato nella sua
gloria, ed era tanto grande la gioia provata dal Santo in quei momenti, che l'anima sua era
come in estasi, tanto dimentica del corpo che nessuna cosa più desiderava se non goderne e
saziarsi di essa.
Lo stesso desiderava S. Agostino (Medit.. cap. 25) quando disse: “Tutto il passatempo della
corte celeste consiste nel cantare la lode a la divina Maestà, senza fine, senza stanchezza,
senza fatica: fortunato io davvero eternamente fortunato, se dopo la mia morte meritassi di
udire la melodia di quei canti che in lode del re eterno cantano i cittadini di quella patria
sovrana e gli eserciti di quegli spinti beati”.
Questa è quella musica soavissima che udì S. Giovanni nella sua Apocalisse quando gli
abitanti del cielo cantando dicevano: Tutto il mondo, o Signore, vi benedica: pubblichi la
vostra grandezza, la vostra gloria e sapienza; a voi sia data gloria, potere, fortezza per tutti i
secoli dei secoli, così sia.

Il premio dell’olfatto.
L'olfatto sarà premiato in Cielo dalla soavità dei profumi soavi e deliziosissimi che
emaneranno dai corpi dei beati. Scrive San Gregorio Magno (Lib. IV, Dialog.. cap. 16, et
Homil. 38 in Evangel) che, apparendo alla sua sorella Tarsilla Gesù Cristo nostro Redentore,
mandò da sé soavità e fragranza tanto grande che si poteva ben conoscere essere quello
l’odore tanto soave e mite dell’autore di tutto il Creato. Di San Salvio scrive San Gregorio di
Tours (Hist. Franc. lib. VII) che, dopo di essere stato rapito al

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cielo, fra le altre cose diceva: “Mi ricolmò un profumo di tale soavità estrema che esso solo è
bastato per soddisfare in me ogni appetito delle cose di questa vita”.
Oh quanto fragranti saranno nel cielo il corpo di Gesù Cristo, di Maria SS. e degli altri Santi! E
non deve stupire questa emanazione soave dei corpi gloriosi, poiché anche su questa terra i
corpi dei Santi senza vita e senza anima, hanno talvolta mandato da sé fragranze meravigliose.
Scrive San Gregorio Magno (Op. cit. lib. IV, cap. 14) che nel momento in cui spirò San Servulo,
il suo corpo mandò tale odore soave che riempì tutti i presenti di una fragranza deliziosa. San
Gerolamo testifica di Sant'Ilario che dieci mesi dopo la sua morte, mandava una soavità ed
odore fragrantissimo. Se questo proviamo coi nostri sensi nei corpi corruttibili, che cosa sarà
nei Santi immortali?

Sarà accontentato anche il gusto.


Anche il gusto avrà nel cielo grande soavità. Sebbene non vi sia cibo, poiché in Cielo il corpo
dei beati non avrà certo necessità di nutrimento e quindi di mangiare, tuttavia e lingua e
palato saranno deliziati da soavissimi sapori: felicità del gusto senza la fatica del mangiare.
Con questo sapore si indica molte volte nella Sacra Scrittura la gloria, chiamandola cena,
convito e manna. Essendo grande la dolcezza che il palato umano ha da sentire, dice S.
Agostino: (De spiritu et vita) “Non si può spiegare quanto grande sarà il diletto del gusto e la
dolcezza del sapore che eternamente vi si proverà. Anche San Lorenzo Giustiniani (De discipl.
Mon. Cap. 25) scrive:

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Una dolcezza incredibile di tutto ciò che può essere dilettevole al gusto darà sapore al palato
con una sazietà soave e gradevole. Se Esaù vendette la sua primogenitura per un piatto di
lenticchie, per questi gusti sovrani potremo ben privarci di un gusto della terra.

La ricompensa del tatto.


Anche il tatto sarà ricompensato in cielo. Come le penitenze maggiori nei Santi si esercitarono
nell'affliggere il corpo, così pure è ragionevole che in questo senso avessero un premio
particolare. Come nell'inferno i dannati sono afflitti in molte maniere nel tatto, così i Santi
saranno ricreati in cielo nel medesimo senso. Come nell'inferno quell'ardore di fuoco senza
luce ha da penetrare i miserabili bruciandoli fino nelle viscere, così nel cielo quel candore di
luce che dovrà penetrare i Santi sarà accompagnato da riposo, gaudio e sollievo
incomparabile, sebbene bastasse già essere incapaci di pene, di ogni dolore e stanchezza
perché serva loro di grande premio. In quella vita vera tutto sarà vita: tutto sarà gaudio in
quella beatitudine eterna, come dice S. Anselmo: (Op. cit., cap. 56) “Gli occhi, le narici, la
bocca, le mani, perfino il più interno dei sensi, tutte ed ognuna delle parti del corpo in comune
ed in particolare, sentiranno una soavità e un gaudio miracoloso.
A tutti i sensi sarà dato un gaudio principalissimo dalla soavità di Gesù Cristo, nostro
Redentore. Giovanni Tambecense e Nicolao di Nisi dicono che, come alla conoscenza
intellettuale della divinità di Gesù Cristo appartiene il gaudio ed il

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premio essenziale dell'anima, così alla conoscenza sensitiva dell'umanità dello stesso Gesù
Cristo spetta il gaudio essenziale dei sensi, poiché è il termine, la fine e il sommo che possono
desiderare. Questo sembra essere significato da San Giovanni, quando riporta le parole di
Gesù stesso rivolte al Padre: Questa è la vita eterna, cioè la beatitudine essenziale, che
conoscano te solo, vero Dio, in cui si richiude la gloria essenziale dell'anima; di poi aggiunge
dicendo: “E colui che inviasti Gesù Cristo, in cui si denota la beatitudine essenziale di tutti i
sensi del corpo.
Così nella sola umanità del Nostro Redentore i sensi saranno soddisfatti perfettissimamente
nel loro appetito, di modo che non avranno altro da desiderare, perché in quella sacratissima
Umanità troveranno ogni soavità, dono e gusto. Per gli occhi essa sarà una vista bellissima
sopra ogni bellezza; per l'udito una sola parola sua sarà più soave e dolce che tutta la musica
degli spiriti celesti; per l'olfatto la fragranza odorosissima del suo Corpo Sacratissimo sarà
sopra ogni ambra ed aroma; per il tatto e gusto il baciare i suoi piedi e le sue piaghe
sacratissime sarà sopra ogni soavità e dolcezza.
E' pure da ben avvertirsi che gli uomini avranno alcuni gaudi particolari che non avranno gli
Angeli. Godranno delle aureole di dottori, vergini e martiri. Nessun Angelo avrà la gloria di
essere morto per Gesù Cristo e di aver sparso il suo sangue, né di aver vinto la sua carne
assoggettandola, in varie lotte e combattimenti, alla ragione. Per cui disse San Bernardo che la
castità degli uomini è più gloriosa di quella degli Angeli. Oltre a questo avranno gli uomini la
gloria dei loro corpi ed i gaudi di tutti i loro sensi, il che non avranno gli Angeli. Come mancò
ad essi il nemico dello spirito,

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la carne, così non avranno la gloria della sua vittoria. Come non ebbero da frenare i sensi, così
non avranno i sensi che godano del premio della loro mortificazione e penitenza. Neppure
avranno gli Angeli il grande gaudio di essere redenti per l'opera di Gesù Cristo dal peccato e
da tante condanne all'inferno, quante sono le volte in cui hanno peccato mortalmente gli
uomini. Sarà per loro gaudio ineffabile vedersi liberi nel cielo da male tanto orrendo e da tanti
nemici che gli Angeli non ebbero.

CAPITOLO SESTO.

L'eccellenza e perfezione dei corpi dei Santi nella vita eterna.

La gloria del corpo.


Non tralasciamo di considerare ciò che sarà lo stesso uomo nell'eternità, quando sarà
risuscitato ed entrerà nel cielo in corpo ed anima. Percorriamo in qualche modo con la
considerazione tutti i generi di beni che ci aspettano in quella terra promessa. Quando Dio
promise ad Abramo la terra della Palestina, gli comandò nello stesso tempo che la visitasse,
percorrendola in tutte le sue parti: “Alza i tuoi occhi, dice il Signore, e guarda dal luogo dove
sei ora a settentrione e a mezzogiorno, a levante e ad occidente: tutta la terra che vedi, io la
darò in eterno a te ed alla tua discendenza”. E subito dice: “Sorgi, scorri la terra quanto è
lunga e larga, poiché io te la darò. (Gen. XIII, 14,17) Queste parole possiamo ritenere come
dette a noi, ai quali Dio ha

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promesso il Regno dei Cieli, perché ivi non entrerà chi non l'ha desiderato e non l'ha
desiderato come si conviene, chi cioè non vi sarà andato con la sua considerazione. Ciò che
non si conosce non si può desiderare. Così dobbiamo contemplare molte volte la sua
grandezza, la lunghezza della sua eternità e la larghezza della sua felicità, la quale si estende
tanto che non solo riempie di felicità e di gloria l'anima, ma altresì il corpo, ridondando la
gloria dell'anima nel corpo, riempiendolo di quattro doti eccellentissime con cui lo perfeziona
e lo ricolma di ogni felicità che possa desiderare.

La dote della chiarezza.


Se Mosè al veder un Angelo in figura corporale mandò tali splendori divini, comunicatigli da
quella vista; qual felicità e splendore non dovrà comunicare al corpo dei Santi la visione di Dio
come è in sé a faccia a faccia? Oltre che di una somma bellezza e perfezione quei corpi saranno
ricolmi e vestiti di una luce divina, tanto chiara che sarà sette volte maggiore di quella del sole,
come avverte S. Alberto Magno (S. ALB. MAGNO, Comp. Theol. lib. VII, cap. 28). Sebbene nel
Vangelo si dica solamente che i giusti splenderanno come il sole, il profeta Isaia però disse che
allora il sole splenderà sette volte più che ora. Servirà ai Santi di vestito questa chiarezza
immensa, essendo la luce la qualità più bella ed eccellente di tutte le qualità corporali.
Qual imperatore vestì giammai porpora più splendente e vistosa? Qual maestà si è vista
maggiore di quella che manderà da sé tale splendore? Erode, il giorno della sua maggior
grandezza, poté mostrarla solamente con un vestito d'argento, ammirabilmente tessuto, il
quale però per risplendere

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doveva essere illuminato dal sole. Con tutto questo per quel leggero splendore fu salutato qual
Dio. Che rispetto si dovrà ad un beato che sarà, non dico vestito di oro, non vestito di sole, ma
di una luce più chiara e più risplendente del medesimo sole? Si riuniscano tutti i diamanti più
splendenti, i rubini più ardenti, le pietre preziose più lucide, tutti incastonati in un manto
imperiale; tutto questo non sarà altro che carbone rispetto a un corpo glorioso, il quale sarà
più trasparente, chiaro e splendente che se fosse tempestato di diamanti. Oh la viltà delle
ricchezze mondane! Tutte riunite non potrebbero fare un vestito tanto vistoso.
Se qui tra noi si stima grande ornamento portare nel dito un anello con un diamante, o sul
petto un gioiello, che abbia qualche carboncino luminosamente incastrato, che sarà l'aver
mani e piedi e tutte quante le membra più risplendenti che qualunque gioia preziosa e questa
non prestata, comprata o posticcia, ma propria del nostro medesimo corpo? Le gale e gli
ornamenti dei vestiti della terra sono piuttosto un oltraggio a quelli che le portano, sia perché
arguiscono necessità ed imperfezione nel loro corpo, avendo bisogno di supplire ciò che loro
manca con cose estranee, sia pure perché il vestito ci fu dato come un ruvido tegumento,
quando fu cacciato Adamo dal Paradiso. Chi vi fu tanto stolto e svergognalo nel mondo che,
punito per i suoi delitti a portare un lurido cencio, lo riempisse di guarnizioni preziose ed
andasse orgoglioso nel portarlo? L'ornato e il fregio dei Santi non sarà di questo genere: non
estraneo, ma proprio; non solo di fuori, ma anche nelle stesse viscere avranno chiarezza e
decenza immensa, essendo tutte le parti del corpo, interne ed esterne, più trasparenti che il
cristallo, più splendenti che il sole.
Nell'Apocalisse si parla come di un prodigio grande di una donna vestita di sole e coronata di
dodici stelle.

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Ben si vede, come questo ornato era più bizzarro di qualsiasi altro del mondo, nel quale si
terrebbe per grande bizzarria portare dodici diamanti ed un carbonchio prezioso. Che hanno a
vedere i diamanti con le stelle ed un carbonchio col sole? Però tutto quell'ornato del sole e
delle stelle non arriverà ad essere gala uguale con quella che avranno i Santi nel cielo, perché
non sarà estranea, né posticcia, come era l'ornato di quella donna dell’Apocalisse.
La maestà che avranno i Santi da questo dono della chiarezza sarà maggiore di quella di
qualunque re della terra. Sarebbe certo magnifico un principe il quale all'uscire di notte fosse
accompagnato da mille paggi con fiaccole accese. Ma se anche portassero stelle invece di
semplici fiaccole, non sarebbe maggiore la sua maestà di quella di un Santo nel cielo, il quale
emanerà dalla sua stessa persona luce tanto grande, come se fosse moltiplicata sette volte
quella del sole. Quale maggiore felicità che quella di non aver bisogno di questo sole, di cui ha
tanto bisogno il mondo! Non vi avrà notte per il giusto ed egli stesso porterà con se il giorno e
la chiarezza. Quale maggior maestà che risplendere di più del sole, portando seco più maestà
di quanto gli potrebbero dare tutti gli uomini della terra, se lo accompagnassero con torce
accese?
San Paolo, al solo veder questa dote della chiarezza in Gesù Cristo, ne restò così colpito da
cadere in deliquio. L'apostolo San Giovanni, per il solo fatto di aver visto lo splendore del
volto di Gesù, cadde in terra come morto, perché il corpo mortale non può soffrire lo
splendore di tanta maestà. A San Pietro, avendo visto qualche cosa di questo nella
Trasfigurazione, quando Gesù Cristo stava ancor nella carne mortale, sembrò tanto glorioso
quel luogo, che non voleva più allontanarsi da esso. Ma perché ha da sembrare molto che in

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Cristo si mostrasse questo dono tanto glorioso, mentre il popolo di Israele non poteva soffrire
gli splendori del volto di Mosè, pur essendo di un corpo passeggero e caduco?
Cesario (CAESARIUS, Lib XII, mir. 54) scrive di un grande letterato dell'Università di Parigi
che stava per morire e pensava come sarebbe possibile che Dio facesse splendere come il sole
il suo corpo di fango. Ma volendolo il Signore consolare e confermarlo nella fede della
Risurrezione, si sprigionò dai piedi dello stesso infermo splendore tanto grande, che i suoi
occhi non lo poterono sopportare. Anche nei morti fu visto questo dono di luce tanto
meraviglioso. Dal corpo di Santa Margherita, figlia del re di Ungheria, uscirono tali splendori
che sembravano venuti dal cielo; e dal corpo di altri Santi, anche dopo morte, emanò talvolta
una luce così rifulgente e viva che i presenti non potevano sopportare.
Ora se in corpi senza anima questo vestito di luce è sì bello, quanto non saranno più belli e
fulgidi i corpi risuscitati, perfetti e vivi con l'anima gloriosa nella vita eterna? San Giovanni
Damasceno disse della luce di questo mondo che era l'onore e l'ornamento di tutte le cose; la
luce immortale di quella gloria eterna, come ornerà e abbellirà i Santi? Non solo li farà
splendere del loro candore, ma si mostrerà con varietà di colori più vistosa in ogni parte.
Nella corona delle Vergini si mostrerà bianchissima, in quella dei martiri rossa, in quella dei
Dottori eccederà pure con splendore particolare. San Roberto Bellarmino (De aeterna
felicitate Sanctorum, lib. II) dice: “Ivi splenderà il collo di San Giovanni Battista e di San
Paolo con una bellezza incredibile come ornato d'una collana d'oro. Quale spettacolo più
degno di ammirazione,

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che il veder risplendere con tanta bellezza e chiarezza innumerevoli Santi! Quale luce sarà
quella del cielo nata da tante luci o, per dir meglio, da tanti soli? Quanto più fiaccole si
uniscono, tanto più ne risulterà di chiarezza. Quanta sarà la chiarezza di quella città santa
dove abiteranno innumerevoli soli? Se con la vista di ognuno crescerà il gaudio, con la vista di
un numero senza numero, qual misura potrà avere il gaudio che risulterà da uno spettacolo
tanto bello?”

La dote dell'impassibilità.
Ora, come i Santi saranno così pieni di luce cadranno parimenti i privilegi della stessa luce,
Questa fra tutte le qualità materiali ha la prerogativa di non aver alcunché di contrario e di
essere perciò impassibile. Così saranno impassibili anche quei corpi gloriosi, né avranno
alcuna cosa contraria. Inoltre non v'è cosa più agile e rapida della luce; onde vedesi che i
corpi, quanto sono più risplendenti, tanto sono più leggeri e veloci. Non vi ha elemento più
veloce del fuoco, perché ha luce. Il sole e le stelle sono fra tutte le cose naturali le più agili e
veloci del mondo e la stessa luce è tanto agile che in un momento si estende a tutta la sua
sfera. Non altrimenti i corpi gloriosi avranno abilità e leggerezza tale che potranno muoversi
con maggior velocità delle stesse stelle.
La luce è pure così sottile che non trova intoppo alcuno al passare, quantunque incontri alcuni
corpi ben solidi. Ma i corpi gloriosi dei beati avranno tale sottigliezza che non vi sarà corpo
alcuno che possa loro impedire di penetrare in ogni parte. Per tutto questo i Santi si chiamano
nella Sacra Scrittura col nome di luce, e specialmente si dice che il cammino dei giusti sarà
una luce splendente del mezzogiorno. Come la luce cammina impassibile per i luoghi oscuri ed
immondi senza contaminarsi, facendo con velocità la sua giornata e

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penetrando in altri corpi, così i Santi, con la luce che loro proviene dalla chiarezza, hanno pure
la dote dell'impassibilità, come la luce che di nulla si contamina, avranno il dono dell'agilità
per muoversi con somma leggerezza e quella della sottigliezza per penetrare dovunque
vogliano.
I beni di questi privilegi e queste doti dei corpi gloriosi sono più numerosi dei mali che sì
possono incontrare in questa vita mortale. La sola dote dell'impassibilità toglie di mezzo tutte
quante le miserie che ci affliggono in questo mondo; toglie la stanchezza, il freddo
dell'inverno, il calore dell'estate, l'infermità, i dolori, le lagrime, tutte le necessità, il che è un
bene incomparabile. Col solo levare la necessità del mangiare toglie infinite necessità e
preoccupazioni. Si consideri quanto si affannano gli uomini per mantenere la loro vita: il
contadino arando, seminando, segando; il pastore soffrendo il gelo e gli ardori; il famigliare
servendo ed ubbidendo ai voleri degli altri; il ricco macchinando e temendo. Quanti pericoli si
passano in ogni stato per assicurarsi il mangiare! Di tutto questo il giusto è esente per la dote
dell'impassibilità. Il pensiero del vestire, la sanità corporale, esposta a tanti morbi, non arreca
inquietudine minore; quando uno cade infermo, le necessità ancor si raddoppiano; ma da
tutte si libera colui che è impassibile e questi è libero non solo dalle pene di questa vita, ma se
con questa dote entrasse nell'interno non sentirebbe alcun dolore.

La dote dell'agilità.
Eziandio la prerogativa dell'agilità è grandissima e la sì può comprendere da ciò, che è
necessario a chi voglia, sia pure servendosi dei mezzi più celeri e comodi, fare un lungo
viaggio. Ma col dono dell'agilità in un batter d'occhio un Santo potrà andare dove vuole, e
milioni di leghe non saranno

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più difficili che un passo solo. Ci arreca grande meraviglia quanto si racconta di S. Antonio di
Padova, il quale, senza impiegarci una notte, né un giorno si trasportò dall'Italia al Portogallo,
per liberare suo padre condannato a morte. Ciò che fece il nostro Padre Sant'Ignazio, il quale
in meno di due ore fu in Roma, a Colonia di Germania, e di nuovo a Roma. Ora, se il Signore
ha comunicato ai corpi mortali dei suoi servi tale dono, quale sarà quello che egli comunicherà
nel cielo ai suoi Santi? Che grazia particolare sarebbe quella di uno che potesse in un giorno
percorrere tutti i regni del mondo e vedere ciò che passa in essi?
Se in meno di un'ora si potesse andare a Roma, fermandovisi a vedere quella città, capitale del
mondo, e subito in altra ora si potesse andare con agio a Costantinopoli per conoscere la corte
dell'impero Orientale ed in altra ora arrivare al Cairo e vedere quella moltitudine di popolo, in
un'altra a Goa, corte dell'India considerando ivi le sue ricchezze, in altra ora a Pechino,
residenza dei principi della Cina, ammirando ivi tutta la grandezza ed estensione, in altra ora
a Tokio, capitale del Giappone, in altra a Manilla nelle isole Filippine, in altra a Ternate nelle
Isole Molucche, in altra a Lima nel Perù, in altra nel Messico, la nuova Spagna, in altra a
Lisbona nel Portogallo ed in altra a Madrid, considerando con agio tutto ciò che si trova in
queste città e corti reali ed imperiali; non sarebbe questo un privilegio meraviglioso?
Quale sarà quello dei corpi gloriosi che in un tempo brevissimo potranno traversare i cieli,
girare attorno alla terra, intorno al sole ed al firmamento considerando quanto vi ha sopra le
stelle e nel cielo Empireo? San Gregorio scrive nei suoi Dialoghi (Lib. III. cap. 36) che un
soldato, in procinto di uccidere un sant’uomo, già teneva sguainata la spada per

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assestare il colpo, quando questi gridò dicendo: “San Giovanni, fermalo”. Nel medesimo
istante il Santo fermò la mano al soldato di maniera che non la poté muovere. Con quanta
prestezza udì San Giovanni dal cielo chi lo invocava sopra la terra e con quanta velocità scese
ad aiutarlo fermando ed inaridendo il braccio del malfattore, prevenendo il colpo già
preparato? Non avranno minor velocità i corpi gloriosi di quella che hanno ora gli spiriti.
La gravità del corpo non dovrà cagionare loro alcun peso. Nella stessa maniera andranno e si
fermeranno nell'aria, come nell'acqua, sopra la terra, come sopra i cieli. Fu stupore che San
Quirico Martire, San Mauro, San Francesco di Paola camminassero sopra le acque, tanto dei
fiumi, quanto del mare, senza aver bisogno, né di barca, né di nave. Ma i corpi gloriosi
traverseranno l'Oceano, saliranno per l'aria, entreranno sicuri e senza pena negli incendi. Si
dice di San Francesco di Assisi che per la forza della sua contemplazione fu veduto levato in
aria, ed il gran servo di Dio Padre Diego Martinez, uomo santo ed apostolico della nostra
Compagnia, pregando era rapito sulla cima delle torri e gli alberi più elevati e così sospeso
proseguiva la sua orazione. Se Dio ha fatto favore tanto grande ai suoi servi in questa valle di
lagrime, quale privilegio non darà ai cittadini del cielo?

La dote della sottigliezza.


Il dono poi della sottigliezza che accompagna quello dell'agilità farà che i corpi gloriosi
abbiano campo libero per ogni parte senza che nulla possa impedirli, o disturbare i loro
movimenti. Non vi avrà carcere, né prigioni per essi. Trapasseranno con maggior facilità le
montagne di quello che faccia una saetta l'aria pura; lo stesso sarà per loro salire dalla terra
alla luna, dove non vi è corpo solido che disturbi il cammino, che discendere al centro della
terra, dove la distanza è impedita da

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corpi grossi come montagne e metalli e dall'elemento stesso della terra.


Scrive Metafraste che una donzella nativa di Edessa fu amata da un soldato Goto che ivi stava
di guarnigione con altri, il quale, per giungerne al desiderato possesso, la chiese in moglie. La
madre ed i parenti non gli prestarono orecchio, poco fidandosi di un barbaro straniero, il
quale, dopo averla condotta ai suoi paesi lontani avrebbe potuto trattarla male senza che ci
fosse chi gliene chiedesse ragione. Ma egli stette saldo nella domanda con promesse così
grandi che finalmente si arresero. La madre che non si assicurava interamente, non gli volle
consegnare la figliuola, finché, entrando tutti insieme nel tempio dei Ss. Martiri Samona,
Furia ed Abiba, il soldato facesse giuramento solenne di dover fare alla donzella buon
trattamento. I tre Santi Martiri furono costituiti per mallevadori. Fatta la consegna della
donzella, non molto dopo il soldato la portò con sé nel suo paese, dove egli era già
ammogliato. Per ricoprire la prima scelleraggine con un'altra maggiore, inumano più di una
fiera, sotterrò viva in un sepolcro la seconda consorte. Ivi la infelice donna distruggendosi in
lacrime protestava ai Santi suoi mallevadori l'esecrabile torto che le era stato fatto.
Domandava loro l'adempimento della parola data dal soldato. Ed ecco subito apparirle i Santi
in abito glorioso i quali, infondendo in essa un soave sonno, in brevissimo tempo la posero,
senza lesione alcuna, nella sua patria senza avere aperta la sepoltura. Il barbaro che di questo
avvenimento nulla sapeva, già riputandola morta, tornò la seconda volta in Edessa dove,
convinto del suo delitto, lo pagò con la vita. Ora, se i Santi hanno la forza di far passare i corpi
dei loro devoti per altri corpi con penetrazione miracolosa, quanto meglio sapranno fare che i
loro propri corpi penetrino per altri corpi e non vi abbia per loro impedimento alcuno!
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Finalmente i beati saranno tanto ricolmi di beni, e nel corpo e nell'anima, che non avranno
più cosa alcuna da desiderare e ciascuno di noi, sperando quei beni eterni, potrà dire a sé ciò
che disse S. Agostino: “Che vuoi, corpo mio? Che desideri, anima mia? Ivi troverete quanto
volete. Quanto desiderate. Se vi piace la bellezza, i giusti avranno quella di un sole, se
desiderate qualunque onesto diletto, ivi non con uno, ma con un mare di diletti Dio sazierà la
vostra sete. Si elevino i desideri umani là dove unicamente possono essere soddisfatti; non
desiderino cose della terra che non li possono ricolmare e desiderino solamente le cose del
cielo, perché esse sole sono grandi, esse sole eterne, esse sole possono soddisfare la capacità
del cuore umano.

CAPITOLO SETTIMO.

Come si ha da preferire il cielo a tutti i beni della terra.

Paragoni ora il cristiano le miserie di questa vita con la felicità dell'altra, la debolezza della
nostra natura in questo stato mortale con le forze ed i privilegi della medesima natura nello
stato immortale che ci aspetta. S'incoraggi a conseguire il gaudio della gloria, per un'eternità,
con breve fatica in tempo brevissimo.
Il re Ciro, quando andò alla conquista dell'impero dei Medi, radunò i suoi Persiani,
comandando che venissero tutti con le loro asce ben affilate, ed avendogli ubbidito, li occupò
tutto un giorno nel tagliare un gran bosco.

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Dopo averlo fatto con grande diligenza, il giorno seguente li invitò ad un grande banchetto
pieno di ogni gioia e delizia. Di poi commise loro di mettere al confronto questo giorno con
quell'altro e si scegliessero quale più volevano. Tutti ad una voce risposero: “Quello del
banchetto". In tal modo li incoraggiò alla battaglia contro i Medi promettendo loro che dopo il
lavoro, che avrebbero compiuto con la conquista, doveva seguire una gran felicità. Bastò
questo solo, perché tutti i Persiani lo seguissero e con grande pericolo della loro vita
s'impadronissero dell'impero dei Medi.
Ora, se confrontando una fatica quasi uguale col premio, fu ragione sufficiente in alcuni
barbari per preferire il premio dubbio ad una fatica certa, perché non basterà ai cristiani un
premio certo che è immensamente maggiore della fatica? Confrontiamo anche noi il convito e
la cena dell'altra vita con il lavoro di questa; confrontiamo la grandezza del Regno di Dio con
la piccolezza delle nostre opere, paragoniamo i beni del cielo con quelli della terra; ogni fatica
ci sembrerà riposo, tutta la felicità della terra ci sembrerà miseria e grande viltà. Che cos'è
infatti l'onore di questa vita, falso, dato da uomini menzogneri, corto e limitato, di fronte a
l'onore che si rende nel cielo al giusto, onore vero, dato da Dio, tanto esteso quanto il cielo e
quanti sono gli uomini e gli Angeli che ivi dimorano, onore eterno e senza fine? Che cosa sono
mai le ricchezze, che possono mancare, che ricolmano di pericoli e preoccupazioni e non
possono togliere ogni necessità ai loro possessori, di fronte a quelle che non avranno fine ed
hanno ogni sicurezza ed abbondanza? Che hanno a vedere i diletti limitati, che danneggiano la
salute, che diminuiscono la sostanza ed infamano colui che li cerca, con quei gaudi immensi
della gloria che con diletto uniscono onore e giovamento? Che ha a vedere questa vita piena di
miserie con quella ricolma di

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fortuna e felicità? Che hanno a vedere le cattive qualità dei nostri corpi mortali con le doti
preziosissime della gloria che essi avranno dopo la risurrezione?
Ora siamo tutto marciume, peso, corruzione, immondezza, infermità, nausea e vermi; allora
tutto sarà luce, incorruzione, splendore, purezza, bellezza, immortalità. Si paragoni con agio
che differenza vi abbia tra un corpo infermo, indebolito, schifoso e pallido, e, dopo otto giorni
dalla morte, pieno di vermi, marciume e fetore abominevole, e il medesimo corpo nella gloria,
splendente più che il sole, bello più che i cieli ed odoroso più che i gigli.
Né i mali, né i beni temporali hanno paragone con quelli eterni, se non che, come dice
l'Apostolo, ciò che è momentaneo, opera un peso eterno di gloria. Nel principio della guerra
civile che fece il Senato Romano contro Cajo e Fulvio dei Gracchi, il Console Opimio mandò il
bando, che a chi gli avesse portato la testa di Caio Gracco, glie l'avrebbe parata a peso d'oro.
Tutti ritennero per una grande ricompensa che si desse ad un altro tanto di metallo prezioso
quanto pesasse la carne morta. (VALER., Lib. IX, cap. 4) Ma Dio non promette la sua gloria a
peso, ma bensì dà per un lavoro leggero come una piuma, un peso eterno di gloria. Non dice
l'Apostolo soltanto che Dio ci darà un peso per una cosa leggera, ma che questo sarà eterno.
Sarebbe già grande fortuna, se per le nostre penitenze e fatiche ci si desse anche solo
altrettanto di gaudio, ma di eterna durata; poiché per quanto piccolo sarebbe già un ottimo
cambio se, pur essendo uguale nella sostanza, vi fosse nella durata una differenza, come per
es.; se per un giorno di fatica si guadagnasse un anno di riposo. Ma dando Dio molto per il
poco, il massiccio per cosa leggera, l'eterno per il

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momentaneo, quale guadagno si potrebbe desiderare maggiore?


Confusione ci ha da cagionare Septimuleyo il quale, udendo quel bando del Console romano,
non schivò fatica, né pericolo finché, bramoso di ottenere per premio un peso uguale, tagliò la
testa a Gracco e domandò tanto peso di oro. Il coraggio che ebbe questo soldato per togliere la
vita temporale a un uomo, teniamolo noi per non togliere a noi stessi la vita eterna. Poiché
tanto a buon mercato è il cielo, compriamone molto e teniamo non minor desiderio dei beni
eterni di quello che tenne Septimulcyo brama delle cose temporali, il quale, desideroso di
maggior guadagno, riempi di piombo colato le parti concave della testa che aveva tagliato
perché diventasse più pesante. Riempiamo le nostre opere momentanee e leggere con grande
affetto e carità; riempiamo i desideri, ed in qualunque opera piccola aggiungiamo grande
volontà con grande ansia di tesoreggiare, per mezzo del temporale, cosa eterna. Qual cambio
più vantaggioso per noi, che comprare il cielo per mezzo di una brocca di acqua, per il vile
l'inestimabile, per ciò che dura un istante ciò che durerà una eternità! Quanto a buon mercato
sarebbe, se per una pagliuzza si potesse comprare un regno: ma non è forse per mezzo di cose
non superiori a pagliuzze che possiamo comprare il Regno dei Cieli?
È certo infatti che tutta la felicità, le ricchezze ed i gusti che si trovano sopra la terra, non sono
più di una pagliuzza rispetto alla gloria del cielo. E se stolto e spensierato sarebbe colui che
tenendo soltanto una sporta di paglia avanzata non volesse dare alcune pagliuzze di questa per
un peso di oro, non sono più stolti gli uomini che per mezzo dei beni della terra non vogliono
prendere quelli del cielo? Chi vi ha che offrendoglisi una preziosa margherita per un granello
di sabbia non avrebbe il coraggio di dar cosa tanto vile per ciò

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che è tanto prezioso? Chi, offrendoglisi un ricco tesoro per un carbone, non accetterebbe un
cambio tanto lucroso? Quale affamato, invitato a una splendida cena, solo purché non mangi
gusci di noce, non accetterebbe l'invito? Ci offrono il cielo per cose molto piccole; perché non
lo accettiamo? Gesù Cristo chiamò il Regno dei Cieli margherita preziosa e tesoro nascosto,
per il qual regno dovremmo lasciare tutti i beni della terra, essendo essi tutti non più che
polvere, carbone, viltà e miseria rispetto ad un gran tesoro di diamanti e perle. Molto fece il re
San Giosafat nel lasciare un regno della terra per assicurarsi quello del cielo; fece molto
rispetto al nostro inganno e la nostra falsa stima delle cose; ma ben considerato, fece poco e
non fu più che dar una sporta di terra per un'altra di oro, un sacco di carbone per un gran
tesoro ed un guscio di noce per una ricchissima cena.
Tutto ciò che è sulla terra si deve dare per una briciola di cielo, perché tutte le grandezze di
questo mondo sono briciole e gusci di noce e sudiciume rispetto al minor bene del cielo. Tutta
la felicità della terra non ha sostanza, né peso in confronto col peso eterno della gloria che ci
aspetta. Questo pensava Davide fra sé e, convinto della grandezza della gloria, disse al
Signore: “Inclinai il mio cuore a fare le tue giustizie”. (Ps. 118, 112) Il cuore dell'uomo è come
un peso fedele di una bilancia che ivi s'inclina dove si trova più peso. Nel cuore di Davide il
temporale pesava poco, molto invece l'eterno, inclinato dal peso eterno della gloria che ci
aspetta e mosso dalla speranza di premio tanto grande, gli importava di più il compimento
della legge di Dio che quello della sua inclinazione e del suo appetito.

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Il premio eccede le fatiche nostre.


Ora che sarà, se ci mettiamo e considerare la fatica per la quale ci si promette la gloria come
paga e premio? Disse con molta ragione l'Apostolo che non era equivalente ciò che nel tempo
della vita si poteva patire in confronto alla gloria futura, che ha da manifestarsi in noi: “Non
sono proporzionate le tribolazioni di questo secolo alla gloria che ci sarà rivelata in noi.”
(Rom. 8, 18) Certamente non sono molte le fatiche di questa vita in confronto ad un premio
tanto grande. A S. Agostino non sembravano molti tutti i tormenti dell'inferno per godere
anche per breve tempo la gloria. Se si considerasse la grandezza di quel gaudio, le penitenze di
San Simeone Stilita, i digiuni di San Romualdo, la povertà e nudità di San Francesco, i
disprezzi che patì S. Ignazio, non saranno di più che l'alzare una pagliuzza dal suolo per
diventare imperatore della terra. Ma a quali fatiche e pericoli non si espongono molti uomini
per i premi miserabili di questo mondo? Avendo Davide pubblicato un bando di far capitano
generale il primo che vincesse i Gebusei, che erano i nemici più forti, Joab non dubitò di
mettere la sua vita in un pericolo tanto manifesto entrando attraverso picche e lance, a costo
del suo sangue, per raggiungere quell'onore.
Avendo il re Saulle proposto di dare la sua figlia in sposa a colui che combattesse col gigante
Golia, non essendovi nessuno che si arrischiasse a tanto, non sembrò a Davide gran cosa
mettersi in qualsiasi rischio per la speranza del premio.
Che non hanno fatto gli uomini per un premio della terra? Nulla è sembrato a loro molto, e al
cristiano tutto deve sembrare poco per quel Regno del Cielo. Si meraviglia Seneca di ciò che
fanno i
427

soldati per un regno corto e caduco della terra, tanto più che si tratta di un regno di un altro.
Patire tanto per un regno e per un regno altrui sembrò molto a questo filosofo. Egli ebbe
molta ragione di meravigliarsi che per beni tanto corti si sopportassero tante fatiche e pericoli.
Noi non possiamo meravigliarci di più che per il regno dei cieli, e questo non di altri, ma di noi
medesimi, ci sembri molta la fatica di questo mondo e che ci animiamo tanto poco. Che non
fece Jesbaan (EZECH., I) per il regno di Davide, pure essendo l'uomo disprezzato e reputato
di poco valore? Vedendo che era in pericolo il regno di Davide, si sforzò e si animò tanto che,
vincendo ottocento uomini, li uccise di un impeto, come pure un'altra volta trecento. Per il
medesimo regno di Davide Eleazar lottò tanto costantemente e con tanto valore che uccise
innumerevoli Filistei, e combatté finché per stanchezza non poté più muovere il braccio e
rimase tanto immobile di stanchezza, come se fosse di marmo.
Se per il regno estraneo della terra si animarono tanto questi uomini, perché non
c'incoraggiamo a conquistare il Regno dei Cieli per il quale ben poca cosa è faticare fino a
quando durano le forze e morire nel combattimento? Ma che dico per il regno di Davide?
Poiché solo per un gusto del medesimo Davide, quando desiderò bere dell'acqua della cisterna
di Betlemme, che stava dall'altra parte dell'esercito nemico, tre soldati si arrischiarono da soli
ad aprire il cammino con la loro spada, e traversando nel mezzo degli squadroni avversari, gli
portarono l'acqua desiderata.
Se per un gusto altrui e di un momento questi giovani fecero tanto, noi per i gusti propri di
quei gaudi eterni che perpetuamente e senza fine avremo da godere, perché non ci animiamo
tutti?

428

Ciò che speriamo è il Regno del Cielo: gaudi, ricchezze ed onori eterni sono quelli che ci
furono promessi; poco è tutto ciò che nel tempo si può patire per raggiungerlo. Senna, per
difendere una terra seminata di lenticchie, osò da solo lottare con un esercito di Filistei; per
difendere la grazia che è semente di Dio, per assicurare la gloria che è frutto della Passione di
Cristo, non è certo molto se, senza versare il sangue, noi lottiamo contro l'appetito e vinciamo
la nostra natura corrotta in questa vita per perfezionarla nell'altra. Per questo è molto efficace
la considerazione della gloria, avendo sempre davanti agli occhi il cielo che ci tu promesso.
Non sarà di minor efficacia il premio eterno promesso da Gesù Cristo che quello temporale
degli uomini.
Questo significò nostro Signore mostrando al Profeta Ezechiele (II Reg., XXIII et I Paralip.,
II.) quattro animali molto diversi di natura, ma molto concordi nell'operare e nell'andare.
Vide egli in mezzo a quest'aria quattro animali in forma di aquila, di bue, di leone e di uomo, i
quali tutti volavano con quattro ali rapidi come una folgore. Qual cosa poté allenare tanto la
natura grave di un bue, sì che nel volo fosse uguale ad un'aquila? Chi domò tanto la fierezza
del leone che lo affratellasse con la gentilezza dell'uomo? il medesimo profeta ce lo dichiara
dicendo che quegli animali portavano il firmamento sopra la testa; se anche nel nostro
pensiero vi fosse il cielo, noi ci animeremmo a tutto, e l'uomo materiale si potrà eguagliare
con un Angelo e colui che è bruto nei suoi costumi come le fiere, questo pensiero lo riformerà
secondo la ragione propria dell'uomo, e colui che era infingardo e pigro come il bue, volerà a
quattro ali, e la sua natura vincerà la raddoppiata leggerezza degli uccelli, e lascerà

429
la terra colui che in essa si pasceva, abbandonando i suoi gusti brevi e transitori con la
speranza dei beni eterni.

È sempre poco ciò che si fa per il cielo.


Non è molto questo, perché il bene che aspettiamo è tanto grande che avremmo da ritenere
per fortuna il privarci per esso di ogni altro bene e di patire ogni male e tormento per un gusto
tanto grande. Ascoltiamo ciò che dice San Giovanni Crisostomo: Quante fatiche puoi
sopportare, quanti tormenti ti toccherà patire, tutte queste cose sono nulla in confronto dei
beni futuri. (Homil. 49) Ascoltiamo pure quel che San Vincenzo Martire, diceva al preside
Daciano, e praticamente le parole erano confermate dalla sua pazienza ed allegria nei
tormenti, tra i quali si stava ridendo, mirando il cielo verso il quale s'incamminava. Avendolo
levato molto in alto sul patibolo e avendogli il tiranno domandato per burla dove stava,
rispose: “In alto, da dove io ti disprezzo sebbene sia tu tanto altiero e superbo col potere che
hai sopra la terra. Minacciato poi di tormenti più crudeli, diceva: “Non mi pare che tu in
questo mi minacci, ma che tu mi offra ciò che desidero con tulle le ansie del mio cuore”. E
quando gli facevano a pezzi le carni, con graffi ed unghie di ferro, e con asce infuocate gliele
bruciavano, egli diceva molto contento: “Invano il affatichi Daciano: non puoi immaginare
tormenti tanto orrendi che io non desideri patirli. Il carcere, le unghie, le lamine infuocate, la
stessa morte è un divertimento e giuoco, non un tormento per il cristiano”.
Tormenti tanto grandi sopra la terra furono sopportati con risa da chi considerava i gaudi del
cielo. Consideriamoli anche noi così e non vi sarà cosa

430

che non desideriamo patire per assicurarceli e possederli. È doloroso che per non privarsi di
un vile piacere il cristiano perda tanti gaudi, e gaudi eterni; che per non soffrire una leggera
ingiuria, egli perda gli onori celesti; che per non dare ciò che si deve e restituire ciò che si
prese, lasci di ricevere e prendere possesso del Regno dei Cieli, e per un boccone amaro che gli
offre il demonio, si privi della gran cena a cui lo invita Dio. Chi preferirebbe mangiare degli
ossi che cadono dal banchetto principesco piuttosto che star seduto alla mensa a mangiare i
cibi squisiti? Ciò che ti offre il mondo in tutti i suoi beni non è più che un piatto di ossa senza
sostanza, cose vane ed amarissime; ma ciò a cui t'invita Dio è una mensa ricolma di doni e
dolcezze in cui si soddisferà tutta la fame canina dell'appetito umano.
Con ragione nella Sacra Scrittura (Mt 19; Luca., 18) la si chiama cena grande ed in altra parte
cena di nozze, per la sazietà che cagiona, tale che nessun bene della terra può cagionare. Si
chiama cena e non pasto, perché dopo il pasto gli uomini sogliono alzarsi per andare ad altre
occupazioni ed al lavoro; ma dopo la cena non vi ha più occupazione, né lavoro, ma solo quiete
e riposo. In questa gran cena come portata principale si serve la vista chiara di Dio con tutte le
perfezioni divine, poscia mille gaudi dell'anima in tutte le sue potenze, di poi mille gusti dei
sensi con tutte le perfezioni del corpo glorificato. Queste sono come la frutta di questo divino
convito, se tale è la frutta, quale sarà la sostanza di quel convito? Che paragone possono, avere
coi gaudi tanto soavi e beni tanto grandi quelli che si trovano nel mondo? Certamente non
sono neppure degni di essere chiamati cortecce di beni.
E' ben da considerarsi come tutti quelli, dei quali parla Gesù Cristo, dicendo che non
goderono

431
di quella cena grande, nella quale si figurava la gloria, non furono esclusi per cose che per sé
fossero peccato. Uno si scusò perché aveva comprato un podere; un altro perché aveva da
provare due buoi, un altro perché doveva andare a nozze. Tutte queste cose non sono
peccaminose, ma preferirle al Regno dei Cieli è una stoltezza incredibile e una cecità dolorosa.
Tutti coloro che si occupano con troppe ansie di cose della terra e s'impegnano in esse sole,
non fanno meno che preferire le cortecce, gli ossi e le bucce di ciò che poteva avanzare, in un
pasto breve di un rustico, ai piatti ricchissimi della mensa di un re potente.
Certamente, anche se Dio non ci avesse invitato, noi vermi miserabili e vili, ad una cena di
soavità infinita nel cielo, ma ci avesse solo promesso delle briciole di essa, dovremmo
preferire queste a tutti i gusti e a tutte le comodità di questo mondo. Temiamo che anche nel
prenderci gusti leciti, vi possa essere pericolo della nostra dannazione. I mali del peccato sono
la causa della dannazione degli uomini, ed i beni del mondo ne sono l'occasione; aspiriamo
quindi solo al cielo. Apriamo gli occhi, poiché coloro che furono chiamati da Dio con qualche
vocazione speciale, anche senza peccato, la Sacra Scrittura li presenta quali dannati, come
abbiamo visto in questi tre invitati. Meglio ancora si vedrà in quel giovane, il quale,
domandato a Gesù Cristo nostro Redentore che cosa dovesse fare per raggiungere la vita
eterna e udito dal Signore che osservasse i comandamenti della Legge, disse che così aveva
fatto per tutta la vita. (Luca, 14, 12-13) Ma avendolo il Signore chiamato con vocazione
speciale, perché fosse perfetto e per questo lasciasse tutte le cose, egli si rattristò, perché era
molto ricco. Subito Gesù

432

Cristo, dando a capire che quello era escluso dal Regno dei Cieli, disse quella memorabile e
tremenda sentenza: In verità vi dico che un ricco difficilmente entrerà nel Regno dei cieli.
Un'altra volta disse che è cosa più facile che un cammello entri per la cruna di un ago, che un
ricco nel Regno dei Cieli, significando insieme che quel giovane sarebbe stato escluso dalla
gloria, sebbene sia detto di lui che osservasse i comandamenti, perché coloro che il Signore
favorisce con particolari ispirazioni e con speciale vocazione, non assicurano la propria
salvezza con solo osservare i comandamenti, senza osservare alcuni consigli, e devono evitare
non solo i peccati e le occasioni di peccare, ma altresì gli impedimenti della virtù e perfezione,
con cui non solo assicurano meglio il cielo, ma raggiungono più gloria. Se invece non lo fanno,
possono temere non dispensino Dio dall'obbligo di dar loro gli aiuti efficaci per osservare i
comandamenti, dopo che ebbero vocazione divina e la disprezzarono, e con la perdita della
vocazione divina perdono pure la salvezza eterna e la gloria.
Poco è tutto quello che si fa per il cielo, poco quello che si patisce, poco tutto quanto si lascia,
poca tutta la preoccupazione che si metta per raggiungerlo, poco quanta prudenza si osservi,
pochi quanti impedimenti si tolgano e poco quanto rigore si abbracci per assicurarlo. Se non
lo giudichiamo così in questa valle di lagrime, lo giudicano così i Santi del cielo, i quali hanno
un parere ben diverso da quello degli abitanti della terra.
Una volta che Santa Teresa di Gesù apparve alla Venerabile Isabella di San Domenico, questa
santa religiosa domandò perdono a San Teresa di un disgusto che le sembrò di averle dato.
Era avvenuti che essendo priora di Pastrana, mise una grata molto fitta attraverso la quale le
monache ascoltavano Messa; ad alcune essa sembrava troppo fitta ed anche a Santa Teresa, la
quale la voleva

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togliere, ma la lasciò, perché la priora, Suor Isabella le replicò dicendo che vi era
l'inconveniente che stando vicino i secolari, le potevano vedere. Ma dopo la morte, quando
Santa Teresa era già nella gloria, la Venerabile Isabella di San Domenico provò pena per aver
con la sua opposizione disgustata la sua Santa Madre. La Santa le rispose dicendo: “Di qui
alcune cose mi appaiono differentemente”. Senza dubbio le cose nel cielo sembreranno di ben
diversa maniera, dove ogni prudenza e cura per non offendere Dio sembrerà ben poca cosa,
cosa grande invece qualsiasi trascuranza o impedimento nel suo servizio.

CAPITOLO OTTAVO.

Dei mali eterni dei dannati

Ai diletti mondani seguono mali eterni.


Non solo vi sono nel mondo dei beni da disprezzare per mezzo della considerazione del cielo,
ma altresì sono da disprezzarsi i suoi mali con il ricordo dell'inferno nel cui paragone ogni
male temporale si può reputare un bene, una comodità ed un dono. Ogni dono deve essere
aborrito come tormento e pena, se esso dispone per quei tormenti eterni e priva dei gaudi
perpetui che non avranno fine.
Ma sono tali questi due estremi che ci aspettano che qualsiasi di essi basta, perché
disprezziamo ogni bene e male temporale. Considerandosi insieme la privazione dei beni del
cielo ed i tormenti dell'inferno, non so come possa esservi chi gusti alcuni diletti di questa vita
e non tremi di ciò che gli può succedere. Per questo solo rischio dovremmo aborrire ogni bene
temporale ed ammettere

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ed abbracciare ogni male di questa vita; dovremmo disprezzare i mali ed i beni, né amando i
beni, né temendo i mali, non facendo caso a nulla. Ma i beni mondani per essere disprezzati
più che i mali hanno questo di particolare, che sogliono essere occasione di peccato e di caduta
nella dannazione eterna.
La Sacra Scrittura e i Santi sono pieni di minacce contro i ricchi, i potenti, gli amatori del
mondo; questi sono coloro che popolano l'inferno. Dice il profeta Baruch (Bar., III) “Dove
sono i dominatori delle nazioni, i dominatori delle bestie che sono sulla terra? Quei che si fan
trastullo degli uccelli del cielo, che tesoreggiano argento e oro, in cui confidano gli uomini, e
non finiscono mai di procacciarsene? Dove coloro che lavorano l'argento, e stanno intenti e le
cui opere sono incomprensibili? Furono sterminati e discesero all'inferno ed altri
subentrarono al loro posto. Dice San Giacomo (5, 1): "Piangete, ricchi, a motivo delle miserie
che verranno sopra di voi. San Paolo minaccia non solo i ricchi, ma altresì coloro che
desiderano di esserlo, dicendo: “Coloro che desiderano diventare ricchi cadono nella
tentazione e nel laccio del diavolo e in molti desideri inutili e nocivi che annegano gli uomini
nella morte e nella maledizione”. (1Tm. 6, 9) Con questo contrappeso e rischio, come si può
desiderare bene alcuno di questa vita, giacché i soli desideri di quelli sono tanto velenosi?
Tutti coloro che nel loro cuore sentono affetto alla terra ascoltino San Bernardo (S.
BERNARD., in Meditat) che dice: “Dimmi, dove stanno gli amatori del mondo che pochi anni
fa furono con noi? Non è rimasto di loro, se non cenere e vermi puzzolenti. Avverti con
diligenza ciò che sono ora e ciò
435

che furono: furono come te; mangiarono, bevvero, risero e passarono in diletti i loro giorni ed
in un istante scesero all'inferno. Qui stanno i loro corpi mangiati dai vermi, nell'inferno
stanno le loro anime dannate al fuoco eterno, fino a quando, tornando a riunirsi, cadranno
negl'incendi sempiterni, acciocché quelli che furono compagni nella colpa, lo siano anche
nelle pene ed una medesima pena comprenda coloro che un medesimo amore unì nel delitto.
Che cosa giovò loro la gloria vana, la breve allegria, la potenza dei mondo, il diletto della
carne, la grandezza del nome? Dove stanno le loro risa e le loro grazie? Dove la iattanza ed
arroganza? Quanta tristezza seguì a tanti diletti e quanto gravi miserie! Dal trionfo del mondo
caddero in grande rovina e in grandissimi tormenti”. Ciò è conforme a quello del Savio: “I
potenti saranno tormentati potentemente.” (Sap., 6, 7)
Ora, se coloro che più godono del mondo corrono maggior pericolo di cadere nell'inferno, che
cosa potrà aiutare di più per disprezzare il mondo che la considerazione di una fine tanto
lamentevole? Che cosa può dichiarare meglio quanto siano disprezzabili i beni temporali, che
l'essere facile causa di mali eterni? Una cosa anche bellissima non si compra se incomoda, un
cavallo anche di puro sangue non si acquista se difettoso, una tazza sia pure preziosa non si
apprezza se screpolata; ed i beni del mondo, pur avendo tutti questi vizi ed essendo tutti
difettosi e velenosi, perché si bramano, si amano, si cercano e si cerca con essi la nostra
perdizione?
Non vi è dubbio che, se si considerassero i mali sempiterni che corrispondono ai brevissimi
gusti di questa vita, calpesteremmo coi piedi e disprezzeremmo ogni felicità e, tremando nel
vedersi

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posti in alta fortuna, sì fuggirebbe dal mondo come dalla morte. Lo zelante frate Giordano,
stando persuadendo un signore perché si convenisse a Dio e disprezzasse ogni sua grandezza,
fece per ultimo ricorso alla considerazione di questo novissimo. Vedendo che era un giovane
molto gagliardo, bello e ben disposto, gli disse: “Signore, questo per lo meno vi domando che,
poiché Dio vi fece tanto bello e vi diede bel volto e bella forma, consideriate nel vostro cuore
quanto gran male sarebbe, se corpo tanto bello e membra tanto ben disposte diventassero
pasto del fuoco eterno e dovessero essere bruciate senza fine”. Vi pensò quel giovane; e questa
considerazione poté tanto in lui che aborrendo il mondo, lasciò tutte le sue possessioni e
speranze e si fece povero di Cristo facendosi religioso.

La malizia del peccato mortale.


Veniamo ora a considerare i mali eterni, per disprezzare tutti i mali e beni temporali.
I mali dell'inferno sono veri mali e sono mali tanto puri che non hanno alcuna mescolanza di
bene. In quel luogo di disgrazia vi ha questa raddoppiata disgrazia, che in esso vi sono tutti i
mali e non vi ha un solo bene. Esso è la privazione di ogni bene e il possesso di ogni male con
pianto eterno, senza consolazione alcuna. Al ricco Epulone mancò perfino una goccia d'acqua
che egli domandò ad un uomo tanto misericordioso quale era Abramo. Non vi sarà bene che
consoli, per piccolo che sia, né mancherà male per quanto grande sia che non lo affligga. Non
vi si troverà bene alcuno dove mancano tutti i beni, né mancherà male alcuno dove si trovano
tutti i mali. Con la mancanza di ogni bene e la riunione di tutti i mali ogni male diventa
maggiore.
Nella creazione del mondo Dio andava lodando ciascuna natura dicendo che era buona, senza

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aggiungere altro; ma di poi, quando tutte erano già create ed unite, aggiunse “che erano molto
buone”, perché l'unione di molti beni eleva molto ognuno: e lo stesso succede nell'unione di
molti mali. Ora, che cosa sarà il cielo, dove non solo vi sono uniti tutti i beni, ma soli beni,
senza alcun male? E che sarà l'inferno, dove non solo si trovano molti mali, ma uniti tutti i
mali, senza alcun bene? Certamente quelli del cielo non solo saranno beni, ma saranno beni
grandi, né quelli dell'inferno saranno solo dei mali, ma mali grandissimi e più ancora di
questi. Per significare questo il Signore fece vedere al profeta Geremia due canestri di fichi; di
quelli del primo dice che erano buoni ed eccessivamente buoni; dei fichi dell'altro che erano
cattivi ed eccessivamente cattivi. Non si contenta di dire cattivi, né molto cattivi, ma troppo
cattivi. Essi significavano quello stato miserabile dei dannati, dove si avrà la riunione di tutti i
mali senza mescolanza di alcun bene; sebbene sia breve la parola, dice però che i suoi mali
sono eccessivi.
Nessuno sì meraviglierà di questo conoscendo la gravità del peccato per il quale, se è mortale,
l'uomo merita l'inferno e, secondo S. Agostino, il cristiano due inferni, cioè il pagano un
inferno, e chi conobbe Gesù Cristo due, perché conoscendo il Figlio di Dio incarnato e
crocifisso per lui, ha osato peccare. Il peccato è un male eccessivo, perché è un male infinito,
per il che non è troppo che Dio lo castighi con mali eterni. È un male maggiore che tutti gli
altri mali insieme e così non è troppo che il peccatore sia giustiziato con tutti i mali uniti. Se
molti si meravigliano della terribilità delle pene eterne, è perché non conoscono la orribilità di
una colpa, per cui dice S. Agostino (De Civitate Dei, lib. XXI, cap. 12): “Per questo sembra
dura ed ingiusta al senso umano

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la pena eterna, perché in questa debolezza dei sensi caduchi e mortali manca il senso di quella
sapienza altissima con la quale si può sentire quale grande malvagità si abbia commesso nella
prima prevaricazione.
Ora, se per colui il quale conoscesse la malizia di quel primo peccato che si commise, quando
Cristo non era ancora morto per l'uomo, non era pena eccessiva quella dell'inferno, come può
essere molta per coloro che offendono il loro Redentore, dopo averlo visto a dare perfino la
sua vita per noi, acciocché non pecchiamo? Dalla necessità di una medicina molto costosa
possiamo raccogliere la grandezza dell'infermità. La gravità ed il pericolo di un dolore si
conosce dalle medicine straordinarie e costose che per quelli si cercano e senza le quali non si
farebbe la cura. Possiamo raccogliere pure il male infinito di un peccato mortale: da questo
che non ebbe altro rimedio, se non uno straordinario come quello di farsi Dio uomo e di
morire di morte tanto ignominiosa e dolorosa, rimedio tanto costoso, quale fu il valore ed il
prezzo infinito dei meriti e della Passione di Gesù Cristo. Il peccato è ingiuria contro Dio.
Come l’ingiuria cresce in proporzione della grandezza della persona ingiuriata, essendo Dio
infinito, l’ingiuria del peccatore diventa una malizia infinita. Così, essendo Dio un bene che
comprende tutti i beni, il peccato mortale, che è ingiuria contro Dio, e un male che merita tutti
i mali, acciocché sia castigato con tutti quelli, ed una colpa che merita tutte le pene.

La pena del danno.


Consideriamo ora come nell’inferno vi ha ogni genere di pene e la grandezza di esse. Tullio
scrive che nelle leggi vi hanno otto generi di pene.

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Lo stesso disse S. Alberto Magno. (Comp. Theol., lib. VII, cap. 22) Queste sono: Pena del
danno, per la quale uno è condannato alla perdita dei beni; pena d'infamia, pena di esilio,
pena di carcere, pena di servitù, pena di flagellazione, pena di morte, pena del taglione. A
queste pene si possono ridurre tutte le altre: troveremo che la giustizia divina le esercita tutte
in coloro che disprezzarono la misericordia ed ingiuriarono alla bontà e maestà infinita.
La prima pena che ivi si trova è quella del danno, tanto rigorosa che privando il dannato di un
bene solo lo priva di tutti, perché lo priva di Dio che li contiene tutti. Questa certo, è la pena
maggiore che possa immaginarsi. Oh quanto perduto e povero è un dannato, poiché ha
perduto Dio e resta privato di Lui per un'eternità! Colui che per leggi umane è condannato alla
perdita dei beni, può di poi, se vive, guadagnarne altri di nuovo, per lo meno in altro regno, se
fugge; ma chi resta privato di Dio, dove troverà altro Dio, e chi fuggirà dall'inferno? Dio è il
sommo bene e così è sommo male esserne privato perché come dice San Giovanni
Damasceno, il male è la privazione del bene. Quale è male maggiore, se non dove c’è
privazione maggiore e di un bene maggiore? Come nell'inferno vi ha la privazione eterna di
Dio, che è sommo bene, la pena del danno che priva per sempre del bene più grande di tutti, è
la più grande di tutte le pene, e sarà ancora quella che cagionerà maggior dolore. Se il
bruciarsi una mano cagiona un dolore che non sì può sopportare perché il calore eccessivo
priva del temperamento naturale del corpo che è un bene tanto vile e corto, quanto
tormenterà l'essere privato ed allontanato eternamente da un bene tanto grande quale è Dio?
Un osso rotto o lussato, che dolore intollerabile cagiona perché è fuori del suo luogo e privo
del suo posto!

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Che sarà per una creatura ragionevole essere appartata eternamente dal suo fine per il quale
fu creata? San Giovanni Crisostomo (Homil. 24 in Matth) diede in qualche modo ad intendere
questo dolore quando disse: “Colui che arde nell'inferno perde altresì totalmente il Regno dei
cieli, la qual pena in verità è maggiore che il tormento delle fiamme di fuoco. Conosco molti
che temono l'inferno; però dico che il perdere la gloria è cosa più amara che lo stesso supplizio
dell'inferno. Non è meraviglia che io non possa dichiarare questo con parole, perché non
conosciamo tanto la beatitudine di quei premi per poter conoscere bene quanto grande sia la
disgrazia di perderli. Ma lo sapremo senza dubbio, quando per esperienza comincino ad
insegnarcelo. Allora si apriranno gli occhi, allora si toglierà il velo, allora vedranno i dannati
con grande dolore quanta distanza vi ha tra il bene eterno e sommo e questi beni caduchi e
fragili. Se San Giovanni Crisostomo dice questo della perdita del premio della felicità, la quale
è maggior male che il tormento del fuoco infernale, che sarà la perdita di Dio non solo in
quanto è bene nostro, ma in quanto è in Se stesso somma bontà, dalla quale sarà il dannato
eternamente aborrito e condannato?
Perciò questa pena del danno sarà la maggiore di tutte le pene. La mancanza, la necessità e la
povertà causate dalla privazione di Dio sarà la maggiore delle povertà e necessità, perché è
privazione delle ricchezze di Dio e della sua gloria. Oltre a ciò la dannazione del peccatore sarà
tanto universale in tutti i beni, che mancherà di tutte le cose, rimanendo senza speranza di
bene e nella somma necessità, senza avere chi gliele procacci. Quale maggior povertà di quella
di colui a cui

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manca tutto, perfino la stessa speranza? Ci spaventiamo della povertà in cui cadde il santo
Giobbe, il quale, da ricchissimo re che era, venne a finire su di un letamaio senza sapere che
gli rimanesse altra cosa, se non un pezzo di coccio con cui levare il marciume delle sue piaghe.
Ma perfino questo mancherà ai dannati, i quali non avranno un letamaio per letto, che
sarebbe per essi un grande riparo, ma, in luogo di un letto, avranno tizzoni di fuoco che
bruceranno le loro carni, né avranno un ciottolo cavo per raccogliere un poco di acqua, se loro
la si desse, perché, come dice il Profeta Isaia (Is., XXX, 14): “Dei rottami non si troverà che
loro rimanga un coccia con cui attingere un po' d'acqua. Quel ricco Epulone del Vangelo,
abituato a bere in tazze di cristallo ed a mangiare in piatti d'argento e vestire tele preziose, ci
potrà dire fin dove arrivi questa povertà. Quanto domandò? Non vino di Candia, né altra cosa
preziosa, ma acqua che gli mancò, e questa non in qualche coppa bella di cristallo o di argento,
ma sul dito di Lazzaro lebbroso. Giunse a tale estremo questo riccone, tanto pulito e lussuoso,
che lo tenne per sommo bene che gli si desse una goccia, fosse anche sopra il dito ferito e
schifoso di un lebbroso; perfino questo gli mancò.
Vedano i ricchi di questo mondo a quali estremi di povertà arriveranno, se si fidano delle loro
ricchezze. Sappiano che hanno da essere condannati alla perdita dei beni. Guardi colui che era
abituato a vestire tele preziose, a calpestare tappeti e riposare in piume, ad abitare in grandi
palazzi, come si troverà nudo e lanciato in brage accese, senza muoversi di un punto da quel
sito stretto di quella bolgia infernale; tema le ricchezze di questo mondo e tema la povertà
dell'altro.

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La pena dell'infamia.
Questa povertà di ogni bene, accompagna una infamia somma ed un disonore vergognoso dei
dannati i quali, si vedono da pubblica sentenza privati della gloria per i loro delitti, e vengono
ripresi dal Signore del cielo e della terra. Questa sarà infamia tanto granati che San Giovanni
Crisostomo (Ibid.) non dubita di scrivere al riguardo: Cosa intollerabile è l'inferno, questo
castigo e terribile: con tutto ciò, se altri mi mettesse dinanzi mille inferni, non mi direbbe cosa
tanto orribile come l'essere escluso dalla gloria di quell'onore felicissimo ed essere aborrito da
Cristo ed udire da lui il “Nesciovos”, non vi conosco, e sentirmi rimproverare di avergli negato
il mangiare ed il bere, mentre egli era affamato ed assetato.
Possiamo illustrare quest'infamia con una similitudine. Un re potente, non avendo figliuoli da
lasciare eredi del regno, raccoglie da una porta della chiesa un bambino, lo fa allevare come
suo e venendo a morte ordina per testamento che se verrà su buono e virtuoso, a l'età dovuta
gli succeda nel regno, ma se la sua riuscita fosse malvagia, come ingrato e reo, venga
ignominiosamente condannato ad una galera. Obbedienti a tale ordine i grandi del regno
provvedono al fanciullo eccellenti maestri, i quali consacrano alla sua istruzione tutto il loro
ingegno, ma invano: egli si ribella, non vuol saperne di studiare, non pensa che a divertirsi e
quanto più cresce in età tanto più diventa scapestrato e dissoluto, nonostante gli ricordino
l'ordine del re e quindi l'interesse che avrebbe a ravvedersi sul serio. Giunto all'età legate, il
Parlamento lo giudica indegno di regnare, e dopo avergli letto pubblicamente il testamento
del suo reale benefattore, lo spogliano delle sue vesti preziose
443

e ammanettato come un malfattore lo mandano alla galera. Quale scorno per questo
disgraziato! perdere un regno ed essere condannato come un galeotto: delle due ignominie
non saprei quale sia la maggiore!
Maggior ignominia e tragedia più dolorosa prova un cristiano condannato all'inferno.
Avendolo Dio levato dalla porta della morte ed adottato per Figlio, a condizione però che, se
fosse osservante dei suoi comandamenti, dovesse regnare nel cielo, altrimenti dovesse essere
condannato all'inferno, egli non ne fece conto, anzi, dimenticandosi del suo obbligo, non portò
rispetto alcuno ai precettori e maestri che gli furono dati e che sono gli Angeli, specialmente
l'Angelo custode, che gli danno consigli santissimi, nemmeno agli uomini spirituali ed
apostolici, che coi loro esempi e con la loro dottrina ci confortano a ciò che dobbiamo fare
come figli di Dio. Non apprese senno dai castighi del cielo, coi quali il Signore ha disfatto i
suoi disegni ed i suoi vani trattenimenti, piangendo solamente le sue perdite temporali invece
che le offese divine, per questo al tempo della morte fu giudicato per indegno del Regno di Dio
e meritevole dell'inferno nel quale è ignominiosamente precipitato. Quale infamia può
trovarsi maggiore di questa? Se l'essere giustiziato per via di giustizia umana è grande dolore,
che sarà l'essere giustiziato dalla giustizia divina come perfido traditore di Dio?
Oltre all’infamia della pena avrà il dannato per tutta l'eternità l'infamia della colpa e lo
scherniranno e scorneranno i demoni finché Dio sarà Dio, e non solo i demoni, ma tutte le
creature ragionevoli del cielo e dell'inferno, Angeli e uomini hanno da reputarlo per un
infame, disleale, e ribelle al suo Re, Creatore e Redentore. Oltre a ciò apparirà questa infamia
anche sul volto del peccatore, come uno schiavo fuggitivo viene marcato.

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Dice il Profeta Isaia che le “loro facce saranno volti bruciati”, (Is., XIII, 8) e cauterizzati
ignominiosamente. Non solo del volto ma di tutto il corpo dice S. Alberto Magno: “Tanto
ignominioso sarà il corpo del peccatore che, quando verrà l'anima per entrare in esso, si
stupirà in vederlo tanto orribile, tanto che preferirebbe averlo come quando era mangiato a
metà dai vermi”.

CAPITOLO NONO.

Pene dei dannati in riguardo al luogo

La pena dell’esilio.
Altro genere di pena tormentosa e quella dell'esilio, che patiranno i dannati in sommo grado,
essendo esiliati nel luogo più appartato dal cielo e più calamitoso di tutti, cioè nel profondo
della terra dove né il sole di giorno, né le stelle di notte arriveranno. Ivi tutto sarà orrore e
tenebre. Così si disse di quel dannato: Gettatelo nelle tenebre esteriori (Mt. XXII, 13) fuori
della città di Dio, fuori dei cieli, fuori di questo mondo dove non apparisca; in quella terra che
nel libro di Giobbe (Gb., X, 21) si chiama terra tenebrosa e coperta dell'oscurità di morte, terra
di miserie e di tenebre, dove non ci sarà nessun ordine, ma terrore sempiterno; terra, secondo
Isaia, (Is, 34, 9) di zolfo e di pece ardente; terra di corruzione e peste e terra di immondizie e
miserie. San Tommaso dice (In IV Sent.): “Nell'ultima purificazione del mondo,
445

secondo San Basilio, si farà separazione degli elementi, di modo che il puro e raffinato resti in
alto per la gloria dei beati e l'impuro e fangoso si getti all'inferno per pena dei dannati,
acciocché, come ogni creatura è per i beati materia di gaudio, così pure si aumenti il tormento
dei dannati per mezzo di ogni creatura. Ciò spetta alla Divina Giustizia, acciocché, come
allontanandosi col peccato da colui che è uno, misero il loro fine nelle cose materiali, che sono
molte e varie, così pure siano afflitti da molte cose. Ora in questo letamaio e mucchio di
sterco, in questa sentina di elementi e terra di tormenti e pene saranno esiliati i nemici di Dio.
Questa pena era gravissima presso i cittadini romani, quando per alcun enorme delitto erano
cacciati dalla loro patria e rilegati in alcuna isola o in qualche paese di barbari. Ovidio non si
saziava di piangere per vedersi bandito nel Ponto e sospirava di continuo l'amata Roma. E
Marco Tullio, quando ritornò dal suo esilio, come se di nuovo entrasse nel mondo, e ne fosse
fatto padrone, tutto colmo di ammirazione, di giubilo, diceva: “Quanta bellezza ha l'Italia, che
frequenza di popoli, che vanto di paesi, che campagne, che colli, che vaghezza di città, che
cortesie di cittadini, che dignità di Repubblica!”. Se tanta differenza facevano gli uomini da
una terra ad un'altra, da una qualità ad altra qualità di abitanti, quale sarà la pena dei dannati
per la differenza che sarà dal cielo all'inferno e dal trattare con Angeli al trattare con demoni?
Che dolore sarà il vedersi privati dei palazzi del cielo, della conversazione dei Santi, lungi da
quella regione felicissima dei vivi, dove ogni cosa è pace, carità, tranquillità e godimento, dove
tutto risplende, tutto diletta e per ogni parte suona Alleluja!
Davide amaramente si doleva di vedersi fuori della sua Patria, fra barbari e lontano dal
Tabernacolo.

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Il popolo di Giuda, esiliato in Babilonia, non si saziava di versare lagrime. I poveri esiliati
cantavano: Sui fiumi di Babilonia là sedemmo e piangemmo nel ricordarci di Sion. Ai salici in
mezzo ad essa appendemmo i nostri strumenti... E quelli che ci avevano deportati, (dicevano):
cantateci qualcuno dei canti di Sion. Come canteremo il cantico del Signore in una terra
straniera? (Ps. 136, 1-4).
Fu eccesso di tirannia la crudeltà che Alessandro usò con Callistene, facendolo rinchiudere
insieme con un cane dentro una gabbia, dopo avergli fatto tagliare le orecchie, labbra e narici.
Punizione certamente orribile per un lacrimevole uomo tanto rispettabile: il vedersi trattato
come una bestia, e non potersi consolare con altri che con un cane.
Ma i dannati dovranno stare fra cani, anzi fra leoni, piuttosto che fra i propri parenti. I tiranni
del Giappone inventarono un tormento disusato contro coloro che confessavano Gesù Cristo
ed era impiccarli con la bocca in giù, calato mezzo il corpo dentro una fossa, dove si trovavano
un gran numero di rospi, scorpioni, serpenti ed altri animali stomachevoli ed orribili. Ma
nemmeno la compagnia di questi animali è uguale a quella di tanti dragoni infernali, quanti
sono in quella profonda caverna, dove non la metà, ma tutto intero sarà immerso il miserabile
peccatore.
I Romani, (ISID., Lib, V, Etim., c. 47) per mettere orrore ai parricidi, quando uccidevano i
propri genitori, mettevano i delinquenti in un sacco con un gallo, una scimmia ed un serpente.

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A chi non mette orrore l’inferno, dove il peccatore ha da stare rinchiuso con tutti gli spiriti
maligni? Nessuno vorrebbe vivere in una casa che sia inquinata da alcun folletto; che sarà
l'abitare in quella fossa e in quel pozzo, dove non due o tre, ma tutti gli spiriti malvagi sono
radunati? Nessuno vorrebbe vivere in una casa di appestati o di vicini cattivi: considera ora
ciò che si troverà nell'inferno.
Marco Catone consiglia a coloro che avessero a comperare una terra di guardare ben prima
quali vicini ivi si trovano. Perciò Temistocle, (PLUTARCUS, in Vita Temistocl.) dovendo
vendere una possessione, comandò che fosse pubblicato all'incanto, che essa aveva buoni
vicini.
Come compriamo l'inferno e con un prezzo tanto caro, quale è quello delle stesse nostre
anime, avendo esso come vicini gente tanto maledetta, che i medesimi padri, se ivi
s'incontrassero con i figliuoli, avrebbero da aborrirli? Tutti saranno per loro di peso e nessuno
potrà sopportare l'inquietudine e il tumulto, la vista della bruttezza spaventevole dell'altro.
Pesantissimo sarà questo esilio, dove uno andrà senza trovare chi lo ami, sì che gli stessi padri
che ivi s'incontrano con un loro figlio, lo dovranno aborrire, come si vedrà in questo caso che
si racconta nelle vite dei Padri dell'Eremo.
Dopo di essersi ad un sermone contro l’usura convertito il figlio di un usuraio, egli pregò suo
padre ed un altro suo fratello che, lasciato quel traffico infame, restituissero la roba
ingiustamente acquistata. Ma facendo essi, come suol dirsi, orecchio di mercante, egli,
ritiratosi nell'Eremo prese l'abito di monaco e si mise in compagnia di altri servi di Dio.
Morirono suo padre e il fratello senza far penitenza dei loro peccati. Il santo monaco si doleva
tanto della miserabile sorte, che temeva fosse loro toccata e supplicava nostro

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Signore di rivelargliela. Stando un giorno in questa orazione gli apparve un Angelo che
prendendolo per mano, lo condusse seco sulla cima di una montagna, da dove vide una
profonda valle piena di fuoco e si sentì venirne fuori una voce spaventevole, e subito vide suo
padre che bolliva nel fuoco come un cece, quando bolle nella pentola; vide altresì suo fratello,
il quale come naufrago in tempesta ora galleggiava, ora si tuffava fra quegli incendi. Il
disperato figliolo parlò al padre dicendogli: “Maledetto eternamente, sii tu, o padre, che con la
tua ingiusta eredità mi condannasti”. Ed il padre rispose: "Maledetto sii tu, figliuolo, poiché
per lasciarti ricco non curai di guadagnarla con mezzi leciti”. Poscia essi sparirono e il monaco
tornò spaventato al monastero, dove perseverò in aspra penitenza fino alla morte. In altri
esilii, quando lontani dalla patria si incontrano due parenti, ricevono conforto grande dalla
vista scambievole, e gli stessi nemici sogliono riconciliarsi. Ma in questo esilio dell'inferno gli
amici ed i parenti stessi odieranno gli uni gli altri.

Esilio coatto.
Si aggiunge a quanto si disse, che in questo esilio il dannato non ha la libertà degli altri esiliati,
i quali entro i limiti della isola o della regione del loro esilio possono fare ciò che vogliono.
Non così i dannati, perché il luogo del loro esilio è altresì carcere ed ivi stanno imprigionati,
acciocché non manchi loro questo tormento che è altro genere di pena gravissima. L'inferno è
il carcere di Dio, carcere rigorosissimo per tante migliaia di milioni di uomini quanti ivi si
troveranno, fetente e sporco, dove non mancheranno ai miserabili legami e ceppi. Dice
Sant'Agostino, (De Civit. Dei, lib. I, cap. 10) seguito dagli

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Scolastici, che gli spinti maligni dovranno stare legati al fuoco o ad alcuni corpi infuocati dai
quali riceveranno una pena incredibile, essendo privati della loro libertà naturale, così da non
poter andare dove vorrebbero, come un imprigionato legato con ceppi pesanti, senza potere
alcuno di uscire da quel luogo di disgrazia e miseria. Che tormento sarebbe, se vedessimo un
uomo agitare manette e ceppi di fuoco, di maniera che i ferri delle manette e dei ceppi fossero
accesi come tizzoni! Chi potrebbe soffrire tal genere di prigionia? Ora prigione tanto rigorosa
e molto di più c'è nell'inferno. Questi corpi di fuoco che hanno da servire di prigione e di ceppi
ai condannati, dicono gravi dottori, che avranno forme terribili e proporzionate ai loro peccati
tanto da spaventare il solo vederli.
Gli uomini, dopo il giudizio finale dovranno stare in quella carcere orrenda tanto stretti e
ricalcati l'uno con l'altro che, come la Sacra Scrittura ci fa capire, hanno da stare come l'uva
nel tino, in tal maniera che, per il soverchio essere pressati, scoppiano per ogni parte.
Compressi eccessivamente, essi saranno in quella bolgia infernale, senza potersi muovere dal
luogo in cui caddero.
Fu tormento crudelissimo quello che usarono gli eretici di Mastrich con tre Padri della
Compagnia di Gesù. Cinsero le loro braccia ed i piedi con tali cerchi, tutti seminati di punte di
aghi, che non si potessero muovere senza pungersi. Quindi accesero loro intorno un gran
fuoco acciocché si bruciassero senza muoversi. Se muovevano piede o mano subito le punte
acute traversavano loro le carni. Quale sarà il tormento dei dannati che staranno arrostendosi
vivi senza potersi muovere e, qualunque parte tocchino, toccheranno fuoco di zolfo, nel quale
saranno i loro corpi annegati, e in mezzo a quel carcere, che è un pozzo rotondo di fuoco,
chiamato dalla Sacra Scrittura stagno e

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laguna di fuoco, staranno le anime disgraziate nuotando come i pesci nel mare, toccando
dappertutto fuoco, che per loro entrerà dappertutto più di quello che entra l'acqua quando
uno si annega nel profondo del mare, per la bocca, per il naso, per le orecchie?
Né avrà da mancare il cattivo odore, che è tanto proprio nelle carceri, in questo carcere per
eccellenza. Quel fuoco di zolfo che non troverà respiro, dovrà cagionare un fetore intollerabile.
Se un grano di zolfo non v'è chi lo sopporti, chi potrà soffrire un incendio di una lega di zolfo?
Inoltre quei corpi abominevoli manderanno da sé un fetore spaventevole, proporzionato al
fetore dei loro peccati. A Lione di Francia avvenne che, essendo stato posto in una buca, senza
sotterrarlo, un defunto, indi a pochi giorni l'aprirono, per depositare un altro e volendo il
becchino entrare per seppellire questo, ne uscì un fetore tanto pestilente che egli non potendo
soffrirlo rimase morto. Se un corpo morto cagionò questo fetore, tanti milioni di corpi,
sebbene vivi per il loro male, ma morti per la morte seconda, qual odore manderanno da sé?
Oltre a questo, tutte le cose immonde e schifose del mondo, quando questo si purificherà,
hanno da cadere nell'inferno, come disse San Tommaso; questo inferno dovrà essere quindi
una sentina fetentissima e tale che nessuno la potrà tollerare.
Quel nemico detestabile del genere umano, Ezzelino Tiranno, conforme a quanto riferisce
Giovio, (PAULUS Iovius, in Elog.) aveva varie prigioni, dove i prigionieri erano crucciati
dall'angustia del fetore, dal peso dei ferri, dalle tenebre, dal fradiciume, dai vermi e dai
cadaveri insepolti, cosicché venivano a morire con un genere di morte lenta, ma crudelissima.
Tutti si tenevano ivi per miserabilissimi, eccetto colui

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che moriva. Coloro che morivano restavano ivi senza essere sotterrati, corrompendosi i
cadaveri e riempiendosi di vermi alla presenza dei vivi, i quali abitavano fra i morti, facevano
dei defunti mucchi marci, con tanta pestilenza per l'olfatto, che con molta verità si diceva che i
morti uccidevano i vivi. Anche i Messinesi avevano un carcere orribile sotto la terra, dove
mettevano i prigionieri, per mezzo di una corda perché vi mancava la scala; in quel carcere
non si vedeva luce ed era pieno di cattivo odore. Queste prigioni non hanno nulla a che vedere
con quella dell'inferno, rispetto alla quale si potevano tenere per paradisi pieni di gigli e
gelsomini.
Vittore Africano, (VICTOR AFRICANUS, De Persecutione Vandalica, lib. II) raccontando i
tormenti che i Vandali Ariani procuravano ai santi martiri, ritiene per molto atroce il fetore
del carcere nel quale si rinchiudevano 4996 martiri. Egli dice che per la strettezza del sito,
gettavano i campioni valorosi di Cristo l'uno sopra l'altro, cosicché vi stavano come i grani di
frumento in un sacco. In questa somma angustia non avevano posto da poter l'uno ritirarsi
dall'altro per soddisfare alle necessità corporali, cosicché il fetore che ne spirava e l'orrore che
ne nasceva, eccedeva ogni altro genere di pena. "Una volta, dice questo autore, dando molto
denaro ai Mauritani, mentre i Vandali dormivano, potemmo entrare e vederlo, entrando ci
affondammo fino alle ginocchia in quel sudiciume di fango e di fetore, vedendo ivi avverato
ciò che disse Geremia: Coloro che si nutrivano di frumento, abbracciavano lo sterco. (Thren.,
IV, 5) Sembra che non si potesse rappresentare

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più vilmente quel fetore e quella immondizia dell'inferno; ma senza dubbio è un'immagine
morta, una pittura molto lontana rispetto a ciò che ivi passerà e rispetto all'odore di questo
carcere che nel suo paragone sarà pulizia e squisito odore.
Se mettessero uno in un profondo sotterraneo, dove non si vedesse la luce del cielo e senza
vestito, esposto all'inclemenza del freddo e dell'umidità di quel luogo e non gli dessero da
mangiare, se non una volta al giorno e solamente pane duro di orzo nella quantità di solo sei
once, con l'avvertenza che dovesse star ivi sei anni senza parlare, né vedere uomo alcuno, né
dormire in altro letto che sopra la terra dura, quale gran tormento sarebbe questo? Una
settimana di quella abitazione gli sembrerebbe cento anni.
Ma confrontiamo questo con ciò che sarà l'esilio e il carcere dell'inferno e vedremo che,
paragonato con esso, sarà un dono e una felicità la vita tanto miserabile di questo uomo, il
quale in mezzo a tutta la sua miseria almeno non avrà chi lo schernisca o lo fischi o gli faccia
qualche burla, né avrà chi lo leghi, lo flagelli, o lo atterri; ma nell'inferno i demoni faranno
scherno del dannato, lo tormenteranno crudelissimamente; colà non vi saranno rischi
spaventevoli, né rumore, né gemiti, né pianto; ma nell'inferno non potrà non sentire fracasso
e rumore; ivi non sarà nelle fiamme di fuoco, ma nell'inferno perfino le viscere si bruceranno;
ivi potrà muoversi e passeggiare, ma nell'inferno non potrà dare un passo: ivi potrà respirare
aria senza il cattivo odore della corruzione, ma nell'inferno sarà messo nelle fiamme, nel
fumo, zolfo e fetore; ivi avrà la speranza di uscire, ma nell'inferno non avrà né speranza, né
rimedio; ivi gli servirà di dono quel poco di pan duro che riceverà ogni giorno, ma nell'inferno
in milioni di anni i suoi occhi non vedranno né una briciola di pane, né una goccia di acqua;
perpetuamente sarà arrabbiato di una

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fame canina e di una sete ardente. Questa sarà una grande calamità di quella terra tenebrosa e
sterile, dolore di cardi e spine, calamità di tormenti ed angosce.

CAPITOLO DECIMO.

La pena della schiavitù e la pena del senso.

La schiavitù.
Altra grande pena avevano i Romani ed era quella della servitù e schiavitù, specialmente in
coloro che essi chiamavano servi della pena. Alcuni facinorosi venivano condannati ad essere
schiavi, non di qualche uomo, ma delle pene alle quali li condannavano. Questa medesima
schiavitù hanno da patire i dannati i quali saranno schiavi eterni dei loro tormenti, delle pene
e dei ministri di esse, cioè dei demoni, senza speranza alcuna di libertà. I Romani tenevano
questi servi per uguali ai morti, perché, oltre che perdere la libertà, il che è la cosa più stimata
dagli uomini dopo la vita, era la loro sorte molto infame e penosissima, Questo però si poteva
tenere per gloria e libertà in confronto alla schiavitù che patiranno i peccatori condannati ad
essere schiavi dell'inferno, nel quale hanno da servire alle loro pene con tutto quanto sono,
con tutti i loro sensi, con le potenze dell'anima e del corpo e ricevendo in essa grandi tormenti.
Col tatto dovranno servire al fuoco, col gusto alla fame e sete, con l'olfatto al fetore, con l'udito
agli affronti, con la vista agli spettacoli orribili ed alle forme mostruose che prenderanno i
demoni, con l'immaginazione all'orrore, con la volontà al proprio aborrimento, con la
memoria alla disperazione, con l'intelletto alla propria confusione, con

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tanta moltitudine di pene che non avranno occhi per piangerle. Eliano scrive di Trizzo,
tiranno, che comandò ai suoi sudditi che non dicessero parola alcuna tra di loro. E siccome
essi si servivano di segni in luogo delle parole e parlavano col volto, giacché non potevano
parlare con la lingua, il tiranno proibì loro anche questo. Per il che, essendo la gente afflitta,
tutti si riunirono nella piazza per saziarsi di piangere la loro sventura; ma perfino questa poca
consolazione il tiranno volle loro levare.
Maggiore sarà il rigore con cui le pene tiranneggeranno i dannati, perché né permetteranno
loro di dire parole di consolazione, né muovere mani o piedi, né consentiranno che si
consolino col pianto, né sarebbero sufficienti, se tutti i pori del corpo ed i capelli della testa si
convertissero in occhi per piangere. Il profeta Geremia si lamentò con molte lacrime di
Gerusalemme, la quale, essendo stata la principessa delle province, era divenuta tributaria.
Che lacrime vi hanno per poter piangere la dannazione di un cristiano, erede e principe del
Regno dei Cieli, il quale si è fatto schiavo del demonio e di quelle pene eterne dell'inferno, alle
quali ha da pagare tanti tributi quante potenze, quanti sensi, quante membra ed arti possiede?
Consideriamo quanto grande è la tirannia del demonio, anche in coloro che non sono suoi
schiavi. Che rigori e pene non ha procurato ai servi stessi di Dio? Che cosa non farà nei suoi
schiavi, in coloro che lo saranno nelle pene e nei tormenti con cui egli li affliggerà? E passando
sotto silenzio altre grandi pene che ha cagionato, parliamo solo di un caso raccontato nella
Sacra Scrittura. Guardiamo quanto dolorosamente ha trattato il santo Giobbe, avendo
domandato per questo licenza a Dio. Dai piedi alla testa lo coprì di una piaga tanto schifosa e
marcia, che posto sopra un letamaio con un coccio si toglieva i vermi e il putridume.
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La sua debolezza era tanta che gli rimase carne solamente nelle labbra della bocca, perché
almeno potesse parlare e rispondere. La notte, che suoi essere di sollievo ai tormentati e tristi,
gli accresceva la pena con fantasmi e visioni. Infine, la sua stessa moglie non poteva
sopportare il cattivo odore delle viscere che usciva per le narici e la bocca. Tre suoi amici, che
vennero per consolarlo, rimasero tanto spaventati della sua figura, che in sette giorni non gli
poterono parlare.
Da ciò possiamo pigliare argomenti molto forti, il primo, pensando alta semplicità e pietà, al
timore, alla purezza e santità di Giobbe. Se Dio permette al demonio che lo tratti in tal modo
soltanto per provarlo, per lasciar al demonio la convinzione e a noi un esempio di pazienza,
come permetterà Dio che i demoni dell'inferno trattino le nostre doppiezze, crudeltà audaci e
turpitudini, quando saremo condannati nel giudizio? Il secondo è che il demonio lo tormenta
fino a renderlo un verme ed un lebbroso, il più nauseante che videro i secoli, dicendo la Sacra
Scrittura solamente che fu toccato da Dio, attribuendo a Dio ciò che fa il demonio, come si
attribuisce al giudice il tormento del carnefice: quando Dio calcherà la mano nei dolori di un
galeotto dell'inferno, che sarà? Che flagelli e tormenti non si scaricheranno sopra di lui?

La pena della disciplina.


Veniamo ora alla pena della disciplina con la quale s'intende ogni castigo di dolore che si
eseguirà nei malfattori. Ciò venne significato al Profeta Geremia, quando il Signore gli mostrò
una bacchetta, dato l'uso antico della flagellazione con verghe, e subito dopo una pentola tutta
bollente, con la quale si significa l'inferno, volendo far capire che i flagelli della giustizia divina
si scaricavano nel fuoco eterno dell'inferno. Ma questi non sono discipline di verghe o di
cinghie; ma dei martelli

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acutissimi sono riservati ai peccatori. Dice il Savio: Sono apparecchiati martelli battenti per i
corpi degli iniqui. (Prov. 19, 29) In questo modo la Sacra Scrittura chiama per antonomasia i
dannati, perché furono tanto stolti che non seppero comperare il cielo per un prezzo tanto
mite quale lo dà Dio e caddero nei tormenti eterni dell'inferno per il gusto di un momento.
Anche Santa Luduvina (SURIUS, 14 Aprilis in Vita S. Lidavinae) udì nell'inferno in mezzo a
grandi pianti e gemiti molto rumore di colpi e martellate con cui erano tormentati
crudelissimamente i dannati, significandosi in questi flagelli e colpi di martello la violenza con
cui pesano sopra i miserabili dannati tutti i generi di pene, delle quali saranno fatti schiavi.
Come gli schiavi sono frustati e maltrattati dai loro padroni, così le pene, trattando i dannati
come loro schiavi, li caricano di mille tormenti, dolori e miserie. Però chi potrà dire quanti
siano questi tormenti e quanto grandi, poiché tutte le loro potenze, tutti i loro sensi, l'anima e
il corpo, ne hanno da patire violentissimi, ed ogni membro avrà maggior dolore che se lo si
strappasse dal corpo? Se con un dolore forte di denti, o di orecchi, o di lesta, o di fegato uno
non può resistere, che sarà quando non vi avrà parte, né membro, né punto del suo corpo che
non gli dolga intensissimamente? Non soltanto la testa o i denti, ma altresì il petto, il fianco, le
spalle, il cuore, le mani, l'ilio, la coscia, le ginocchia, i piedi, i nervi, le vene, tutte le viscere e
perfino le stesse ossa gli daranno dolore.

Le pene della vista.


Oltre a questo, ogni senso avrà un tormento particolare nel suo oggetto. Gli occhi non solo

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avranno un dolore veementissimo, ma le stesse pupille degli occhi arderanno e saranno


tormentate con mostri fieri e figure abominevoli. Per causare un tormento maggiore della
morte basterebbe vedere un demonio. Alcuni, ai quali in questa vita si è mostrato, hanno
perduto i sensi per lo spavento, altri hanno perduta la vita, altri vollero perdere mille vite,
piuttosto che vederlo un'altra volta.
San Bernardo, spiegando il salmo 90, narra come a un monaco si mostrasse lo spirito cattivo;
era tanto orribile la sua figura che per tutto un giorno il monaco rimase fuori di sé. Non
potendosi contenere, emise voci terribili che svegliò tutti i monaci del convento.
Un altro religioso, stando per morire, vide i demoni tanto brutti, tanto abominevoli, tanto
spaventosi, che come fuori di sé per una vista tanto orribile cominciò a gridare
smisuratamente dicendo: “Maledetta sia quell'ora in cui entrai religioso”. Tacque un poco e
con volto e voce tranquilla disse: “No, anzi benedetta l'ora in cui entrai in questo ordine e
benedetta la Madre di Gesù Cristo che amai sempre di cuore”. I circostanti, preoccupati per
cagione di questi detti fecero orazioni per lui ed egli disse loro: "Non vi meravigliate per il mio
turbamento, perché vidi due demoni di tanta abominevole figura, che se si nascondesse qui un
fuoco di pietre, di zolfo e di metallo colato, tanto forte che avesse da durare da adesso fino alla
fine del mondo, preferirei passare in mezzo ad esso, piuttosto che rivederli”.
Ora, se due di essi causarono tanto spavento ed orrore, che farà la vista di tante lezioni? Se il
demonio sì mostra tanto brutto ed abominevole in questa vita, quale sarà in quel luogo di
condanna? Se il solo passare per un cimitero cagiona a molti grande timore per la paura di
vedere un fantasma; come sarà nell'inferno, quando un miserabile vedrà tante figure e tanto
abominevoli?

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Riflette San Gregorio sopra ciò che si dice nel Libro di Giobbe che nell'inferno abita orrore
sempiterno, e si domanda come può esservi timore dove si patisce tanto dolore? Il dolore
infatti è del male presente ed il timore dell'avvenire. L'uomo che è venuto all'estremo della
miseria non ha più nulla da temere, ma giungere a tanto male e non temerlo sarebbe un
genere di bene e perciò non può trovarsi nell'inferno. La morte, uccidendo i dannati, li lascia
vivi perché vivano morendo; così le pene li tormentano non solo facendoli soffrire ma con lo
spavento di altre maggiori.
Oltre a ciò, la vista avrà altro tormento nel veder tormentare molti dei suoi; il padre vedrà suo
figlio, il figlio sua madre, il fratello sua sorella. Egesippo scrive di Alessandro, figlio di Icarno,
che volendo dare un castigo rigoroso a certi uomini, ne fece crocifiggere ottocento, ordinando
che prima che morissero, dinanzi ai loro occhi uccidessero i figli e le mogli con molta crudeltà,
acciocché, vedendo ciò, quei miserabili morissero non una volta, ma molte volte.
Non mancherà questo rigore nell'inferno, perché ivi i padri vedranno con sommo dolore
tormentare i loro figli, i fratelli le loro sorelle, gli amici i loro amici. Sarà pure grande
tormento per gli occhi vedere in quell'abisso di pena coloro che furono scandalo e causa dei
peccati di altri. Con la vista di cose tanto tremende e dolorose si patirà un buio notturno e
tenebre spaventevoli che affliggeranno molto la vista dei dannati. Dice Nicolao di Lira (In
Exodum, X) che per questo le tenebre dell'Egitto si dicevano orribili, perché fra esse gli
Egiziani vedevano fantasmi spaventevoli e figure che cagionavano gran timore. Di questa
guisa saranno le tenebre dell'inferno che tormenteranno gli occhi;

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li tormenteranno con fantasmi e figure enormi di mali spiriti, li tormenteranno con l'oscurità
e con tenebre di una notte nera.

Le pene dell'udito.
L'udito non solo sarà afflitto dal dolore intollerabile prodotto dalle fiamme ardenti, ma ancora
dal rumore e fracasso spaventevole di tuoni, voci, grida, gemiti, maledizioni e bestemmie.
Silla, dittatore di Roma, comandò una volta di chiudere in un circo seimila uomini e nello
stesso tempo di radunare in un tempio vicino il Senato, dove egli doveva parlare e tenere
un'orazione. Prima di cominciarla, lasciò l'ordine che quando egli desse principio al suo
discorso, i soldati uccidessero con lestezza tutta quella moltitudine di gente. Appena Siila ebbe
cominciato la sua orazione, non si poteva udire parole per le voci, i gemiti ed il pianto della
gente che veniva uccisa, rimanendo tutti attoniti e spaventati da clamori e grida tanto dolorosi
e del fracasso dei colpi spietati degli omicidi. Quale sarà l'armonia e la musica del pianto dei
dannati? Che confusione ed orrore sarà il sentir tutti a lamentarsi, a gemere, a maledirsi e
maledire gli altri, uccidendoli a tormenti?
Essendo Santa Luduvina (SURIUS, Op. cit.) stata rapita in ispirito, vide un luogo molto
orrendo e spaventevole, fabbricato di alcune pietre nerissime e di tale profondità che il solo
mirarlo cagionava orrore. La Santa udì che ivi dentro si levavano grida e lamenti spaventevoli,
gemiti e pianti, rumori di colpi grandi e martellate con cui le anime erano crudelissimamente
tormentate. Afferma la Santa di aver provato tale spavento, che tutti i rumori, fracassi ed urla
del mondo riuniti le sarebbero sembrati un fruscio di ali. Le disse l'Angelo che quella

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era l'abitazione dei dannati ed avendole domandato, se voleva vederla, rispose di no, poiché il
solo udire ciò che in essa passava le era materia di molestia già troppo insoffribile.

Le pene dell'olfatto.
Parimenti l'olfatto sarà tormentato da fetore pestilenziale. Fu un tormento certamente orribile
quello usato dal re Mezenzio, a quanto scrive Virgilio (Aeneid.. lib. VII) di far cioè legare un
corpo morto mezzo marcio con uno vivo e lasciati così avvinti finché il fetore del morto
uccidesse il vivo. Qual cosa più orribile che vedere la bocca di un uomo vivo applicata a quella
di un altro morto, piena già di vermi, ricevere le esalazioni pestilenziali e fetenti del cadavere
già putrefatto e perire tra vermi, marciume e fetore? Ma che cosa è questo in paragone
dell'essere tutto il corpo del dannato più pestilente che un milione di cani morti e dover essere
addosso ad altri corpi somiglianti? I dannati, per il loro fetore sono chiamati da Isaia corpi
morti, quando disse; Ascenderà il fetore dei loro cadaveri. (ISAIAS 34, 3)
San Bonaventura giunse a dire che, se portassero in questo mondo un solo corpo di un
dannato, basterebbe questo per infettare tutta la rotondità della terra. Ora, i demoni non
manderanno da sé odore migliore, perché, pure essendo essi spiriti, i corpi infuocati coi quali
si trovano legati, saranno di un odore pestilenziale. Avendo San Martino mandato in fuga un
demonio che gli apparve, questo lasciò un fetore tanto abominevole, che sembrò al Santo di
stare già nell'inferno e disse fra sé: “Se il solo essere stato qui un demonio fu causa di un tale
fetore, che sarà dove staranno uniti tanti demoni e uomini dannati?".
461

Nel libro della Dottrina dei Padri si scrive che una donzella timorosa di Dio fu portata da un
Angelo a vedere l'inferno e vide sua madre immersa in un pelago di pece ardente fino al collo
ed in essa molti vermi bollivano con un fetore insopportabile.

Tormenti della lingua.


Ora che cosa dirò dei tormenti della lingua, con la quale pecchiamo in tante maniere,
adulando, mormorando, calunniando, mentendo, parlando troppo, mangiando e bevendo?
Chi potrà dichiarare l'amarezza maggiore dell'assenzio e disgusto che sentiranno i poveri
miserabili? Infatti, dice la Sacra Scrittura, fiele di dragoni sarà il loro vino, e veleno di serpenti
essi gusteranno eternamente, insieme con una sete intollerabile e fame canina, conforme a
quel che disse Davide: “Patiranno fame come i cani.” (Ps. 58, 7) Questo tormento sarà
maggiore di quello che si possa pensare. Quintiliano chiamò fortunata la peste e la mortalità
della guerra in paragone della fame, la quale, dice egli, è un male inesplicabile e la più dura di
tutte le necessità e di tutti gli altri mali; paragonati con essa anche i mali maggiori sono
preziosi. Ora, se una fame di otto giorni è un male tanto grande fra tutti gli altri mali, che sarà
una fame di tutta l'eternità? Considerino i principi e gli schiavi del loro ventre, dove andrà a
finire la loro gola.
Ascoltino ciò che profetizza il Figlio di Dio: “Guai a voi altri che vi saziate, poiché avrete
fame”, (Lc VI, 25) tanta fame quale sarà quella eterna! Se gli altri mali della vita, secondo
Quintiliano, si possono tenere per dei beni rispetto alla fame, anche in questa vita temporale,
che cosa saranno rispetto alla

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fame eterna dell'altra vita? La fame in questa vita arriva a tale estremo che i colpiti non solo
desiderano di mangiare, ma mangiano veramente cani, gatti, sorci, serpenti, rospi, cuoio e
sterco, le madri giungono a mangiare i loro figli e gli uomini la carne delle stesse loro braccia,
come successe all'imperatore Zenone. Se la fame è un male tanto orribile in questa vita,
quanto affliggerà nell'altra? Senza dubbio alcuno, i dannati preferirebbero piuttosto farsi a
pezzi che patire la fame, e la sete non li tormenterà di meno.

La pena del tatto


Il tatto, essendo il senso più esteso di tutti, sarà pure il più tormentato da quel fuoco ardente.
Spaventa il solo pensare all'inumanità del tormento di cui si servi Falaris, (BARONIUS, ad
ann. 491) il quale metteva uomini nudi nel mezzo di un bue di metallo tutto infuocato, perché
si arrostissero là dentro. Ma è una burla questa pena rispetto al fuoco dell'inferno, il quale ha
da toccare i dannati non solo di fuori, ma li ha da penetrare per tutti quanti i pori, sì che non
arderanno meno le viscere più nascoste che i capelli della testa. Il bruciarsi solo un dito è un
tormento che non si può soffrire; ma di più sarebbe bruciarsi tutto il braccio, di più ancora le
braccia e le gambe, ma certamente più ancora tutto il corpo. Questo tormento chi potrà
intendere, giacché comprende in sé tanti tormenti, quelli degli arti, dei nervi, delle arterie e di
quanti pori possiede il corpo umano, essendo causato da quel fuoco tanto penetrante e vero, di
cui dice S. Agostino che in suo paragone il fuoco di qua è dipinto, di modo che il fuoco
dell'inferno tanto supera il nostro, come il vivo supera il dipinto.
463

In conferma di questo scrive il venerabile Pietro di Cluny che, stando per morire un cattivo
sacerdote, gli apparirono due fieri demoni che venivano con una padella, con la quale
dicevano di doverlo friggere nell'inferno e cadendo una goccia della padella nella mano
dell'infermo, in un istante gli si bruciò e si consumò tutta fino alle ossa; vedendo ciò tutti
coloro che erano presenti, restarono attoniti per l'efficacia e violenza di quel fuoco infernale
che così riscalda e brucia. Perciò dice Nicolao di Nisi che, se con tutta la legna del mondo si
facesse un incendio non potrebbe affliggere tanto quanto la scintilla minima del fuoco
infernale.
Scrive pure Cesano (CAESARIUS, Miracul. lib. XII, cap. 23) che Teodorico, Vescovo di
Mastrich, ebbe un servo che si chiamava Eberbach, il quale per una rabbia grande che ebbe, si
consegnò a Satana, se lo aiutava contro i suoi nemici ed invidiosi. Dopo alcuni anni fu colpito
da una gravissima infermità che lo ridusse in punto di morte, rimanendo senza polso e senza
sentimenti e, a giudizio di tutti, morto, e la sua anima fu gettata in un mare di fuoco, dove
stette a penare finché venne un Angelo dal cielo che gli disse: “Vedi qui ciò che si deve a coloro
che servono al diavolo; se ti facessero la grazia di darti ancora la vita, non la spenderesti in far
penitenza per i tuoi peccati?” “Non vi ha cosa, rispose egli, che lascerei di fare per uscire da
qui”. Con ciò il Signore gli fece misericordia che ritornasse in sé e alzatesi dalla cassa
mortuaria, in cui era già stato posto, spaventò tutti i presenti e cominciò subito a fare una vita
penitentissima. Andava coi piedi scalzi, attraverso spine, cardi, rovi e dirupi, sebbene versasse
fiumi di sangue dalle ferite. Si sostentava di solo pane e acqua e questo molto poco.

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Il denaro che aveva lo diede ai poveri. Vi erano molti che si meravigliarono di quel rigore di
vita e procuravano di moderare i suoi fervori, ai quali rispondeva: "Non vi meravigliate di
questo, perché ho patito cose più gravi, e voi, se foste stati colà, giudichereste in altra
maniera". Per spiegare la grandezza di quel fuoco, diceva che, se si facesse un fuoco con tutti
gli alberi del mondo, preferirebbe ardere in questo fino al giorno del giudizio, anziché un'ora
sola in quel fuoco che aveva sperimentato.
Ora, che disgrazia sarà ardere in quel fuoco dell'inferno, non per un'ora, ma fino al giorno del
giudizio e più ancora per tutta l'eternità di Dio, Nostro Signore. Chi non terrebbe per un
tormento sommo, se lo avessero a bruciare vivo cento volte ed ogni volta avesse da durare il
suo tormento un'ora? Con quali occhi addolorati guarderebbero tutti uomo tanto disgraziato?
Ma non vi ha dubbio che qualunque dannato dell'inferno terrebbe questo per sommo favore.
Infatti che ha a vedere il bruciarsi cento ore ininterrotte con l'ardere cento anni continui? E
qual differenza bruciarsi per cento anni e lo star bruciando senza cessare, finché Dio è Dio?
Consideri questo il cristiano che qualche volta peccò mortalmente. Consideri che cosa gli
possa essere difficoltoso, aspro ed intollerabile, avendo meritato l'inferno. Dica a se stesso in
qualunque tribolazione e fatica: "Cose più gravi io doveva patire; non ho da lamentarmi di
questo”.
Scrive pure il Venerabile Beda (De Gestis Anglorum, lib. V) di un tale al quale furono mostrati
i tormenti, le pene ed i gaudi dell'altra vita. Questa visione gli cagionò tali effetti che rinunciò
a tutto quanto possedeva in questo mondo ed entrò in un monastero, dove perseverò fino alla
morte con gran rigore ed un'asprezza

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tale che la sua vita era un indizio perpetuo, sebbene tacesse la lingua, di ciò che egli avesse
visto di orrendo e di ciò che aspettava, veramente degno di essere desiderato. Entrava in un
fiume gelato che era vicino al convento, senza levarsi i vestiti, avendo tutto il gelo in qualche
parte per poter entrare e di poi lasciava che i vestiti si asciugassero sopra il corpo. Alcuni si
spaventavano e dubitavano che un corpo umano potesse soffrire in tempo di inverno un
freddo tanto grande. A coloro che lo domandavano come fosse possibile questo, egli
rispondeva: “Altro freddo maggiore di questo ho visto io". E quando gli dicevano come poteva
conservare attenzione tanto continua e perseveranza in un modo di vivere tanto aspro e
rigoroso, rispondeva: "Ho visto cose più aspre ed austere". Non venne mai meno in questi
rigori, neppure nell'ultima vecchiaia, ma tenne grande cura in castigare la carne affliggendola
con digiuni tutti i giorni. Con la sua santa conversazione, col suo esempio ed i suoi moniti
salutari fu di grande giovamento a molti altri per correggere i loro costumi.
Questa medesima considerazione dobbiamo fare per sopportare in questa vita tutto ciò che si
può soffrire, perché nell'altra vi sarà da soffrire di più di quanto si può pensare. L'inferno è più
che un digiuno a pane e acqua, più che un aspro cilizio, più che la disciplina più sanguinosa,
più che il peso più ingiurioso. Soffriamo questo che è meno, per liberarci di ciò che è di più ed
essendo tanto più, quanto più è il vivo del dipinto, non vi è da lamentarsi del male che ci può
accadere in questa vita, ma anzi ci dobbiamo consolare molto, che chi dovrebbe stare in
quell'incendio eternamente e senza utilità, abbia solo un dolore temporale con cui meriti la
gloria del cielo.
La madre di Santa Caterina da Siena portò la sua figlia a certi bagni per divertirla, perché era

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debole, sfigurata e inferma nelle ossa. Ma la Santa seppe in questo trattenimento trovare una
croce aspra e fu che, entrando sola nel bagno, giunse al canale, dove l'acqua usciva ardente
dalla sorgente ed ivi si lasciava bruciare soffrendo grande tormento che sembrò impossibile ad
una donna tanto fiacca e piena di dolori. Il confessore le domandò dopo come avesse avuto il
coraggio di soffrire un fuoco tanto grande per tanto tempo. Essa gli rispose che, in quei
momenti si metteva a considerare bene il fuoco dell'inferno e del purgatorio pregando il
Signore da lei tanto offeso, perché le mutasse tutti i tormenti che meritava in pene temporali.
Con ciò le sembrava molto facile qualunque tormento della terra; quell'ardore dell'acqua di
quel bagno le era un dono in paragone dello stagno di fuoco nel quale dovranno star annegati
quei dell'inferno.
San Pietro Damiani ci racconta un caso che ci spiega la terribilità del tormento di questo
stagno di fuoco. Viveva in Lombardia un uomo savio, astuto parlatore, che amava
intromettersi in tutto e dare, senza esserne domandato, il suo parere, che comunemente, data
la sua salacità, era coronato da buon esito. Se qualche volta la fortuna gli era avversa, egli
sapeva accomodare tutto. Insomma era uno di quelli che sapevano vivere nel mondo. Ma che
fine ebbero tutti i suoi ardimenti? Anch'egli morì, poiché non poté evitare questo tiro. Il corpo
fu seppellito in chiesa, ma la sua anima venne seppellita là dove Dio desidera che non lo sia
nessuna.
Un santo religioso, stando in orazione, vide in ispirito un lago, non di acqua, ma di fuoco, il
quale bolliva come una caldaia, levando di quando in quando le fiamme fino al cielo e
mandava scintille in tanta quantità e con tale fragore spaventoso che causava grande orrore il
solo udirlo e vederlo. Che sarebbe il trovarsi dentro?
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Ivi si trovava l'anima triste del nostro fanfarone. Vide inoltre che tutto il lago stava circondato
da spaventevoli serpenti ed orribili dragoni, che avevano le bocche aperte verso di essa, con
molte file di denti acutissimi, perché nessuno ne uscisse. In questa confusione di fuoco e di
fiere il disgraziato andava urlando e si sforzava di salire sopra le fiamme per arrivare alla riva,
ed arrivando vicino, il refrigerio che ivi trovava era un serpente che allungava di qualche
metro il collo e con un'enorme bocca lo voleva ingoiare. Tornava a dar un altro ruzzolo nel
lago ed arrivando ad un'altra parte trovava un dragone la cui sola vista lo faceva ritornare di
corsa nel lago. E ciò che è peggio, finché Dio sarà Dio, egli si troverà ivi senza rimedio. E
giustamente, dice San Pier Damiano, fu castigato in questo modo, di non poter uscire da
quello stagno di fuoco, essendo sempre uscito tanto astutamente da qualsiasi avversità. In tal
modo significò Dio la grandezza di questo tormento. È bene avvertire però che quello
dell'inferno è di più di quello che qui si significa, perché questo non è che un chiarire con
qualche somiglianza o immagine ciò che in verità eccede ogni similitudine ed ogni senso. (P.
DAM., Epist. 15 ad Desiderium, c. 4 )

Le pene dell'immaginazione.
L'immaginazione non affliggerà meno i miserabili aiutando con la vivacità della sua
apprensione le pene dei sensi. Se già in questa vita alcuni soffrono di più per la loro
immaginazione che per altri mali molestissimi, nell'altra vita il toro tormento sarà eccessivo.
Alessandro Traliano (MARCELLUS DONATUS, in Historia Medica, lib. II, cap. I) scrive di
una donna che stava molto male solo per

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un’immaginazione falsa di aver inghiottito un serpente.


L'immaginazione le procurò tanti dolori e mali, come se il serpente le stesse rodendo le
viscere. Che farà l'apprensione e la verità di quei miserabili, quando il verme della coscienza
roderà loro il cuore?
Scrive di alcuni Alsaharanio che stavano con grandi pene e dolori pensando di essere
flagellati, pur non essendovi chi loro toccasse un filo dei vestiti. Più di tutto questo è ciò che
afferma Fulgosio come testimonio di vista, essendo giudice di una sfida. Essendo il
competitore inseguito dal suo avversario, egli cadde subito morto per nessun'altra causa, se
non per l'immaginazione di essere stato ferito a morte, mentre non aveva ricevuto né ferita
alcuna nel corpo, né colpo alcuno, né si trovò segno alcuno di ciò nel corpo del defunto.
Se già in questa vita, anche nei sani, è tanto potente l'immaginazione, che causa loro pena,
dove non vi è nessuno che la dia, o dolore senza aver chi lo molesti, o morte senza aver chi lo
uccida, che sarà nell'inferno, dove l'immaginazione non potrà divertirsi in cose di gusto ed
avrà tanti demoni che diano pena e molestia e uccidano con tormenti, conservando la vita
perché il tormento del morire viva eternamente? Nell'orrore di quel luogo influirà
particolarmente l'immaginazione e, se abbiamo visto alcuni paurosi tremare di un solo
spavento immaginario e morirne, non vi ha dubbio che mille pene mortali causerà in quei
miserabili la loro immaginazione.

Le pene della volontà


Le potenze dell'anima soprattutto saranno quelle che scaricheranno flagelli più duri. La
volontà starà tormentandosi con un aborrimento eterno contro se stesso e contro tutte le
creature e contro il Creatore di tutto, insieme con una tristezza intollerabile ed un

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disordine di tutti gli affetti, desiderando cose impossibili e disperando di ogni bene. Se è
gaudio avere ciò che si ama e pena il mancare di ciò che si desidera ed avere ciò che si
aborrisce, quale pena maggiore e tormento che star perpetuamente volendo ciò che mai verrà
e stare aborrendo ciò che sempre si avrà e star mancando di ogni bene ed aver ogni male? Per
il che dice San Bernardo: Che cosa è tanto penoso come il voler sempre ciò che non sarà mai, e
non volere ciò che non cesserà mai di essere? Ciò che vuole non lo raggiungerà eternamente;
ciò che non vuole, eternamente lo patirà. (De Consideratione ad Eugen., lib. V, cap. 12) Da ciò
nascerà al dannato quel furore rabbioso di cui dice Davide: “Il peccatore vedrà e si adirerà,
striderà coi denti e si consumerà”. (Ps. 111, 10)
Questa rabbia sarà aumentata dalla disperazione. Siccome nessuno pecca senza offesa della
misericordia di Dio, osando peccare colla presunzione d'aver tempo di pentirsi, così convenne
che la giustizia divina castrasse il peccatore senza speranza di rimedio, e che colui che abusò
dei benefici divini con una falsa speranza, sperimenti i castighi con una vera disperazione.
Questo tormento dei dannati sarà terribile. Come la speranza alleggerisce ogni male, per
grande che sia, così la disperazione lo aumenta, per piccolo che questo male sia; essendo
questa però disperazione di mali tanto grandi, essa stessa sarà male grandissimo. Due cose
sostentano nei mali la speranza: una, il frutto che da essi può risultare, l'altra la fine e il
termine che avranno. Se uno patisce e dal patire caverà frutto, si consola con questo e
l'allegria del profitto ricompensa la pena del

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sentimento; ma quando la fatica è senza utilità, si rende molto pesante. L'agricoltore non
lavorerebbe con gusto nell'arare i campi, se non cavasse a suo tempo utilità; ma se sapesse che
al tempo del raccolto non avrà nulla da raccogliere, gli si renderebbe intollerabile qualunque
passo. L'operaio giornaliero passa contento tutto il giorno nel suo lavoro per la speranza della
sua paga; ma se gli comandassero di lavorare gratuitamente, non avrebbe il coraggio per
muovere il braccio.
I confessori di Cristo ed i Santi Martiri, che penitenze, che rigori, che martirii non hanno
sofferto con buona volontà, per il frutto che sanno ricavare dalla loro penitenza? Ma senza
frutto alcuno, come soffrirebbero tali tormenti? Ma quando mancasse qualsiasi frutto alle
fatiche temporali, resterebbe ancora il sollievo che esse hanno da finire. Queste consolazioni
non le avranno quelli dell'inferno, perché nessuno dei loro mali sarà loro di profitto, per
milioni di anni che li patiscano e mai avranno da finire i loro mali. Di essi dice San Giovanni
(Ap. 9, 6): Desidereranno morire e la morte fuggirà da loro. Anzi, come dice S. Agostino, gli
empi avranno vita nei tormenti; ma coloro che vivono nei tormenti desiderano finire tale vita;
ma nessuno darà loro la morte, acciocché nessuno tolga loro il tormento e così staranno
sempre vivendo e sempre disperando. Non ha da aver entrata in essi alcuna consolazione, ma
solo la somma disperazione, il dispetto ed il dolore. E qual maggior dolore che patire tanti
dolori senza profitto, potendo con pochissimi guadagnare cosa di grande profitto, quale è la
felicità eterna?
Confronti uno le fatiche tanto lievi di questa vita con le quali può meritare cosa tanto grande
come il cielo, con i tormenti dell'altra coi quali
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non meriterà una goccia di acqua. Confronti il frutto eterno di una penitenza breve fatta in
vita, col mancare di qualsiasi frutto il fuoco eterno dell'inferno. Chi crederà che un colpo al
petto in questa vita può meritare la felicità e che col dolore intensissimo di tutte le parti del
suo corpo, col fuoco che gli brucerà tutto, con la fame canina che soffrirà, con la sete
insaziabile che patirà, col dolore gravissimo che sperimenterà, con tutti i mali dell'anima e del
corpo che patirà nell'inferno, non sarà sufficiente ad avere solo questo sollievo di potersi
voltare all'altro lato, ma che senza utilità e profitto alcuno ha da stare a patire sempre?
In questa rabbiosa disperazione va a finire la speranza temeraria dei peccatori. L'inferno è
pieno di coloro che disperano di uscire di là. Peccarono con speranza di non morire in peccato
e, riuscendo loro falsa la loro speranza, caddero nella disperazione eterna. Non vi è speranza
che scusi il cadere nel pericolo di cosa tanto grande; Assicuriamoci il cielo e non pecchiamo.

La memoria.
La memoria sarà un altro carnefice crudele dei miserabili peccatori. Tutto quanto di buono e
di cattivo avranno fatto si convertirà in tormento. Il bene, perché perdettero il premio, il male,
perché meritarono il suo tormento. Saranno per essi una spada che traversa il cuore, i diletti
di cui godettero e tutta la felicità di questa vita, nella quale trionfarono, vedendo che per
mezzo della loro fortuna vennero a miseria tanto grande. Si annienteranno di pena, quando
paragonino la brevità dei loro gusti passati con l'eternità dei tormenti presenti. Qual
matematico vi è tanto erudito che possa porre nettamente l'eccesso che faranno gli anni eterni
dell'altra vita sopra i giorni brevi e cattivi di questa? Che urla daranno, che sospiri lanceranno
dal più intimo, quando vedranno che i

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diletti durarono appena pochi istanti e le pene dureranno secoli ed eternità, sembrando a loro
sogno tutto il passato! Tremiamo ora della felicità di questo mondo, se tali ferite ha da dar nel
cuore di coloro che usarono male di esse. Tremiamo dei piaceri, poiché hanno da voltarsi in
veleno e disgusto.
Si ricorderà l'infelice con gran pena di quante volte poté meritare il cielo e volle meritare
l'inferno, e dirà a se stesso: "Oh quante volte potei pregare e questo tempo lo spesi in
giuocare! Però adesso lo pago. Quante volte dovevo digiunare e lasciai di farlo, vinto dal mio
appetito! Ma già lo pago. Quante volte potei fare elemosine e lo spesi in peccato! Ma già lo
pago. Quante volte mi domandarono il perdono i miei nemici e io mi vendicai di loro! Ma già
lo pago. Quante volte potei esercitare atti di umiltà e carità e mi insuperbii contro un mio
fratello! Ma già lo pago. Quante volte potei frequentare i Sacramenti ed io non lo volli, né volli
lasciar le occasioni di peccato! Però già lo pago". Mai ti mancò l'occasione di servire a Dio e tu
non approfittasti di essa, ma già lo paghi. Vedi qui, maledetto, come intrattenendoti nei tuoi
gusti e per cose da bambino perdesti il cielo. Se tu avessi voluto, potevi essere fortunato
eternamente; se tu avessi voluto, potevi stare fra gli Angeli! Se tu avessi voluto, potevi star nei
gaudi eterni e per un gusto di un momento hai perduto tutto. O stolto! O maledetto! O
infelice! O infame! Ti pregava il tuo Redentore nel cielo e tu lo disprezzasti come una viltà.
Colpa tua è e così lo paghi; e poiché non volesti essere felice con Dio, sarai maledetto da Lui e
dai suoi Angeli.

L'intelligenza.
L'intelligenza lo tormenterà con discorsi di gravissimo peso, dicorrendo solo di ciò che avrà da
dar pena. Né Aristotele avrà gusto nella sua

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sapienza, né Seneca si consolerà con la sua filosofia, né Gallieno troverà rimedio nella sua
medicina, né al più dotto scolastico gioverà la sua teologia.
A un vescovo di Parigi apparve un dottore di quell'università e gli fece sapere che era dannato.
Gli domandò il vescovo se aveva ivi alcuna scienza. Rispose che non sapeva nulla, se non tre
cose: “La prima, disse, che sono dannato eternamente, la seconda, che la sentenza che si diede
contro di me, è irrevocabile, la terza, che per i piaceri del mondo e del corpo sono privato della
visione di Dio". Allora egli domandò al vescovo, se vi era ancora gente al mondo, e richiestone
del motivo, rispose: “Perché in questi giorni sono scese all'inferno tante anime, che non
debbono essere rimaste tante persone vive nel mondo".
In questa potenza dell'anima si genererà il verme della coscienza, che tante volte ci si propone
nella Sacra Scrittura come tormento terribilissimo e lo si antepone al tormento del fuoco. In
un sermone solo, (Mc, 9) o per meglio dire, nell'epilogo di esso, Gesù Cristo minaccia tre volte
con questo tormento del verme roditore che manderà a pezzi il cuore dei dannati, avvisandoci
una, due e tre volte il Salvatore del mondo che quel verme non morirà e il loro fuoco non si
spegnerà. Questo verme nasce dal peccato e porta continua guerra contro il medesimo
peccato, rosicchiando l'anima e spezzando il cuore del peccatore. È un dolore rabbioso e
disperato, senza profitto alcuno, di essere caduto per colpa propria in tormenti tanto orrendi
con la perdita della gloria. La coscienza accuserà i peccatori continuamente che per i peccati
loro hanno perduto la felicità per sempre, mentre avrebbero potuto raggiungerla tanto
facilmente e che invece di possedere bene tanto immenso, sono condannati

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ai mali eterni del fuoco. Da qui nasceranno loro due dolori inesplicabili, i quali con
un'amarezza più che di fiele ricolmeranno e consumeranno il loro cuore e li staranno come
rodendo; uno che per loro volontà perdettero beni tanto grandi e l'altro, che caddero in mali
tanto intollerabili ed eterni. Questi due pensieri saranno per loro due vermi crudelissimi, i cui
rimorsi saranno il dolore più acerbo degl'infelici. Più pena darà loro l'aver perduto la gloria
del cielo che patire soltanto il fuoco dell'inferno.
Della mala coscienza, già in questa vita, disse S. Agostino (AUG., in Ps. 45) che fra tutte le
tribolazioni dell'anima non vi è nessuna maggiore della coscienza dei peccati. Perfino i
medesimi pagani conobbero questo. Quintiliano (QUINTIL., Declam. 12, § 38) esclama: “O
triste rimorso! O coscienza più pesante che tutti i tormenti! E Seneca (Epist. 97) disse che le
opere cattive sono flagellate dalla coscienza, alla quale la preoccupazione che la opprime porta
molti dolori; la stessa malizia beve la maggior parte del suo veleno; ella è castigo a se stessa.
Certamente sarebbe grande rigore costringere un povero padre ad assistere all'esecuzione
capitale del proprio figlio, ma più ancora lo sarebbe se lo obbligassero ad essere egli stesso il
carnefice e molto più ancora se mettessero davanti alla sua porta la forca e lasciassero il figlio
appeso ad essa, acciocché ogni qualvolta uscisse di sua casa avesse presente quell'affronto; ma
crudeltà maggiore sarebbe, se lo stesso reo fosse costretto ad essere il suo carnefice in tale
genere di supplizio che egli stesso si tagliasse le membra o che a bocconi mangiasse le sue
carni.
Questa è la crudeltà e il tormento della cattiva coscienza con cui si consumerà e si spezzerà il
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peccatore fra quelle fiamme eterne, non potendo allontanare dalla sua memoria le sue colpe,
né dal suo pensiero le sue pene. Aumenterà questo dolore con la invidia che esso avrà di
coloro che guadagnarono il cielo con tanto poco con quanto egli lo perdette. Esaù, essendo
uomo rustico, quando seppe che suo fratello Giacobbe gli aveva portato via la benedizione,
urlò con grandi voci e clamori, come se fosse un leone, disfacendosi di pena.
Che clamori saranno quelli dei dannati, quando vedano che i giusti si guadagnarono la
benedizione, non per inganno, ma essi la perdettero per propria colpa? Gli affamati, davanti a
una ricca mensa alla quale non possono arrivare, hanno più fame e ciò è per loro di maggior
pena; così sarà nei dannati i quali si affliggeranno di più, considerando i beni eterni dei quali
sono privati e godranno coloro che furono minori di essi. Ora che siamo nel tempo, ci rimorda
la coscienza, mentre possiamo uccidere il suo verme, acciocché non ci faccia a pezzi, quando
non possa più morire.

CAPITOLO UNDICESIMO,

Della morte eterna e pena del taglione, dei dannati.

La pena della morte.


Dopo tutto questo, non manca nell'interno nemmeno la pena della morte, che è la più grande
di tutte le pene fra i mortali. Nell'inferno essa è tanto maggiore quanto vi è di differenza fra il
vivo e il dipinto. La morte eterna dei dannati è una morte viva, alla quale non può arrivare la
morte che causano gli uomini, i quali insieme con la

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morte tolgono il senso e la pena della stessa morte. Ma la morte eterna dei peccatori si subisce
con sentimento e quindi tanto più piena di vita, in quanto comprende in sé la cosa peggiore
della morte ed il più intollerabile della vita: della morte il perire e della vita il penare,
acciocché la pena della morte non finisca mai. Per questo San Bernardo chiama la pena dei
dannati morte viva e vita morta, e il Papa Innocenzo III morte immortale.
Oh morte, quanto saresti più dolce, se tu togliessi la vita, anziché obbligare a vivere in tal
maniera! Anche San Gregorio dice (Lib. IX Moral., C. 49): “Nell'inferno i miserabili avranno la
morte senza morte e una fine senza fine, perché ivi la morte vive e la fine sempre incomincia.
Al peccato mortale, che è il maggiore di tutti i mali, si deve la maggiore di tutte le pene.
Nessuna pena, disse Aristotele, è tanto grande quanto quella della morte. Ma siccome la morte
ordinaria col togliere l'uso dei sensi, fa sì che non si senta il suo rigore, ordinò Dio un genere
di morte in cui i sensi sentissero la forza della pena e sentendola morissero, continuando
perpetuamente in quell'agonia ed angoscia della morte. Ciò significò Davide dicendo che la
morte pascerebbe i dannati; perché come il bestiame non finisce l'erba dei prati, giacché
coltivata ricresce, così la morte pasce i dannati, ma non li finisce.
Questa morte della dannazione è chiamata dalla Sacra Scrittura morte seconda, perché viene
dopo l'altra. È morte seconda che comprende l'anima dopo la morte del corpo. Con molta
ragione si poteva chiamarla morte raddoppiata, essendo morte raddoppiata lo star morto
sentendo i tormenti del morire, il che non avviene nella prima morte del corpo. Già di qua fra
noi, se si desse uno stato in

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cui si sentisse alcuna parte di ciò che porta la morte, si giudicherebbe questo per male
maggiore della stessa morte. Chi dubita che, se uno che fosse stato sotterrato vivo con tutti i
sensi, quando non poteva parlar con nessuno, né vedere, se non tenebre, né udire, se non
coloro che lo calpestavano, né odorare, se non il marciume di altri morti, né mangiare, se non
se stesso, né toccare, se non la terra che gli pesava sopra o il coperchio freddo e pesante che gli
resisteva, chi dubita che sarebbe questo stato peggiore dello star morto del tutto, giacché non
gli serve la vita, se non per penare col sentimento della morte?
Per questo i Romani, (TIT. LIV., Lib. XXII) essendo gente tanto ingegnosa, mettendosi a
pensare quale castigo più crudele della morte dovessero infliggere alle Vergini Vestali che
fossero sacrileghe col mancare alla professione della loro verginità, non ne trovarono altro più
acerbo che sotterrarle vive, come fecero con Oppia e con Minuzia, (Ibid., Lib. VIII) perché
sentissero con la vita la pena e l'amarezza della morte. L'imperatore Zenone che fu sepolto
vivo, ebbe la grande pena che si fece a pezzi. Ma quale sepolcro vi può essere più orribile
dell'inferno, il quale sarà eternamente chiuso ed il miserabile dannato non solo starà sotto la
terra, ma sotto il fuoco, senza aver senso per altra cosa, se non per patire la sua morte,
tenebre, nausea, fetore e sepoltura? Questa sarà la morte raddoppiata, perché è un male
raddoppiato il morire e sentirne la pena. Per cui disse S. Agostino: “Nessuna morte vi ha
maggiore, né peggiore, che dove la morte non muore. (De Civitate Dei. lib. VI, cap. 12)

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Oltre a ciò è morte raddoppiata quella dell'inferno, perché in essa vi ha la morte della colpa e
la morte della pena. Quei disgraziati sono condannati alla morte della colpa per non uscire più
da essa ed alla morte della pena per star sempre con essa. Non vi è morte maggiore di quella
dell'anima, che è il peccato, nel quale hanno da stare i miserabili mentre Dio è Dio, con quel
male infinito e quella somma deformità che porta seco la colpa, che è peggiore del patire fuoco
eterno. Dopo il peccato, che male doveva darsi maggiore che la pena del peccato? Così
l'inferno che è pena del peccato, è pena maggiore della stessa morte, o la maggiore di tutte le
morti. Chi v'ha che non tremi pensando che dovrà morire, ricordandosi che avrà da cessare di
essere; che i piedi coi quali cammina non potranno più levarsi; che le mani che muove non
potranno più muoversi; che gli occhi con cui guarda non avranno più senso; come non
tremiamo dell'interno poiché la morte che vediamo qui non sarebbe pena, ma premio e
fortuna e gaudio rispetto ad esso? Qualsiasi dannato dell'inferno prenderebbe come sollievo
delle sue pene la morte che gli uomini ritengono per pena dei loro delitti.
Oh quanto eccede la giustizia divina sopra quella umana, poiché quella pena che da questa a
coloro che dagli uomini vengono condannati con la maggiore delle pene, sarebbe per quelli
che Dio condanna il maggiore dei loro sollievi, sarebbe il loro gaudio ed il loro desiderio
soddisfatto! Questi desiderano morire, ma la morte fuggirà da loro. Sopra tutti i loro mali e le
loro miserie si aggiunge questa grande miseria di non aver fine alcuna, perché né quelle
potranno finire, né essi potranno morire.
Questa circostanza dei tormenti dell'inferno, di essere cioè eterni, li aggrava molto, perché
l'eternità ha questo di proprio, che rende infinitamente

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maggiore qualunque cosa con la quale essa si unisca. Supponiamo che ad un tale una zanzara
punga solamente la mano destra, e un ape alla mano sinistra, il piede destro si gonfiasse per
una spina e l'altro si pungesse con uno spillo; se questo solo avesse da durare per sempre,
sarebbe tormento intollerabile. Che sarà quando mani, piedi, braccia, testa, petto e viscere
staranno ardendo eternamente? Il solo tenere un dito sopra la fiamma di una candela per un
quarto d'ora non si può sopportare; lo stare annegato nelle fiamme infernali per anni eterni,
quale intelligenza vi è che possa, non dico spiegare, ma concepire. Il mai morire di questo
tormento, il sempre vivere del tormentato, il solo pensarlo fa tremare; che sarebbe
l'esperimentarlo?
Avendo un uomo raccontato i suoi peccati enormissimi alla Vergine Santa Luduvina,
(SURIUS, Tom. VII, die 14 Aprilis) ma essendosi mostrato poco pentito, gli disse la Santa che
essa medesima avrebbe fatto la penitenza, purché egli una sola notte intera giacesse in letto
senza muoversi punto dalla posizione supina nella quale egli si mettesse. Rispose con beffe di
risa il malvagio, dicendo che se non aveva da fare più di così, presto si sarebbe compita la
penitenza. Ma appena fu coricato, si sentì voglia grande di voltarsi sull'altro fianco sentendo
grande affanno in non farlo, sembrandogli di non aver giammai provato letto più duro. Ma
egli diceva a se stesso: “Il letto è morbido e di piume, io sono sano e robusto, che mi manca?
Niente altro fuorché il voltarmi, ma ciò che importa? Statti tranquillo, dormi a tuo grande agio
fino a domani. Non puoi? Allora dimmi che cosa ti manca”. Con questo gli venne in memoria
l'eternità e così ragionava fra sé: “Come è ciò che tu non possa rimanere quieto una sola notte
e

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che ti sia di tormento lo star tranquillo senza voltarti? Che sarebbe, se tu avessi a star così tre
o quattro notti? Veramente sarebbe una morte. Non avrei giammai creduto, che una cosa così
facile fosse penitenza così grande. O misero me! Che poca pazienza ho io, poiché cosa così da
poco mi affligge? Che sarebbe, se mi comandassero di non dormire per molte settimane? Che
sarebbe, se avessi una colica, o un mal di pietra o di sciatica?
Mali infinitamente maggiori di questo li aspettano nell'inferno, dove tu t'incammini con tanti
peccati. Guarda che letto ti aspetta negli abissi; forse un materasso molle di piume, forse
lenzuola di Olanda? Cadrai sopra tizzoni, fiamme e zolfo li serviranno di materasso; questo
letto non sarà per una notte, giacché per notti, giorni, mesi ed anni, secoli ed eternità vi starai
dal medesimo lato in cui sei caduto senza voltarti all'altro. Non morirà quel fuoco, come dice
Isaia, né tu morirai, acciocché vivano eternamente i tuoi tormenti. Dopo cento anni, dopo
centomila milioni di anni saranno tanto vivi e forti come il primo giorno. Guarda che cosa fai;
perché ti burli dell'eternità, perché non temi la morte eterna, giacché ami tanto la vita
temporale? Non vai bene; cambia vita e comincia a servire il tuo Creatore".
Così fece questo uomo, convinto da un tale ragionamento. Faccia lo stesso colui che leggerà
queste righe. Consideri che, se gli dicessero che in un letto di rose non dovesse mai muoversi
per vent'anni, non lo potrebbe soffrire; come soffrirà a stare un'eternità in un letto di ferri
roventi e pieno di zolfo?

La pena del taglione.


Con tutte queste pene si congiungerà la pena del taglione, che è pagare in proporzione di tanto
per tanto; neppure ciò manca nell'inferno. Si dice nell'Apocalisse: “Quando si glorificò e fu
nelle delizie,
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tanto dategli di tormento.” (Apoc., XVIII, 7) Ivi sarà il ricco afflitto, colui che disprezzò altri,
sarà disprezzato ed il superbo abbattuto, come si vedrà nel caso riferito da Enrico Granata:
“Una donzella molto divota, esteriormente data all'orazione, ai digiuni, alle vigilie e penitenze
e ritenuta per questo da tutti per santa, cadde in una grave infermità, e dopo essersi
confessata morì. Dopo breve tempo apparì al suo confessore in figura nerissima e
spaventevole. Il sacerdote, non conoscendola, le domandò chi fosse. "Io sono, disse, quella che
da tutti era tenuta per santa e invece sono sommamente disgraziata, perché sono nel profondo
dell'inferno, dove sarò eternamente tormentata coi demoni più vili per la contentezza che io
avevo di me stessa e per la superbia con cui mi stimava e preferiva in tutto agli altri,
giudicando tutti e disprezzando tutti. Per questo vivrò nei tormenti eterni. Anche se Dio
asciugasse il mare e riempisse il suo vuoto di minutissima arena e ogni cento anni un
uccelletto portasse via un solo granello, non sarà soddisfatta la giustizia con quello che io
patisco fino al giorno in cui si finirà a levare tutta l'arena. Se ciò mi si concedesse, io patirei di
buona volontà per tutto questo tempo le pene di tutti i dannati, purché finalmente mi venisse
a salvare; ma questo non ha rimedio, e così, padre, non c'è bisogno di pregare Dio per me,
perché nulla mi gioverà".
In questa storia abbiamo vista la superbia castigata con l'umiliazione. Nella seguente vedremo
i divertimenti e i gusti castigati con dolore e tormento proporzionato. Scrive il
Cantimpratense, (Lib. II. cap. 49, p. 2) che nelle parti della Germania era un soldato assai
valoroso e molto affezionato ai tornei.

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Egli morì miseramente, così come aveva licenziosamente vissuto. La moglie, che era donna di
vita santa, sollevata in ispirito, vide nell'anima del marito la seguente tragedia: come se
ancora dimorasse nel corpo era circondata l'anima sua da gran moltitudine di demoni, il
principe dei quali ordinò Ioni che all'ospite novello vestissero una giubba di maglia, tutta
lavorata a punta, acciocché egli ne rimanesse in ogni parte trafitto.
Di poi volle che gli si mettesse in capo una celata con una punta, che piantandoglisi nella testa
andasse a terminare nei piedi. Finalmente ordinò che gli fosse appeso al collo uno scudo così
pesante che gli sconquassasse tutte le membra. Essendosi ben presto eseguito sul povero
soldato quanto aveva comandato il principe delle tenebre, questi disse ai suoi spiriti: Questi
dopo di essersi divertito nei tornei, aveva in costume di deliziarsi in bagni odoriferi e poi tra
morbide lenzuola gettarsi brutalmente in braccio a vergognosi diletti; dategli adesso un poco
di questi piaceri secondo i nostri usi. Subito gli diedero una buona brustolatura in quelle
fiamme infernali e per alleggerimento della sua pena lo stesero sopra un letto di ferro rovente,
sopra il quale giaceva un rospo della misura del medesimo letto, che aveva due occhi
spaventosi, il quale ravvoltatosi stretto all'infelice soldato, coi suoi baci e coi suoi amplessi, gli
cagionò dolori più penosi di qualsiasi morte. La divota sua consorte, portò indelebilmente
impressa nella memoria questa visione tutti i giorni della sua vita con inesplicabile afflizione
del suo cuore.
Si vedranno molti altri castighi proporzionati alle loro pene in ciò che riferisce un monaco
certosino. Un signore di sangue illustre, di nazione inglese, ispirato dal Signore, prese l'abito
dell'ordine Cistercense. Cominciò la carriera della vita spirituale con grande lena, tale che non
esitò di sfidare il demonio. Questi accettò e prese campo nella sua cella.
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Ivi gli diede una volta tali colpi che gli fece uscire il sangue dalla bocca e dalle narici. Al
rumore accorsero i monaci e trovandolo mezzo morto, lo portarono a letto, dove stette tre
giorni senza dar segni di vita. In questo tempo, accompagnato da un Angelo, scese ad un luogo
molto oscuro, dove vide un uomo seduto in una sedia di fuoco, al quale delle donne bellissime
mettevano nella bocca fiaccole di fuoco. Attonito il monaco di tale spettacolo gli disse
l'Angelo: “Questo miserabile fu molto potente nel mondo e sfrenato con le donne; per questo i
demoni lo tormentano in quel modo che vedi”.
Entrando di più per quelle tenebre, vi stava un uomo cui gli spiriti infernali scorticavano vivo
ed avendogli cosparso il corpo col sale lo stendevano sopra graticole in mezzo al fuoco.
"Questo, disse l'Angelo, fu signore di vassalli tanto crudele e spietato con essi, come ora sono i
demoni con lui". Più innanzi incontrò molte persone di varia condizione, in generi diversi di
tormenti: molti religiosi e religiose, la cui vita era stata molto contraria alla loro professione,
chiacchieroni, censori della vita altrui, schiavi del loro ventre, macchiati di turpitudini ed altri
simili vizi, sopra i quali alcuni di quegli spiriti scaricavano molti colpi, in figura di uomini
bruttissimi, fino a spargere il cervello per il suolo ed a cavare loro gli occhi, essendo andati
nelle loro opere come ciechi e senza giudizio. Era questo il castigo destinato a simili persone.
Di poi alzò gli occhi e vide seduto un uomo a una ruota spaventevole, che girava in tal modo
che egli rimaneva fuori di sé. "È cosa terribile quella che vedi, gli disse l'Angelo, ma molto di
più sarà ciò che vedrai". In quell'istante cominciò la ruota a precipitarsi dall'alto fino al più
profondo, con tali colpi orribili, con tanto scricchiolio, con rumore e fracasso tanto enorme,
come se si disfacesse il mondo con tutti i suoi edifici e venisse giù il cielo.

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A tale orrendo avvenimento, agitati i prigionieri e i carcerati dell'inferno, levavano un gran


vociferio maledicendo e maltrattando colui che veniva a loro. "Questo, gli disse l'Angelo, è
l'apostolo Giuda, traditore del suo Maestro; quanto questi regnerà, essendo infinito nella sua
gloria, tanto patirà il miserabile queste pene".
Con queste rappresentazioni Dio ha mostrato la proporzione della sua giustizia per darci a
capire la grandezza di quella pena. Esse sono maggiori di quello che noi possiamo concepire.
Siccome ci fa più impressione ciò che ci arriva per mezzo dei sensi, perciò egli ci rappresenta
le pene delle anime con i tormenti più orribili del senso, come è far spargere il cervello e
cavare gli occhi. Sebbene questo in effetto non si faccia, il tormento però è senza
comparazione maggiore. Temiamo dunque la giustizia divina e teniamo per certo che in quello
in cui si pecca con più gusto, si dovrà patire con più tormento.

CAPITOLO DODICESIMO.

Frutti che si possono cavare dalla considerazione dei mali eterni.

Amore e riconoscenza a Dio.


Tutto ciò che abbiamo detto delle pene dell'inferno non è meno di quello che esse sono in se
stesse. È ben differente la notizia che si ha per relazione di altri da quella che si ha per propria
esperienza. I Maccabei (1 Maccab.. IV.) già sapevano che il Tempio del Signore era profanato,
deserto e distrutto; già

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l'avevano sentito e pianto, ma giammai tanto vivamente, come quando videro con gli occhi
propri il Santuario solo, l'altare profanato ed incenerite le porte. Allora sì che fu davvero lo
squarciarsi le vesti, il battere palma a palma, il lacerarsi le chiome, il ricoprirsi di cenere, il
gettarsi per terra con pianto inconsolabile, l'assordare le stelle con strida dolorose. Ora, se la
relazione e meditazione delle pene dell'inferno fa tremare, che sarebbe la vista e che sarebbe
l'esperienza? Potrà servire a ciò quanto si è detto fin qui. Scendano dunque, come dice San
Bernardo, nell'inferno coloro che vivono, per sfuggire di scendervi, quando muoiono. Vivendo
possiamo cavare del frutto, dove morendo non troveremo che danno.
I frutti principali della considerazione di quelle pene eterne possono essere questi: in primo
luogo un grande amore e riconoscenza a Dio, il quale, pur avendo noi tante volte meritate le
pene, non abbia permesso ancora che cadessimo in esse. Quanti saranno nell'inferno per aver
commesso un primo peccato mortale e si dannarono per uno solo, mentre con te, Dio avrà
usato tante misericordie, che per peccati innumerevoli non ti ha cacciato all'inferno? Qual
diritto avevi tu con maggior numero di peccati, dell'altro con meno perché con te abbia usato
tanta misericordia, quanta non ne ha usato con l'altro? Perché non sei riconoscente per ciò
che non meritasti? Quanto riconoscente sarebbe un dannato, se Dio lo liberasse da quel luogo
di tormenti e lo ponesse dove stai tu! Dimmi, che vita ti pare che condurrebbe, vedendosi
libero da quel tormento? Che penitenza non farebbe? Qual rigore non gli sembrerebbe diletto?
E quanto riconoscente sarebbe a benefattore tanto benigno! Ora, perché non gli sei tu tanto
riconoscente, poiché non ha fatto meno per te, anzi ha fatto di più? Se non ti ha cavato
dall'inferno, non ti ha neppure cacciato là, pure avendolo meritato

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molto, il che devi stimare tanto di più. Dimmi, quale sarebbe beneficio maggiore, che un
creditore avesse mandato in carcere chi gli doveva mille ducati, e di poi, già tanto afflitto, lo
liberasse, o che a un tale, che glie ne doveva cinquantamila, lasciasse la libertà senza toccargli
neppure un filo del vestito? Di più devi a Dio e per questo conviene servirlo meglio.
San Gregorio scrive di uno, come abbia fatto cambiamento di vita, sebbene non sia uscito
dall'inferno, né l'abbia sperimentato. Dice il Santo che un monaco, chiamato Pietro, morì
prima di ritirarsi nell'eremo, ma restituito alla vita, riferiva che aveva visto l'inferno ed in esso
i castighi e luoghi innumerevoli pieni di fuoco. Aveva riconosciuto ivi alcuni dei più potenti del
mondo che stavano appesi in mezzo alle fiamme. Stando sul punto d'essere gettato dentro,
vide di repente un Angelo che lo fermò e disse: Ritorna al tuo corpo e considera con ogni cura
come ti convenga di ordinare la tua vita d'ora in poi. Fu così che, ritornato al suo corpo, lo
trattò con asprezza tanto grande di penitenze, vigilie e digiuni che, sebbene non parlasse, dalla
sua maniera di vivere si scorgeva bene ciò che aveva visto e come temeva quei tormenti (Lib.
IV Dialog., cap. 30).

Un'invitta pazienza.
Un altro frutto che dobbiamo cavare si è una invitta pazienza per sopportare ogni fatica di
questa vita, per non cadere nei tormenti dell'altra. Chi considera l'eternità delle pene, dalle
quali meritava di essere tormentato, non ha da lamentarsi della pena di questa breve vita. Non
vi ha sorte, né condizione in questo mondo per quanto sembri meschina, povera, miserabile e
dolorosa, della

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quale i dannati non abbiano somma invidia e terrebbero per somma felicità di poter stare in
essa, pur di non rimanere dove sono. Non vi è vita tanto penitente, che non si facesse più
rigorosa da chi avesse una volta sperimentato quegli ardori. Chi fu una volta degno dei
tormenti eterni già non dovrebbe più sentire male temporale; dovrebbe avere la bocca tappata
per non lamentarsi in cosa alcuna che gli accada avversa o di un'ingiuria che gli si possa fare.
Considerando ciò i Santi, non vi fu cosa che non soffrissero, né penitenza che non facessero.
Per questo San Giovanni Evangelista, dopo di aver detto che il fumo dei tormenti dei dannati
si innalzava per i secoli dei secoli, che non cessavano né di giorno, né di notte, subito
soggiunge: “Qui sta la pazienza dei santi” (Ap 14, 12) perché vedendo che ogni fatica di questa
vita è temporale, mentre il tormento dell'altra dura per tutti i secoli dei secoli, nulla sembra
loro molto. Paragonando il rigore delle pene dell'inferno con le pene di questo mondo, tutto
ciò che in questo si può patire essi giudicano per molto poco rispetto alle pene immense che si
patiranno nell'abisso infernale.
Così faceva San Giovanni Crisostomo, (Epist. V ad Theodosium) il quale ci consiglia di farlo
pure noi, portando con pazienza qualsiasi pena temporale con la considerazione delle pene
eterne e considerando questo ogni volta che abbiamo da patire pene temporali. Egli dice: “Per
l'esperienza delle cose piccole facciamo congettura delle cose grandi. Se tu stessi in un bagno e
lo trovassi troppo caldo, ricordati dell'inferno; se tu stessi nel calore di qualche febbre, passa
con la considerazione alle fiamme che si avranno al di là; intendi che, se il bagno e il calore

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ci affliggono e ci spaventano, con qual coraggio staremo in quel fiume di fuoco? Il medesimo
Santo disse (Hom. II in I Thessal.): “Quando tu volessi una cosa grande nella vita presente,
pensa subito al Regno dei cieli, e così non la stimerai molto; quando tu vedessi una cosa
terribile, pensa all'inferno e ti riderai di quello. Se ti assalisse qualche concupiscenza o
desiderio di cosa temporale, considera che il diletto del peccato non è di nessuna stima e non
ha nessun gusto. Se il timore delle leggi che furono promulgate nel mondo, ha tanta forza che
ci allontana dalle opere cattive, molto più forza avrà la memoria delle cose future, il castigo
immortale e la pena sempiterna. Se il timore di un re della terra ci tiene lontano da molti mali,
quanto meglio farà questo il timore del Re eterno? E se solo il vedere un morto trattiene
l'animo nostro, quanto meglio lo farà tutto l'inferno e quel fuoco che non si spegnerà mai? Se
sempre pensassimo all'inferno non vi cadremmo mai dentro.

Disprezzare le cose di questo mondo.


Dobbiamo parimenti ricordare spesso i mali dell'altra vita per giungere al disprezzo di ogni
bene di questa, perché ogni felicità temporale suole andare a finire nella miseria eterna. Tutto
ciò che è prezioso sopra la terra, tutto l'onore e splendore del mondo è fumo e ombra, se
consideriamo la sua poca durata e la confrontiamo con l'eternità di quel fuoco. Si raccolga in
un mucchio tutto l'argento, tutto l'oro, tutti i diamanti, le margherite, gli smeraldi, ogni gioia
preziosa, tutti i trionfi dei romani, tutte le delizie degli Assiri, tutto ciò sarà sterco, ignominia e
fiele col rischio di cadere nell'inferno.
Ricordiamoci della sentenza di nostro Signore:
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“Che giova all'uomo guadagnare tutto il mondo, se l'anima sua ne patirà alcun danno”? (Mt
16, 26) Non dico di grandi ricchezze, ma di tutto il mondo, se dovessero farcene signori,
dovremmo guardare al rischio della nostra dannazione. Goda uno di ogni diletto,
s'ingrandisca con grandi onori, trionfi con molte ricchezze, tutto è sogno, se dopo questa vita
va a finire nel fuoco dell'inferno per rimanere ivi finché Dio sarà Dio.
Pensate all'imperatore Maurizio in quel giorno dolorosissimo, quando prima di essere ucciso
vide massacrati i sotto i suoi occhi i quattro figlioli, e l'imperatrice sua moglie; non vi ha
dubbio alcuno che riputereste vanità tutti quei vent'anni, in cui egli regnò con grande potenza
e maestà, sebbene il suo castigo non fosse eterno, poiché egli mori con ottime speranze della
sua anima. Ora, se un giorno solo disgraziato dopo vent'anni di maggior felicità e fortuna del
mondo fa sì che sparisca tutto e tutto si risolva come fumo, non solo un anno di pene, non solo
mille anni di tormenti, ma un'eternità di tormenti, come disfaranno ogni prosperità umana e
faranno sì che essa non sembri, se non ombra e sogno? Se la morte disgraziata di uno,
sebbene si salvi, mostra la vanità della felicità umana, dinanzi alla morte disgraziata di uno
che si danni e all'eternità dei suoi tormenti, qual felicità o grandezza umana non sarà fumo,
ombra e burla?
Consideriamo l'imperatore Eliogabalo, che fu colui che ai suoi gusti diede pasto maggiore e
che con maggior libertà usò della sua felicità. Che furono i due anni e otto mesi di regno,
quando si vide vicina la morte? La quale, secondo Amelio Eutropio, venne così: Essendo stato
tratto dai soldati Pretoriani da una latrina, dove si era nascosto,

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questi lo trascinarono e lo cacciarono in una fogna fetente e sudicia; siccome però ivi non
rimaneva nascosto, tornarono a ricavarlo e a trascinarlo per il Circo Massimo ed altre piazze
di Roma. Finché lo gettarono nel Tevere, legandogli al collo delle pietre, perché il suo corpo
non ricevesse mai sepoltura! Tutto questo avvenne con grande giubilo del popolo ed
approvazione del Senato.
Chi avesse veduto questo imperatore delicato e lussuoso involto nella melma della fogna,
oltraggiato dai soldati ed annegato nel Tevere, che caso avrebbe fatto di tutta la sua felicità?
Guardatelo adesso nel fetore dell'inferno, oltraggiato dai demoni ed annegato in quel lago di
fuoco, di zolfo, dove ha da star sempre per tutta l'eternità. Che sembreranno ivi, non i tre anni
in cui regnò, ma i trecentomila milioni di anni ed un'eternità in cui starà a patire, andando
tutta la gloria del suo impero e lo splendore della sua fortuna a finire in fumo? Non di altra
maniera che una ruota di razzi, la quale, mentre si muove, manda mille luci e splendori da sé
come un sole lucidissimo; ma tutto va a finire in carta bruciata e fumo.
Così è che, mentre si muove la ruota della nostra natività, come dice San Giacomo, cioè
mentre dura la nostra vita, splende la sua felicità e fortuna; ma tutto va a finire in fumo, ed
anche, a essere più fortunato, in un tizzone d'inferno. Ben disse Rabano: “Quando un uomo è
colpito da una febbre forte o da una grande povertà, egli dimentica tutto il tempo che prima
spendeva in salute e diletti. La sola sua miseria o infermità lo tiene tanto occupato che non lo
lascia pensare ad altra cosa. Se qualche volta anche durante la sua pena gli viene alla memoria
qualche avvenimento della sua primitiva felicità, non gli dà refrigerio alcuno, anzi gli procura
più pena. Ora, se già i mali temporali molto brevi bastano per far svanire i beni e le felicità di
molti anni, qual bene temporale potrà prevalere contro i mali eterni?
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Far tesoro di ogni momento di tempo.


Inoltre l'eternità dei tormenti dell'inferno senza profitto, dovrebbe stimolarci a non perdere
un punto di tempo, ora così fruttuoso. È doloroso che tanto patire ed un patire eterno abbia da
essere inutile e senza giovamento alcuno a quei miserabili, condannati ad un'eternità di
tormenti, perché non seppero impiegare bene un giorno per confessarsi e far penitenza.
Che darebbe un dannato per un solo quarto d'ora di tanti giorni ed anni che perdette e che tu
ora stai perdendo, mentre non gli daranno neppur un istante, perché possa far penitenza? Tu,
che hai tempo in vita, guarda di non perderlo; non disprezzare ora ciò che pesa tanto ai
dannati per averlo disprezzato. Scrive Pietro Reginaldo che un santo religioso, stando in
orazione, udì una voce lamentevole e lugubre e, domandandole chi fosse e perché piangesse,
la voce rispose: "Io sono un dannato". "E perché, l'interrogò, ti lamenti così”? “Hai da sapere,
replicò quel miserabile, che io e gli altri dannati non piangiamo cosa alcuna più amaramente
che l'aver perduto il tempo nei nostri peccati”. O miserabili! Per aver perduto il tempo breve,
perdono un'eternità infinita! Tardi si rendono conto di ciò che loro doveva importare tanto, e
che non potranno mai più riparare.
Approfittiamo noi ora del tempo, per guadagnare l'eternità e non perdiamo godendo ciò che
allora non potremo riacquistare nemmeno soffrendo. Piangiamo le nostre colpe con profitto
per non piangere di poi le nostre pene senza frutto. Ascoltiamo San Bernardo (Serm. XVI in
Cant): “Chi darà acqua alla mia testa, ed una fonte di lacrime ai miei occhi, per prevenire con
pianti il pianto? Chi non piange ora le sue colpe per impedire le sue pene, piangerà allora

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eternamente le sue colpe, senza togliere le colpe, né diminuire le pene. Piangiamo ora che
abbiamo tempo e facciamo penitenza con dolore, perché le nostre lacrime si asciugheranno e
il dolore si dimenticherà”. Non meno efficace sarà la felicità eterna per dimenticare le lacrime
e i dolori di questa vita di quel che sia l'inferno per far sì che non si ricordino i gusti del
mondo. Per questo dice Isaia: “Caddero in oblio le mie angustie primitive e si sono nascoste
dai miei occhi”. (Is., LXV, 16) Sopra le quali parole dice San Gerolamo: “E' causa di allegria,
perché succederà un eterno oblio delle angustie antecedenti, perché si dimenticheranno i mali
antichi, non coll'oblio della memoria, ma con la successione di tanti beni, conforme a quello
che si dice: "il giorno buono è oblio dei mali". Ora che sarà nell'eternità buona?
Piangiamo ora per non piangere eternamente; gaudi eterni asciugheranno le lacrime di
un'ora. Temiamo che, ridendo ora, non piangiamo eternamente! Per ultimo abbiamo da
cavare dalla considerazione dell'inferno un odio estremo ad ogni peccato mortale, perché per
questo male della colpa si arriva al male tanto grande della pena. Il peccato è un male
terribile, che neppure con le fiamme eterne si può soddisfare per esso. Ma questo richiede
considerazione più lunga come ora vedremo.

CAPITOLO TREDICESIMO.

L’infinita gravità del peccato mortale


La malizia del peccato mortale.
La malizia di un peccato mortale che pure si commette in un istante, è tanto brutta, orribile,

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mostruosa, abominevole e maledetta che merita i tormenti orribili dell'inferno per tutta
l'eternità, disereda e priva il peccatore di tutti i beni eterni, solo perché volle godere, sia pure
per un momento, di un bene temporale contro la volontà del suo Creatore. E siccome il mio
argomento in questa opera ha per fine di generare disprezzo di tutti i beni temporali, perché
non si perdano quelli eterni, non è fuori del mio intento il procurare che si aborrisca quello col
quale si perde il bene eterno per un gusto breve temporale che si ottiene per mezzo di colpa
grave. Così tratteremo della sua immensa malizia, il che pure appartiene alla conoscenza della
differenza tra il temporale e l'eterno. È molto importante la differenza che si trova in questa
parte, perché i beni temporali sono tali che, chi li ama, li stima e li cerca con ansia e cade in
male tanto orrendo quale è il peccato; i beni eterni invece sono tali che, chi li ama, li stima, e li
cerca ad esclusione di altri, si assicura contro il male mostruoso e maledetto del peccato. Così
è necessario trattare della sua enorme malizia per completare questa materia.
L'aver trattato delle pene terribili dell'inferno, acciocché non ci meravigli la severità di
giustizia tanto rigorosa, quale si esercita nei peccatori, voleva che trattassimo anche della
grandezza ed orribilità della colpa, alla quale è dovuto quel castigo eterno. Alcuni infatti si
meravigliano molto che si faccia un supplizio tanto grave come penare eternamente in
tormenti tanto duri e terribili. Il meravigliarsi di questo avviene perché non si conosce la
gravità del peccato mortale. Chi la ignora meno, si meraviglierà piuttosto che non lo si castighi
con inferno maggiore, sebbene l'inferno duri eternamente, mentre la colpa dura solo un
istante. Così S. Agostino, la cui intelligenza Dio illustrò con la sua grazia, fu tanto lontano dal
meravigliarsi che per il peccato mortale sì dia un inferno, che

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piuttosto si meravigliò che non si dessero due inferni per la colpa che commetteva un
cristiano, giudicando che un nuovo inferno si dovesse fare per colui che offende Iddio, dopo
che Egli si è incarnato e fatto uomo. Anche i Teologi dicono che il peccato si castiga
nell'inferno meno di quello che merita. Ora, a chi non reca meraviglia questo mostro di
malizia che, essendo un male, meriti tanti mali e, essendo una colpa, tratta seco tante pene
quante vi hanno nell'inferno? A chi non arreca spavento che, commettendosi una offesa grave
in un momento, questa sia degna di un'eternità di pena?
Caso terribile, che per un peccato ignoto agli uomini, commesso solo col pensiero, che non lo
sa altri fuorché Dio e colui che lo commette, si diano per esso pene tanto reali e vere, grandi ed
eterne. La causa è che tanta è l'intensità di questa malizia che equivale ad un'estensione
infinita di mali. Quale cumulo immenso di malizie sarà quello cui non supera un'estensione
immensa di mali? La pena e la colpa si comportano tra di loro come un'ombra rispetto al suo
corpo; il peccato è più solido ed è come il corpo del male, la pena è come la sua ombra. Vi è
tanta differenza tra la colpa mortale e il fuoco dell'inferno, quanta esiste tra un uomo e la sua
ombra; colui è uomo in verità, ma la sua ombra lo è solo in apparenza.
Così è che il peccato è male vero, la pena è male solo in apparenza, ma in verità essa non è, se
non un bene, essendo atto di giustizia e causato da Dio che non può causare se non ciò che e
bene. Raccogli da qui che cosa sia il peccato, perché in paragone della sua malizia le pene
dell'inferno non sono mali, ma solo ombre di mali, sebbene siano pene tanto terribili e vere.
Temi dunque il peccato, ma anche più che tutto l'inferno insieme.
Tanto più dovremmo tremare di una colpa di un istante che di una pena eterna, quanto più si
teme

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una spada che la sua ombra. La spada uccide, l'ombra può solo spaventare. La colpa grave è
quella che toglie la vita all'anima, la pena sola può procurarle paura e dolore. Quante pene si
danno, cioè tutti i tormenti dell'inferno, non la potranno uccidere, se non fossero ombra di
una colpa.
Consideri ora il peccatore, quanto è stolto, se temendo un danno temporale osa peccare,
poiché già i danni e tormenti eterni non dovrebbero facilitargli il peccato. L'inferno, si deve
accettare per non ammettere colpa; perché allora ammetti questa per cadere nell'inferno? Se
l'inferno è ombra che non uccide in confronto della colpa, la quale toglie la vita all'anima, che
sarà altra qualunque fatica della terra, per la quale ti azzardi a peccare fuggendo dall'ombra e
gettandoti sulla punta della spada affilata del peccato?
Il peccato è male vero, al cui paragone il fuoco eterno dell'inferno non è più che un'ombra del
male. Possiamo quindi da quest'ombra scorgere la grandezza del male, come la gravità del
peccato dalla terribilità delle sue pene. Come dall'ombra si può scorgere la grandezza del
corpo che la causa, sebbene esso non si veda, così pure dalla pena del peccato si può
congetturare la sua enormità e malizia. Che diremmo di un corpo che nel sole di mezzogiorno
avesse un'ombra tanto grande che si estendesse per uno spazio infinito? Questo non potrebbe
essere, se non in quanto la sua altezza ascendesse tanto da arrivare fino alla sfera dello stesso
sole e da lì causasse ombra tanto estesa.
In questo modo il peccato cagiona una pena di estensione infinita, perché sale l'intensità della
sua gravità fino ad opporsi a Dio stesso. Essendo Dio il sommo bene, il peccato è il sommo
male (parlo del peccato mortale in genere suo) ed essendo Dio infinitamente buono, così il
peccato sale nella sua

496

malizia ad un'infinità, di maniera che è di malizia infinita.


Temi dunque l'inferno, ma spaventati del peccato. A chi non reca spavento che Dio, vedendo
ardere in mezzo all'inferno una creatura sua, la lasci ivi ardere eternamente senz'aver
compassione di essa? Ma questo non è per mancanza di bontà in Dio, ma per la sola
abbondanza di malizia nel peccato; non è perché la misericordia di Dio abbia limite, ma
perché non lo ha la malizia umana. Tanto enorme è la colpa di un peccato mortale, che il fuoco
eterno non potrà consumare la sua macchia, né tormenti senza fine daranno un compenso
maggiore di quello che si deve alla giustizia divina, provocata dalla malizia umana. Questo è
quel che dice il Signore per bocca del profeta Osea: “All'ira mi provocò Efraim nelle sue
amarezze; (Os,, XII, 14) cioè, conforme a quanto dichiara San Gerolamo, le sue malizie mi
hanno tatto acerbo e rigoroso, mentre ero dolcissimo e blando. La gravità del peccato fa sì che
perfino nelle amarezze in cui staranno i peccatori nell'inferno, non saranno compatiti dalla
dolcezza della bontà e misericordia divina.

Il peccato mortale è offesa di Dio infinito.


Vediamo ora qualche cosa di questa gravità. Il peccato è un'offesa enorme di Dio e dovrebbe
bastare per chi conosca la grandezza ineffabile e la perfezione dell'Essere Divino, acciocché
non gli sembri molto che per la colpa di un istante si dia pena di un'eternità. Quanto è
maggiore la maestà disprezzata, tanto è maggiore l'ingiustizia con cui si disprezza; siccome la
maestà di Dio che si disprezza col peccato è infinita, pure il disprezzo di

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essa ha una certa infinità. Quanto a una persona si deve più riverenza, tanto è maggiore
raffronto che ad essa si fa. Siccome a Dio si deve riverenza infinita, così pure l'ingiuria che si
arreca è di una malizia inesplicabile. Con nessun'opera buona di creatura alcuna, per molte e
grandi che siano, si può ricompensare ad uguaglianza.
Tanto grande è, dice un grave dottore, (LESSIUS, De Perfectionibus Divinis, lib. XIII, cap. 16,
n. 187) la malizia di un peccato mortale che, posto nella bilancia della giustizia divina,
prepondererà a tutte le opere buone di tutti i Santi, anche se fossero mille volle di più e
maggiori di quel che sono in realtà. La qual considerazione è terribilissima, ma non deve
sembrare incredibile, perché tutte le opere buone con cui i Santi onorano Dio, sebbene
considerate in sé siano di grande stima, ed essi siano degni della vita eterna, rispetto alla
maestà divina sono come un nulla, perché per mezzo di esse non si rende a Dio nessuna
grazia, essendo dovute alla sua maestà e bontà, non solo esse, ma altre infinitamente di più e
maggiori, di modo che dinanzi a Dio non sono cose grandi. Ma essere disprezzato dalla sua
creatura, la quale gli e per titoli infiniti obbligata e che gli dovrebbe portare amore infinito, se
potesse, e rendere onore infinito, questo è ben da ponderarsi come cosa sommamente
ripugnante alla sua maestà ed ai suoi benefici: così Dio lo reputa per maggiore in ragione del
male più che tutte le opere buone in ragione di bene. Se Dio fosse capace di dolore, più lo
affliggerebbe che non lo rallegrino tutte le opere buone. Certo si è, che fra gli uomini non pesa
tanto che si dia qualche onore a chi lo merita, quanto che si disprezzi colui che dovrebbe
essere motto venerato.
Un re non fa caso dell'onore che gli rendono i vassalli e non lo tiene per cortesia, ma per
debito;

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ma gli arrecherebbe sommo dolore l'essere oltraggiato o disprezzato da uno, specialmente da


colui al quale avrebbe Fatto maggiori benefizi. Abbiamo di questo un esempio in Aman, il
quale non stimò tanto l'onore che gli rendevano tutti quei dell'impero di Persia, né tutte le sue
ricchezze, la sua famiglia e i suoi figliuoli, quanto si adirò, perché il solo Mardocheo non gli
faceva cortesia. Si sente di più un disonore di quel che si stimino molti onori, perché tutti
pensano che l'onore è loro dovuto, mentre il disonore è ripugnante, come si sente maggior
dolore del fuoco applicato alla mano, essendo ripugnante alla natura, di quel che si provi
diletto, quando esso ha il suo naturale temperamento, perché la temperatura moderata le è
dovuta e il calore eccessivo le è ripugnante; così pure in una persona di grande maestà causa
più dolore un aggravio e disonore, di quel che cagionino allegria molti onori, perché il
disonore è ripugnante alla sua autorità e gli onori gli sono dovuti. Non vi è sentimento più
vivo tra gli uomini che quello del disonore. Ad un gran signore riesce più doloroso e più lo
irrita uno che gli getti a terra il cappello o gli dia uno schiaffo, di quel che egli riceva gusto,
quando altri si tolgono il cappello, gli fanno riverenze e baciano la mano, anche se questa
cortesia gli facessero migliaia di uomini.
Si può da ciò rilevare qualche cosa della mostruosa scortesia di un peccato mortale, perché
con esso si disprezza tanto il Signore onnipotente del mondo, che, dice San Paolo, si oltraggia
il Figlio di Dio. Non è quindi meraviglia che un sol peccato grave di una creatura pesi di più di
quanti onori e servizi possano fare tutte le altre, tutti i Santi, Angeli e uomini insieme, non
potendo soddisfare in tutto rigore di giustizia. Questa è la ragione per cui fu necessario che
Dio si facesse uomo. Con meno di una soddisfazione infinita di persona divina la giustizia di
Dio non si sarebbe

499

accontentata. Né potrà meravigliarsi, che per il peccato si dia pena eterna, chi vede un Dio
fatto uomo morire per l'uomo per causa del peccato. È maggior meraviglia che il Figlio di Dio
sia morto per un peccato altrui, che non l'uomo peccatore ottenga pena eterna per il peccato
proprio. Se è tanto esorbitante la sua malizia, che nessuna opera buona, né le penitenze di
tutte le creature riunite, per quanto sante non avrebbero potuto soddisfare interamente per
essa, tanto che fu necessario che Dio, Nostro Signore s'incarnasse, non vi è da meravigliarsi
che il peccato meriti pena eterna, perché un male tanto grande, che, nessun'opera buona, per
quanto continua potrebbe riparare, merita bene una pena più lunga che tutto il tempo
limitato, e quindi eterna.
Il disprezzo è infinitamente ripugnante a Dio, il quale per parte sua è degno di amore ed onore
infinito. Così non è meraviglia che il suo disprezzo sia punito con pena di tempo infinito. Se
un principe, la cui grandezza eccede solo limitatamente quella dei vassalli, si angoscia di più
per l'ingiustizia di uno di quel che gioisca per la riverenza di molti, e castiga il suo danno,
privando il traditore dei suoi beni e della vita, per quanto sta da sé, eternamente, qual
meraviglia che un affronto del peccatore, essendo Dio infinitamente superiore alla creatura
prevalga sopra di molti servizi ed onori e sia punito con la pena eterna?
La grandezza dell'onore diminuisce in proporzione della grandezza della persona a cui si
rende; ma la grandezza dell'ingiuria cresce in proporzione della grandezza della persona
ingiuriata, per cui, essendo Dio la persona ingiuriata, è giusto che la sua ingiuria sia punita
con pena infinita, per lo meno nel tempo, o se altri volesse soddisfare per essa, sia persona
infinita e di dignità infinita. Colui che viene offeso per i peccati è di autorità infinita,

500

per cui deve essere di dignità infinita colui che debba soddisfare per il peccato.
Oltre a questo la malizia del peccato mortale è tanto orrenda che nelle creature non vi è
neppure soddisfazione sufficiente per la loro pena, né vi ha merito uguale al loro perdono.
Supponiamo che nel mondo non fosse stato commesso da Adamo il peccato, il quale
contaminò tutto il genere umano; supponiamo che non avesse peccato Davide, San Paolo, S.
Agostino, S. Maddalena, Santa Maria Egiziaca, od altro uomo o Angelo, ma fosse stato
commesso un solo peccato mortale, il minore di tutti, da un uomo nel deserto, senza
testimonio alcuno, di notte, e solo di pensiero. La gravità di questa colpa è tanto grande che
nessuna pena delle creature sarebbe sufficiente per soddisfare alla giustizia divina, anche se
per causa di questo. Dio distruggesse il cielo, rovinasse le stelle, consumasse il mare,
confondesse tutti gli elementi e risolvesse tutto nel nulla, anche se bruciasse con raggi tutti gli
uomini del mondo, anche se precipitasse dal cielo tutti gli Angeli; tutto questo non sarebbe
sufficiente per far ricompensa uguale alla giustizia divina, perché tutta la distruzione del cielo,
l'uccisione degli uomini, la rovina degli Angeli, è cosa finita e limitata, mentre l'ingiuriato, che
è Dio, è infinito e di malizia infinita è la sua offesa. Dall'infinito al finito non vi è proporzione e
quindi non vi ha proporzione neppure tra tutta questa pena delle creature e la colpa
commessa contro il Creatore.
Per la stessa ragione nessun merito di sola creatura basta per far perdonare un peccato
mortale, non rimanendo soddisfatta del tutto la giustizia divina. Anche se tutti gli uomini del
mondo si vestissero di cilizio, digiunassero mille anni a pane e acqua, si lacerassero le carni
con lacrime e discipline sanguinose, anche se tutti i Martiri offrissero per questo peccato i loro
tormenti ed i

501

confessori le loro penitenze, anche se la stessa Madre di Dio si disfacesse in lacrime ed offrisse
per esso tutti i suoi meriti, tutto questo non uguaglierebbe tutto il necessario per ottenere il
perdono di quel peccato. La sola soddisfazione del Figlio di Dio poté essere sufficiente.
Considerino questo gli uomini e pesino la gravità di un'offesa a Dio e tremino al solo pensare
che lo possono offendere.

Il peccato mortale nelle sue circostanze.


Questo aggravio che si fa a Dio col peccato mortale, sebbene sia già in sé e per la sua stessa
sostanza tanto enorme, come abbiamo detto, esso scoprirà ancor di più la sua insolenza e
malizia traverso le circostanze, che possono accrescere molto la malizia o bontà di un'azione.
Quella del peccato è tanto abominevole e maledetta in tutte le sue parti che non una o due
circostanze la aggravano, ma tutte insieme, per cui le andremo considerando una per una.
Tullio, (T. CICERO, in Rhetorica) seguito da San Tommaso (Theol.. I, 2ae, q. VII, art. 3.) e da
tutti i teologi, apporta sette condizioni, dalle quali qualunque azione morale può essere
notabilmente qualificata, e sono queste: Quis. Quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo.
quando; la prima, chi la fa; la seconda, ciò che fa; la terza, dove si fa; la quarta, con quali aiuti
si fa; la quinta, per qual fine si fa; la sesta, in qual modo si fa, la settima, quando si fa. A queste
sette circostanze Aristotele (III Ethic.) aggiunse un'altra, cioè a dire circa di che cosa si fa.
Queste circostanze sono per le azioni assolute che non hanno relazione con altri, perché non
sono di giustizia o di danno, perché nelle azioni che hanno rapporto con terze persone si deve
considerare molto l'altra circostanza che è

502

contro chi si fa alcuna cosa. Vediamo ora come in tutte queste circostanze il peccato è
maledetto, abominevole ed enorme.
Se si considera in primo luogo chi lo fa, è un uomo vilissimo e miserabile, che osa levare la
mano contro il suo Creatore e perdergli il rispetto. Che è l'uomo, se non un vaso di sterco, una
fonte di putridume, colui che per nascita è uno schiavo del demonio? Ora, questi osa
ingiuriare il suo Creatore. Un'offesa di Dio sarebbe molto grande, anche se fosse fatta da altro
Dio, uguale ed infinito, se esistesse; ma essendo il peccato di una creatura e questa vilissima,
spaventa l'essersi egli ribellato ad un Signore tanto onnipotente.
Ma che cosa è ciò che fa il peccatore, quando pecca? È, secondo S. Anselmo, voler togliere a
Dio la corona dalla sua testa e mettersela egli; è, secondo San Bernardo, voler uccidere lo
stesso Dio; è, secondo l'Apostolo San Paolo, oltraggiare e calpestare il Figlio di Dio, e un
ritornare a crocifiggerlo. Se qualsiasi di queste cose s'attentasse contro una maestà della terra,
meriterebbe il reo di essere preso, legato a quattro cavalli, perché lo facessero a pezzi e lo
squartassero, e seminare la casa di sale, ad eterna ignominia di lui e di tutti i suoi dipendenti.
Ma se questo delitto già tanto abominevole ed orrendo se compiuto contro un uomo, è
compiuto contro Dio, a che punto di abominazione e delitto non ascenderà? C'è da
rabbrividire al solo pensiero del castigo che meriterebbe un tale ardimento, e più ancora al
pensiero che vi sia un uomo di tale ardire. Se con altro uomo si eseguisse, dove non vi è
grandezza infinità, né distanza immensa, ma solo limitata e corta, sarebbe una mancanza di
rispetto mai vista; eseguita contro Dio, Re onnipotente e Signore di tutto il creato, che è di
grandezza infinita e dista immensamente dalle sue creature, che spavento, che audacia, che
insolenza sarà? Il solo pensarlo fa tremare.

503

O santo Dio! Chi potrebbe spiegare ciò che fa un peccatore contro di Voi e contro se stesso?
Disprezza la vostra maestà, lacera la vostra legge e si ride della vostra giustizia, schernisce le
vostre minacce e disprezza tanto le vostre promesse, che rinuncia solennemente alla gloria che
gli avete promesso, per obbligarsi ad essere schiavo eterno di Satana, preferendo di dar gusto
al vostro nemico, piuttosto che a voi, che siete suo Padre, suo amico e tutto il suo bene,
preferendo morire eternamente, non dandovi gusto, piuttosto che vivere per sempre nel cielo
coi vostri servi.
Vediamo pure dove arrischia il peccatore a commettere il peccato ed a essere traditore di Dio.
Egli offende il suo Creatore nel suo stesso mondo e dinanzi al suo cospetto, ben sapendo che
egli lo sta guardando. Se un peccato si facesse, dove Dio non lo potesse vedere, sarebbe già
una grande malizia; ma osare d'ingiuriare il suo Creatore sotto i suoi stessi occhi, che genere
di ardimento sarà tanto impensabile e mai visto? Se colui che pecca potesse andare in un altro
mondo, dove non abitasse Dio ed ivi sì nascondesse sotto la terra ed ivi peccasse di modo che
lo sapesse egli solo, ciò nonostante sarebbe questo un grande ardimento; ma peccare nella
stessa casa di Dio, che è questo mondo, e nella sua presenza, che inferno non merita? Il solo
mettere mano alla spada contro un uomo nel palazzo di un re è un delitto capitale e degno di
morte; ma oltraggiare e crocifiggere con un peccato, non un uomo ordinario, ma il Figlio di
Dio, non solo nella casa di Dio, ma dinanzi ai suoi occhi, quale intelletto potrebbe concepire la
grandezza di questa offesa?
Con ragione Davide si disfaceva in lacrime ricordandosi che aveva peccato dinanzi agli occhi
di Dio e così con un dolore che gli traversava come una spada il cuore, disse con grande
confusione al

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Signore: Il male lo feci dinanzi a te. (Ps. 50) Inoltre non solo pecchiamo nella casa di Dio, ma
stando nelle sue stesse braccia, perché egli ci sostiene con la sua onnipotenza. Se vi fosse un
figlio tanto maledetto che mentre sua madre se lo strinse al cuore e l'accarezza, egli invece si
voltasse contro di lei e le arruffasse i capelli e le desse schiaffi e la volesse uccidere a
pugnalate, tutti lo terrebbero per un demonio incarnato. Ora, come osa l'uomo peccare
offendendo colui stesso che lo sostenta, lo conserva e lo redense? Certamente che si può
tenere per peggiore di un demonio il cristiano che ardisce di far tanto.
Aumenta ancora la malizia del peccato quando si ponderino gli aiuti con cui si opera. Gli stessi
benefizi divini il peccatore li converte contro lo stesso Dio. L'ingratitudine è un sentimento
molto vivo tra gli uomini. Se il dimenticarsi del benefizio è ingratitudine, il disprezzarlo è
un'ingiuria; ma usare di esso contro il proprio benefattore, non so come si chiami. Ciò fa colui
che pecca, il quale per offendere Dio, si serve delle stesse creature da lui create, perché a lui
servissero, e converte i benefizi divini in armi contro lo stesso Dio. Che diremmo, se mentre
un re, per onorare un soldato, lo arma cavaliere e lo munisce della sua spada, il soldato
nell'atto stesso la sguainasse e lo uccidesse? Questo ardimento, che sembra impossibile tra gli
uomini, è invece ordinario nell'uomo in rapporto con Dio, perché onorando Dio in tante
maniere l'uomo e ricolmandolo dei suoi benefici, con i medesimi egli offende Dio quanto è da
parte sua, togliendogli l'onore e desiderando, secondo San Bernardo, togliergli anche la vita.
Dall'intelligenza che ricevette da Dio si serve per trovare modo con che eseguire il suo peccato,

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con le mani lo eseguisce, e con tutte le sue potenze offende colui che gliele diede e gliele
conserva.
Oltre a questo il suo ardimento arriva a tanto da voler che lo stesso Dio lo aiuti a peccare.
Questo è ciò di cui il Signore molto si lagna per bocca del suo Profeta, quando dice: “Mi
faceste servire nelle vostre malizie.” (Is., XLIII, 11) Dio concorre in ogni azione e movimento
naturale dell'uomo, il quale non può agitare né piede, né mano, né lingua, senza il concorso di
Dio. Menando l'uomo la lingua per mormorare e le mani per rubare, egli si serve del concorso
di Dio contro Dio stesso. Chi vi avrà tanto inumano e crudele che obblighi un padre a
concorrere con lui per dar pugnalate al figlio unico e molto amato, servendosi della mano del
padre per eseguire il colpo che deve traversare il cuore del suo figlio unigenito? Cosa
equivalente fa il peccatore facendo sì che Dio concorra all'azione con la quale l'uomo peccando
torna a crocifiggere il Figlio di Dio. Orrore e questa crudeltà del peccatore; egli merita per
questa empietà mille tormenti nell'inferno.
Se si considera perché fa questo, è questa un’altra circostanza che ci fa spaventare della
gravità del peccato. Perché il peccatore dà disgusto tanto grande a Dio? Perché disprezza il suo
Creatore? Perché è traditore del Signore del mondo? Perché oltraggia e calpesta Gesù Cristo?
Perché aborrisce talmente il suo Redentore? Perché crocifigge il Figlio di Dio? Che cagione
può avere una malizia tanto enorme? Forse perché non si perda il mondo? Forse perché gli
importa la salvezza dell'uomo? Forse per diventare egli stesso Dio? Forse per dare gusto ad un
altro Dio? No, solamente per un gusto vile ed immondo, per un

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pazzo capriccio, perché insomma vuol così e non per altro. O audacia orrenda! O rabbioso
furore! Così per nulla fa oltraggio esecrando al suo Creatore! Come non si disfanno i cieli in
fulmini distruggitori, che diano mille morti a chi compie questo e riducano a nulla quella
creatura che tanto ardisce mentre pecca?
Parimenti la maniera con cui si pecca è da far raccapricciare da capo a piedi chi la considera
perché infatti è con una superbia, con un disprezzo, con lo scherno, con un ardimento da
Lucifero. Dopo di aver udito e visto tanti esempi di castighi dati da Dio ai peccatori, dopo di
aver veduto che per un solo pensiero peccaminoso il più sublime di tutti gli Angeli divenne
carbone nerissimo d'inferno, dopo che tante migliaia di Angeli per un peccato solo furono
precipitati dal cielo e lanciati nell'abisso; dopo di aver visto che il primo uomo, per fa sola
colpa di un boccone goloso, fu esiliato dal Paradiso delle delizie in questa valle di lagrime,
spogliato di tanti doni soprannaturali che aveva e dopo essere stato condannato a morte: dopo
di aver visto annegato il mondo per i peccati e liquefatte in fuoco le città della Pentapoli; dopo
di aver visto che i sediziosi contro Mosè (Num. 16) furono inghiottiti dalla terra con tutti i loro
figli, le loro famiglie e sostanze, scendendo vivi all'inferno; dopo di aver saputo che si sono
dannati tanti uomini; il peccare dopo tutto questo è un peccare con una svergognatezza
giammai vista ed un disprezzo intollerabile alla giustizia divina. Qual disprezzo maggiore della
giustizia umana potrebbe dimostrare un ladro che rubando mentre un altro ladro già si trova
ai piedi del patibolo e alla vista dei carnefici? Ora, come si fa questo con la giustizia divina,
giacché il peccatore alta vista di tanti castighi ardisce ancora di peccare?

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È inoltre grande disprezzo il vedere da tanti esempi di rigore, quanto dispiace alla divina sua
maestà il peccato e per conseguenza quanto sia male enorme la colpa e con tutto ciò osare di
commetterla. Chi non resta attonito, anche se non ha altro principio per conoscere la gravita
di una colpa mortale, vedendo che per una sola l'Angelo cadde dal cielo spogliato di tutte le
sue virtù, grazie e doni e fu condannato al fuoco eterno e che Adamo fu cacciato dal Paradiso e
il Figlio di Dio messo in croce per i peccati degli altri? Quale maggior disprezzo che dar gusto
al demonio invece che a Dio, posponendo il nostro Redentore a Satana e che, volendo Dio
avere l'anima nostra e pretendendola il demonio, il peccatore consegni la sua al demonio
invece che a Dio? Non si può immaginare modo più ingiurioso di danneggiare che questo,
quando in opposizione ad un altro più vile ed infame si pospone colui che è degno di ogni
amore ed onore. La maniera di peccare aggrava pure in quanto il peccatore perde con ciò i
beni eterni. Anche se colui che pecca non perdesse nulla, farebbe un oltraggio a Dio, nostro
Signore, ed un danno a se stesso; però peccare, pur vedendo che è tanto grande ciò che si
perde peccando, è un affronto maggiore.
Se si considera anche il quando pecchiamo non meno che dalle circostanze passate, si rileverà
la gravità dei nostri peccati. Peccano ora i peccatori, dopo di aver visto il Figlio di Dio
inchiodato sopra una croce, acciocché non peccassimo; quando abbiamo visto Dio tanto
buono con noi che si è incarnato per nostro bene, umiliandosi fino a farsi uomo e
assoggettandosi alla morte, e alla morte di Croce, per la nostra Redenzione e che ha istituito i
Sacramenti per nostro rimedio, principalmente quello del suo Santissimo Corpo che fu una
finezza di amore immenso. Peccare dopo di aver visto Dio tanto buono con noi, ed essendo
tanto

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obbligati al suo amore da finezze tanto incredibili, con cui ha procurato il nostro bene, è una
circostanza che dobbiamo ponderare molto nel nostro cuore per non offendere un Dio tanto
amoroso, Un cristiano che pecca si deve tenere per peggiore di un demonio, perché il demonio
non peccò con questa circostanza di aver disprezzato un Dio che avesse già versato il suo
sangue per lui o che si fosse fatto Angelo per lui e che gli avesse già perdonato qualche
peccato.
Quando peccarono quei della legge naturale, anche essi non videro il Figlio di Dio morto per la
loro salvezza, sì invece lo vide il Cristiano, onde egli meriterebbe che si facesse per lui un
nuovo inferno, come dice S. Agostino, e non vi è dubbio che i Cristiani meriterebbero tormenti
nuovi e maggiori di coloro che non hanno conoscenza di Dio, né hanno ricevuto tanti benefici.
Andando San Macario abate per l'eremo, trovò un teschio di uomo e, toccandolo col suo
bastone, l'udì parlare e gli domandò chi egli fosse. “Sono un sacerdote, rispose, dei Gentili che
in altro tempo abitarono in questo luogo e sto coi miei in mezzo ad un fuoco tanto grande che
sotto i piedi corrono fiamme per un grande spazio ed altrettante sopra le nostre teste”. "E vi è
luogo, replicò Macario, più tormentoso del tuo?”. "Sì, rispose il teschio, indicibilmente
maggiori sono i tormenti di coloro che stanno sotto di noi, i quali avendo conosciuto Iddio, lo
rinnegarono e non vollero far la sua volontà; questi patiscono laggiù pene molto maggiori”.
Queste sono le circostanze indicate da Tullio che tutte aggravano i nostri peccati; ma non
manca neppure quella aggiunta da Aristotele, cioè circa cui e sopra che cosa offendiamo Dio.
Sopra che cosa cade ardimento tanto grande, se non sopra cose che non ci importano, che,
anzi, sogliono danneggiarci, abbandonandoci ad un piacere che ci priverà

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della salute, dell'onore o delle sostanze, procurandoci molti giorni di dolore per un momento
di contento; sopra cose della terra che sono tanto vili e caduche e per esse perdiamo quelle
eterne; sopra beni del mondo falsi ed ingannevoli, brevi e passeggeri, per i quali perdiamo i
beni celesti?
Che diremmo, se un uomo uccidesse un altro per cosa di tanto poco conto, come è una
pagliuzza? Ora tutta la felicità del mondo in confronto ai beni del cielo non è più che una
pagliuzza, e per cosa così da poco siamo traditori di Dio e crocifiggiamo Gesù un'altra volta e
mille volte, quante volte pecchiamo gravemente.
In ultimo le nostre colpe si aggravano molto per la circostanza, contro chi si pecca. Oltre
l'essere Dio perfettissimo, sapientissimo, bellissimo, onnipotente, immenso, infinito, si
aggiunge che pecchiamo contro colui che ci ama infinitamente, che ci sopporta, che ci ha
colmati di grazie. Far offesa all'amico nemmeno le fiere lo ardiscono. Far male a chi fa bene lo
condannano le stesse bestie. Mira, che cosa sarà l'oltraggiare tu colui che ti amò più che la sua
vita, colui che ci fa ogni sorta di bene, acciocché tu non faccia alcuna sorta di male? Temi
questo Signore, riverisci la sua maestà ed ama la sua bontà, e non offenderlo più.
Questa considerazione, di aver peccato contro Dio, tanto buono, fece tanto peso a Davide, che
lamentandosi nel salmo della sua penitenza con voce di cuore e con lacrime vive esclamò:
“Contro te solo io peccai”. (Ps. 50) Sebbene peccò contro Uria e contro tutto Israele per il male
esempio che gli diede, gli sembrò tuttavia solo Dio l'offeso, per l'infinità del suo essere e
perché per questa parte cresce immensamente la gravità della sua colpa.

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Per ogni parte è aggravato il peccato, per ogni parte esso sputa veleno e, considerato da lutti i
lati, sembra sempre peggiore. Essendo sommo male, non ha lato per dove sembri un bene.
Tutto è mostro, tutto veleno, tutto è detestabile, tutto orribile, tutto male. Per questo merita
ogni male, e non è molto che si castighi con tormento eterno ciò che si oppone alla soavità
della santità infinita.

Il peccato è abominevole in se stesso.


Il peccato è tanto male, che lo è in molti modi. Non solo è male in quanto è disprezzo di Dio,
ma altresì in se stesso. Anche se non fosse Dio, o se Dio non s'offendesse per il peccato, è un
male abominevole ed orrendo ed è causa di tutti i mali, di modo che, messo in disparte che
esso è ingiuria a Dio, è maggiore di tutti i mali e causa di tutti gli altri.
Per la sola sua bruttezza che ha in se, i filosofi giudicarono che dovesse essere aborrito sopra
tutte le cose. Aristotele disse: “Meglio è morire, che far qualunque cosa contro il bene della
virtù.” I due insigni filosofi Seneca e Pellegrino, con più risoluzione, dissero: “Anche se sapessi
che gli uomini lo avessero da ignorare e che Dio lo dovesse perdonare, con tutto ciò non vorrei
peccare, per la bruttezza stessa del peccato. Per la medesima ragione disse Tullio che non
poteva capitare all'uomo cosa più orribile e tremenda del peccato. Perfino i filosofi che
negavano l'immortalità dell'anima e la provvidenza di Dio dicevano che per nessuna cosa si
deve commettere alcuna colpa.
Alcuni gentili compirono grandi atti di fortezza per

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non commetterla. Democle, come scrive Plutarco, (In Demetrio) per non consentire ad una
turpitudine, preferì essere cotto nell'acqua bollente.
Con ragione fu molto celebrata fra le matrone greche Ippo, la quale preferì morire piuttosto
che consentire in un peccato. Né fu minore l'orrore che ebbe per la turpitudine Verturio, il
quale soffrì carceri, flagelli e tormenti rigorosi per non peccare. Aborrimento uguale si vide
nel bellissimo giovane Spurina del quale scrivono Valerio Massimo e S. Ambrogio (De
Virginibus, lib. III) che, per non essere ad alcuno occasione di peccato, fosse pure di desiderio,
si fece molte ferite nel suo volto bellissimo, rendendosi deforme a costo del suo sangue,
acciocché nessuno per causa sua commettesse un peccato di pensiero. Tutti questi erano
gentili che non conobbero Gesù Cristo crocifisso dagli uomini, né videro l'inferno aperto in
castigo dei peccati, né fuggirono dalla colpa, in quanto è offesa di Dio, ma solo per l'enormità e
bruttezza che ha per natura sua.
Questa li spaventò, questa li atterrì, questa li fece patire carceri, tormenti, pericoli e morti per
non commetterla. Che cosa sarà ciò che deve fare un cristiano dopo aver visto il suo Redentore
morto, acciocché non pecchi e sapendo quanto Dio si offende per il peccato? Mille vite, mille
anime dovrebbe dare piuttosto che ingiuriare il Creatore e commettere ciò che cagionò orrore
agli stessi gentili e a cui si ribella la stessa natura.
Con ragione diceva quindi S. Anselmo (De Similitudinibus, cap. 190): “Se vedessi da questa
parte la vergogna del peccato e da quest'altra l'orrore dell'inferno, e fosse necessario di cadere
in una di queste cose, piuttosto mi metterei nell'inferno che commettere il peccato;

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preferisco entrare nell'inferno scevro di peccato che avere il regno dei cieli contaminato con
qualche macchia. Dovunque stia chi ha un male tanto orribile come la colpa grave, non lascerà
di essere miserabile, bruito e cattivissimo, perché come dice San Giovanni Crisostomo (Sermo
V de ieiunio) il primo male è l'esser male.
L'infermo incancrenito, sebbene il chirurgo non gli tagli le carni, non potrà a meno di vivere
col suo dolore; così, anche se Dio non castigasse il peccatore, non potrà a meno di avere il suo
male, la sua morte, la sua miseria, la sua bruttezza ed abominazione. Perciò dice S. Agostino:
Anche se potessimo fare che non venisse il giorno del giudizio, non per questo si dovrebbe
vivere male. (In Ps. 49)
Basta che il peccato sia abominevole in se, perché ne abbiamo ogni orrore. Questa mostruosità
miserabile della colpa, il Signore la volle manifestare in un mostro visibile ed avvenimento
raro di cui scrive il Villani. (IOAN. VILLANEUS, Lib. VIII, cap. 35)
Dice che Gasano, re dei Tartari, si sposò con la figlia del re di Armenia che era cristiana,
mentre egli era infedele. Dopo alcun tempo avendo dato alla luce un figlio che non pareva
uomo, ma un mostro orrendo, attonito ed alterato il re, comandò che morisse la regina,
trattandola come adultera. Ella molto sconsolata, vedendosi morire innocentemente, si
raccomandò a nostro Signore e per ispirazione divina domandò che battezzassero suo figlio
prima di ucciderlo. Lo fecero così e nel punto stesso si trasformò quel mostro in un bambino
tanto bello che, meravigliato il re, si convertì alla fede di Cristo con molti altri del suo regno,
riconoscendo in questo caso la bellezza della grazia e la bruttezza del peccato.

513

Se quel bambino, sebbene non avesse peccato attuale, né mortale, né veniale, per il solo
peccato originale che è senza colpa di volontà propria, sembrò tanto mostruoso, orrendo ed
abominevole, che saranno quelli che con la propria volontà hanno peccato mortalmente?
Questa bruttezza della colpa proviene dalla sua opposizione alla ragione, per cui, chi la
possiede, si rende più brutto di ogni bruttezza, più mostruoso di tutti i mostri e più morto
nell'anima che tutti i morti.
Si meraviglia Plinio della forza di alcuni raggi che consumando argento e oro nascosto in una
cassetta, lascino sana ed intera la copertura. Così è il peccato che brucia l'anima nascosta,
lasciando intero e sano il corpo; è questo un raggio che sale dall'inferno peggiore dello stesso
inferno procurando così, all'anima che tocca, fine tanto abominevole.

Conseguenze disastrose.
Ora che dirò dei mali che esso cagiona, senonché, anche se fosse in se stesso la cosa migliore
del mondo, dovrebbe essere aborrito più che la morte per gli effetti maledetti che produce?
Esso priva della grazia, esilia dall'anima lo Spirito Santo, le toglie il diritto al cielo, spoglia
l'uomo di tutti i suoi meriti, lo rende indegno della protezione divina, e condanna il peccatore
a tormenti eterni nell'altra vita e a grandi tribolazioni in questa. Non v'è peste, né guerra, né
fame, né infermità della vita a cui qualche peccato non abbia dato occasione. Così, coloro che
piangono sopra le loro fatiche, cambino le lacrime e piangano sopra la causa di esse, che sono
i peccati. Piangano sopra questi, di questi si lamentino; questi sono un male tanto grande che
per esso si dovrebbero versare tutte le nostre lagrime, né tutte le lacrime del mondo
basterebbero per rimpiangere sufficientemente uno solo.

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Non le versiamo dunque per altra causa.


Il medesimo Cristo nostro Redentore, quando lo portarono a crocifiggere, disse alle donne che
non piangessero sopra di lui, acciocché tutte le lacrime fossero per i peccati, i quali furono la
causa della sua morte e di tutte le pene e di tutti i mali. Onde disse: Non piangete sopra di me,
ma sopra i vostri figli, cioè piangete per le vostre opere cattive che sono causate dalla vostra
natura corrotta.
Finalmente il peccato mortale è una malizia tanto enorme che colui che lo commette merita le
pene dell'inferno, e per non commetterlo dovremmo patire mille inferni. Dovrebbe uno
entrare prima nelle fiamme eterne, piuttosto che peccare, perché dopo aver peccato, merita
che sia gettato in esse. Ciò che fu commesso, con nessuna pena si può compensare, ma merita
che si patisca tutta la pena per non commetterlo.
L'amore delle cose temporali facilita il cammino a questo mostro di malizia, perché con esso si
chiude la porta al desiderio delle cose eterne. Si consideri dove si debba inclinare il proprio
gusto e mettere il cuore. Ascolta il Savio che dice: “Il cuore del sapiente è nella sua destra e il
cuore dello stolto sia nella mano sinistra” (Eccle., X, 2). Il savio mette il suo affetto nelle cose
eterne, lo stolto nelle cose temporali, come interpreta San Gerolamo, il quale dice: Colui che è
savio pensa sempre al secolo futuro, che lo guida alla mano destra; ma colui che è stolto non
pensa se non al presente, che è posto alla mano sinistra. Gli amatori del mondo si troveranno
derisi quando vedranno che per causa dei loro peccati saranno messi al lato sinistro del Figlio
di Dio, Giudice dei vivi e dei morti, per essere dannati eternamente; gli amatori del cielo
gioiranno

515

quando si vedranno alla destra di Cristo per godere della gloria eterna.
L'abbondanza e la prosperità dei beni temporali suole essere ai più occasione maggiore di
peccato che non la moderazione di essi o la necessità. Perciò Cristo, Nostro Redentore,
consigliò a coloro che volevano seguirlo con più perfezione di rinunciare a tutto il mondo e di
strappare in tal guisa dal loro cuore ogni affetto di esso, potendo essere o essendo stata
occasione di peccato. Quando i Maccabei ricuperarono Gerusalemme ed entrarono nel
Tempio (1 Mac, IV) e videro profanato l'altare del loro olocausto, stettero grandemente incerti
sopra ciò che dovessero fare, se seguitare ad usare di quell'altare, essendo stato dedicato a
Dio, o se distruggerlo, per aver servito alcuna volta al demonio. Dice la Sacra Scrittura, che
accettarono un buon partito e fu disfare l'altare cavandone tutte le pietre e farne da capo un
altro.
E' questo un ottimo consiglio anche per noi: fuggire ogni occasione, dove si peccò e sradicarla
del tutto, perché, se per motivo di distruggere l'altare consacrato a Dio bastò ai Maccabei
l'aver in esso altri peccato, noi non dovremmo togliere l'occasione, nella quale, non altri, ma
noi stessi abbiamo peccato? E siccome tante volte hai peccato, avendo posto il tuo affetto nelle
cose temporali, dal medesimo cuore devi cavare, strappare e distruggere ogni affetto che non
sia delle cose eterne, e non solo hai da sradicare l'affetto dei beni della terra, ma dei medesimi
beni devi temere.

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LIBRO QUINTO

IL TEMPORALE E L'ETERNO NELLE LORO CIRCOSTANZE ESTRINSECHE

CAPITOLO PRIMO.

L'eterno è fine.

Il temporale è mezzo al fine.


Fin qui abbiamo parlato delle differenze e distanze che si trovano tra le cose temporali e le
eterne, confrontando le une con le altre e considerandole più nella loro natura e sostanza che
nelle loro circostanze estrinseche e relazioni con altre cose. Mettiamoci ora a considerarle
sotto quest'aspetto per convincerci che le cose della terra, da qualunque lato si considerino
sono molto disprezzabili e vili, mentre quelle eterne di gran peso e conto.

L'uomo è stato creato per Dio.


Vi sono molte cose, le quali, sebbene per se siano tenute per vili, acquistano stima fra gli
uomini per qualche loro rispetto o circostanza. Le cose temporali, sia per il loro essere, sia per
le loro relazioni e circostanze esterne, sono vilissime e degne di essere disprezzate dagli
Angeli. Tali devono essere anche fra gli uomini, giacché lo sono in se stesse. Esse sono vili,
essendo piccole, mutabili e caduche. Ma se anche fossero molto

517

preziose ed eterne, dovrebbero essere per noi molto disprezzabili, essendo mezzi e non fini,
esistendo esse perché ce ne serviamo e non perché le adoriamo o ce ne rendiamo schiavi,
essendo sceso sulla terra il Figlio di Dio dal cielo e morto, acciocché le disprezzassimo. Tutti
questi sono alcuni rispetti che rendono molto vile ogni bene temporale, anche se in se stesso
fosse molto prezioso e di molta stima.
Fra il temporale e l'eterno vi è dunque la grande differenza dell'essere uno fine e l'altro mezzo.
L'eterno è fine dell'uomo, mentre l'uomo è fine delle cose temporali. L'eterno è perché in esso
l'uomo abbia la sua ultima perfezione e felicità perpetua; ma le cose temporali esistono perché
egli ne usi solo in quanto può conseguire l'eterno. In tal guisa il temporale diventa mezzo e
l'eterno fine. In ciò vi ha una differenza e distanza grandissima. Il fine si deve amare per se
stesso, il mezzo non si deve amare, se non in quanto conduce al fine, per cui abbiamo da
sospirare all'eterno e da dimenticare ogni cosa temporale, se non è in quanto ci aiuta a
conseguire l'eternità. È questo un punto di somma importanza e perciò vi è ben ragione che lo
consideriamo.
Apri gli occhi e considera, perché nascesti in questo mondo. Tutte le cose hanno un fine per
cui esistono e quindi tu pure lo dovrai avere. Non stai nel mondo per nulla; per qualche cosa
fosti creato.
Apri gli occhi e considera per che cosa. Non distrarti da questo, perché ti perderai. Che
pellegrino vi ha che non tenga dinanzi agli occhi il luogo, dove ha da andare? Che artefice vi ha
che non si proponga alcuna idea da imitare nella sua opera? Come puoi vivere senza pensare a
qual fine ti diedero la vita? Sappi dunque che nascesti per Dio e per null'altro che sia minore
di Dio e per servire a Dio. Per questo Dio ti diede la vita, per questo si trasse dal non essere
all'essere e passasti

518

dal nulla ad essere creatura ragionevole, mentre rimasero nel nulla tante anime che avrebbero
servito Dio meglio di te.
Considera dunque ciò che gli devi per questo, che in sé racchiude due benefici incomparabili;
uno di averti creato, lasciando nel nulla molti altri migliori; l'altro di averti dato un fine
maggiore di quel che sia possibile immaginare; rifletti ciò che gli devi per questo. Per aver i
figli d'Israele passato il Mar Rosso, rimanendo annegati nelle sue acque Faraone e tutti i suoi
soldati, il Signore volle che si celebrasse questo beneficio eternamente. Mosè e tutto il popolo
lo ringraziò con canto di lodi grandi al Signore.
Considera quanto riconoscente devi essere tu per esser passato dal non essere all'essere,
rimanendosi un'infinità di creature possibili nell'abisso del nulla senza ricevere il beneficio
che hai ricevuto tu. Per altro simile favore che fece il Signore ai figli d'Israele nel passaggio del
Giordano, volle pure eterno riconoscimento. (JOS., IV) Acciocché rimanesse perpetua
memoria, comandò che in certa parte si collocassero dodici grandi pietre in testimonio e
monumento di quel beneficio segnalato. Non lasciar nell'oblio il beneficio della creazione con
cui il Signore ti trasse da ciò che non eri all'essere uomo ed al poter essere felice cui
raggiungere il tuo fine ultimo, per cui fosti creato.
Considera che, non essendoti dovuta la gloria per tua natura, Dio ti creò per sua misericordia
per goderlo; mentre ti avrebbe potuto creare per una perfezione e felicità naturale, ti creò per
quel fine soprannaturale. Altre creature egli creò per te, ma te non creò, se non per se stesso.
Non vi è creatura che abbia fine più nobile, non vi è Arcangelo, né Serafino che in questo abbia
vantaggio

519

sopra di te. Sappilo stimare e non voler perderlo, perché perderai te stesso.
Considera che obblighi hai per questo; per averti Dio creato, devi tutto te stesso a Dio e non
devi fare cosa alcuna se non per Dio, anche se non ti avesse creato per sé, né per il suo
servizio, ma ti avesse lasciato libero. Nella stessa maniera che un figlio deve rispetto e
riverenza a suo padre per averlo generato, anche se il padre non è il fine del figlio, così pure,
per il solo averti creato Dio, gli devi, in tutto quanto sei, rispetto e riverenza. L'agricoltore che
pianta un albero ha diritto a tutti i frutti dell'albero. Avendoti Dio creato per sé, non è minore
il suo diritto. Non v'è dominio più assoluto di quello che ha il fine sopra tutto ciò che si ordina
ad esso, come dicono i teologi e confermano i filosofi. Perciò disse il Marsigliese Ficino: Il fine
è come il signore più eccellente di tutte le cose, le quali come ministri e servi si riferiscono al
fine. Per questo l'uomo è signore delle altre creature corporali, perché è il fine di esse, anche
se esso non è il fine ultimo e sebbene non le abbia create. Dio, essendo fine ultimo dell'uomo,
ha il supremo dominio dell'uomo e di tutte le sue cose. Filone chiamò il fine la testa delle cose,
perché, come il principe, signore assoluto, è la testa del regno e di tutti i suoi vassalli, così
pure il fine è signore e capo di tutto ciò che ha relazione con lui.
Questa è la natura del fine: doversi a lui quanto si riferisce a lui. Siccome tutto quanto vi ha
nell'uomo è di Dio, non dovresti neppure muovere una mano, se non è per Dio. Un filosofo
chiamò il fine la causa delle cause; altri disse che esso tiene il principato delle cause. Ora, tu
devi a Dio ciò che sei, perché egli fu tua causa efficiente, gli devi anche ciò che sei in quanto
egli è tua causa finale. Questa obbligazione non si considera in quanto hai ricevuto il tuo
essere finito e limitato,

520

ma in quanto egli ti ha ordinato al tuo fine ultimo, che è l'essere divino, infinito e senza
macchia. Devi pure tutto al medesimo in quanto è Dio, onnipotente e causa efficiente di tutte
le cose, somma bontà e causa finale di esse avendole fatte tutte per questo fine. Che diritto hai
tu di operare cosa alcuna che non sia per Dio? Lo stesso Dio non opera, né opererà mai, se
non per questo fine. Il fine è causa delle cause. Come ti devi a Dio per essere Egli il tuo fattore,
ti devi a Lui per essere Egli il tuo fine, perché non sarebbe il tuo fattore se non lo fosse per
alcun fine, il quale fu la causa della tua creazione. Quanto quindi gli devi per la tua creazione,
gli devi pure per essere Egli il tuo fine.

La forza del fine soprannaturale.


Considera la forza del fine in tutto l'ordine delle cose: nelle cose naturali, artificiali e morali,
acciocché tu conosca quanto più forza abbia nelle cose soprannaturali. Essendo il fine degli
elementi il centro, che impeto avranno per raggiungerlo? Con qual forza cade una pietra
dall'alto e viene attratta al suo centro, urtando con tutto ciò che gli si pone dinanzi? Il fuoco,
per giungere alla sua sfera, vola sopra monti e precipizi. Ora, se le cose in tal modo cercano il
loro fine naturale, considera in qual modo devi cercare il tuo fine soprannaturale. Considera
quanto sia violentata una pietra sospesa nell'aria a un filo, quale sforzo fa, con quale peso
tende a cadere a terra, dove è il suo centro; con tutto quanto essa è, tende a questo centro;
sciolta che sia, senza ritardo alcuno e con somma velocità cade, senza deviare da una parte né
dall'altra. Questo ha da essere il modo con cui hai da cercare Dio, Nostro Signore. A Lui devi
anelare unicamente, senza aver inclinazione in altra cosa; con tutte le potenze della tua anima,
con

521

tutta la forza del tuo corpo e con tutti gli affetti del tuo cuore hai da cercarlo.
Hai da andare a Lui direttamente, senza deviare ad altra parte, né guardare a creatura che ti
fermi, ma urtando con tutto ciò che è temporale per finire in ciò che è eterno, per cui sei stato
creato. Una pietra, per arrivare diritta al suo fine non esita, né a cadere nell'acqua, né a
piombare nel fuoco, né a farsi a pezzi; neppure tu devi stare in forse, per giungere a Dio, se
cadrai nel fuoco o nell'acqua o nella perdita delle tue sostanze, dell'onore e delle stesse
membra del tuo corpo. Disse perciò il Salvatore: “Se ti scandalizza l'occhio, cavatelo, se ti
scandalizza il piede o la mano, tagliali, perché è meglio entrare nel cielo cieco o monco che
cadere nell'inferno con piedi e mani.” (Mt 5, 29) Le cose naturali non trovano quiete, se non
nel loro centro e la lancetta della bussola non si ferma, se non guarda a Nord. Neppure l'anima
avrà quiete, se non guarda a Dio. La causa di molte tristezze e tribolazioni è perché non
guardiamo all'eterno, né cerchiamo Dio. Si disinganni quindi il cuore umano, che non troverà
mai quiete, se non nel suo Creatore.
Venendo alle cose artificiali, che non sono aggiustate al loro fine, che cosa sono, se non un
abbozzo e una confusione disordinata? Se un pittore, senza proporsi alcuna idea, mettesse
delle pennellate su una tela, non caverebbe da essa che uno scarabocchio o una grande
confusione. Se, volendo dipingere un gran capitano non conformasse le figure a questo fine,
ma, invece di mettergli in mano la spada, gli mettesse un fuso, ne caverebbe un ritratto
ridicolo. Se uno scultore desse dei colpi in un pezzo di legno, senza il fine di far qualche statua,
non farebbe altro che stancarsi e perdere gli strumenti e il legno.
Questo fai tu quando operi senza guardare a

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Dio, senza cercare ciò che è eterno nelle tue opere. Della tua vita non faresti altro che uno
scarabocchio e finiresti col perdere te stesso e perdere le creature, delle quali non ti servi per
raggiunsero il cielo. Dio ti creò a sua immagine, acciocché tu perfezionassi questa medesima
immagine, facendola ogni giorno più somigliante al tuo Creatore. Ma lasciando di mirare a Lui
solo nelle tue azioni, non fai altro che un mostro e una confusione e cancelli l'immagine
divina. Finalmente, siccome tutto ciò che si fa nelle opere d'arte, senza conformarle al fine, è
tutto errore e perdizione, così pure quanto fai senza mirare a Dio, tuo ultimo fine, tutto è
errare e perderti. Considera a qual punto sei arrivato, essendoti tante volte dimenticato di Dio
ed allontanato dal tuo fine.
Ora, se guardiamo alle opere morali e alle azioni umane, nel non conformarsi al loro fine, che
sono esse, se non imprudenze e pazzie? Dimmi: che cosa è ogni pazzia, se non allontanare le
cose dal loro fine? Se uno, non volendo sentir freddo, si spogliasse e fuggisse dal fuoco, che
diresti di questo uomo, se non che è un pazzo? Ma io ti domando: In che cosa consiste questa
pazzia, se non nel non proporzionare le cose al loro fine? Ora non sei tu più savio quando,
volendo e desiderando il tuo bene, fuggi da Dio e non lo cerchi in tutto.
Questo è l'inganno degli uomini, come notò S. Agostino, che amando tutti la felicità, non
sapendola cercare come si deve, si rendono miserabili. Chi, se non un frenetico o pazzo da
legare, avendo grande sete, si sazierebbe di sale? Ciò fa chi cerca cose temporali per soddisfare
la sete del suo appetito, con le quali lo si irrita ancor di più. Ora, questa pazzia non consiste in
altra cosa, se non nel non aggiustare i mezzi al loro fine. L'assetato, per soddisfare la sete, non
ha che andare alla fonte di acqua; l'uomo, per raggiungere la

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quiete del cuore, non ha che da andare a cercare Dio; il divenirsi in creature, volendo con esse
soddisfare il proprio gusto, non è più che mangiar sale, con cui ravviva la sua sere e l'appetito
e si brucia le viscere.
Siamo tutti pazzi, se nelle opere nostre non miriamo a Dio, nostro Signore, conformando tutto
il resto a questo fine. Pazzo sarebbe colui che per accendere una lampada la riempisse di
acqua e senza aver una goccia di olio pretendesse che avesse da ardere. Tutta la sua pazzia non
è altro, se non perché accomoda una cosa che non è proporzionata al suo fine. Queste pazzie
commettiamo tutti i giorni, servendoci delle cose che non ci portano a Dio, cose che non
potranno accendere in noi il fuoco del suo amore, né sostentare il lustro e la dignità dell'anima
ragionevole.
Dalle cose dette nasce che tutto ciò che non si conforma al suo fine è degno di disprezzo e
mostruoso e inutile, per il che disse Davide: “Tutti declinarono”, (Ps. 13. 3) cioè tutti si
allontanarono dal loro fine che è Dio, e si sono resi inutili. Inutile e superfluo è l'uomo, se non
serve al suo Creatore o non lo serve in tutto. Meglio sarebbe per una cosa non essere, piuttosto
che esistere senza conformarsi al suo fine. Un agricoltore, avendo piantato un albero, perché
gli desse frutto, se non glielo porta subito lo strappa, giudicando essere meglio che non esista,
piuttosto che star senza il suo fine, e nel Vangelo si comandò di tagliare la ficaia che non
fruttificava.
Il fine dà il valore alle cose.
Questa forza della causa finale e tale che aggiustandosi le cose ad essa, ricevono da essa un
essere ed una stima maggiore. Una zappa ha il suo

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valore per il suo fine e l'agricoltore la stima e la compra col denaro; ma se la si desse ad un
pittore per dipingere un ritratto, non la terrebbe, perché inutile, nel suo laboratorio. Una
medicina amara al palato l'infermo la paga con qualunque denaro, mentre uno sano la
disprezzerebbe. Perfino un vaso immondo messo in un angolo può essere utile e si cerca, ma
messo in un prezioso scrigno sarebbe di scherno e lo farebbero a pezzi. Tanto importa
accomodare le cose al loro fine, che per basse e vili che siano, le rende degne di stima;
allontanandosi invece dal loro fine, sebbene salgano in valore fino alle nubi, lo perdono.
Considera ora come resterà l'uomo che non cerca Dio in tutte le sue cose, poiché egli solo è il
suo fine, al quale si deve conformare ed è un fine tanto alto. In due maniere si rende vile colui
che non lo cerca: l'uno, perché si allontana dal suo fine; l'altro perché si allontana da un bene
tanto alto e sublime. Si deve pur considerare che, come non vi è cosa, per vite che sia, che
conformata al suo fine, non abbia alcun bene e valore, così non vi è cosa, per preziosa che sia,
la quale, allontanata dal suo fine, sia di valore e di stima. Un assetato, che vuole bere, perché
si sta morendo dalla sete, più stimerebbe un poco di acqua di una pozzanghera, che tutti i
tesori del mondo, se questi non gli sono di utilità. Lisimaco stimò di più una brocca di acqua
che un regno. Da ciò segue che è il fine quello che dà valore e stima alle cose.
Apri dunque gli occhi e considera che non stai inutilmente nel mondo, che non fosti creato
senza perché e senza fine; un fine hai, che devi cercare; se non lo cerchi, vai a finire peggiore
di quando non eri; un fine hai e questo altissimo, il più grande che tu possa pensare e che
possa esistere ed è la gloria di Dio. Certamente, se anche Dio ci avesse creato unicamente per
servirlo, e non per goderlo, lo dovresti stimare molto. La regina

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Saba, quando venne a Gerusalemme e vide la grandezza del re Salomone, la sua prudenza, la
sua potenza e maestà, esclamò con grande meraviglia: “Felici i tuoi servi che stanno qui alla
tua presenza.” (III Reg.. X, 8) Ora, se questa regina prudente ritenne per felicità il servire a
Salomone, quale onore e felicità sarà servire a Dio? Ma quella infinita bontà non volle che il
nostro fine fosse il solo servirlo, ma che fosse pure il goderlo e farci partecipi della sua
medesima felicità e gloria.
In questo fine ultimo non solo sei uguale agli Angeli, ma partecipi di Dio stesso, il quale, come
non ha altra felicità, né fine, se non se stesso, così pure non volle che tu avessi fine minore che
lo stesso Dio, né altra felicità che quella del godere del tuo stesso Creatore. Per un gran bene
tu sei nato, perché fu per il solo sommo bene. Dice il maestro delle Sentenze (II Sentent.): “Per
questo Dio creò la natura ragionevole, perché conosca il sommo Bene, e conoscendolo ed
amandolo lo possegga e possedendolo lo goda. Dio creò gli elementi per la natura dei viventi,
le erbe per gli animali, gli animali per l'uomo, ma l'uomo per un fine che oltrepassa tutto il
creato. Non per un fine che si rinchiude nella stessa natura, ma per colui che è sopra ogni
natura: per un fine soprannaturale e divino.
Sappi stimare questo, ed avendo ricevuto tanto onore, non infamarti con dedicarti ad altra
cosa. Ben disse Dionigi Cartusiano (De Noviss., art. 56): "Essendo tanto grande la dignità
degli uomini, che furono creati per un fine tanto eccellente, per la felicità degli Angeli, per la
contemplazione chiara e gaudiosa del loro gloriosissimo Creatore, non è forse una grande
ingratitudine, viltà e pazzia degli uomini carnali e malvagi, che allontanandosi dal loro
Creatore e non

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curandosi di una felicità tanto grande, pongano la loro felicità nelle cose carnali, caduche,
vane, immonde e vili, cioè nei diletti della carne, nelle ricchezze della terra, nell'onore, nella
lode e gloria temporale, transitoria ed umana? Chiunque pecca, antepone la creatura al
Creatore e costituisce il suo fine in una cosa creata e caduca, legandosi più al creato che al
Creatore, il che è una grandissima ingiuria al Creatore, e disprezzo della felicità, per la quale
egli ci creò".
"Tieni sempre dinanzi agli occhi, che il tuo fine è ben più grande del mondo, fine che sta sopra
il creato, e questo è Dio solo. Considera che quanto maggiore onore è conformarsi ad un
Creatore, tanto eccellente, tanto sarà maggiore ignominia appartarsi da lui. Conosci dunque la
tua dignità e conservala; indirizza a meta tanto alta le tue opere ed i tuoi pensieri; vivi come
un Angelo, giacché Dio ti ha creato per il medesimo fine degli Angeli; procura di riempire i
loro seggi e di essere compagno della loro gloria. È un gran favore per la natura umana che,
pure essendo sostanza inferiore a quella angelica, la può uguagliare e sorpassare nella felicità
e nell'ordine del raggiungimento del proprio fine, in cui è tanto privilegiato da Dio. Acciocché
gli Angeli raggiungessero il loro Fine, Dio diede loro la sua grazia, conforme alla loro natura,
dandola maggiore ai più perfetti; ma agli uomini egli dà la sua grazia senza questa strettezza,
acciocché l'uomo, se vuole, possa essere più che un Angelo”.
“I filosofi antichi conobbero l'importanza del fine dell'uomo e andavano molto solleciti per
sapere quale era. Che ragionamenti non fecero, che dispute non tennero per mettere in chiaro
quale fosse, per conformare ad esso le azioni della vita? Dicevano, come di fatto è, che sarebbe
tutto un errare, se non si conoscesse prima il fine dell'uomo per indirizzare le azioni umane e
conformarle ad esso.

527

Così disse Marco Aurelio imperatore nella sua biografia: Stanno delirando coloro che non si
propongono una meta a cui indirizzare lutti i loro sforzi e pensieri.” (Philosophia, lib. II).
"Avendo poi riconosciuto che il fine era vivere secondo i dettami della natura, che non fecero
molti di essi per conformarsi ai medesimi, onde conseguirlo? Gli stoici, i cinici, lasciavano gli
onori, le sostanze ed i piaceri per accomodarsi ad una vita conforme alla ragione ed alla
natura, vivendo senza far del male a facendo del bene, confessando che ognuno dovesse
conformarsi in tutto alla virtù, e tutto questo si dovesse fare per quel fine naturale che essi
trovarono, del quale disse Filone (De Migratione Abrahae) queste parole: “Il fine che fu
celebrato dai filosofi migliori è il vivere secondo la natura. Questo si fa quando, entrando
l'anima nel cammino della virtù, essa va per le orme della retta ragione e segue Dio,
ricordandosi dei suoi comandamenti e osservandoli con fermezza nelle sue parole e nelle sue
opere.
Ora, se l'uomo deve tutto questo per il suo fine naturale, quali obblighi avrà per il fine
soprannaturale e per l'eternità? Antonino, il filosofo, giudicando che il fine dell'uomo fosse
vivere secondo la natura, qualificò come azione irragionevole il non conformarsi agli eventi,
sopportandoli con serenità d'animo, e disse che era questa una cosa tanto abominevole, come
un postema o una piaga del mondo. Che direbbe dei peccati gravi, con cui uno si allontana dal
fine che è sopra tutta la natura, e cioè Dio, l'autore della natura? Egli andava conformandosi
con ogni cura al suo fine. Continuamente andava pensando al fine per cui era nato; si
conformava ad esso, dando a se medesimo questi consigli:

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“Alla mattina, quando ti alzi con pigrizia dal sonno, tieni prontamente e alla mano questo
pensiero, che ti alzi per esercitare opere di uomo e per questo ti dirai: come è che ti alzi tanto
tardi per far ciò per cui nascesti e per cui venisti a questo mondo? Sei forse stato creato, per
restartene a giacere in questo letto ben caldo e coperto? Questa è certamente cosa gustosa: ma
nascesti tu forse per fare il tuo gusto ed il tuo diletto e non per lavorare? Non vedi le piante, gli
uccelli, le formiche, i ragni, le api, i quali tutti sono occupati nel loro ufficio e tu ricusi di
esercitare l'ufficio di uomo ragionevole e non ti disponi per ciò che conviene alla tua natura?
Confesso che è necessario alcun riposo, ma in questo la natura pose un modo, come al
mangiare e bere: ma tu ti spassi abbastanza e in ciò che devi fare, non giungi a ciò che è
ragionevole, restando arretrato. Ciò nasce dal fatto che non ti ami, perché ameresti pure la tua
natura e compiresti la sua volontà. Gli artigiani che amano e gustano la loro arte, si impiegano
in essa, senza tenere conto del diletto dei bagni o del mangiare. Tu non stimi tanto la tua
natura, quanto un tornitore o un rappresentante la sua arte, l'avaro l'oro e l'ambizioso la gloria
vana. Questi infatti, mentre possono accrescere ciò che amano lo preferiscono al sonno ed al
mangiare, mentre a te sembrano cose più vili le azioni dell'uomo capace di ragione e le
giudichi per meno degne di fatica”. (Phil., lib. II) Tutto ciò è di quell'imperatore che con la
considerazione del suo fine naturale esortava se stesso al compimento dei suoi obblighi.

La natura del mezzo.


Da tutto ciò che si è detto ne segue quanto sia la stima che devi avere dell'eterno, perché esso

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e cercare. A tutto ciò che è temporale non devi mirare per ciò che è in sé, poiché non nascesti
per esso, ma per l'eternità, per Dio, Nostro Signore.
Acciocché si veda meglio, come noi abbiamo da comportarci con ciò che è temporale e si
conosca meglio la differenza che vi ha tra il temporale e l'eterno, essendo questo il nostro fine,
e quello, quando molto, solo il mezzo, spiegheremo pure con molta brevità la natura del
mezzo, in quanto è mezzo, per non essere voluto e cercato, se non in quanto conduce al suo
fine. Per tutto questo ogni cosa temporale non ha ragione alcuna per essere cercata ed amata
dall'uomo, se non è in quanto lo porti a Dio, Nostro Signore. Non vedendo in essa questa
divisa, non l'ha da stimare, né da desiderare. Perciò il nostro cuore non deve attaccarsi a cosa
alcuna della terra. Come un soldato, quando è sano, non fa nessun caso delle medicine, perché
non ne ha bisogno, né servono per entrare nella battaglia contro il suo nemico, né, quando
infermo, si cura di mettersi le armi, poiché non gli servono per ricuperare la salute, così non
abbiamo da far caso, né cercare, né voler cosa della vita, se non in quanto ci porti a Dio,
tenendo il cuore staccato da tutto e non tenendo la nostra volontà altra ragione ed altro uso
delle cose, se non questa sola norma: se ci aiutano per la nostra salvezza.
Il pellegrino che vuole arrivare a qualche meta conserva sempre nella sua anima questa
intenzione e quando incontra due o tre strade non gli importa di più andar per una invece che
per un'altra, soltanto guarda di sceglierne una, quella cioè che va là, dove egli è destinato,
senza badare, se è quella di destra o quella di sinistra, se è quella che ha inciampi o quella che
è piana. Egli è indifferente per qualunque di esse, solo attende di sapere, quale è quella che lo
porta dove egli vuole andare e non ha altra ragione che questa per sceglierla.

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Con questa indifferenza abbiamo da stare per tutte le cose temporali; nessun bene abbiamo
da amare e nessun male da temere solo dobbiamo, staccati da tutto, amare ciò che ci porta a
Dio, sebbene ci dispiaccia, ed aborrire ciò che ci allontana da Dio, anche se ci piace. Se la
povertà ti porta a Dio, abbracciala con due mani e stimala; se le grandezze e le ricchezze ti
allontanano da Dio, calpestale coi piedi e disprezzale e gettale da te come veleno; se il
disonore e l'oblio degli uomini ti accresce la tua salvezza, sta quieto coi tuoi affronti; se l'essere
onorato ti fa dimenticare del tuo Creatore, aborrisci l'onore come la morte; se il dolore e
tormento ti fa simile al tuo Redentore, testimoniagli mille riconoscenze per vederti addolorato
e tormentato; ma se i piaceri ti rendono sconoscente a chi devi tanto, privati di ogni contento
della vita temporale per non perdere quello della vita eterna: insomma non hai da volere né di
aborrire male o bene della vita, se non in quanto ti congiunge con Dio o ti allontana da Lui,
che è il tuo fine ultimo.
L'unica guida che devi usare nel scegliere alcuna cosa è questa; se cioè li congiunge con Dio,
perché il mezzo non ha altra ragione per essere amato, se non in quanto congiunge al fine.
Tutto ciò che è temporale hai da disprezzarlo per se stesso, mentre devi stimare per sé solo ciò
che è eterno. Del temporale hai solo da servirti in quanto ti aiuta a raggiungere l'eternità e
basta, disprezzando tutte le creature ed apprezzando solo il Creatore per lui solo ed usando
delle creature che ti congiungono con lui.
Altra condizione del mezzo, è che non si ha da godere, ma solo da usare. Nel gaudio l'anima si
ferma e riposa, il che è proprio del fine, mentre nell'uso essa mira ad altra cosa da conseguire,
il che è proprio del mezzo. Supposto che non devi voler godere delle creature, non essendo
esse il

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tuo fine, ma solo di usare di esse, essendo esse tuo mezzo, in nessuna devi cercare altra cosa,
se non che, se ti possa essere di utilità per godere Dio, il quale è il tuo vero fine. Chi cerca il
temporale per se stesso e finisce per godere di esso, non arreca minor offesa a Dio che
cambiando tanto vilmente il suo fine, da lasciare l'Eterno per il temporale e il Creatore per la
creatura. Egli va tanto errato e stolto che, lasciando il suo vero fine, fa del mezzo fine ed
abbassa se stesso al disotto d'una creatura vile.
Da qui s'intenderà, come sia quella differenza delle cose che notano S. Agostino (De Doctrina
Christiana, cap. 22, 31, 32: De Civitate Dei. II, cap. 15; De Trinitate. II, cap. 10) ed altri teologi,
che alcune sono da godere, altre da usare. Delle sole cose eterne abbiamo da godere, mentre
delle cose temporali abbiamo solo da servirci e in nessuna maniera godere, prendendo di esse
solo quanto ci ha da aiutare per salvarci e nulla più. Così, dice S. Agostino, l'uomo non deve
godere né di sé, né di altra cosa, ma solo usarne, perché non deve amare per sé, né sé, né altre
cose, ma solo Dio, suo ultimo fine. Il medesimo Santo dice: “La vita viziosa degli uomini non
consiste in altro, che in usare male e in godere male delle cose: al contrario la vita lodevole dei
buoni è quella in cui si usa bene di questo mondo e si gode bene solo del bene di Dio.”
Da ciò stesso si chiarisce il dubbio che ebbero gli antichi filosofi, quali fossero i veri beni, la
qual controversia già si agitava fra gli uomini nel tempo di Davide, per cui in un salmo
domandò: “Chi ci mostrò i beni”? (Ps. 4, 6) Ora con le cose dette si risolve questo dubbio. Esse
rispondono a questa domanda:

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quelli sono i soli beni che ci congiungono con Dio, quelli soli sono i veri mali che ci
allontanano da Dio. Così dice S. Agostino: “Già non conosciamo altro male, se non offendere
Dio e non raggiungere ciò che ci ha promesso, né conosciamo altro bene, se non piacere a Dio
e raggiungere quello che ci ha promesso. Ora, che cosa abbiamo da dire dei beni e dei mali di
questo mondo? Che noi ci comportiamo con essi indifferentemente, perché, già levati dal
venire della nostra madre Babilonia, tenendoli per indifferenti, diciamo: “Come sono le sue
tenebre, così sono le sue luci; né la felicità di questo secolo ci rende felici, né la sua avversità
disgraziati”. Socrate disse che la somma sapienza è distinguere i beni dai mali, e Seneca
(Epist. 71) non seppe dar altra regola migliore per distinguerli e conoscerli che in ordine al
loro Fine, dicendo: “Tutte le volte che vuoi sapere ciò che hai da fuggire o da desiderare,
guarda al sommo bene ed al proposito di tutta la tua vita, perché con esso ha da convenire
tutto ciò che facciamo. E, conforme a quanto abbiamo detto così conclude: “Vi è un solo bene
ed è quello che è virtuoso: tutti gli altri sono beni falsi ed adulterini.” Eternamente godrai del
tuo Creatore; accontentati con questa speranza e non mettere il tuo gaudio nella creatura,
della quale solo ti è lecito usare.

L'uso delle cose temporali.


Devesi però avvertire molto che un buon uso delle creature per arrivare al Creatore è il
disprezzo delle medesime. Dio volle così facilitarti il conseguimento del tuo fine, da non
lasciarti mancare il mezzo, poiché la stessa mancanza di tutte

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le cose ti può aiutare. Nessuno deve affliggersi per le necessità di questa vita, poiché, anche se
gli mancasse tutto, non gli mancherà il mezzo per salvarsi. La stessa mancanza gli può servire
di mezzo, se il giungere a tale povertà che manchi di tutto, gli serve per ritornare a Dio, per il
che si potrà ritenere per il più fortunato del mondo; abbracci quindi la povertà, la necessità ed
il dolore con cento mani. Come si ha da disprezzare tutto ciò che non ci congiunge con Dio,
così si ha da stimare sopra ogni prezzo e stima tutto ciò che ci congiunge con Dio, anche se
fosse di pena, di dolore, di necessità e la stessa morte.
Se questo è il mezzo con cui ti puoi salvare, esso è degno di essere ben apprezzato. L'esser
mezzo della tua salute eterna è cosa tanto grande che lo stesso Signore, che è principio e fine
di tutto, non disdegnò di farsi mezzo, perché tu ti salvassi, incarnandosi e morendo per te e
rimanendo nel Sacramento Santissimo col suo Corpo e Sangue. Se Dio pose un mezzo tanto
efficace e tanto costoso a lui, acciocché tu raggiungessi il tuo fine, non esitare in accettare per
mezzo qualunque cosa che il senso aborrisca, per orribile che sembri alla carne, potendo tu
con essa assicurare di un punto di più la tua salvezza. Tienilo per paradiso e stimalo, sebbene
sia disonore ed infamia.
T'incammini per il cielo; questo è il fine della giornata di questa vita; non badare, per andar
sicuramente, a quel che ti possa costare. Chi deve compiere una giornata pericolosa, cerca in
essa la sicurezza possibile. Chi s'imbarca per le Indie, se può andare in una nave ben provvista
e forte, non s'imbarcherà in una tarlata e avariata. Cammina al cielo il più sicuro che tu possa,
e credimi che non vi ha imbarco più sicuro che la croce di Gesù Cristo, l'umiltà e la
mortificazione. In tutte le cose non vorresti tu avere il meglio? Or sappi che non hai cosa, la
cui bontà più t'importi che la bontà

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della vita; fattela buona e non ti contentare, se la puoi far migliore, né la puoi migliorare che
con imitare la vita del tuo Redentore nel disprezzo delle cose temporali. Sarà questo un mezzo
molto acconcio per conseguire la vita eterna a cui devi aspirare essendo nato per questa. Abbi
sempre dinanzi agli occhi il tuo fine, perché quante volte non lo mirerai, altrettante errerai e
sempre vi è grande pericolo nell'errare.
Molti paragonano questa vita ad un ponte strettissimo ed altissimo dove appena i piedi
trovano posto; se alcuno cade dall'alto va a finire in un precipizio profondissimo, dove lo
aspettano serpenti e dragoni i quali lo faranno a pezzi e se lo mangeranno. Ora, chi andando
di notte buia per tale ponte, non avendo altra guida, se non quella di una luce che si trovasse
dall'altro lato, s'arrischierebbe ad allontanare gli occhi dalla sua vista? Certamente non
farebbe un passo senza guardare alla luce. In tale stato siamo noi. La vita è un ponte stretto.
Per esso noi passiamo nella notte di questo mondo; non possiamo uscire felicemente da un
passo così pericoloso, se non tenendo fissa la vista al nostro fine, a quella luce divina che
illumina le anime; se manchiamo di guardarla, noi saremo rovinati. Non abbiamo da
allontanare gli occhi da Dio che è nostro fine ultimo, perché altrimenti saremo perduti.
In verità, dalla mancanza di questo ha origine ogni male e non può avere riposo, né pace la
virtù senza questo, poiché la vera pace consiste nel non cercare cosa alcuna, se non Dio e per
Dio.
In questo sta la libertà dei figli di Dio, cioè nel disprezzo del mondo, nella tranquillità
dell'animo e conformità con la volontà divina. Il fondamento di ogni virtù sta nel considerare
che non nascemmo, se non per servire unicamente al nostro Creatore. Il dimenticarsi di
questo, come fanno i malvagi, è un certo genere di ateismo, negando che vi ha un Dio, come
disse Davide, facendo

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altrettanto, come se non esistesse, vivendo con libertà di costumi, senza orazione e con
inquietudine dell'anima. A questi tre capi ridusse il Profeta i danni di coloro che non guardano
al loro ultimo fine e non si ricordano di Dio. A chi avrà invece questa mira ed attenzione a Dio,
accadrà tutto il contrario: sarà di buoni costumi, amante dell'orazione e avrà la pace
dell'anima. Come il ferro che abbia toccato la calamita non riposa, finché non guardi al Nord,
così un cuore non riposerà, finché non miri al suo Nord e fine ultimo, che è Dio.

CAPITOLO SECONDO.

Dal proprio conoscimento si può conoscere e l'uso delle cose temporali e il poco
caso che dobbiamo farne.

Ciò che è l’uomo.


Prima di passare oltre, voglio avvertire qui un punto di grande importanza ed è che per l'uso
accertato delle cose non basta conoscere esse ed il fine a cui servono, ma è necessario pure
conoscere le persone che hanno da usarle. Non basta che il saggio medico conosca le proprietà
delle medicine, se non conosce la qualità dell'infermo, il suo temperamento, le sue forze, la
sua età ed altre circostanze. Conforme a quel che è l'infermo si devono accomodare le
medicine. Così, poiché abbiamo dichiarato che il fine dell'uomo è l'eternità e che le cose
temporali possono soltanto essere mezzi per raggiungerla, indicheremo ora la qualità e lo
stato in cui ora sta l'uomo, acciocché conosca quale uso delle cose temporali più gli convenga.
Questa natura umana è ora di condizione ben differente da quando Dio la creò in principio e
la pose nel

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paradiso, perciò le converrà un uso ben differente delle cose temporali, un uso ben diverso da
quello che allora le spettava.
Se quindi vogliamo far buon uso dell'uomo e di noi stessi, e necessario conoscere e l'uomo e
noi stessi. Onde disse San Giovanni Crisostomo: “Chi non conosce l'uomo, non può servirsi
dell'uomo, chi non conosce se stesso, non può servirsi di se stesso”, (Oratio X de servis) e per
conseguenza di tutte le altre cose che gli spettano. Ma chi potrà giungere a questa conoscenza
di se stesso? È tanto difficile cosa, che il demonio pur sapendo quanto questo fosse utile agli
uomini, e pur desiderando egli tutto il nostro danno, ciò nonostante permise che Dione, per
accreditarsi come sapiente fra i Greci, facesse porre sul tempio di Apollo in Delfo questo
motto: Conosci le stesso, ed esortasse a questo, confidando nella sua grande difficoltà per cui
non lo raggiungerebbero gli uomini. Occorre infatti vera luce dal cielo per conoscersi. Ma
basandoci su quanta ci insegnano i Santi, procurerò di dire qui qualche cosa, per ignorarci di
meno.
Vi è da considerare nell'uomo ciò che è per sé e ciò che è per parte di Dio, ossia ciò che ha da
se stesso e ciò che ha ricevuto da Dio. Non può non essere che buono ciò che diede Dio, per cui
il meno che l'uomo possa fare è l'umiliarsi, mentre ha molto per non gloriarsi, essendo tutto
beneficio divino, ed avendolo ricevuto mentre non aveva nessun bene suo. Solo può
considerare che per la colpa di Adamo si è messo corpo ed anima in condizione peggiore di
quella ricevuta da Dio. Questa nostra anima trovasi piena di ignoranza e di debolezza per tutto
il bene e di altre mille miserie, che non ebbe allora, e questo corpo corruttibile,

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mortale, mentre prima era immortale e senza corruzione, ora è pieno di infermità e di miserie,
finché ritorneremo in polvere e cenere e vermi schifosi. Ma questo è il meno, per cui possiamo
umiliarci, perché è questo che abbiamo ricevuto da Dio, sebbene sia peggiorato per il peccato
della nostra natura, anzi è onore e altezza rispetto a quello per cui dobbiamo umiliarci e che
abbiamo da noi stessi.
Giungendo ora a parlare di ciò che possediamo di nostro, in due sole parole lo dichiarò il
concilio Arausicano dicendo, che da noi medesimi altro non abbiamo che menzogna e peccato,
cioè il nulla che fummo e la malizia che siamo. Siamo menzogna, perché ciò che è menzogna
non esiste e da noi abbiamo solo il non essere. Che cosa siamo da noi, se non tutto quanto ci
ha dato Dio? Togli ora da te tutto ciò che hai ricevuto e vedrai che non ti resterà, se non un
nulla; questo eri da te e ciò che è oltre a questo, lo ha messo il tuo Creatore e a lui lo devi ed è
suo: così non devi usarlo a tuo capriccio, ma per suo gusto. Considera quanto più ti devi
umiliare, avendo da te solo un nulla, più che per essere cenere e vermi. Quanto vi ha
dall'essere al non essere, tanto ti devi umiliare, più che per essere da te un nulla, che per
essere polvere e cenere. Dal non essere all'essere i filosofi trovano distanza infinita, non
essendovi alcuna proporzione; così non essendo nulla per parte tua, ti devi tenere
infinitamente da meno che polvere e cenere.
Non eri nulla, non hai essere alcunché di tuo, neppure il poter operare è da te, perché nessuno
lo potrebbe, se Dio non fosse. Molta ragione hai per umiliarti; questo tuo nulla e un pozzo
senza fondo, che non potrai mai esaurire e per questo devi essere umile. Ma ancora esso non
ha paragone con ciò che sei dopo aver peccato. Qui uomini santissimi hanno perduto il
coraggio e coloro ai quali nostro Signore ha mostrato ciò che sono,

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sono rimasti pieni di spavento ed alcuni né sarebbero morti, se non fossero stati confortati
dalla mano divina. Per aver peccato, sei tanto male quanto è il peccato stesso. Rammenta
quanta malizia infinita abbiamo detto che è nella colpa, quanta infamia, quanto orribilità,
quanta abominazione; tutta questa cade sopra chi la commise. Guarda con quanta ragione
disse il filosofo Dione che era difficile il conoscersi. Tanto è arduo il conoscere ciò che sei,
quanto è impossibile il comprendere tutta la malizia del peccato il quale, essendo sommo
male, in certo qual modo compete nella difficoltà del conoscersi con il Sommo Bene. Per
conoscere il peccato non vi avrà modo migliore che quello con cui si conosce Dio stesso.

Che cosa è il peccatore.


San Dionigi Areupagita insegna che alla conoscenza di Dio si può arrivare per una di queste
due vie; o per affermazione o per negazione. La prima è affermando ed attribuendo a Dio
quanto vi ha di buono e perfetto: la seconda è negando a Dio quanto vi ha di buono nelle
creature per essere la perfezione in Lui sopra tutto questo. Ora nella stessa maniera si può
procedere per conoscere il peccato mortale: o per affermazione attribuendogli tutto il male
che vi ha in tutte le cose o negandogli questi mali, essendo la malizia del peccato di altro
genere, più enorme e sopra ogni male. Conforme a questo, immagina quanti mali hai visti,
uditi, letti ed immaginati; unisci tutti, sarà il peccato mortale un male tanto grande come tutti
essi? Certamente che una colpa grave sola è più che tutti questi. Si possono attribuire al
peccato tutti i mali, perché esso è causa di tutti. Sarà il peccato un male tanto grande come le
disgrazie di Giobbe, come la peste che avvenne in tempo di Davide, come i tormenti che
diedero Falaris, Nerone e Diocleziano? Sì certamente, la sua malizia

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uguaglia a tutti questi e li sorpassa. Sarà tanto male come tutte le afflizioni che patirono coloro
che furono annegati nel diluvio e bruciati vivi nelle città della Pentapoli e passati a coltello in
Amelet e morti di fame nell'assedio di Gerusalemme? A tutto questo uguaglia una colpa sola e
lo sorpassa. Sarà tanto male un peccato quante pesti sono passate dalla creazione, quante
guerre avvennero, quante carestie si sono succedute, quante infermità si sono patite, quanti
tormenti furono dati, quante pene si sono sentite e quante morti di uomini sono avvenute? A
tutto questo uguaglia la malizia di una colpa e lo supera ancora. O santo Dio, che mostro di
malizia è quello che equivale a tutti questi mali! Dove avrà fine tanta malizia? Dove troveremo
mali che gli equivalgano?
Certamente non li troveremo sopra la terra, perché quanti mali si sono succeduti e succedono
e succederanno nel mondo e in milioni di mondi, non uguaglieranno una sola colpa. Ma
giacché non troviamo mali sulla terra, a cui non ecceda il peccato, andiamo a cercarlo sotto la
terra e paragoneremo con questo i mali eterni. Entra nell'inferno e considera quanti tormenti
patiscono e patiranno in quelle fiamme eterne i demoni e gli uomini, dal meno conosciuto dei
dannati fino a Lucifero e all'Anticristo, Guarda se vi ha alcun tormento fra tanti miserabili che
si uguagli in malizia a una colpa? Non lo troverai. Ma ti do licenza di unire tanti di quei
tormenti, quanti ti pare che potranno in ragione di male paragonarsi con un peccato e troverai
che a tutte queste malizie una colpa equivale e ancor le eccede.
Metti ora insieme tutti quanti i tormenti che patiscono tutti i dannati e confronta con essi la
malizia della colpa e troverai che non solo essa equivale, ma ancora li supera di molto.
Considera lo stridore dei denti dei dannati, il pianto inconsolabile, il fetore insoffribile, il
fuoco ardente che

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penetra nelle viscere e considera la pena eterna; ti sembrerà tutto questo un male grande,
incomparabile, immenso; eppure rutto il concetto del male che hai commesso, oltrepassa tutto
l'orrore che ti ha cagionato il peccato mortale e tutto lo troverai in esso. Ti mancheranno mali
e concetti di mali prima di mancarti la malizia, con cui il peccato supera ogni altro male. Così,
giacché per questo cammino non potrai conoscere quale sia la malizia di una colpa, la quale
non si può conoscere interamente per questo modo di affermazione e paragone, perché eccede
ogni confronto, proviamo di andare per via di negazione.
Sappi che il male della peste, della fame e della morte non è quello del peccato mortale,
essendo questo sopra ogni male, sopra ogni peste, sopra ogni morte. Sappi che il male di tutte
le povertà del mondo, dei disonori, dei tormenti non è il peccato mortale, perché questo è
sopra ogni povertà, sopra ogni disonore, sopra ogni tormento. Considera che il male delle
pene dell'inferno non è il peccato mortale, ma il suo male supera quello dell'inferno e quanto
male di pena vi ha in esso. Questo non ti sembri molto, poiché non solo il peccato mortale, ma
bensì anche il veniale è in sé male maggiore del fuoco dell'inferno e quanto vi ha di pena
nell'inferno e fuori di esso.
Considera che la bruttezza del mostro, che l'abominazione del nauseante, che l'infamia del vile
non è il peccato mortale, ma questo è sopra ogni bruttezza, sopra ogni abominazione e sopra
ogni infamia. Pensa che quanti atomi vi hanno nell'aria, quanta arena nel mare, quante erbe
nel campo e stelle nel cielo, siano alcuni mostri e corpi bruttissimi e di tutti essi fa un mostro e
una bruttezza sola: sarà questo il peccato mortale? Non è questa bruttezza, ma è sopra ogni
bruttezza e sopra ogni orribilità. Non ti spaventi di questo, detto di una colpa grave, perché già
quella lieve è

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maggior deformità e bruttezza di quanta può esserci in tutti i corpi del mondo. San Dionigi
dice di Dio che è sopra tutto bello e buono, essendo la sua bellezza e bontà di un altro genere
superiore. Così pure si può dire che il peccato è sopra ogni altro brutto, sopra ogni altro
deforme, orribile, abominevole e sopra ogni altro male. Esso è più che tutta la bruttezza,
abominazione e malizia, con tanto eccesso che, in paragone della colpa, in nessuna maniera è
brutto, né deforme, né male tutto quanto vi ha di male e di bruttezza nel mondo.
Si conosca dunque ora il peccatore e conosca quanto è da sé per aver peccato, cioè un mostro,
brutto e sopra ogni altro abominevole. Come colui che ha bianchezza è tanto bianco, quanto è
bianca la bianchezza, così pure colui che ha peccato è tanto orribile ed abominevole quanto è il
peccato. Consideri dove dovrebbe sprofondarsi con tale mostruosità ed abominazione e come
deve aver nausea ed abominazione di se stesso. Certamente che se si fosse affondato
nell'inferno, non troverebbe ivi tormento peggiore di lui stesso e se si affondasse nell'abisso
del nulla, sarebbe più onorato che nell'abisso della malizia della colpa.
Consideri quale egli è, abominevole ed abominevolissimo ed orribilissimo mostro di bruttezza
e mostruosissimo. Consideri se stia bene che si serva delle creature, come uno che se ne
potrebbe servire stando nello stato dell'innocenza, senza aver mai commesso peccato. Guardi
se sia bene che creatura tanto infame, se uomo tanto abominevole usi delle cose per suo
diletto, per sua stima, per suo onore e fasto.
Anche l'imperatore Marco Antonio, il quale essendo il signore del mondo, riceveva da tutti
grandi onori e, con la poca luce che egli, ancor gentile, ricevette, si sentiva tanto degno di
disprezzo, da dire a se stesso: “Trattati con ignominia, o uomo, e deprezzati, tu che non lui
tempo per onorarti.

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È prodigio vedere un uomo che sta nel peccato, che voglia essere rispettato ed onorato;
prodigio è che chi ha commesso una colpa abbia a lamentarsi di alcuna pena di questa vita e
voglia aver diletti. Colui che è infamia del mondo, perché ha da cercare onore? Colui che è
stato traditore del suo Dio, perché ha da cercare diletto? Colui che meriterebbe di stare
nell'inferno per una eternità, perché deve essere scontento di una breve infermità o necessità
in questo mondo, dove può salvarsi e gli può servire di mezzo questa medesima necessità?
Sappia chi ha peccato, che non gli conviene aver l'uso delle creature, come chi fosse innocente:
non ha da desiderare onore, se non quello di Dio; non ha da cercare comodità, ma solo la
garanzia della salvezza; non ha da pensare ai piaceri di questa vita, ma solo alla penitenza che
deve fare.
Oh se uno si conoscesse! Quanto differentemente guarderebbe i beni del mondo! Li
guarderebbe come cosa altrui, che non gli spetta e se non la disprezza, non fa per lo meno caso
di essa, come di cosa che con lui non ha che fare. Lo stesso Figlio di Dio, solo perché prese
forma di peccatore, essendo egli la Santità infinita, non usò dei beni di questa vita, anzi
abbracciò tutte le fatiche, amarezze e pene di essa. Ora colui che è peccatore in tutta verità e
realtà, perché ha da cercare onori e diletti?
Sappia che i mezzi da usare Gesù Cristo stesso ce li insegna; e sono la penitenza, la
mortificazione e la croce. Se il divin Redentore prese sopra di sé i peccati altrui e non usò della
comodità di questa vita, né dei beni temporali: colui che ha peccati propri, come si lagna
quando non ha comodità e cerca, beni della terra colui che ha in sé male maggiore che
l'inferno stesso?
San Francesco Borgia, grande spregiatore del mondo e di se stesso, era felice in ogni

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tribolazione e mancanza di cose temporali; e fuggendo dai gusti e cercando fatiche e


sembrandogli anche nella maggiore necessità che tutto gli sovrabbondasse, meravigliava tutti
nel vederlo tanto povero e le molte incomodità che pativa nei viaggi, quando andava visitando
i collegi della Compagnia nella Spagna. Sorpreso da questo fatto, un cavaliere gli disse che,
essendo stato signore tanto grande, poteva fare a meno di patire tanto durante i suoi viaggi. Il
servo di Dio gli rispose che non si preoccupasse, perché portava sempre dinanzi a sé un
cameriere che gli preparava compitamente tutto e che questo cameriere era la conoscenza di
se stesso, con la quale gli sembrava tutto superfluo, sebbene mancasse anche delle cose
necessarie.
Dio ci aiuta a raggiungere il nostro fine.
Oltre a ciò, il peccatore deve considerare che ha bisogno di Dio, che lo aiuti a risorgere dalla
sua miseria o se ne è uscito, acciocché non permetta che ricada in essa. Per questo non è buon
mezzo cercare il fasto del mondo, né le ricchezze della terra, né i diletti della carne, ma bensì il
digiuno, il cilizio, l'umiliazione e la penitenza. Si ricordi che per sé è nulla e sopra il nulla ha
aggiunto il male del peccato. Essendo un nulla, non può nulla di bene, ed avendo peccato, ha
disobbligato chi lo può aiutare a raggiungere il bene, per cui ha da chiamare il Signore perché
lo aiuti con preghiera ed ansie moltiplicate. Non ha l'uomo da sé se non menzogna e peccato,
due abissi orrendi e profondissimi. Imiti Davide, il quale disse che dalla profondità chiamava
il Signore. Da quale altra profondità, se non da queste due del nulla e del peccato, le quali non
hanno fondo, né in esse il piede trova dove poggiarsi?
Si conosca ciò che è e dove sta chi una volta offese il suo Creatore. Chiami, preghi, gema dal
suo nulla e dal profondo della sua miseria, perché

544

Dio l'ascolti. Non è buona preparazione per chi deve domandare misericordia e star nello stato
di penitente, servirsi del superfluo, occuparsi di vanità, gustare del mondo, godere delle
creature e cercare grandezze. Sebbene fosse lecito usare delle creature alla natura umana
integra, non corrotta dal peccato, non conviene però che il peccatore ne usi ora; si consideri
come reo, avendo offeso la divina maestà e come uomo miserabile.
I filosofi consideravano la natura non nello stato caduco del peccato, ma come doveva essere
in sé, misurando le virtù con questa regola, e così non conobbero la virtù dell'umiltà, né
praticarono la virtù della penitenza. Ritenevano per virtù di magnanimità, costanza e
magnificenza tali atti che ora si possono ritenere per vizi, mentre erano ritenute per virtù dagli
stoici e peripatetici. Ma, scoperta l'orribilità del peccato, la fiacchezza e miseria dell'uomo, s'è
cambiato lo stato delle cose, l'umiltà ha da stare perfettamente nell'anima nostra e nel corpo e
si devono correggere molti atti di altre virtù.
Per raggiungere il nostro fine abbiamo da scegliere mezzi differenti da quelli che scelsero i
filosofi: primo perché il fine è differente e secondariamente perché sappiamo che il nostro
stato è differente da quello che essi pensavano. Il fine dei filosofi fu solo quello naturale di una
felicità di questa vita. Essi pensavano che lo stato attuale era della natura pura, senza la
vergogna del peccato. Giudicavano pure di avere forze proprie per il bene; ma in tutto questo
essi s'ingannarono. Non fa quindi meraviglia che insegnassero alcuni mezzi per conseguire il
loro fine, differenti da quelli che deve usare un cristiano, il quale sa che il suo fine ultimo non
è naturale, ma soprannaturale, che non è di questa vita, ma dell'altra. Il suo stato non è quello
della natura integra e sana, ma di quella corrotta e disonorata dal peccato.

545

Da sé egli non ha forze, né efficacia per compiere bene alcuno, se non le ottiene dalla grazia e
misericordia di Dio. Con questa diversità e differenza non è meraviglia che il cristiano, il quale
conosce ciò che ha del suo, abbia da usare dei mezzi e delle virtù che non conobbero i filosofi,
che essi anzi tennero per vizi. Non è molto che essi ritenessero alcuni atti virtuosi per vizi,
perché molti atti che ritennero per virtù, non furono se non vizi. Aristotele, il principe della
filosofia naturale e morale, non riconobbe per virtù l'umiltà, la povertà e la penitenza, anzi
condannò quest'ultima per insensibilità e per uno dei vizi contrari alla temperanza. Anche gli
Stoici tennero per vizio la misericordia.
Ma dopo il Vangelo di Gesù Cristo queste virtù sono le più raccomandate e necessarie e
dovranno essere i mezzi di cui più dobbiamo servirci per conseguire il nostro fine. Tutto il
disprezzo delle cose temporali consiste in quelle tre virtù che non conobbe Aristotele, perché
non conobbe se stesso: con l'umiltà si disprezzano gli onori; con la povertà le ricchezze; con la
penitenza i diletti. Chi volesse far uso profittevole delle cose temporali e raggiungere l'eternità,
conosca se stesso, si umilii come peccatore e faccia penitenza; non si curi di raggiungere
ricchezze, anche se le tenesse per beni, poiché si ha da tenere per indegno d'ogni bene. Questi
però sogliono stare tanto lontani dal far bene che a molti innumerevoli essi hanno chiusa la
porta ai beni eterni, ai quali unicamente dobbiamo aspirare, confidando, non nelle nostre
forze, ma nella misericordia divina e nel Sangue di Gesù Cristo.

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CAPITOLO TERZO

L'Incarnazione del Figlio di Dio ci convince della stima dei beni eterni.

Dopo tutte le cose dette, l'Incarnazione e Passione di Gesù Cristo ci mostra una differenza
incomparabile tra ciò che è temporale e quello che è eterno. Il conseguimento dell'eternità è di
tale importanza che per questo si incarnò il Figlio di Dio. Che disprezziamo ogni cosa
temporale è d'importanza tanto grande, che fu necessario che il nostro Redentore patisse e
morisse, Non so con che cosa si possa formare concetto più grande della grandezza dell'uno e
della viltà dell'altra, se non con questi estremi che fece Dio. Sebbene brevemente, pure diremo
qualche cosa su questo argomento, incominciando dalla meravigliosa e stupenda opera
dell'Incarnazione.

Lo stato miserando della stirpe umana.


Gran cosa è l'eternità, poiché, per risparmiarcene la perdita, Dio operò tale eccesso e fece tale
dimostrazione che spaventò gli stessi Angeli. In ciò considereremo quattro cose: la grandezza
dell'opera, il modo con cui si eseguì, i mali dai quali per mezzo di essa fummo liberati, ed i
beni che con essa guadagnammo.
Per dir qualche cosa della grandezza dell'opera si ha da supporre lo stato in cui giaceva la
stirpe umana, che era il più miserabile, infame, abominevole vergognoso e disperato che si
possa immaginare. L'uomo era prigioniero del demonio, disonorato col peccato, condannato
alla pena eterna nemico di Dio e senza speranza di rimedio, tanto che gli stessi Angeli più alti,
i Serafini, non

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arrivarono a capire che, salva la giustizia divina, fosse possibile a l'uomo uscire da quello stato
miserabile e vergognoso. Anche se tutti gli uomini del mondo patissero mille morti e tutti i
cori degli Angeli buoni si offrissero in sacrificio e patissero i tormenti dell'inferno, non
darebbero soddisfazione sufficiente per un solo peccato mortale; di modo che era impossibile
un rimedio creato. Anche se Dio avesse fatto di nuovo creature più eccellenti e sante dei
Serafini più alti, non si sarebbe trovata in tutte insieme una sola che potesse placare la
giustizia divina adirata contro l'uomo, né tutte insieme sarebbero bastate. Ora, qual rimedio là
dove non si trovava? Che speranza si poteva avere dove tutto era disperato? Certamente dal
creato era impossibile, e non si conosceva possibile da parte del Creatore. E quand'anche si
fosse creduto possibile, chi poteva sperare che desse soddisfazione dell'ingiuria colui stesso
ch'era l'offeso e che il creditore pagasse il debito che doveva esser pagato dal debitore? Che
speranza dunque poteva esserci di rimedio, dove si disperava di ogni rimedio, così che né la
terra, né il cielo sperava?
Opera difficilissima era la Redenzione dell'uomo, poiché non si poteva dare da creatura
alcuna, né si sapeva che si potesse dare dal Creatore stesso. Un solo rimedio che vi aveva, era
nascosto in Dio solo, il quale, senza venire meno alla sua misericordia, lo poteva occultare, e
questo a gran costo dello stesso Dio, a costo dell'opera più grande che potesse compiere la sua
onnipotenza, dove si esauriva il resto di tutto il suo potere e sapere. Ma chi poteva pensare ad
un'opera tanto grande da eseguirsi in favore del suo nemico, e che sembrava esaurire la sua
onnipotenza, per colui che fu traditore del suo Signore? Vi era solo questo mezzo, che Dio si
facesse uomo, l'opera più grande e stupenda che è possibile, ma non immaginabile.

548

Ma chi avrebbe creduto che questa si dovesse compiere per una creatura tanto vile com'è
l'uomo, e che, composto di un poco di terra, non può meritare uno speciale riguardo di Dio? È
questa tale opera che si poteva riservare per quando per lo stesso Dio fosse in pericolo la sua
divinità o salvezza o vita, se ciò potesse succedere (sia lecito parlar così per spiegare ciò che è
inesplicabile e far capire questo mistero ineffabile e questa bontà incomprensibile); ma
compiere un'opera tale per la vita di un traditore, per la salvezza di un mancatore di parola,
per dar la gloria a un nemico, chi se lo sarebbe aspettato, chi avrebbe osato immaginarlo?
Se l'uomo, diportandosi con Dio da amico realissimo, non avesse curato di gettarsi nello stato
miserabile, dove egli era, per difendere l'onore divino, sarebbe forse stata temerità scusabile il
lasciarsi venire in mente che Dio per gratitudine si appigliasse ad ogni mezzo per liberamelo;
ma che avendo tolto l'amore a Dio e volendo diventare uguale a lui e disprezzandolo, Dio si
umiliasse, per lui si disfacesse fino a farsi uomo per l'uomo suo nemico, chi lo avrebbe
pensato? Ora questa è la bontà di Dio, che coi suoi benefici vince le nostre speranze, facendo
per noi ciò che, fatto per sé, sarebbe la maggior cosa che si potesse fare. O stupendo amore di
Dio! Oh immensa carità del Creatore, che giunse ad amare tanto l'uomo che non esitò a fare
per lui quanto poté! Oh bontà ineffabile, che volle pagare ciò che gli doveva il suo nemico! Oh
nobiltà divina, che ad ogni costo volte far bene a chi aveva fatto tanto male contro di lui! Oh
rara risoluzione del Creatore di volere incarnarsi per l'uomo che gli fu traditore, senza badare
a cosa alcuna! Redimere l'uomo suo nemico senza farglielo costare nulla, ma a gran costo suo,
chi lo immaginerebbe? Ma i pensieri di Dio sono molto diversi dai pensieri degli uomini.

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La sublimità dell'opera dell'incarnazione.


Vediamo ora quanto questa opera sotto molti aspetti sia stata grande essendosi umiliato Dio
stesso. Fu tutto a costo suo, ed in sé è opera tanto grande che è il colmo che poté fare
l'onnipotenza divina. È qui dove si esaurirono gli attributi divini. Dice S. Agostino che Dio non
poté far opera più grande, né seppe determinarla migliore. Qui si toccò il fondo di tutta
l'onnipotenza di Dio, perché non è possibile, né immaginabile opera che possa essere
maggiore. Come non è possibile cosa maggiore di Dio, così non è possibile opera più grande di
quella per cui l'uomo è Dio. Considera ciò che devi per questo. Essendo tu suo nemico, egli
fece per te quanto poté la sua onnipotenza, quanto seppe la sua sapienza, e quanto poté la sua
bontà ed il suo amore. Il Creatore impiegò tutti i suoi attributi per il tuo bene. Impiega tu tutte
le tue potenze nel suo servizio. Dio fece quanto poté per te; fa' tu quanto puoi per Dio.
Dio compì l'opera della tua Redenzione con tutte le sue forze e con tutta l'onnipotenza; tu pure
opera con tutte le tue forze secondo il suo beneplacito e secondo la sua volontà, amandolo e
servendolo in tutto. Non vedi qui dinanzi agli occhi patente e manifesta la sua infinita bontà e
svelato il suo amore? Che esiti ad amare con tutte le tue forze e potenze Colui che ti amò con
tutta la sua onnipotenza? Guarda che amore! Per il suo nemico intatti fece ciò che per il suo
amico non avrebbe potuto far più grande, e, se in ciò fosse stata la sua gloria, neppure per se
stesso. Non vedi chiaramente la sua bontà infinita, la quale vinse tanta malizia infinita, non
permettendo che l'uomo avesse fatto contro Dio opera di malizia tanto mostruosa che Dio non
facesse per il medesimo uomo altra opera di bontà più stupenda, non volendosi la sua bontà
divina dar per vinta dalla malizia umana?

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Vide Dio che l'uomo fece un'opera tanto malvagia che in genere di male non era possibile
peggiore, non essendovi cosa peggiore di un peccato mortale, per cui la sua bontà decise di
compiere un'opera tanto buona che in genere di bene non fosse possibile migliore, e tutto
questo per te, maledetto. Che dici a questo proposito? Che dici dinanzi a tale eccesso di bontà,
dinanzi a tale estremo di amore? Ascolta ciò che dice l'Apostolo: “Se un tuo nemico avesse
fame, dagli da mangiare; se avesse sete, dagli da bere; facendo questo, ammucchierai carboni
accesi sopra la sua testa; non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene. (Rm.12, 20-
21)
Ciò compì con grande eccesso il Creatore per te, sebbene tu fossi il suo nemico. Datti dunque
per vinto e arrossisci perché non lo ami più degli Angeli. Il tuo stato non era quello soltanto di
patire la fame e sete, ma quello dell'eterna miseria e mancanza dei beni eterni.
Se dare all'offeso un pezzo di pane o un bicchiere di acqua al nemico bisognevole basta per
fargli salire i colori al volto, l'aver Dio nella sua carità e nel suo amore comunicato la sua
divinità all'uomo, non sono brage che si accenderanno?
L'aver data la vita sua stessa per colui, che gli era nemico, come non basta per farci
vergognare, arrossire ed accenderci del suo amore? Questi benefici tanto grandi non sono
brage, ma incendi che ti dovrebbero accendere per amarlo col fuoco di amore vero e di carità
ardente. Datti per vinto, ama tale bontà; essendo tu la più malvagia di tutte le creature, egli
fece per il tuo bene l'opera più buona della sua onnipotenza. Datti per vinto dalla sua bontà,
poiché questa opera d'infinita bontà ha

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vinto l'opera di malizia infinita, compiuto dall'uomo. O nobiltà di Dio! O punto d'onore
divino!
L'uomo aveva vinto con la sua malizia ogni opera cattiva e buona, ma la bontà immensa non
volle consentire che vi fosse opera maggiore, anche in genere di male, che Dio non facesse per
salvezza dell'uomo traditore una maggiore in genere di bene. Perché, o Signore, non faceste
quest'opera, quando peccò l'angelo ch'era maggiore dell'uomo? Quale bontà è la vostra, che
aspettaste che peccasse la creatura più vile? Acciocché si mostrasse più grande la vostra opera,
aspettaste che l'uomo mostrasse il massimo di ogni ardimento e malizia, perché voi mostraste
il massimo della vostra misericordia e bontà. Chi non vede qui, o Signore, l'infinità del vostro
amore, l'immensità della vostra bontà?
In ogni maniera opera tanto buona annunzia la vostra bontà infinita, essendo per ogni verso
infinitamente buona e per altrettante porte ci apre la cognizione dell'anima, acciocché noi vi
adoriamo come infinitamente buono, perché questa opera non solo è infinitamente buona
nella sua sostanza, ma altresì in tutte le sue circostanze.
Essa è infinitamente buona per ciò che è in sé, non potendosi dare opera più buona di quella
che fece Dio tanto buono per l'uomo. Essa è inoltre buona in quanto in essa comunica la
divinità ad una creatura, anzi alla creatura più vile ed infame di quelle che sono capaci di
conoscere. Come è proprio della bontà il comunicarsi ad altri, così si vede qui l'infinita bontà
di Dio, poiché tutta quanta è, uscì da sé e si comunicò all'uomo. A chi non sorprende che la
stessa divinità comunicata dal Padre Eterno al Verbo eterno, il quale è Dio come Lui, questa
stessa divinità con un modo veramente meraviglioso si sia comunicata alla natura umana, la
quale era sua nemica? Oh pelago di bontà che così vi comunicaste per far del bene, senza
badare a chi!

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Che mare di bontà, che in tal modo inonda di beni perfino i propri nemici! Questa opera è
pure infinitamente buona in quanto con la sua bontà vinse ogni malizia, sebbene infinita, per
liberare colui che fu tanto malvagio da meritare pena per un tempo infinito.
È infinitamente buona, perché ci mostra Dio con volontà infinita di perdonare e di far del
bene al traditore più grande che meno lo meritava: essa ce lo mostra pure infinitamente
buono e perfetto in ogni virtù e perfezione, cosicché, perché nella sua giustizia non mancasse
un punto, volle prendere sopra di sé ciò che gli doveva un malfattore ingiusto e maledetto, e
volle umiliarsi e morire, acciocché un condannato alla morte eterna non si perdesse.
Non so se vi sia o possa essere altra cosa in cui si mostri Dio tanto esatto, completo e perfetto
in ogni virtù, se non in questa opera di tanta misericordia, di tanta giustizia. A chi non
recherebbe spavento la bontà, la santità ed esattezza di un sommo imperatore, il quale,
avendo grande voglia di perdonare al traditore, per non mancare un punto alla sua giustizia
inflessibile, egli si vestisse del medesimo abito del traditore e ne prendesse la figura, acciocché
lo giustiziassero pubblicamente in una piazza, e così non venisse giustiziato e mandato a
morte il traditore? A chi non spaventerebbe la somma giustizia e santità di questo principe e
d'altra parte la sua misericordia e bontà? Dio mostrò qui somma giustizia e santità, vestendosi
della forma di servo, facendosi uomo per essere giustiziato invece dell'uomo, acciocché vivesse
l'uomo. Oh Dio in ogni maniera infinitamente perfetto e buono, tanto scrupoloso si mostrò nel
non mancare alla sua giustizia e tanto largo e liberale nell'usare clemenza, essendo rigoroso
con sé per essere misericordioso con noi! O Dio infinitamente santo, infinitamente buono,
infinitamente

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esatto e perfetto in tutto! Vi lodino gli Angeli per tutte le vostre perfezioni, perché tutte sono
in voi infinitamente buone e complete.

Circostanze meravigliose nell'opera dell'incarnazione.


Si aggiunga a questo il modo tanto buono con cui si compì opera per tanti versi già buona, con
quale amore si operò e si desiderò il nostro bene! Come poté riuscire opera di tanta bontà, se
non da un vulcano di amore che ardeva nel petto divino? Se dall'effetto si conosce la causa,
l'amore che fece risolvere Dio ad operare con una fermezza tanto nuova e strana non poté a
meno di procedere da infinità di amore, né quest'amore infinito poté essere di altro che di un
essere infinitamente buono.
Oltre a ciò fu una prerogativa grande ed onore del genere umano che Dio volesse farsi uomo
piuttosto che Angelo, mentre avrebbe potuto liberare l'uomo senza farsi uomo. Col solo farsi
Angelo avrebbe potuto redimere gli uomini ed onorare gli Angeli, avrebbe comunicata la sua
bontà infinita alle sue creature ed avrebbe compiuta un'opera di degnazione e bontà infinita;
ciò non di meno, fu tanto delicato con l'uomo e tanto amante di noi, che non solo volle
compiere ogni estremo col redimerci, ma eziandio nel modo di redimerci. Non solo volle
redimere l'uomo, ma volle che ciò fosse per mezzo di un uomo. Per questo volle lo stesso Dio
farsi Dio-uomo e non Angelo, acciocché l'uomo non solo fosse redento, ma altresì onorato.
Inoltre egli ci obbliga a grande riconoscenza per il fatto che non solo volle onorare gli uomini
più che gli Angeli col farsi uomo, ma che volle redimere gli uomini e non gli Angeli. Questa è
una grande finezza verso la nostra natura, essendo stata preferita in questo a quella angelica, e
che non

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perdonando agli Angeli, nature migliori e più sublimi, abbia fatto tanto per perdonare agli
uomini. Si aggiunga che, quando l'uomo peccò e si perdette il genere umano, non rimase
nessun uomo giusto che avesse compassione di lui e pregasse per suo rimedio, ma quando
peccarono gli Angeli, rimasero altri che si dolsero della loro natura e sentirono la loro perdita;
con tutto questo Dio volle far questo favore agli uomini e non agli Angeli.
Anche il tempo della esecuzione di opera tanto misericordiosa non mostra poco le finezze che
usò un Dio con la nostra stirpe, perché fu quando il mondo stava più dimentico di Dio e
quando gli uomini trattavano di farsi adorare per Dei e coloro i quali non poterono far questo,
adoravano come Dio tali uomini che erano peggiori dei demoni, e proprio allora Dio trattava
di farsi uomo per l'uomo, il quale voleva farsi Dio. Questo amore fu tale che, mentre era più
offeso, si fece più benefattore e fine.
Vediamo ora quali beni Dio ci procurò con quest'opera. Certo è che se anche non ci avesse
fatto bene alcuno, bastava il liberarci dai mali in cui stavamo, liberandoci dall'ignominia del
peccato, dalla schiavitù del demonio e dall'orribilità dell'inferno.
Sono così grandi questi mali che, senza altro bene, si può tenere per sommo bene lo star liberi
da essi. Se anche non vi fossero mali dai quali liberarci, né beni da darci, il solo onore dato da
Dio alta nostra natura era un bene incomparabile. Ma unendosi a questo onore i mali tanto
tremendi e disperati, dai quali siamo stati liberati, che fortuna è stata la nostra vederci liberati
da tanta infelicità e vederci onorati con grandezza?
Scrive Giustino che vedendo Alessandro Magno che Lisimaco era ferito alla testa e che gli
scorreva molto sangue dalle ferite, si tolse il proprio diadema dalla testa e lo pose sopra quella
di

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Lisimaco per fermare il sangue. Fu invero un grande favore, che un principe tanto potente
abbia voluto curare un uomo particolare, come pure il modo stesso di curarlo, togliendosi dal
suo capo le insegne della sua maestà, dandole al suo vassallo. Ma questo fu semplicemente
prestato e non vi era la circostanza che Lisimaco avesse offeso Alessandro e si trattava di una
ferita causata da Alessandro stesso, perciò non fece molto col curarla. Che però la ferita
mortale del peccato, che si fece lo stesso uomo, offendendo Dio, l'abbia voluto curare lo stesso
Dio, onorando tanto l'uomo fino a coronarlo del suo stesso diadema comunicandogli la sua
stessa divinità per non toglierla mai più, che bontà è questa, che volle far tale favore al suo
nemico, onorandolo con tanta ricchezza, quando lo liberò da tanta miseria?
Ma se a questo si aggiungano i beni che ci guadagnò Gesù Cristo, dandoci la sua grazia,
innalzandoci ad essere figli di Dio e facendoci eredi del cielo, quanto immensamente crescono
i nostri obblighi per tale beneficio! Oltre ad essere liberi da tanti mali, siamo stati arricchiti di
tanti beni, oltre ad essere redenti da tanti danni e beneficati in tanti modi, siamo pure onorati
da Dio con tale finezza, quale non usò con la natura angelica.
Tutto è meraviglioso, tutto è grande, tutto è sommo ciò che si trova in questo beneficio
sommo. L'opera è somma in sé, sommo è il modo e l'amore con cui si eseguì, eterni sono i mali
dai quali ci liberò ed i beni che ci procurò, la cui grandezza, anche se non si potesse conoscere
per altra via, si può conoscere sufficientemente da questo che, per liberarci da tanti mali e
darci tali beni, fu necessario che l'eterno si facesse temporale e che opera tanto stupenda e
rara si eseguisse a suo gran costo.

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CAPITOLO QUARTO.

La viltà dei beni temporali si scorge dalla Passione e Morte di Gesù Cristo.

La grandezza delle cose eterne, sia dei mali, sia dei beni, ce la mostra, con chiarezza maggiore
di quella dei raggi del sole, l'opera dell'Incarnazione, la quale fu necessaria per liberarci dagli
uni e per conseguire gli altri. Non può essere che non siano cose grandissime quelle per le
quali Dio fece cose tanto grandi e mostrò tanta stima che non giudicò per male impiegata tutta
la sua onnipotenza, perché conseguissimo la felicità eterna. Ma nulla ci persuade di più della
viltà delle cose temporali e del disprezzo che di esse dobbiamo avere, quanto la Passione e
Morte del Figlio di Dio, la quale fu altra opera di amore, altra finezza di Dio, altra tenerezza
del nostro Creatore e grande eccesso della sua buona volontà. Da qui già vedremo quanto
degni di disprezzo sono i beni della terra. Acciocché infatti li disprezzassimo, il Signore del
cielo si privò di essi ed abbracciò tutti i mali di questa vita.

Gesù Cristo insegnò il disprezzo dei beai temporali.


Considera quanto degno di disprezzo sia tutto ciò che è temporale, poiché tanto lo disprezzò il
Figlio di Dio che chiamò spine ciò che dei suoi beni è il più desiderato e qualificò non solo per
beni, ma per felicità tutto ciò che il mondo aborrisce, favorendo tanto i poveri che mancano
dei beni di questa vita, da chiamarli beati e disse che di essi sarebbe il Regno dei Cieli, mentre
dei

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ricchi, che sono coloro che godono dei beni della terra, disse che era per essi tanto difficile
entrare nel Cielo, come l'entrare un cammello per la cruna di un ago.
Per convincerci di più di questo disprezzo della felicità temporale, non solo con parole, ma con
opere approvò i dolori di questa vita e disprezzò tutti i suoi beni. Per questo volle patire in
ogni genere di beni quanto si poteva patire. Patì nell'onore, essendo tenuto per infame; patì
nelle ricchezze, essendo spogliato dei propri vestiti, tanto da mancargli perfino un poco di
acqua; patì nei gusti, essendo fatto spettacolo di dolori e non avendo parte del suo corpo senza
dolore. È bene considerare questo, perché Io imitiamo in questo disprezzo che soprattutto si
mostrò nella sua Passione e Morte. Per questo vuole che sia sempre nella memoria, sia per
l'esempio che in essa ci dà, sia per l'utilità che ci cagiona, sia per l'amare che ci mostrò in essa,
essendo arrivato a dar la vita per noi morendo giustiziato pubblicamente con un genere di
morte tanto pieno di morti ed un tormento tanto pieno di tormenti e pene.
Essendo Tigrane, principe dell'Armenia, prigioniero di Ciro insieme con sua moglie, il
vincitore mangiò un giorno coi vinti. Domandando un giorno a Tigrane che cosa darebbe per
la libertà di sua moglie, rispose che non solo darebbe tutto il regno, ma la vita e il sangue. La
moglie pagò questa buona volontà a suo marito, perché, dopo essere stati restituiti al loro
stato antico, essendo domandata che cosa le fosse sembrata la maestà del re Ciro, essa rispose:
"Certamente non badai a nulla di questo, né posi gli occhi in altra cosa che in colui che mi
stimò tanto, da non esitare di dare la vita per il mio riscatto”.
Ora, se questa principessa fu tanto riconoscente alla sola volontà di suo marito, a cui non
toccò di metterla in esecuzione, da non porre gli occhi in

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altra cosa, né ammettere, né stimare la grandezza dei Persiani, che cosa deve fare la sposa di
Cristo, non solo per la buona volontà del Re del Cielo, ma per le opere tanto che, perché non
solo volle morire, ma morì per suo riscatto e la sua Redenzione?
In che altro deve porre gli occhi e il suo anello, se non in Gesù Cristo per il suo amore? Non
deve ammirare, né stimare, né volere altra cosa del mondo. Sabino loda pure la fede e l'amore
che ebbe per Penelope, sua moglie, Ulisse, al quale, avendo Circe e Calipso promesso
l'immortalità, se si fosse dimenticato di Penelope e fosse rimasto con esse, non volle per non
mancare alla buona corrispondenza che doveva alla sua sposa, la quale glielo pagò con grande
amore.
Consideri l'anima quanto grande amore deve al suo sposo Gesù Cristo, il quale essendo
immortale, non solo si fece mortale, ma morì per essa con una morte terribilissima, come
dicono alcuni Santi. Consideri l'anima se ha ragione che si dimentichi di questa finezza, né
cessi di ricordarsi di essa e di riconoscerla eternamente, non frustrando i frutti della Passione
del suo Redentore e Sposo Gesù Cristo. Pensi molto ad essa e la mediti di giorno e di notte.
Innumerevoli saranno i guadagni spirituali che da questo esercizio caverà. Disse S. Alberto
Magno che un solo santo pensiero della Passione di Gesù Cristo porta più profitto all'anima
che se alcuno digiunasse tutto un anno a pane e acqua e si disciplinasse ogni giorno fino a
versare il sangue e recitasse tutti i giorni il Salterio intero. Una volta che fra tante altre
apparve Gesù Cristo a Santa Geltrude per confermarla nella devozione che aveva per la sua
Passione, le disse queste parole: “Guarda, figlia, se per essere stato per poche ore appeso alla
croce la nobilitai nel modo con cui ora è onorata in tutto il mondo, a quanto onore sublimerò
quell'anima, nella cui memoria e nel cui cuore sto per molti anni?”

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Certamente non si può spiegare quanti favori del cielo raggiungano le anime con l’amore
sincero e puro di Dio che con tanti dolori guadagnò loro i beni eterni e insegnò loro a
disprezzare quelli temporali.
Ora, per saper approfittare di memoria tanto santa, si ha da considerare che Gesù Cristo prese
sopra di sé tutti i nostri peccati e volendo soddisfare per essi al Padre, volle che ciò fosse per
mezzo della Passione. Perciò convenne che ci fosse qualche proporzione tra la grandezza delle
sue pene e la grandezza delle nostre colpe. Come la malizia delle nostre colpe non ha limite, né
misura, così pure la pena dei suoi tormenti fu senza paragone. Nella grandezza delle ingiurie
che soffrì nella sua Passione si mostrò la grandezza dell'ingiuria che abbiamo arrecato a Dio
coi nostri gusti. Possiamo raccogliere pure le pene che ricevette dai Giudei, paragonandole con
quelle che Egli prese per se stesso, perché per sé prese non minor pena di quelle che volle
ricevere da altri. Ora, chi potrà spiegare la pena che si diede Gesù Cristo col dolore che
ricevette dai nostri peccati? È tanto enorme la malizia di un peccato grave, che, se uno lo
conoscesse come è, gli si romperebbe il cuore dal dolore e non lo potrebbe soffrire senza
morire. Così si sono visti alcuni che sono morti repentinamente per il dolore che ebbero delle
loro colpe.
San Vincenzo Ferreri scrive che andando una donna peccatrice molto ornata a sentire predica,
e sentendo predicare sopra la gravità del peccato della disonestà, ebbe tale sentimento e tante
lagrime, che morì di puro dolore; nello stesso momento udirono una voce del cielo, la quale
diceva che la sua anima stava nel Paradiso. Stando il medesimo San Vincenzo in Zamora,
portavano due uomini ad esser bruciati per le loro turpitudini.
Il Santo giunse fino a loro e riuscì a spiegare ad essi la deformità dei loro peccati, dei quali essi

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concepirono dolore tanto grande, che spirarono nel cammino. Altra volta, confessando il
medesimo Santo un peccatore, lo mosse a tanta contrizione, che morì ai suoi piedi e la sua
anima andò direttamente al cielo. Tanto grande è la gravita del peccato che dovrebbe morire
di dolore chi la conoscesse. Ora, se Gesù Cristo, il quale conosceva tanto chiaramente la
gravità dei peccati, prese sopra di sé non uno, ma tutti i peccati del mondo, volendo dolersi di
ognuno di essi come se li avesse commessi Egli, chi potrà dichiarare o immaginare la
grandezza della sua pena e del suo sentimento, vedendo suo Padre ingiuriato in tante maniere,
il cui onore Egli desiderava e procurava con ansie tanto intime?
Gravissimi Teologi (SUAREZ, p. III, disput. 33, sect. 2a) dicono che questo dolore di Gesù
Cristo per i peccati degli uomini fu più veemente e più intenso che tutti gli altri dolori di
qualsiasi cosa ed oggetto che si trovino negli uomini e negli Angeli, o che secondo la potenza
ordinaria si possano trovare, il che gli procurò dolori di cuore per tutta la vita. Si dice perciò in
un Salmo che era dalla sua gioventù in affanni; (Ps. 87, 16) altra lezione dice: “Agonizzando ed
esalando l'anima.”
Era costume fra i Giudei, di lacerarsi i vestiti in segno di dolore, quando sentivano qualche
bestemmia o ingiuria contro Dio. Quanto dolore avrà sentito il Figlio di Dio vedendo tutte le
bestemmie del mondo e le ingiurie che fanno gli uomini al Padre suo? Certamente non solo il
suo vestito, ma il suo stesso corpo si disfece di pena e versò il suo sangue santissimo per militi
ferite, ancor prima di venire nel potere dei suoi nemici. Egli stesso volle vendicare in se le
offese di suo Padre e tormentarsi col dolore dei nostri peccati prima che altri arrivassero a
tormentarlo, perché nel suo petto

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ardeva lo zelo della gloria di Dio e non volle perdonare a Se stesso per ottenere il perdono a
noi.
Se lo zelo di Finees fu tanto grande che, vedendo due peccare, non si poté trattenere di
trapassarli subito con un pugnale, e quello di Elia giunse a togliere la vita a tanti profeti falsi, e
quello di Mosè giunse a macchiare le sue mani col sangue del suo popolo, facendo decapitare
tante migliaia di uomini, che zelo sarà quello di Cristo alla vista di tutti i peccati del mondo?
Che desiderio avrà avuto, perché Dio fosse vendicato? E giacché prese questa vendetta sopra
di sé, che dolore avrà patito per tante malvagità quante sono quelle del mondo? Non vi hanno
certamente parole che possano spiegare questo.
Non contentandosi Egli della pena che si dava, ma volendosi assoggettare a ricevere quella di
altri, è chiaro che non sarà stata poca pena, ma sarà stata proporzionata al suo zelo ardente.
Così non sono spiegabili i tormenti tanto rigorosi ed angosciosi a cui Egli si assoggettò e che
Egli soffrì. Sebbene questi non furono tanto grandi come i dolori interiori che prese per Se
stesso, poiché dei tormenti esteriori furono causa la rabbia e il furore dei Giudei, mentre di
quelli interiori la sua carità e il suo zelo; quanto fu maggiore il suo amore dell'aborrimento che
per Lui ebbero i suoi nemici, tanto maggiore fu il dolore del suo cuore che quello dei suoi sensi
e quello che patì nel suo sacratissimo corpo. È bene però che noi ci ricordiamo pure della
grandezza di questi, poiché furono particolarmente per il nostro esempio, acciocché
sapessimo disprezzare i beni della terra, vedendo Gesù carico di tanti mali, ed evitassimo le
colpe, vedendo che Egli prese sopra di Sé tutte le nostre pene in sommo grado.

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Gesù Cristo soddisfece per i peccati altrui.


Come Gesù Cristo, nostro Redentore, ha patito per il peccato degli uomini, il quale per tutte le
sue circostanze è un male di colpa, come già abbiamo meditato, così pure la sua Passione fu
una grande pena e molto dolorosa per tutte le sue circostanze. Discorrendo per le sette
circostanze che segnala Tullio, considera chi è Colui che patisce, cioè Colui che meno lo
meritava, Colui che è la stessa innocenza e persona tanto santa come lo stesso Spirito Santo.
Colui stesso che è offeso patisce, acciocché non patisca chi lo offese; Colui che è Signore di
tutti, Colui che riconoscono e adorano i Serafini; Colui che ha fatto beni innumerevoli ai suoi
stessi nemici; nostro Padre che ci creò e ci fece dal nulla; un Uomo delicatissimo per la
vivacità dei suoi sensi e la perfezione del suo temperamento.
Tutto questo aumenta molto il dolore, sia perché meno merita di patirlo persona tanto degna,
sia perché, chi è tanto perfetto e di natura tanto temprata, lo sente di più. Questa circostanza
della persona che patisce ci inculca l'Apostolo che la consideriamo bene quando disse:
“Ripensate a Colui che sostenne tale contraddizione contro di Sé dai peccatori. (Eb.13,3) È
infatti Quegli stesso che sta seduto alla destra del Padre, Colui che fu in mezzo ai due ladroni.
Pensate che Colui che non ha luogo sopra la terra, pendente da un legno, è il Giudice dei vivi e
dei morti. Pensate che Colui che morì sopra la croce era la stessa vita eterna. Pensate che
Colui che soffre, che prendono, che flagellano e crocifiggono, è quel medesimo che fece
tremare, che fece uscire fuoco distruttore nel suo santuario, acciocché consumasse coloro che
trasgredivano la sua parola e la sua legge.

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Ma che cosa è ciò che patì? Quanto non ha patito uomo alcuno; ingiurie, affronti, tormenti
inumani e crudelissimi. Patì conforme alla sua carità infinita e che ebbe sete ardente di patire
per gli uomini. Le sue pene furono tanto eccessive, che alla loro presenza le pietre si
spaccarono in mezzo, le rupi più forti si sprofondarono, si sconvolsero gli elementi, il cielo si
vestì di lutto, il sole e la luna si oscurarono, gli Angeli di pace piansero, perché furono pene
tanto grandi, che il solo immaginarle fece sudare gocce di sangue a Gesù Cristo. Queste furono
versate per i nostri peccati, per ottenere dal Padre eterno la nostra salvezza; le sferzate, oltre
che essere crudelissime, furono in numero grandissimo.
La corona di spine fu altro tormento inumano del quale dice S. Anselmo che il capo sacrosanto
del Redentore fu ferito con mille trafitture. Chi potrà esplicare il tormento immenso di star
pendente dalla croce, inchiodati mani e piedi? Non il patire, ma solo l'immaginare tormenti
tanto estremi, fece lamentare Santa Luduvina con un pianto copiosissimo, versando lacrime di
sangue. Di un uomo devoto scrive il Cantimpratense che morì di pena per il solo considerare
la grandezza dei tormenti del Piglio di Dio. Non vi ha dubbio che la Vergine Maria SS. sarebbe
morta di dolore, se non fosse stata fortificata dalla divina grazia, come disse S. Alberto Magno.
Ma Essa pure pianse lacrime di sangue ai piedi della croce. Ora, i dolori di Cristo furono più
grandi dei dolori di sua Madre, poiché la passione dei tormenti era in Lui reale e vera e la
compassione per noi fu più grande che non quella che la Vergine ebbe per Lui. Il dolore della
Vergine SS., come dice S. Anselmo, fu tanto terribile che in suo paragone si può dire ben poca
cosa o nulla quanto hanno patito di crudeltà tutti i corpi. Secondo San Bernardo, esso superò
mille volte i dolori di parto; ed eccedendo a

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tutto questo, San Bernardino (S. BERNARDINUS, Sermo 61, art. 3, cap. 2) dice che, se si
dividesse il dolore della Vergine fra tutte le creature che possono patire, tutte morirebbero
istantaneamente per la grandezza della pena che loro toccherebbe. Ma che cosa si può dire di
ciò che patì Gesù Cristo, del quale non vi ebbe né dolore, né pena uguale? In materia di onore
e reputazione infatti patì quanto si può patire e nei tormenti quanto Egli solo poté, e in ogni
maniera, tutto ciò che l'invidia e la furia dei suoi nemici, aiutati dai demoni, soffrendo non
solo con la passione delle sue pene, ma molto di più con la compassione delle nostre colpe.
Aumentava tutta questa pena il luogo dove patì, che fu nella Giudea, dove era stato tanto
stimato e poco prima ricevuto in solenne trionfo come uomo venuto dal cielo, passando in
tempo tanto breve da un estremo di onore ad un altro di disonore e di vergogna. Accrebbe
questo tanto la pena, perché giunse in tal modo ad essere il luogo più infamato che vi ebbe nel
mondo, perché fu giustiziato pubblicamente e nel luogo dei malfattori traditori e ladri di
strada e in mezzo a due ladroni e per giunta in presenza della sua stessa Madre, il che gli
raddoppiò i dolori del suo cuore. Anche le persone dalle quali patì, furono quelle a cui aveva
fatto infiniti benefizi ed erano del suo stesso popolo.
Trovando negli stranieri alcuna compassione, non la trovò nei suoi connazionali, il che è
molto penoso. La rabbia e il furore con cui gli desideravano e procuravano la morte i suoi
nemici fu tale che la Sacra Scrittura li paragona ai cani, ai tori furiosi, al leone e all'unicorno
che è un animale molto feroce.
La pena crebbe pure col vedere in tanti frustrato il fine di tormenti e dolori così eccessivi,
sapendo che la maggior parte non avrebbe approfittato di essi.

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Come l'utile delle fatiche in fine consola molto, così pure è di grande afflizione il vedere che
esse non hanno l'utilità che si desidera. Ora, siccome Gesù Cristo patì, acciocché tutti
approfittassero dei suoi meriti, del suo sangue e della sua passione, vedendo invece che
neppure la centesima parte degli uomini ne avrebbe approfittato e che innumerevoli si
sarebbero mostrati ingrati, fu questo un gran dolore che gli traversò il cuore tenerissimo e
amorosissimo.
Altresì il modo con cui patì fu molto penoso, perché avvenne con tale abbandono, che non vi
era cosa che lo consolasse. Gli stessi suoi connazionali furono quelli che con somma
ingiustizia gli procurarono la morte ed i gentili gliela diedero con somma crudeltà. I sacerdoti
e scribi erano come il lievito con cui tutta la massa del popolo rimase adirata contro il
Salvatore; i capi soffiarono nel fuoco, e nel popolo si accese tale fiamma, che con tanti affronti
e dolori non si poté spegnere; non si accontentarono, quando lo videro appeso alla croce, e
come cani rabbiosi ferirono le carni di Colui che essi vedevano morire con ingiurie ed affronti.
Oltre ad aver tanto dichiarate contro di Sé le volontà di tutti i Giudei e gentili maggiori e
minori, nei suoi, che avevano frequentato la sua scuola, trovò poca fermezza e lealtà. Dei suoi
dodici Apostoli scelti, uno lo vendette e si fece capitano di quelli che lo dovevano prendere; un
altro, al quale Egli aveva promesso il primato, vilmente lo rinnegò tre volte dinanzi ai suoi
occhi, spergiurando che non lo conosceva, e gli altri lo abbandonarono lasciandolo in potere
dei suoi nemici. Oh esempio non mai visto d'incostanza delle cose umane e della costanza che
deve avere il vero cristiano in esse! Che cosa sentì quel cuore benedetto del Signore, quando
vide tanta mancanza di amici e si vide tanto cercato dai nemici? Ma di Lui stava scritto: “Il
mio cuore fu fatto come la cera che si disfa nel

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mezzo delle mie viscere (Sal.21,15). Soltanto sua Madre non lo abbandonò mai nei suoi dolori,
anche quando non lo poté aiutare, né difendere, però questa gli avrà accresciuto intensamente
il dolore con la sua presenza. E l'Eterno Padre, che ben avrebbe potuto, non volle per allora
pensare a Lui, lasciandolo patire con tutto rigore secondo il gusto dei suoi nemici, il che il
Signore benedetto sentì molto profondamente, perché i suoi nemici glielo rinfacciavano
dicendo: “Spera in Dio, Egli lo liberi, Dio lo salvi, giacché non ama altri, se non Lui solo”. Non
volendolo Dio per allora liberare, né dar mostra d'interessarsi di Luì, il Salvatore si lagnò
amorosamente dicendo: Dio mio. Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27, 46) Perfino
un bicchiere di acqua gli mancò, mentre bruciava dalla sete.
Anche il genere di supplizio fu il più vergognoso e penoso di tutti. Il tormento della croce fu
sopra ogni modo penosissimo, morendo con grande scherno e burla dei suoi nemici. Il tempo
fu parimenti cosa da rendere più penosa la passione e morte di Nostro Signore, perché fu la
vigilia della Pasqua, quando vi era maggior concorso di gente e più grande pubblicità. Fu
quando era più conosciuto da tutti e nel fior della sua età: fu di grande compassione che un
corpo tanto florido, bello e ben disposto andasse a finire in tale grandezza di tormenti che,
come dice la Sacra Scrittura, aveva la lingua aderente al palato ed era tanto dimagrito che si
potevano contare le ossa ed era tanto disfatto come cera colata ed acqua versata e come risulto
nella polvere della morte, secco come un pezzo di tegola, e tale da non sembrare uomo, ma
solo un verme vile, obbrobrio degli uomini e ludibrio del popolo. È pure di grande
ammirazione che, nel

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poco spazio di tempo che durò il processo della Passione di Cristo, patì tanti tormenti in ogni
genere e con tante circostanze per aggravarli, che non sembra possibile che possano capitare
ad un uomo per tutto il corso dei tempi, alcuni generi di affanni o avversità che non li abbia
già prima patiti molto di più il nostro Redentore.
In tutte le circostanze le pene di Cristo furono penosissime, perché le colpe dei cristiani sono
colpevoli in tutte le circostanze. Era conveniente che chi venne a dare tutto il bene, patisse
tanto male e che colui che non aveva colpa propria, l'abbracciasse con la pena altrui, e colui
che è infinitamente buono soffrisse tanti mali di tormento e dolore, acciocché intendessimo
che non sono mali quelli che teme il mondo, ma solo quelli che il peccato trae seco; che i suoi
beni sono tanto lontani dall'essere degni di stima, che piuttosto sono di stima i mali, poiché lo
stesso nostro Redentore si privò dei beni temporali e si caricò dei mali, perché, imitando la
nostra vita la sua preziosissima morte, disprezzassimo ogni bene che è tanto corto e falso che
anche i mali sono migliori e beni più veri.
Vergogniamoci che, vedendo Gesù Cristo in tanti dolori, noi cerchiamo i nostri gusti;
rispettiamo di più il nostro Redentore, di quello che Etai Geteo fece per Davide, il quale
fuggendo da suo figlio Assalonne e persuadendo Etai che non lo accompagnasse in quel
pericolo, gli rispose: “Viva il Signore, evviva il re del mio Signore, che in qualunque luogo tu
stai, o in morte o in vita, ivi ha da stare il tuo servo”. Se questo disse uno straniero, che
dovrebbe fare un suddito connazionale? Conserviamo uguale lealtà con Gesù Cristo di quello
che ebbe Uria con Joab, quando quegli gli disse: “L'arca di Dio e Giuda e Israele abitano nelle
tende e il mio signore Joab e i servi del mio signore restano sopra la terra, e io entrerò nella

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mia casa e mangerò e berrò e dormirò con mia moglie? Per la tua salute, e per la salute della
tua anima io non farò tale cosa”. (II Reg., XI, 11)
Ora, se Cristo sta nella croce e nei tormenti, come cerchi tu il riposo? Se Cristo è povero, come
tu te la passi nei diletti? Se Cristo è umile, come stai tu in tanto fasto? Se Cristo è tribolato,
come stai tu nei piaceri? Ricordati di quello che Egli t'insegnò sopra la croce e stima ciò che
Egli tanto stimò, come la privazione di ogni bene di questa vita che passa col tempo.
Considera pure il sentimento e la penitenza che sopportò per i tuoi peccati l'innocentissimo
Gesù, acciocché tu ne faccia alcuna per i tuoi.
Essendo i Giudei usciti dalla cattività di Babilonia, il santo Esdra seppe dei grandi peccati che
avevano commesso con la loro comunicazione coi gentili. Per il sentimento che ne ebbe si
lacerò le vesti, si strappò la barba e si tagliò i capelli perseverando con grande afflizione e
tristezza senza mangiare né bere, pregando il Signore e piangendo per i peccati del popolo.
Commosse tanto questo sentimento e questa penitenza per i peccati altrui, che tutti gli altri
cominciarono a piangere e fare amara penitenza per i loro peccati con tale sentimento di
dolore, che stavano tremando e confessavano pubblicamente la loro malvagità.
Ora i cristiani, come non si muovono a penitenza e dolore, vedendo non un Esdra, ma un
Figlio di Dio, pieno di tanta pena per i peccati del mondo, che lo fa versare sangue per i pori
del suo corpo santissimo, lacerando non i suoi vestiti di lana, ma la sua santissima umanità
che con grande volontà offrì, perché lo lacerassero con flagelli, spine, chiodi, e per lo stesso
sentimento si lasciò strappare i capelli e i peli della barba, sputare nella

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faccia, restare senza mangiare, né bere, né gustare altro, se non fiele e aceto, piangendo dalla
croce sopra ciò che noi abbiamo commesso? Piangiamo, affliggiamoci e facciamo penitenza
per le nostre colpe proprie, poiché vediamo che l'Innocente la fece tanto grande per le colpe
altrui, acciocché imitandolo nelle sue pene temporali godiamo della gloria eterna.
Circostanze della Passione di Gesù Cristo.
Tutte le sette circostanze dette sono dalla parte della gravità dei tormenti e delle pene del
Nostro Redentore Gesù Cristo, le quali ci hanno da addolorare molto il cuore, vedendo che la
sua Passione fu sopra ogni maniera penosa. E sebbene tutto questo ci abbia a muovere al
disprezzo delle cose della terra e all'amore di Colui solo che tanto infinitamente ci amò, con
tutto questo vi sono altre circostanze che con nuove obbligazioni ci devono non solo muovere,
ma forzare ad amarlo, se non siamo tanto duri come le pietre. Come non sentire obbligazione
per il modo con cui patì il Figlio di Dio, con tanto amore e tale pazienza, senza lagnarsi di
alcuno, amandoci tanto che tutto gli sembrava poco, così da essere disposto a patire
altrettanto e molto di più, se fosse stato necessario per il nostro bene? Questo amore di Gesù
Cristo quale riconoscenza merita? E se nei benefici il più che si ha da stimare è l'amore con cui
si fanno, dove il beneficio fu infinito e l'amore infinito, che cosa possiamo fare?
Un traditore uccise perfidamente Enrico IV, re di Francia, e ricevette la sentenza di
crudelissimi tormenti fra i quali morì come si meritava. Se prima dell'esecuzione della
sentenza fosse arrivato il primogenito del re morto e principe ereditario del suo regno, e si
fosse vestito dell'abito dell'omicida e si fosse offerto, perché lo legassero invece sua, volendo
morire egli piuttosto che lasciar

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morire quell'uomo, ed altri lo dissuadessero da questo proposito, protestando egli di amare


tanto quel condannato a morte, che non solamente una morte, ma mille morti patirebbe per
lui, e facesse tanto da poterlo liberare dal supplizio; che amore dovrebbe quell'uomo a chi
tanto lo amò senza meritarlo, colui che egli liberò dalla morte meritata e con tanta buona
volontà e fine amore? Certamente, anche se quel principe non morisse per lui, per il solo fatto
che volle morire gli doveva tanto amore. Oh Re della gloria e Unigenito del Padre! Coi nostri
peccati volemmo, quanto è dalla nostra parte, uccidere e distruggere vostro Padre e il suo
essere divino. Rendendoci con questo degnissimi di morte, Voi non solo voleste morire per
noi, ma deste in effetto il vostro sangue e la vita con tanti tormenti inumani e l'oste pronto a
patirli di più e maggiori per il nostro bene. Con quale amore vi potremo pagare tale amore?
Che riconoscenza e che memoria dobbiamo avere di tanto immenso beneficio? Consideriamo
pure che cosa siamo noi. Per i quali un Signore tanto grande patì tanto. Egli patì non per Se
stesso, quasi per guadagnare qualche cosa, non patì per un altro Dio, non per alcuna nuova
creatura soprannaturale e superiore a tutte quelle esistenti, non per qualche Serafino che gli
avesse servito fedelmente per una eternità, ma per una creatura miserabile, vile e la più bassa
di quelle che sono capaci di ragione, composta di fango, che era sua nemica. Questo ci deve
rendere più riconoscenti, poiché Dio fece di più nel patire per chi meno lo meritava.
Si aggiunga a questo che Dio patì tanto per noi, pur non essendo necessario di patire tanto per
redimerci e liberarci dalla schiavitù del peccato. Ma per mostrarci il suo amore ed obbligarci
alla sua imitazione ed al disprezzo dei beni di questa vita e di ogni felicità temporale, prese
sopra di se tante fatiche, tanti tormenti e dolori.

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Contempliamoci in questo specchio e riformiamo la nostra vita; abbiamo compassione di colui


che tanto patì per noi; siamo molto riconoscenti a chi ci fece tanto bene con grande sacrificio
suo. Ci rincresca nell'anima di aver offeso un Dio tanto buono, il quale, per liberarci dal male,
patì egli tanti mali. Ammiriamo la grandezza della bontà divina, che per una creatura vile volle
annientarsi, egli che è l'onore degli Angeli, fino all'improperio della croce. Amiamo chi
davvero ci amò, confidiamo molto in chi, senza essere domandato, fece di più per noi di quello
che noi avremmo osato domandare o desiderare.
Imitiamo questo esempio che ci mostrò il Padre Eterno sul monte Calvario, acciocché
componiamo la nostra vita nell'umiltà, nel disprezzo di ogni bene temporale, conforme alla
sua morte, per conseguire i beni eterni; acciocché umiliandoci ora, c'innalzi di poi; acciocché
patendo qui, ci consoli a suo tempo; acciocché gustando in questa vita le amarezze, godiamo
nell'altra della dolcezza, e piangendo nel tempo, godiamo eternamente. Disse il Signore al
grande imitatore della sua Passione, San Francesco: "Piglia, Francesco, le cose amare in luogo
di quelle dolci, se vuoi essere beato". Conforme a ciò ci ammonisce S. Agostino (Sermo II ad
Fratres): “Sappiate, Fratelli, che dopo i gusti di questo mondo avranno da seguire lamenti
eterni, perché nessuno può divertirsi in questa vita e nell'altra; così e necessario che perda
l'una chi vuol possedere l'altra. Se desideri divertirti qui, sappi che sarai esiliato dalla patria
celeste; se invece piangerai qui, sarai già contato per cittadino del cielo. Così disse il Signore:
“Beati quelli che piangono perché essi saranno consolati”. Per questo non si sa di Gesù Cristo,
Nostro Redentore, che abbia riso una volta,

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ma ben si sa che ha pianto più volte; per questo egli scelse la vita di fatiche e pene per
insegnarci che questo è il cammino per il gaudio e riposo eterno.

CAPITOLO QUINTO.

L'importanza dell'eternità per essersi Dio fatto mezzo di acquistarla e per aver di
ciò lasciato in pegno il suo Sacratissimo Corpo.

Gesù Cristo nostro salvezza


Altro grande motivo per stimare ciò che e eterno e disprezzare ciò che è temporale è che, per
conseguire quello e disprezzare questo, Dio stesso si è fatto mezzo nell'ineffabile e tremendo
Sacramento del suo Corpo e Sangue, che Egli istituì perché ci servisse di pegno dei beni eterni.
La Chiesa lo chiama pegno della gloria futura e viatico di questa vita temporale, acciocché
possiamo passarla senza l'uso superfluo dei suoi beni, dandoci a noi cristiani questo pane
divino in luogo della manna che fu data agli Ebrei.
Come demmo principio a quest'opera con la manna che è figura dei beni temporali, e che
servì di viatico al popolo d'Israele così la termineremo con la virtù del SS. Sacramento, pegno
dei beni eterni, il quale si dà per viatico al popolo cristiano nel pellegrinaggio di questa vita.
Sappia dunque il cristiano che importa tanto conseguire l'eterno e il divin suo Creatore lo
desidera con tale passione che, dopo aver compiuto tante finezze a questo scopo, come essersi
incarnato per noi e aver patito passione e morte tanto dolorosa, ha aggiunto tale estremo
sforzo di amore,

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da dare Se stesso nel SS. Sacramento, come mezzo della nostra salvezza. Chi non vede qui
l'infinita bontà di Dio, poiché colui che come Dio onnipotente è principio di tutte le cose e
come sommo bene di tutti i beni, e perfettissimo in sé è fine ultimo di essi, ha voluto farsi
anche mezzo?
Si loda il Signore nella Sacra Scrittura con molta ragione per essere principio e fine di tutto.
Questo è degno della sua grandezza e dice somma perfezione, in cui non ha uguale, perché
solo Dio è il primo e supremo principio; egli solo è sommamente buono e perfetto e
beatitudine eterna. Ma il farsi mezzo, che è cosa comune con le creature e non dice perfezione,
questo fu somma degnazione e desiderio del nostro bene. Più ancora è il farsi mezzo per
essere usato, affidato al libero arbitrio dell'uomo e assoggettato alla potestà dell'uomo.
I mezzi della nostra salvezza si possono considerare da parte di Dio e da parte dell'uomo,
poiché tanto Dio, quanto l'uomo hanno da operare la salvezza dell'uomo. Ora, Dio a servirsi di
se stesso nell'Incarnazione e Passione per salvare l'uomo gli diede certo prova d'un infinito
amore, ma infine e Dio che si servi di una persona divina per il fine che intendeva della sua
gloria, ma che l'uomo possa servirsi dello stesso Dio come mezzo per la sua gloria, questa è
senza dubbio meraviglia ben più grande. Gran meraviglia è che in questo Gesù Cristo si abbia
reso uguale all'acqua del Battesimo per giustificarci, al balsamo della Cresima per santificarci,
e all'olio nella Estrema Unzione per purificarci; così possiamo usare di Gesù Cristo
nell'Eucaristia per acquistare maggior grazia e crescere nella santità. Di grande importanza è
che l'uomo raggiunga il suo fine ultimo e per questo colui che è fine ultimo si fece mezzo. Non
so a qual cosa più grande possa giungere l'ineffabile bontà e carità di Dio e il suo desiderio del
nostro Bene!

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Conosca quindi l’uomo quanto gl'importa salvarsi e non trascuri mezzo alcuno che lo possa
aiutare in questo. Non tralasci di muovere pietra per cosa che gl'importa tanto, poiché vede
che lo stesso Dio volle farsi mezzo della sua salvezza e gli sì diede per mezzo, assoggettandosi
in questo all'arbitrio della volontà umana. Consideri quanto importi l'eterno e che non
abbiamo da badare a cosa temporale alcuna, pur di raggiungerlo, poiché Dio stesso a tale fine,
non rifugge neppure dall'impegnare cose eterne. Se per la tua salvezza il cedere qualche cosa
del tuo onore ed il negare i tuoi gusti e dare i tuoi beni ai poveri è mezzo, non esitare in
praticarlo, poiché Dio stesso si diede a te senza badare alla sua grandezza e al suo essere, che
vale più che tutto.
Egli si diede anche nei Santissimo Sacramento per pegno della gloria e felicità eterna. Poiché
siccome Gesù Cristo nostro Redentore, predicava nel mondo il disprezzo dei beni temporali
per conseguire quelli eterni e pronunciava la sentenza: Beati i poveri di spirito, perché di essi è
il Regno dei Cieli, non dicendo soltanto "sarà" ma "è" li dava loro come presenti; convenne
quindi che non potendo entrare subito in Cielo a goderli, desse loro qualche cosa di
equivalente e così ricevessero un pegno di ciò che avevano comperato nel cielo col prezzo di
tutti i beni della terra. Questo pegno è il Corpo SS. del Nostro Redentore Gesù Cristo. Figlio di
Dio vivo, il quale è di maggior prezzo e stima che lo stesso ciclo. Per il che ben si possono
disprezzare i beni caduchi, perché ci viene dato fin da ora tale pegno della beatitudine eterna;
ben si può rinunciare a tutte le ricchezze passeggere ed a tutti i gusti della natura, poiché viene
dato il tesoro della grazia.
Il SS. Sacramento è pure viatico in questa miserabile vita. Questo ci fa capire che essa è un
pellegrinaggio, in cui camminiamo verso l'eternità e

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non dobbiamo fermarci nel tempo. Non dovendo godere dei beni presenti di questa vita, e non
potendo godere ancora dei beni futuri dell'altra, per farci sopportare la rinuncia a quelli e
sostenere nella speranza di questi, per questo ci si dà intanto questo ammirabile Sacramento
per viatico, acciocché l'anima si possa consolare dell'assenza della sua patria celeste, andando
pellegrina in questa valle di lagrime, nella quale non è bene che gusti della terra, poiché Fa la
sua giornata per il cielo.
Consideriamo quale sia il fine verso cui camminiamo, giacché a tale prezzo ci si rende facile il
cammino, e che cosa siano i beni di questo mondo, per non godere i quali ci si dà questo
pegno del cielo. Gl'Israeliti ebbero per viatico la manna, la quale servì a supplire tutte le loro
necessità, perché oltre ad essere loro di sostentamento, quando si alimentarono con essa non
ebbero altra necessità. Non cadevano infermi, né si logoravano loro i vestiti, di modo che la
manna venne loro data, acciocché non andassero dietro ad altra cosa. Tutto questo era solo
un'ombra del nostro viatico divinissimo, con cui non dobbiamo cercare altra cosa e, mentre
possediamo questo bene divino, possiamo mancare puro di qualsiasi altro bene temporale.

La SS. Eucaristia e la Passione di N. S. C. C.


Un altro fine principalissimo della istituzione di questo ammirabile Sacramento è la memoria
della Passione del Figlio di Dio, la quale, essendo per noi motivo tanto efficace per disprezzare
ciò che è temporale, come abbiamo detto, vuole che non ci dimentichiamo mai di essa. In
molte maniere Gesù Cristo ci ha lasciato la memoria della sua Passione, sicché pare voglia
farcela ricordare in tutte le cose.
Per questo Dio ci lasciò impressi miracolosamente i segni della sua Passione nella sacra

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Sindone, nella quale fu involto il suo sacro corpo. Alla pia Veronica che gli offrì il suo velo,
Egli, caricato della croce, lasciò disegnato il suo volto sanguinante e, come notò Lanspergio,
lasciò ad un soldato, che lo aveva schiaffeggiato, segni nelle sue dita. Nel luogo dove stava
prostrato dinanzi al Padre pregando nell'orto e sudando sangue, lasciò scolpito in una pietra i
segni dei suoi piedi, delle ginocchia e delle mani. Non lontano da quel luogo vi sta un'altra
pietra dove, dopo essere stato preso, i soldati lo gettarono a terra lasciandovi impressa la
punta dei piedi, delle mani e delle ginocchia. Da questa pietra, come avverte Brocardo, non è
possibile cancellare nulla, neppur col ferro, perché rimanga per forza questa memoria della
sua ineffabile mansuetudine e pazienza. Nello stesso modo, nel luogo dove passò il fiume
Cedron, lasciò altro segno dei suoi piedi sacratissimi e di una corda alla quale era legato.
Tutto questo è argomento per dimostrare quanto il Signore voglia che stia impressa nel nostro
cuore la memoria della sua santissima Passione, avendocela lasciata in tante maniere segnata
perfino nella dura pietra. Non solo nelle pietre, ma anche in molte altre cose naturali egli ha
messo varie tracce della Passione e Croce, come notò S. Anastasio Sinaita. Così nel fiore della
Passione ci scolpi i segni dei chiodi, della colonna e corona di spine. Anche negli elementi ha
lasciato gli stessi segni. Al re Alfonso I del Portogallo, Cristo mostrò nell'aria uno scudo con
cinque piaghe, e all'imperatore Costantino lo strumento principale della sua Passione, ossia la
Croce, la quale poi è apparsa infinite volte.
Quale dimostrazione più preziosa della memoria che Egli vuole che conserviamo dei suoi
tormenti, che l'aver impresso le sue piaghe a tanti suoi servi fedeli? Oltre che San Francesco, il
quale in questo fu il più favorito, ricevettero simile favore Santa

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Lucia di Ferrara e Santa Geltrude. A Santa Lucia tutti i venerdì scorreva sangue dalle sue
piaghe. A Santa Geltrude usciva il sangue nella stessa maniera sette volte al giorno nel tempo
della Settimana Santa. E quale memoria più espressa della Passione del Nostro Redentore che
il cuore di Santa Chiara di Monte Falco, nel quale trovarono disegnati l'immagine di Cristo
crocefisso, la colonna, i flagelli, la lancia ed altri strumenti della Passione?
Non si finirebbe mai, se si dovesse dire in quante parti e in quanti modi il Salvatore del mondo
ha voluto rappresentare la sua santissima Morte e Passione, acciocché la tenessimo sempre
presente e molto fissa nella nostra memoria. Ma dove fece maggior dimostrazione di questo fu
nel SS. Sacramento, perché questo sacrosanto mistero è una rappresentazione viva della sua
morte sacralissima, ripetendosi ogni giorno tante volte quante si consacra nel mondo il Santo
Sacrificio del suo Corpo e Sangue e la memoria della sua Passione. Fu questo una grande
dimostrazione del suo amore infinito, perché ci fece con ciò intendere che non una volta sola,
ma milioni di volte avrebbe voluto morire per noi; non potendo tornare ad essere crocifisso
per lo stato del suo corpo glorioso, la sua infinita carità trovò modo di ripetere il Sacrificio
della croce e il frutto della nostra Redenzione incruentemente ed impassibilmente.
Quanto grande riconoscenza dobbiamo a questa grande volontà di Dio! E come possiamo
essergli riconoscenti, se ci dimentichiamo del beneficio che Egli desidera sia da noi ricordato
per nostra utilità e profitto? Non allontaniamo dal nostro pensiero i suoi dolori, allontaniamo
invece i nostri gusti e disprezziamo ogni felicità umana, vedendo il Signore del mondo tanto
umiliato.
Ma il Santissimo Sacramento è memoria non soltanto della Passione di Gesù Cristo, ma altresì

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dell'Incarnazione e di altre opere meravigliose di Dio. Esso non solo ci rammenta ciò che Gesù
Cristo fece patendo per noi, ma altresì ciò che il Verbo Eterno fece incarnandosi per il nostro
bene, annientandosi quel Dio immenso che per suo sgabello ha tutta la rotondità della terra
tino a coprire la sua maestà infinita con la forma di servo, scendendo per questo dal cielo. Di
ciò e una rappresentazione molto appropriata questo divin Sacramento, nel quale pure Dio
scende dal Cielo e, già incarnato e col suo corpo umano, si nasconde dentro un poco di pane
nel quale sta come annientato e disfatto. Nella Eucaristia, oltre che essere! Dato Cristo
crocefisso, ci viene dato il Verbo Incarnato, di modo che queste due grandi meraviglie di Dio,
cioè dell'Incarnazione e della Passione, ci si rappresentano e si moltiplicano nel SS.
Sacramento, il che fu un grande pensiero di Dio, conforme a ciò che disse il profeta Davide
(Psal. 39. 6): “Faceste, o Signore, molte meraviglie e non vi ha chi vi somigli nei vostri
pensieri.” Dio fece molte meraviglie, cioè l'Incarnazione e la Passione, ripetendole e
moltiplicandole nel SS. Sacramento, il che fu un altissimo pensiero di Colui che è somma
sapienza, così che altro che Lui non lo poteva pensare, come e quello tanto straordinario di
essersi sacrificato un Figlio di Dio e scendere il Verbo Eterno dal cielo col farsi uomo e
diventare tanto ordinario, come vediamo nell'uso di questo divino mistero.
Non solo Dio fece molte meraviglie, ma bensì grandi, per cui esclama il medesimo Davide
(Psal. 91, 6): “Quanto grandi sono le opere tue, o Signore, quanto profondi i tuoi pensieri!
Sebbene siano tanto grandi

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le opere dell'Incarnazione e Passione, ciò non di meno esse sono come cresciute per mezzo di
questo Sacramento. La grandezza dell'opera dell'Incarnazione consiste nell'essersi Dio
abbassato e fatto uomo, quella della Passione nell'umiliarsi fino a morire; ma in questo
Sacramento si annienta e si umilia di più fino a farsi cibo; umiliazione questa più profonda
che l'Incarnazione e la Passione, le quali sono almeno conformi alla natura dell'uomo.
Prescindendo dal ratto che il frutto generale dell'Incarnazione e Passione si applica
particolarmente in questo SS. Sacramento, esso è ammirabile, per Colui che in esso sì riceve e
per il modo con cui lo si riceve. La Passione e Morte di Gesù Cristo fu la grande opera di Dio
sul monte Calvario; ma in questo mistero vediamo la stessa Morte, la Passione e il Sacrificio in
un modo incruento ed impassibile, che è una meraviglia maggiore e mostra di più la
grandezza del potere divino. Fu pure opera grande di Dio l'Incarnazione, quando cioè il Verbo
Eterno entrò nel seno di una vergine; ma in questo mistero in certa maniera essa s'ingrandì e
si estese, onde lo si chiama estensione dell'Incarnazione, in quanto nostro Signore entra nel
petto di ogni cristiano per unirlo a sé.
Queste sono le meraviglie della legge di grazia, delle quali disse al Signore il profeta Isaia (Is.,
LXIV, 3-4): “Quando tu facesti meraviglie, noi non le sopportammo; scendesti e alla tua
presenza colarono i monti. Da secoli non udirono, né percepirono con le orecchie: occhio non
vide, salvo te, o Dio, ciò che preparasti per coloro che ti custodiscono”.
Parla il Profeta delle opere meravigliose che si dovevano vedere, quando venisse il Messia,
opere che dovevano essere tali, che nessuno mai avesse viste e nessun pensiero avesse potuto
concepire se non quello di Dio.

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Citando questo passo, l'Apostolo dice che né occhio vide, né orecchio udì, né venne nel cuore
dell'uomo ciò che Dio preparò per quelli che lo amano. Ora queste sono le due grandi
meraviglie, l'Incarnazione e Morte per noi e il darsi per cibo alle anime che sono nella sua
grazia e lo amano, il che non poté cadere nel pensiero di alcuno, se non in quello divino.
Grande meraviglia è che solo Dio lo poté pensare e nessuno fuori di Lui. Come solo Dio lo può
stimare, non vi è uomo che lo possa ringraziare, né vi è cuore umano che possa sopportare il
peso di questa obbligazione e la grandezza dell'amore divino che risplende in questa
meraviglia delle meraviglie.
Disse Tertulliano (De Patientia, cap. 1) che la grandezza di alcuni beni era intollerabile, il che,
secondo il profeta Isaia, si verifica in questo bene e beneficio divino, dicendo che non si può
tollerare. Perciò nella Sacra Scrittura si chiama il bene di Dio, perché è un bene, un beneficio
che più della luce del sole scopre la sua bontà infinita ed ineffabile, con spavento ed
ammirazione del cuore umano. Così disse il profeta Osea (OSEA, III, 5): “Si spaventeranno del
Signore e del suo bene”, perché questo beneficio divino spaventa e fa tremare le anime per
quanto è buono il Signore e per quanto grande è questo bene che si comunica a loro. Tutto ciò
si compie, perché disprezziamo ogni altro bene della terra e stimiamo solo quelli del cielo che
conseguiremo per mezzo di questo mistero divino. Per questo, Gesù Cristo, Nostro Redentore,
istituì il SS. Sacramento, perché staccassimo il nostro cuore dalle cose temporali e mettessimo
tutto il nostro affetto nelle cose eterne, per il che ha efficacia particolare e lo sperimenterà chi
degnamente lo riceve.

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La grandezza di questo Sacramento.


Per questo l'anima, che va a comunicarsi, consideri chi è colui che entra in essa e chi è essa
che riceve un Signore tanto grande. Si ricordi con quale riverenza la SS. Vergine ricevette il
Verbo Eterno, quando entrò nelle sue viscere e consideri che è il medesimo che il cristiano va
a ricevere nel suo petto e procuri di accostarsi con tutto rispetto, amore e riconoscenza, che
dovrebbe essere più grande di quella della sua SS. Madre. Gli si deve ora di più di quello che
dovevamo allora, perché allora la Vergine e gli uomini non gli dovettero le finezze che gli
dobbiamo ora, dopo che è morto per noi. Consideri il cristiano che va a ricevere Colui stesso
che sta seduto alla destra di Dio Padre, Colui che è supremo Signore del cielo e della terra.
Colui che adorano gli Angeli, che ci creò e ci redense, il Giudice dei vivi e dei morti, Colui che
ha infinita sapienza, potenza, bellezza e bontà.
Se l'anima vedesse Gesù Cristo come lo vide San Paolo, quando rimase cieco per la sua luce e
chiarezza, quale riverenza e spavento ne sentirebbe? Sappia che non è meno glorioso nell'ostia
e cerchi di riceverlo con riverenza tanto grande come se lo vedesse nel trono della sua gloria.
Con molta ragione disse Santa Teresa di Gesù a un'anima devota, alla quale dal cielo appare,
che noi ci comportassimo di qua sulla terra col SS. Sacramento come si comportano là nel
cielo i beati con l'essenza divina, amandolo e riverendolo con tutte le nostre potenze e forze.
Considera che Colui che viene in persona da te, è quel medesimo Signore che volle essere
tanto rispettato nelle sue cose, che, avendo Oza toccato con la mano l'arca del Testamento,
subito ne rimase ucciso; ed avendola guardata i Betsamiti, ne morirono 50.000. Tu non
soltanto lo guardi e tocchi, ma lo ricevi e lo metti nelle tue viscere; considera con quale

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rispetto lo devi ricevere. Gli Angeli e Serafini tremano dinanzi alla sua grandezza e i giusti lo
temono; tu trema, temi ed adora il tuo grande Signore. San Giovanni rimase senza forza per il
solo stare vicino ad un Angelo ed era spaventato della sua bellezza e maestà; tu non vai a
ricevere un Angelo nella tua stanza, ma il Signore degli Angeli nel tuo petto.
Si aggiunga la finezza di questo beneficio e la benignità del nostro Salvatore che non solo è
grande della grandezza della persona che si dà in esso, ma altresì della piccolezza di chi lo
riceve. Chi sei tu, se non una vilissima creatura composta di fango, piena di miseria, di
ignoranza, di debolezza e di malizia? Se il centurione si ritenne per indegno che Gesù Cristo
entrasse nulla sua casa e San Pietro, quando ancor lo vide nella sua vita mortale, non si trovò
degno di star nella presenza del Signore, dicendogli: Allontanatevi, Signore, da me, perché
sono un uomo peccatore, e San Giovanni Battista non si giudicò meritevole di sciogliere i lacci
dei suoi calzari, quanto più indegno ti devi giudicare tu di ricevere colui che sta gloriosamente
alla destra di Dio Padre! Gli Angeli del cielo non si trovano puri nella sua presenza; considera
quale purezza devi avere per ospitarlo nel tuo petto. Se un re potentissimo entrasse a visitare
un povero mendico in una vile capanna, che rispetto e riconoscenza gli porterebbe
quest'uomo! Considera che viene Dio, il Re dei re, il Signore dei signori, a visitarti non solo
dentro la tua casa, ma dentro te stesso. Salomone impiegò sette anni a fare un tempio per
mettervi l'arca del Testamento; tu per farti tempio di Dio, perché non ti prepari per alcun
tempo? Se Noè impiegò cento anni per costruire l'arca nella quale si doveva salvare dal
diluvio, tu, per farti sacrario del Salvatore del mondo, perché non vi spendi neppure un giorno
o alcune ore? Considera la tua viltà e ciò che vai a fare.

583

Mosé, per fare un'arca per le tavole della legge, non solo scelse legno molto prezioso, ma la
coprì pure tutta di oro; tu, miserabile e verme vile che sei, come non ti adorni e ti prepari per
ricevere il Signore della legge?
Considera pure perché viene, cioè per renderti partecipe della sua divinità per mezzo della
grazia che ti comunica. Viene per curare le tue piaghe ed infermità, viene a rimediare alle tue
necessità, viene per unirsi con te, viene per deificarti. Considera qui l'infinita bontà divina,
perché così si dà e si comunica alle sue creature; considera ciò che ti da qui e perché ti si dà. Ti
si dà Dio, perché tu sia divino e non della terra. In altri benefizi Dio ti dà dei suoi doni, ma qui
egli ti si fa dono suo, acciocché tu sia tutto suo. Ti si dà il medesimo Dio, perché tu dia tutto te
stesso a Dio.
Se dall'essere venuto il Figlio di Dio nelle viscere della Vergine Santissima si raccoglie il
grande amore che egli ebbe per gli uomini, poiché per causa loro fece che da tale estremo di
grandezza venisse a tale estremo di bassezza, come è il rinchiudersi l’immenso nel seno di una
vergine, considera tu quanto egli ti ama, poiché per sostentarti nella vita della grazia si è fatto
vero cibo della tua anima, viene dalla destra di Dio Padre a nascondersi nel tuo impurissimo
petto, viene Gesù Cristo a farti un corpo solo con se stesso, acciocché in modo ammirabile tu ti
unisca con lui e sia partecipe non solo del suo spirito, ma altresì del suo sangue.
Ciò che questa considerazione ha da causare in un cuore cristiano si potrà scorgere da ciò che
un'altra minore cagionò in un cuore gentile. L'imperatore Antonino, il filosofo, scrive che per
il solo fatto di essere uno parte di questo mondo, deve star quieto e tranquillo in qualunque
avvenimento di esso e non far cosa indegna della ragione. Ora, essendo parte di Gesù Cristo,
che dobbiamo fare noi?

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Degne devono essere le nostre opere non solo degli Angeli, ma di figli di Dio.
Anche il modo con cui ti si fa questo singolare beneficio deve intenerire non poco il tuo cuore.
Esso ci fu dato con amore singolare, volendo in esso Dio unirsi con te. Te lo diede in forma di
cibo per umiliarsi fin dove gli fu possibile. Te lo diede sorvolando le leggi più costanti della tua
natura e facendo miracoli più prodigiosi di quelli che fece Mosè nell'Egitto, il che è tutt'una
dimostrazione dell'infinito desiderio che ebbe per il tuo bene, poiché non badò a nulla. Dio ti
si dà nel modo più facile per te, ma più costoso per Dio, perché ti si dà in cibo. È cosa naturale
all'uomo il mangiare e molto soprannaturale che Dio stesso serva di cibo. Consideri, che si è
comunicato, ciò che deve per tale ineffabile beneficio; faccia conto che Gesù Cristo, seduto sul
suo cuore, gli dica ciò che domandò agli Apostoli, dopo aver lavato loro i piedi: “Sai, o anima,
ciò che li ho fatto? Sai il dono che ti ho dato? Sai l'onore e il favore che ti ho fatto? Sai ciò che
hai ricevuto? Conosci ciò che hai dentro di te? Sappi che è il tuo Dio e Redentore! Sappi che è
colui che ti desidera ogni bene e per questo siigli riconoscente, non desiderando bene della
terra, ma solo ciò che è eterno e sommo bene”.

CAPITOLO SESTO.

L'oggetto delle nostre orazioni siano i beni eterni.

Dio gradisce l'orazione per le cose eterne.


Gran differenza si scopre anche tra il tempo e l'eternità per il poco caso che fa Dio nel
concedere beni temporali, mentre si compiace che gli domandiamo quegli eterni per la stima
che egli vuole

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noi abbiamo di essi. Le cose temporali le dà qualche volta per castigo, quelle eterne per
mercede tanto grande che, se non fosse per i meriti infiniti di suo Figlio, non le concederebbe.
Perciò ci comanda lo stesso Gesù Cristo che le domandiamo al Padre nel suo nome, il quale ci
darà quanto gli domanderemo per mezzo suo. Egli invitò pure i suoi discepoli che gli
domandassero qualche cosa, quasi non gli avessero prima domandato cosa alcuna, mentre già
lo avevano pregato per cose temporali. Siccome però le cose temporali si devono stimare per
nulla, si dice che colui il quale aveva domandato beni temporali, non invece beni eterni, non
aveva domandato nulla. Anche la promessa di Gesù Cristo che il Padre concederebbe quanto
si domandasse nel suo nome, si ha da intendere dei beni eterni della grazia e della gloria. Il
bene temporale è cosa tanto da poco che Egli non vuole che lo si domandi per quello che è, né
nel suo nome, né promette che sarebbe concesso, perché da parte di Dio tutto si reputa per
nulla, quando non aiuta a salvarci. Tutto quanto non è domandare a Dio salvezza eterna o in
ordine a questa, è come un domandare nulla. Perciò dice S. Agostino (Tract. 102 in Ioannem):
“Questo gaudio si domanderà in nome di Gesù Cristo, intendendo la grazia divina, se
domandiamo quella vita che è davvero beata; qualunque altra cosa si domandi, non si
domanda nulla, non perché sia totalmente nulla, ma perché in comparazione di una cosa
tanto grande, qualunque altra cosa che si desideri è nulla. Di modo che, secondo S. Agostino,
sebbene domandiamo mille volte cose temporali, non si è domandato nulla a Dio, nostro
Signore.
Per questa ragione molti sapienti dubitarono, se si dovesse domandare a Dio cosa temporale
di questo mondo. Dirò in primo luogo ciò che in questa

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controversia risolvettero i migliori filosofi, di poi risponderò con quello che insegnano i
Teologi.
Marco Aurelio, in nome di molli filosofi, dice che non si deve domandare bene temporale, se
non si è pregato prima per non desiderare cosa di questa vita. Così risponde in questo discreto
ragionamento, al quale, perché sia degno di un cristiano, non manca, se non che, al posto
degli dèi, si riconosca un Dio solo. Le sue parole sono queste: "Gli Dei possono qualche cosa o
non possono nulla? Se non possono nulla, perché preghi? E se possono, perché non domandi
in primo luogo che ti diano la grazia di non temere, né desiderare cosa alcuna di questa terra,
né più pena per la mancanza dei suoi beni di quello che hai per il loro possesso? Se possono
aiutare gli uomini, lo potranno fare anche in questo. Dirai forse che Dio pose queste cose in
tuo potere; così è; però dimmi: non è meglio che delle cose che stanno nel tuo arbitrio tu ti
serva con libertà, piuttosto che sollecitarti ed affliggerti con animo schiavo ed abbattuto per le
cose che non stanno nella tua mano? E chi ti disse che gli dei, nelle cose che ci stanno
soggette, non ci possono dare il loro aiuto? Comincia dunque a pregare per queste cose e
vedrai ciò che avviene. Se uno domanda di ottenere una moglie, tu domanda che non ti passi
neppure per il pensiero tale desiderio; un altro domanda di essere alleggerito in qualche cosa,
tu domanda di non aver necessità di sollievo; altri prega che non perda suo figlio, tu prega di
non temere questo. Fa dunque in questa forma le tue orazioni e vedrai ciò che ti succede”
(MARCUS AUREL., Lib. IX).
Di modo che secondo questo filosofo non si ha da domandare a Dio cosa alcuna temporale, ma
solo il buon uso di questa, che è la virtù. Ascoltiamo pure ciò che disse il migliore dei filosofi

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morali, Socrate, il quale, come riferisce San Tommaso, giudicava che non si dovesse
domandare a Dio se non che desse cosa buona, perché solamente Dio sa quello che è utile ad
ognuno, mentre noi in maggior parte desideriamo e domandiamo tali cose, che sarebbe
meglio non ottenerle. Queste sentenze sono approvate da San Tommaso (II, q. 83, art. 5) e
dagli altri Teologi, in quanto all'orazione per le cose temporali, delle quali possiamo usare
male. Conclude il Dottore angelico, che non si ha da domandare un bene temporale
determinato, ma solo cosa spirituale ed eterna. Queste sono quelle cose che assolutamente si
devono e si possono domandare; non invece le cose temporali, se non in quanto aiutano e
servono a raggiungere le cose eterne, solo in secondo luogo e solo tanto quanto basta.
Ciò che è certo si e, che a Dio è molto gradirà l'orazione che gli si fa per ottenere i beni eterni,
senza aver riguardo a bene alcuno o comodità della terra. Questa orazione è di soave odore a
Dio, come quella celebre bacchetta di esalazione odorifera che si ammira nei Cantici,
composta di aromi, incensi e mirra che sale diritta al cielo.
Così dice San Gregorio: “L'orazione si dice questa bacchetta di fumo odorifero, perché mentre
domanda solamente cosa del cielo, sale. Direttamente colà in tal maniera che non si inclina a
domandare cosa della terra. Si può ben scorgere quanto poco piaccia al Signore la domanda di
cose della terra, dalla risposta che diede quando la moglie di Zebedeo gli domandò per i suoi
due figli l'onore di star uno seduto alla destra del suo trono e l'altro alla sinistra. Gesù Cristo
disse con grande risoluzione che non sapevano ciò che domandavano, perché, come disse San
Giovanni Crisostomo, la domanda era di una cosa temporale e non di una

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cosa spirituale ed eterna. Certamente è stolto colui che, dovendogli domandare il cielo, perde
tempo in domandare cose della terra; stolto è colui il quale, dovendo domandare la gloria
eterna, si mette a domandare onore temporale; stolto è colui il quale, dovendo domandare
grazie a Dio, perde tempo in domandare il favore degli uomini; non sa certamente ciò che
chiede, chi domanda di esser ricco; non sa ciò che domanda, chi sollecita di salire ad un posto
elevato, chi domanda onore, comodità, gusto o qualunque altra cosa che col tempo finisce;
non sa ciò che vuole chi domanda qualche cosa di questo, perché non sa quanto poca cosa è
tutto ciò che col tempo si consuma.

E’ grande errore domandare cose temporali.


Tre errori notò Paludano (Enarratio I de S. Iacobo) nella domanda della madre dei Santi
Giovanni e Giacomo: il primo, che non osservò l'ordine dovuto; l'altro, che non ebbe
intenzione retta e libera da affetto di carne e sangue; il terzo, che fu vana la materia della sua
preghiera. Tutti questi errori si trovano, quando si domandano cose temporali, senza
attendere a quelle eterne, perché chi non vede che colui il quale domanda cose temporali,
rompe tutto l'ordine, perché procede senza ordine? Non vi può essere maggior disordine che
nel domandare il poco, lasciando di domandare il molto, nel domandare ciò che non è
necessario, disprezzando ciò che è necessario all'estremo. Non hanno nulla a che vedere le
necessità dell'anima con quelle del corpo; la nostra anima ha molto più bisogno della grazia di
Dio che il corpo del suo sostentamento. L'anima ha molto più nemici, è molto più bisognevole
del favore e dell'aiuto del cielo; contro di essa si muovono

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tutte le potenze infernali e così ha necessità più grande di soccorso e favore divino.
Gelasio Papa (Epist. V. libr. VI) parlando dei nostri primi padri, quando erano ancora nello
stato dell'innocenza, pieni di tante grazie e doni con cui Dio li aveva arricchiti, e non avevano
come ora tanti nemici, perché non era loro nemica né la carne, né il mondo, dice che vennero
a cadere, perché non fecero orazione per domandare il favore divino.
Avendo (dice il Pontefice) ricevuto da Dio grazia tanto grande, non potevano stare sicuri,
perché non pregavano, il che non si dice che lo facessero. Quanta necessità avremo noi ora
della preghiera, perché manchiamo della giustizia originale, essendo la nostra natura inferma
e corrotta per il peccato ed avendo per nemici dell'anima la stessa nostra carne e tutto il
mondo, con tanti strumenti di vanità ed inganno, tante occasioni e pericoli di peccare,
trovandosi più irritati i demoni dopo che hanno visto le finezze usate dal Figlio di Dio con noi!
Non è possibile dire l'estrema necessità che abbiamo della grazia divina. Dimenticarci di
questa necessità, lasciando di gridare al cielo ed invocare il rimedio, è un disordine e una
miseria grandissima. Chi, morendo dalla sete in mezzo ad un deserto abbandonato, sotto il
fuoco cocente del sole di mezzogiorno e nella forza dei calori canicolari, se s'incontrasse con
uno che portasse acqua fresca, lascerebbe forse di domandargliela subito appena che lo
vedesse? E se non gli domandasse ciò di cui ha tanta necessità, ma altra cosa di cui non
necessitasse, come per esempio un soprabito, che serve solo d'inverno, mentre d'estate è
d'imbarazzo e di peso, quale maggior disordine si potrebbe immaginare? Ora, disordine molto
più grande è domandare a Nostro

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Signore beni temporali che c'imbarazzano e sono di grande preoccupazione e peso, e non
domandare l'acqua della divina grazia senza la quale ci perdiamo.
Oltre a questo, negli stessi beni temporali fra di loro non sappiamo quale ordine si possa avere
per domandare i più convenienti, perché non sappiamo quali sono i migliori. Chi può dire, se
per lui è meglio aver la salute, anziché l'infermità, poiché può essere che stando sano pecchi e
si danni, stando invece infermo sì penta e si salvi? Chi sa, se gli stanno meglio le ricchezze che
la povertà, poiché potrà darsi che avendo abbondanza di tutto non si ricordi di Dio, mentre
mancando del necessario, ciò sia maggiormente a suo servizio? Chi sa, se gli sta meglio essere
onorato, anziché patire qualche confusione, perché l'onore lo può invanire, mentre
l'umiliazione gli può essere di schermo e dargli prudenza? Nessuno sa ciò che gli stia bene o
male, perché molti beni che sembrano tali, ci tornano a male ed altre cose sopra cui
piangiamo, ci si convertono in beni singolari. Ora, come si può trovare l'ordine nel domandare
ciò che non sappiamo, se sia bene di possedere?
Altro grande errore nel domandare cose temporali sta nell'affetto non mortificato e nella
mancanza di pura intenzione che accompagna simile domanda. Le nostre orazioni devono
nascere da un animo molto puro, mortificato e desideroso di servire a Dio. Per significare
questo, il fuoco con cui si bruciava il timiama si pigliava dall'altare dell'olocausto come per
dire: Le nostre orazioni, perché siano gradevoli e di odore soave a Dio, hanno da nascere da
un cuore acceso e sacrificato alla sua divina maestà in vero olocausto di tutti gli affetti e
desideri suoi. Uno può temere che, se domanda a Dio alcuna cosa temporale, non gliela
conceda che per gran castigo. Perciò disse San

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Tommaso (Op. cit., art. 16) che nostro Signore concede ai peccatori ciò che essi domandano
con cattivo affetto, per castigarli coi loro stessi desideri. Così concesse a quelli del popolo
d'Israele le coturnici che domandarono per mangiare e rimasero morti con il boccone in
bocca. Dovremmo temere di domandare cosa temporale e tremare dei nostri stessi desideri,
poiché anche a noi può accadere un simile male. Non mi meraviglio che sia castigato con la
stessa sua domanda chi domanda solo beni di questo mondo, perché è un genere d'insolenza
grande pigliare Dio per mezzo onde ottenere ciò che ha da essere o può essere cagione di
allontanarsi dal medesimo e dal nostro ultimo fine.
Disse Guidone Cartusiano che chi domanda cose temporali, usa con Dio modo non diverso da
quello che userebbe una sposa, se ella pregasse suo marito di voler esso condurre di sua mano
a lei un vile schiavo per cagione di adulterio. Coi beni temporali infatti cresciamo nell'affetto
delle cose terrene e ci dimentichiamo di amare il Creatore, essendo la felicità mondana
strumento e occasione per offenderlo, abusando tanto malamente dei suoi benefici, sicché,
fatto del mezzo fine, non vogliamo le creature all'uso nostro, ma al godimento, con
dimenticanza ed ingiuria del Creatore, e vogliamo che egli, che è il nostro ultimo fine, serva e
porga aiuto ai nostri piaceri, sebbene a lui risultino di dispiacere. Deh! non facciamo a Dio
questo tradimento, ma domandiamogli ciò solamente che a noi debba riuscire di profitto ed a
lui di gusto e di gloria, domandiamogli cioè lo spirituale, l'eterno, la sua grazia, il suo
conoscimento, l'imitazione del suo Figlio, il disprezzo del mondo, il che è conforme alla sua
divina volontà: questo gli abbiamo da domandare e questo egli ci concederà, perché è per il
nostro vero bene.

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Per questo nell'orazione del Pater Noster, dopo di aver detto, che si faccia la volontà di Dio,
parliamo con Dio, comandando e dicendo con tono imperativo: Dacci oggi il nostro pane
quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti, per la certezza che ha l'orazione, quando uno si
conforma col volere divino; è di singolare confidenza, come notò Origene, comandare ciò che
si domanda.
Il terzo errore che ai trova nella domanda dei beni temporali è che si domandano cose vane,
senza sostanza, né profitto, perché ogni felicità e grandezza temporale è fumo, vanità e molto
corta, molto incostante e caduca, indegna del cuore umano, che dobbiamo tenere fisso
unicamente in ciò che è eterno e il resto sotto i piedi, alla guisa di quella misteriosa donna
dell'Apocalisse che era circondata e penetrata dal sole che riempiva il suo cuore e le sue
viscere, ma calpestava la luna coi piedi, perché il sole, perfettamente circolare è simbolo
dell'eterno, mentre la luna, che è falsa, diminuita e mutabile, è figura del temporale e perciò
giustamente si conculca. Il cuore però era pieno di sole per la stima e l'amore che dobbiamo
avere delle cose eterne, non amando, non desiderando, né domandando altra cosa. Il sole ha
la luce da se stesso; la luna no, ma la riceve dal sole. Nello stesso modo l'eterno è bene per se
stesso, non invece il temporale, il quale riceve qualche bontà da ciò che è eterno, in quanto
s'indirizza a questo e serve per raggiungerlo. Tutta la felicità temporale invece in se stessa non
è se non vanità, fumo, sterco, spine, inganno e miseria. Ora, con che faccia un cristiano ha da
domandare a Dio ciò che non è più che fumo e viltà? Tutta la prosperità del mondo, secondo il
concetto divino, non è altra cosa.
Considerando ciò, disse San Giovanni Crisostomo (Homil. 76 in Matth): “Un giudice della
nazione romana non

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intenderà le tue ragioni, se tu non gli parli la sua lingua latina. Nella stessa maniera Gesù
Cristo non ti ascolterà, se tu non gli parli nel suo linguaggio, conformandoti con la tua bocca a
quello di Gesù Cristo medesimo. Ora nel linguaggio del Nostro Redentore le ricchezze sono
spine, l'onore è fumo, i diletti sono vipere. Così, chi domanda questi beni del mondo, è lo
stesso che domandi altrettanti mali. Come non vi è padre, il quale domandato da suo figlio di
uno scorpione in luogo di pane, glielo dia, così pure Dio si comporta con quelli che tiene per
suoi figlioli e li ama. Quando questi gli domandano cose temporali, Egli le nega a loro, perché
non sono per il loro bene. Per questo l'onore temporale che la moglie di Zebedeo domandò per
i suoi due figliuoli le fu negato da Gesù Cristo, Nostro Redentore, il quale disingannò dicendo
che non sapevano ciò che domandavano, perché domandavano per bene genuino ciò che non
lo era, e in luogo dell'onore del regno temporale che gli domandarono, concesse loro quello
del martirio, al quale non pensavano, mentre è onore vero ed eterno.
Sappiamo dunque pregare e non erriamo in cose di tanta importanza. Se un errore è tanto
maggiore, quanto è più importante la cosa in cui si commette, errore grandissimo sarà in
materia di orazione, a cui siamo obbligati per precetto divino, la quale è mezzo necessario per
la nostra salvezza ed ha promessa infallibile da Gesù Cristo che ci concederà ciò che si
domanda in suo nome. Non domandiamo quindi nel nome del nostro Redentore e Salvatore
quello per cui non volle morire, ma soltanto ciò che ci comprò col suo sangue e con la sua vita,
cioè i beni del cielo e la salvezza eterna.
Per questo abbiamo da sospirare, per questo abbiamo da pregare. Considerare dobbiamo
quanto grande colpa è il trascurare l'orazione, cosa tanto

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importante come la salvezza, della quale unicamente abbiamo la promessa che saremo
ascoltati, non invece delle altre cose che stima il mondo e il tempo consuma.

CAPITOLO SETTIMO.

Quanto fortunati sono coloro che rinunciano a tutti i beni temporali per
assicurare i beni eterni.

Se tutto ciò che si è detto non basta per disprezzare i beni della terra, se non basta l'esempio
dateci dal nostro Salvatore con le prove che ci diede, acciocché stimassimo l'eterno e
disprezzassimo il temporale, preferendo ciononostante questo, solo perché è presente, a
quello, pur tanto grande, solo perché ancor da venire, ci muova almeno l'interesse presente.

La rinuncia ai beni temporali è necessaria.


Non vi ha dubbio che deve essere importantissima cosa il rinunciare a tutti i beni temporali,
dopo che il Figliolo di Dio a tale rinuncia ci invita con grande promessa, rinuncia che già tanti
filosofi avevano fatta alle comodità di questa vita e che tanti Santi fecero con la speranza
nell'altra vita. Ricordiamoci di ciò che il Salvatore disse del mondo (Mt 19, 29): “Chiunque
lascerà la casa, o i fratelli, o le sorelle, o il padre, o la madre, o la moglie, o i figli o i campi, per
amore del mio nome, riceverà cento per uno e possederà la vita eterna.” Nelle quali parole si
deve considerare la grandezza di questa promessa e l'importanza di quello per il quale si

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promette cosa tanto grande. Non vi è dubbio, che dev'essere di somma importanza il
rinunciare a tutti i beni temporali, giacché per muoverci a questo il Figlio di Dio ci invita con
promessa tanto grande.
Se già conveniva rinunciarvi, per essere cosa appestata, che scusa si può avere per non
disprezzarli neppure? Giacché non si disprezzano, che ragione vi può essere per amarli e
preferirli a ciò che è eterno?
Molto e moltissimo importa disprezzare ciò che già conviene lasciare, molto conviene levare
dal cuore qualsiasi affetto a quello il cui possesso non conviene neppure avere. E non è certo
molto dire che conviene rinunciare a questi beni caduchi per nostra utilità, perché San
Bonaventura (In Apol. pauperum) giudica che è non solo conveniente, ma necessario e così
dice che la radice di tutti i mali, secondo l'Apostolo, è la brama di essi e la superbia, sua
compagna, dalle quali hanno origine tutti i peccati, essendo loro pasto ed alimento. Per questo
S. Agostino la chiamò il fondamento della città di Babilonia. Questa brama è inchiodata
nell'affetto dell'anima come nel proprio soggetto; però si nutre e riceve il suo alimento dalle
cose esteriori che si posseggono. Onde è necessario che la sua perfetta estirpazione
comprenda queste due cose, che non solo si tolga quella sete interiore, ma altresì il possesso
esteriore: quello si fa solo con la volontà e con lo spirito, ma questo con l'opera ed in effetto,
essendo pur questo tanto importante per noi, e San Bonaventura lo giudicò necessario, in
quanto queste due cose ci promettono in questa vita beni cento volte moltiplicati e di poi la
felicità eterna.
Oh che campo grande ci si scopre qui fra il tempo e l'eternità! La speranza dell'eternità, senza
altro bene temporale, ci dà di più già in vita di quello che possa dare il possesso e il dominio
dei beni temporali!

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Non per essere uno signore delle cose e possederle esse si moltiplicano; invece si centuplicano
con lasciare il loro possesso e rinunciare ad esse per Gesù Cristo, e di poi ci si darà ancora il
Regno dei Cieli.
L'abbondanza dei beni terreni, come abbiamo già detto, è di impedimento alla comodità della
stessa vita, per cui si cercano, e di poi suole precipitare nell'inferno, essendo questi beni
occasione, non solo delle pene eterne, ma anticipatamente di molte pene temporali. Sembra
strano, ma i più ricchi non sono né più contenti, né meno bisognosi.
E ciò forse perché i loro beni aumentando in quantità diminuiscono per essi in valore,
cosicché dieci è per loro meno che uno per il povero. E così mentre a coloro che rinunziando
alle ricchezze, si sono fatti poveri per amore di Gesù Cristo, viene dato il cento per uno, ai
ricchi, i quali dimentichi del loro Redentore non cercano che di aumentare le loro sostanze
accade l'opposto: il cento meno di uno.
Prescindendo dal fatto che sono pieni di preoccupazioni, pericoli, timori e turbamenti, essi
non sanno che cosa sia il vero contento, e di poi corrono grande rischio dell'eterna
dannazione. Tutto il contrario succede ai poveri di spirito che rinunciano ai loro possessi per
Gesù Cristo, cosicché in questa vita hanno riposo, pace ed allegria e nell'altra avranno il Regno
dei Cieli. Oh quanto fortunati sono quelli che giungono ad intendere questo e sanno cambiare
la terra per il cielo! Oh con quanta ragione Gesù Cristo chiamò beati i poveri di spirito, avendo
lasciato tutto per lui, poiché avranno due felicità, una in questa vita presente e l'altra in quella
futura, qui cento volte moltiplicato ciò che non posseggono e di poi il possesso della vita
eterna! Felice colui che sa comperare con le ricchezze della terra il tesoro della gloria, cento
volte moltiplicato nei suoi beni, in morte ed in vita!

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Ben si verifica questo, secondo quanto dice l'abate Abramo, nei religiosi che lasciarono tutte
le cose della terra per vivere nello stato di povertà, i quali per un padre che abbandonarono ne
trovarono cento nella religione, per un fratello cento fratelli, i quali con carità cristiana li
amano, e per un possesso cento possessi e per una casa cento case con la moltitudine dei
monasteri del loro Ordine. Senza dubbio alcuno questo premio è moltiplicato, perché non solo
moltiplica cento volte le cose, ma le sorpassa con molto eccesso. Lo stesso si può dire di altri
servi di Dio che in povertà lo servono, poiché come dice San Venerabile Beda, (De Nativ. S.
Benedicti) con quanto più affetto servono al loro Signore, avendo rinunciato a tutto, dispone il
medesimo Signore che con tanto più affetto e liberalità soccorrano a loro altri nelle toro
necessità e mancanze, servendosi delle sostanze di tutti, perché, come dice l'Apostolo, pur non
avendo nulla, posseggono tutto.
Se mancasse anche questo, non manca l'altro premio cento volte migliore che è quello di cui
parla San Gerolamo (In Matth., lib. III): “Colui il quale lascia per il Salvatore le cose carnali,
riceverà quelle spirituali, che in loro paragone e valore saranno come se un piccolo numero si
confrontasse con cento”. I beni della terra si cercano per vivere con contentezza nella vita.
Ora, se questo si ottiene con molti vantaggi per mezzo del disprezzo ed abbandono di essi, che
possiamo desiderare di più, poiché ha cento volte di più di consolazione e gusto chi lascia
tutto per Cristo, di quello che possa avere il più ricco? Siccome, conforme a quanto abbiamo
già detto, i beni di questa vita sogliono molestare la stessa vita, l'abbandono di essi
alleggerisce il cuore e la vita. Dice San Giovanni Crisostomo che, come i fanciulli di Babilonia
nel mezzo delle fiamme

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della fornace furono ricreati da una brezza molto soave, così pure succederà a quelli che
stanno nella povertà, chiamata dalla Sacra Scrittura fornace, e saranno ricreati da una brezza
del cielo e rugiada dello Spirito Santo. Dice San Bernardo dei monaci di Chiaravalle che dalla
loro povertà, dai loro digiuni e dalle loro grandi penitenze essi cavarono tante consolazioni e
tali diletti di spirito, che cagionava loro qualche sospetto e timore che Dio li volesse premiare
qui, sembrando loro che, avendo il cielo in questa vita, lo perderebbero nell'altra. Fu
necessario che lo stesso San Bernardo facesse loro una predica, provando ad essi che
offendeva la grazia dello Spirito Santo colui che si doleva di ciò che egli gli comunicava.
Veramente sono ben pagati i servi di Dio, nel ricevere tante gioie celesti, per le gioie terrene
che lasciano. Disse Cassiano che, se per certo peso di rame si desse a uno altrettanto di oro,
senza dubbio alcuno, egli ne resterebbe ben contento e giudicherebbe di aver ricevuto il
centuplo. Così può ritenersi ben pagato chi rinunciando ad un piacere terreno ne riceve uno
celeste, e rinunciando ad una gioia del mondo, ne riceve un'altra da Dio.
Tutto questo si verifica molto bene in Arnolfo Cistercense. Nobile, ricchissimo, il mondo gli
offriva ogni piacere, ma scosso dai sermoni di San Bernardo, si fece monaco nel monastero di
Chiaravalle e si diede ad una vita così rigorosa e santa da cadere in grave infermità. Lo
tormentavano così forti dolori che qualche volta sveniva: ma quando ritornava in sé,
esclamava: “Vere sono le cose che dicesti, o buon Gesù”. Richiesto come si sentisse, non
sapeva rispondere che ripetendo le stesse parole: “Vere sono le tue promesse, o buon Gesù”.
Pensando qualcuno che la forza dei dolori lo facesse delirare, il servo di Dio diceva: “Io con
giudizio e sentimento ho detto questo, fratelli miei; il Signore promette nel suo

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Vangelo che chi rinuncia al padre o alfa madre e alle sostanze per lui, riceverà il centuplo in
questa vita ed io ben esperimento la verità di questa promessa, perché la moltitudine di dolori
e di pene che soffro mi sono così dolci, per la speranza tanto viva che sento in me della vita
eterna, che non vorrei cambiare il mio stato attuale per il centuple di quanto abbandonai nel
mondo. Se a me, tanto cattivo e peccatore, i dolori che merito mi sono cento volte più soavi
che il mio antico podere, e di gaudio molto maggiore che le ricchezze ed i contenti del mondo,
che saranno a un uomo buono e giusto ed ai religiosi ferventi?”. In questo si scorge che il
gaudio spirituale, anche nella speranza, da centomila volte più gusto e contento che colui che
gode delle cose temporali e carnali. Con quanto disse questo servo di Dio tutti rimasero molto
meravigliati che un uomo idiota e senza istruzione intendesse tanto bene e dicesse cose tanto
alte.

Il premio di questa rinuncia.


Il gaudio dei poveri di Gesù Cristo, che per amor suo rinunciarono a tutto, ha due cause: l'una
è il gusto che porta con sé la stessa povertà col disimbarazzo dei beni temporali, come lo
confessarono gli stessi gentili. Per ciò Apuleio chiamò la povertà allegra e Seneca disse che
dava miglior sonno la zolla della terra che la lana tessuta a Tiro. Anassagora, istruito forse
dall'esperienza, diceva che dormendo sul suolo e mangiando erbe era più contento che nei
letti di piuma e fra lauti banchetti con l'animo inquieto. L'altra causa non è per la natura della
povertà, ma sta nella grazia particolare di Dio il quale premia con diletti del cielo coloro che
ripudiarono quelli della terra; egli ricolma di ricchezze spirituali quelli che rinunciarono a
quelle temporali, essendo la povertà molto privilegiata ed amata da Gesù

600

Cristo, onde la rimunera già in questa vita con favori e grazie particolari.
Inoltre le molte e grandi utilità, che porta con sé il disprezzo dei beni della terra, possono
servire di premio ed equivalgono al centuplicato e al mille volte moltiplicato. Se si desse tutto
il mondo per non fare un peccato, non sarebbe ancora un prezzo equivalente. Ora, per la
povertà evangelica e col disprezzo del mondo, quanti peccati si risparmiano! Essi sono
innumerevoli, perché si leva la radice dei peccati e lo strumento di essi. Tolta infatti
l'abbondanza, manca pure il fasto, l'arroganza e la superbia che nasce da essa, come il fumo
dal fuoco. Si toglie pure la facoltà di commettere molti peccati che seguono alla ricchezza. Le
virtù infatti occasionate dalla povertà e dallo sgombro delle cose temporali valgono cento volte
di più che i tesori di Creso, perché la povertà è accompagnata dall'umiltà, modestia e
temperanza.
È una grande verità quella che disse e pondera San Giovanni Crisostomo (Homil. VIII in
Epist. ad Hebr): “Nella povertà possediamo più facilmente le virtù. Non è nemmeno di piccola
stima che lo stato povero aiuta di più a soddisfare per i peccati commessi, conforme a ciò che
si disse al giusto per bocca di Isaia (Is. II, 10): “Nel forno della povertà ti elessi”, cioè ti ho
purificato. È pure di grande stima il non occuparsi uno in impieghi inutili e vili delle cose della
terra, avendo il povero tempo per trattare con Dio e con i suoi Angeli ed impiegarlo nella
contemplazione delle cose eterne e nell'esercizio delle virtù.
Vale ben il centuplo la dignità, l'onore ed il dominio delle cose a cui giunge il povero di spirito.
Come è grande viltà quella dei ricchi, che sono schiavi della loro avarizia e di cose tanto

601

vili, quali sono le ricchezze della terra, così è grande onore dei poveri esimersi da questa
servitù, rendendosi padroni di tutto col disprezzo che di essi hanno; per il che conseguono,
come dice l'Apostolo, il possesso di tutto. In tal guisa non vi hanno ricchezze, né regni che si
possano confrontare con esso, perché i regni hanno i loro termini là dove si limitano e dove
non passano. Ma il regno della povertà per ciò solo che non possiede nulla, non si limita, né si
chiude entro termini poiché il cuore non può possedere alcuna cosa. Se il cuore non le e
superiore, cioè se non sa assoggettare tutto a sé rinunciando a tutto, esso non si rende
superiore a tutte le cose.
Coloro che vogliono essere ricchi è certo che non possono a meno di amare quelle cose, senza
le quali non possono vivere, e quanto più le amano, tanto più ne sono preoccupati e ne hanno
sollecitudine e servitù; ma colui che disprezza queste cose non solo è superiore ad esse, ma ne
è signore e padrone. Per questo disse molto bene San Giovanni Climaco che il religioso povero
è signore di tutto il mondo, perché, ponendo in Dio tutte le sue preoccupazioni, si fa signore di
tutto lui, e tutti gli uomini sono come i suoi servi.
Inoltre, il vero amore della povertà non si affeziona vilmente alle cose, perché tutto ciò che ha
o può avere lo reputa per nulla. Quando gli manca qualche cosa non gli dà più pena di quello
che se gli mancasse l'immondezza.
Ma, sopra tutto questo, è Dio colui che per mezzo della povertà si possiede e, come avverte S.
Ambrogio (In Ps. 118) è centuplicato ciò che si riceve per quello che si lasciò. Come alla tribù
di Levi, la quale non ebbe parte alcuna nella distribuzione della terra di Palestina, promise Dio
che Egli doveva essere il

602

suo possesso e la parte della sua eredità; così con molta ragione a quelli che volontariamente
non vollero aver parte nei beni della terra. Dio è il loro possesso e la ricchezza ed ogni bene sia
in questa vita.
E il bene dei poveri passa più avanti e non solo da beni centuplicati e consolazioni e lo stesso
Dio in questa vita, ma nell'altra da altresì il Regno dei Cieli. In tal modo sono fortunatissimi
quelli che rinunciano alla fortuna e felicità di questo mondo, come dice S. Agostino (Sermo
XVVIII de verbis Apost): “Grande fortuna e felicità somma dei cristiani è che col ricco prezzo
della povertà comprano il ricco premio della gloria. Vuoi vedere quanto sia preziosa e ricca? Il
povero compra e raggiunge per mezzo di essa ciò che non poté il ricco con tutti i suoi tesori.
Fu altissimo consiglio di Dio, nostro Signore, e disegno della sua altissima intelligenza che
della povertà facesse il prezzo della sua gloria, acciocché a nessuno mancasse con che
comperarla; per il grande affetto che molti Santi avevano per essa si consegnarono ad essa in
tal modo e la procurarono con tanto fervore, con quanto i ricchi rifuggono da essa, e così li
superarono di tanto, nel volere essere poveri, di quanto quelli nel volere essere ricchi.

CAPITOLO OTTAVO.

Molti disprezzano tutto il temporale e vi rinunziano.


L'esempio dei gentili.
E' tanto chiara la viltà dei beni temporali e il danno che essi sogliono causare alla stessa vita
temporale che, senza lume di fede, né insegnamento

603

del Figlio di Dio, la conobbero i filosofi, e molti di essi si convinsero tanto dell'importanza,
non solo del loro disprezzo, ma anche della loro rinuncia, che vissero molto contenti della
povertà e modestia grande.
Aristide Ateniese, essendo molto riguardevole, viveva tanto poveramente che andava con un
vestito sdruscito e povero sempre affamato e bisognevole. Essendo un amico suo, di nome
Calias, accusato in giudizio, tra altre cose, che pure essendo tanto ricco non aiutasse il suo
amico Aristide, talmente che i giudici erano indignati contro di lui, per ciò che si mormorava e
si diceva della sua inumanità, questi andò a trovare Aristide e lo pregò che lo difendesse da
tale accusa, dichiarando in giudizio, quante volte gli aveva offerto i suoi beni, che non volle
mai accettare, preferendo vivere nella sua povertà piuttosto che profittare della ricchezza di
altri, e dicendo che ad ogni passo si trovava chi, essendo ricco; spendeva male ciò che
possedeva, mentre pochi se la passavano con animo generoso nella povertà e mancanza del
necessario.
Avendo dichiarato Aristide questo in giudizio, nessuno dei presenti vi fu che non stimasse di
più e non invidiasse la povertà e necessità di Aristide e non tenesse da meno le ricchezze e
l'abbondanza di Calias.
Zenone, come scrivono San Gregorio Nazianzeno, e Seneca, ricevendo la notizia che si era
perduto tutto ciò che aveva, rispose: "La fortuna vuole che io professi la vita di filosofo da qui
in avanti con maggior felicità”. Valerio Massimo racconta di Anassagora che al giungergli la
medesima notizia rispose: “Se la mia sostanza non si perdeva, mi perdevo io”. Catone racconta
di Crates tebano che gettò nel mare un gran peso di denaro dicendo; “Ti voglio annegare,
perché tu non anneghi me”. Diogene abbandonò tutto quanto possedeva e rimase con solo una
scodella, con cui

604

beveva; ma avendo visto per caso un altro bere nella mano, la ruppe. Laerzio riferisce che un
tale di Rodi, burlandosi del Filosofo Eschinese, disse: “Per gli dei, quanto mi rincresce di
vederli tanto povero”! Egli rispose: “Per gli stessi dei, ti giuro che mi rincresce vederti tanto
ricco. Hai faticato per giungere alle ricchezze, hai preoccupazione per conservarle, ti arrabbi
nel dividerle, hai pericolo nel custodirle, mille sorprese nel difenderle e il peggio si è, che là
dove sono le tue ricchezze, hai pure il tuo cuore”.
Tratta bene questo punto San Giovanni Crisostomo (Lib. II, Contra vitup. vitae mon.) nel
secondo libro contro i biasimatori della vita monastica, libro che egli indirizza e dedica ai
gentili e filosofi, nel quale si serve di ragioni naturali, che si possono trovare col solo lume
della ragione, nel quale paragona Platone col re Dionisio, Socrate con Artelao, Diogene con
Alessandro, i quali divennero più celebri per la loro povertà, che non i ricchi col loro comando
e dominio. Egli racconta di Epaminonda tebano, che chiamato ad un'adunanza, non poté
intervenire, perché aveva lavato la sua tunica e non ne aveva un'altra da mettersi, per il che fu
molto stimato e ritenuto da più che i principi. Dal che conclude il santo Dottore che, quando
anche non esistesse legge Evangelica ed esempio di Santi, già con la ragione e le testimonianze
naturali, la povertà è di grande stima e dignità. Ora essendo così, come lo è difatti, che
possiamo dire, se non confessare che questa povertà non è se non grande e vera ricchezza?

L'esempio dei Santi.


Bastevole confusione nostra è che i gentili disprezzino tanto i beni temporali senza la fede che
abbiamo noi dell'eternità, la quale dà luce tanto

605

grande per scoprire la distanza che vi è tra il temporale e l'eterno, che a quelli che furono
illustrati da qualche raggio di disinganno e verità, li ha fatti non solo disprezzare quanto il
mondo stima, ma altresì abbracciare e cercare il contrario, accontentandosi della povertà,
dell'ignominia e penitenza, facendo in questa parte tali estremi, quali mai si sarebbero
immaginati, dai quali raccoglierò qui alcuni fatti assai straordinari.
È degna di memoria la storia che ci riporta San Gregorio Nisseno di un filosofo, chiamato
Alessandro, il quale era molto bello di volto e di forma e presenza. Conoscendo però per lume
di fede, la quale perfeziona la filosofia, la vanità delle cose del mondo e il pericolo di esse, si
risolvette di vivere con grande disprezzo di sé, in fatica e umiltà, e perché il suo volto tanto
bello non gli fosse occasione di peccato, sia a se, sia agli altri, andò alla città di Comana, per
essere ivi carbonaio, dove gli sembrò di poter star più sconosciuto e dimenticato. Lo fu infatti
per molto tempo, andando attorno stracciato ed annerito che sembrava lo stesso carbone,
tenuto da tutti per l'uomo più vile del popolo. Arrivò ivi San Gregorio Taumaturgo per dare a
loro il vescovo, essendo defunto quello che avevano. Venendogli presentata la gente più nobile
ed erudita, perché fra esse scegliesse colui che egli volesse, il santo disse loro che non si
lasciassero guidare per carica tanto alta dai beni che splendono nel mondo, ma solo dalla
virtù, perciò gli presentassero anche altri meno illustri e segnalati, fosse anche gente umile e
bassa. Replicarono alcuni, come per burlare e ridere: “Giacché si ha da proporre per vescovi
questa gente, proponiamogli Alessandro il carbonaio", sembrando loro che nella città non vi
fosse uomo più basso e disprezzato. Udendo questo nome San Gregorio, illuminato da Dio, lo
mandò a chiamare e lo segnalò per vescovo, perché nostro

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Signore non permise che colui che tanto si disprezzò non fosse onorato da tutti. In tal modo
pose sopra il candelabro della sua Chiesa colui che si era nascosto nella sua bassezza. Egli fu
tanto eccellente vescovo ed imitatore di Cristo, che per il suo santo nome giunse a dare la sua
vita, unendo alla corona della sua santissima vita l'aureola del martirio.
Non fu meno meraviglioso il disprezzo del mondo di Simeone Salo, come raccontarono
Leonzio ed Evagrio, (EVAGRIUS, Lib. IV, cap. 33) il quale, vivendo in grande povertà e
disprezzo, nascondeva quanto poteva i suoi digiuni e le sue lunghe ore di preghiera dinanzi a
Dio. Quando stava in pubblico, procurava di comportarsi in modo che lo tenessero per matto e
senza virtù alcuna. Così entrava nelle taverne e quando dopo i suoi lunghi digiuni aveva
bisogno di mangiare, mangiava per la strada cose molto vili. Se qualche savio si accorgeva del
suo modo di vivere, sospettando che lo facesse per essere disprezzato e per nascondere la sua
virtù, accorgendosi egli andava altrove per essere più lontano da qualsiasi stima.
Quelli che in varie occasioni compirono stravaganze ed operarono cose indegne al parer degli
uomini, per non essere tenuti per santi, né essere onorati dai popoli sono pure molti. San
Giovanni Climaco (Gradus. 25, § 1) racconta che il beato Padre Simeone, sentendo dire che
l'uomo più stimato della provincia veniva a visitarlo come uomo famoso e santo, prese in
mano un pezzo di pane e formaggio e seduto alla porta della sua cella cominciò a mangiarne
come se fosse senza giudizio e perciò il visitatore non fece caso di lui.

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L'esempio di santi Principi.


Fra coloro che hanno abbracciato la povertà evangelica ed il disprezzo del mondo, vi sono
molti che furono grandi signori, principi, re e imperatori. In Germania fu molto illustre
l'azione eroica del suo principe Carlo, il quale, essendo ricchissimo, stimato e temuto per le
sue gloriose imprese, toccato dall'amore delle cose del cielo, lasciò il regno a suo fratello,
mentre egli venne come povero a Roma dove si fece monaco ed avendo edificato un
monastero sul monte di San Silvestre, abitò ivi per alcun tempo. Ma essendo molto visitato da
quelli della città che gli era vicina e impedendogli questi la sua quiete, andò a Monte Cassino,
dove fu ricevuto dall'abate Petronace con incredibile gaudio. Ivi, negli esercizi di umiltà
progredì tanto che negli annali di quel Monastero si trova scritto che, avendo l'abate ordinato
che egli curasse il bestiame, egli fece con grande allegria ufficio tanto basso come se fosse
governare un regno, come faceva prima. Andando una volta perduta una pecora, l'andò a
cercare, la prese sopra le sue spalle e la portò nell'ovile senza disdegnarsi né stancarsi di tale
ufficio.
Nella nostra Spagna sappiamo pure del re Bamba, che, dopo aver regnato undici anni ed aver
compiuto imprese meravigliose ed aver tolto a certi corsari dell'Africa più di duecento navi ed
aver fatto prigioniero il re Paolo che si era ribellato ed era venuto contro di lui dalla Francia,
andò a rinchiudersi in un monastero dove visse sette anni con grande osservanza nella sua
religione e morì nell'anno 674; il cui esempio, nel 986 fu seguito da Bernardo, Re di Castiglia.
Appena vi ha provincia in Europa che non abbia avuto principi, che hanno rinunciato al
proprio regno temporale per raggiungere quello eterno, insegnandoci essi quale sia fa vera
grandezza, che è l'essere umili e umiliati per Gesù Cristo, e la vera

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ricchezza, che è essere poveri di spirito con affetto ed in effetto. Per non dilungarmi di più col
riportare altri fatti dei molti che hanno saputo cambiare i beni temporali per il Regno dei cieli,
non voglio lasciar passare sotto silenzio una storia la quale rinchiude molti esempi.
Tommaso di Cantimprato (Lib. II, cap. 10, p. 3) attesta che al suo tempo morì Santa Matilde,
figlia del re di Scozia, la quale ebbe quattro fratelli; uno, che era duca, desiderando farsi
poverissimo per Cristo, lasciò lo stato e si esiliò dalla sua patria; un altro fu conte, il quale
voltò le spalle ai beni della terra col fuggire a un romitaggio; il terzo, essendo Arcivescovo,
rinunciò all'Arcivescovado ed entrò in un monastero di Cistercensi; il quarto, per nome
Alessandro, che era il più giovane dei fratelli, quando fu giunto all'età di 16 anni, voleva il
padre obbligarlo che cominciasse a governare il regno; ma la sua sorella Matilde che in quel
tempo aveva 20 anni, chiamandolo in disparte, gli disse: “Fratello mio, dolcissimo Alessandro,
che cosa è che tu pensi di fare? Non vedi come i tuoi fratelli maggiori hanno abbandonato il
mondo e le cose della terra per guadagnare il cielo? Come hanno disprezzato il regno
temporale per quello eterno? Guarda che ti hanno lasciato un regno, per il quale perderai il
Regno del Cielo e con esso l'anima tua".
Alessandro, con gli occhi diventati fonti di lagrime, rispose: “Ora, sorella mia, che cosa mi
consigli che io debba fare? Ecco qui sono pronto per eseguire quanto mi comanderai, senza
mancare di un punto”.
Si compiacque la santa di tale risoluzione e cambiandosi il vestito, ambedue abbandonarono
la patria; partirono insieme per uscire dalle loro terre, e si recarono in luogo dove la sorella
insegnò al fratello come doveva governare le vacche,

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mungerle e far buoni formaggi. Di poi vennero in Francia e la santa insegnò ad Alessandro
come doveva servire in una colonia dei monaci Cistercensi i quali, avendo fatto prima prove di
lui, trovarono che era adattissimo a governare le vacche e far formaggi.
Con l'andar del tempo si accorsero i religiosi del suo bel tratto e lo ammisero nella loro
religione come fratello laico, vedendo ciò Santa Matilde, gli disse un giorno: “Fratello mio,
grande premio senza dubbio ci ha da dare il Signore avendo lasciato padre e patria per il suo
amore; ma lo riceveremo molto più grande se per tutta la vita che ci resta stimeremo per bene
il privarci dei molti contenti che riceviamo nel vederci l'un l'altro, per darci ognuno alla
sovrana e divina maestà. Di modo che non ci vedremo mai più fino a che ci rivedremo riuniti
nel cielo, dove ci riuniremo con consolazione vera ed eterna". Allora il fratello pianse e tenne
questo per la cosa più difficile di quanto aveva fatto in tutto il corso della sua vita. Ma infine la
ruppe con tutto e si separarono i due, di modo che mai più si rividero qui sopra la terra.
La santa donzella andò ad una villa distante nove miglia, dove viveva ritirata in una capanna,
sostentandosi col solo lavoro delle sue mani, senza accettare mai elemosina da persona
alcuna. Il suo letto era il suolo o poco meno: non usava genere alcuno di cappezzale; mangiava
in ginocchio e nella medesima posizione spendeva molte ore in orazione, nelle quali molte
volte era rapita fuori dei sensi, tanto che non sentiva il rumore dei tuoni, né vedeva la luce e lo
splendore dei lampi. Alessandro non fu mai riconosciuto fin che visse, mentre lo fu Santa
Matilde nove anni prima della sua morte, e subito essa volle fuggire da quella terra, ma la
impedirono. Fece molti miracoli in vita ed in morte.
Un monaco, infermo di un postema nel petto, andò a pregare alla sepoltura del servo di

610

Dio Alessandro e durante essa gli apparve il santo uomo più splendente del sole e adorno di
due corone bellissime che portava l'una in testa e l'altra nelle mani. Il monaco gli domandò
che significassero quelle due corone: “Quella che porto nelle mani, rispose, mi fu data per
ragione del regno temporale che io abbandonai; la corona della testa è quella che
comunemente si dà a tutti i santi del cielo. Acciocché ti sia di maggior credito ciò che hai visto
in questa visione ti troverai guarito dalla infermità che ti tormenta, conforme alla fede che hai
avuto”. In questo modo Dio onora quelli che si umiliano per il suo onore.

CAPITOLO NONO.

L'amore che dobbiamo a Dio non deve lasciar luogo né potere all’anima per
amare ciò che è temporale.

I motivi dell'amore di Dio.


Abbiamo riuniti motivi e ragioni sufficienti per disprezzare tutte le cose temporali ed
allontanare da esse il nostro cuore. Esse infatti sono vilissime, transitorie, variabili, piccole,
pericolose, e tanto ha fatto e patito Cristo nostro Signore, perché le disprezzassimo. Ora
intendo aggiungere, a conclusione di questa materia, che, anche se per sé avessero qualche
pregio, non le dovremmo amare, essendo tanto grande l'amore che dobbiamo a Dio, che non
deve lasciar luogo per amare altra cosa fuori di Lui. Se si comanda nella legge antica, quando
gli uomini non avevano gli obblighi che abbiamo ora, dopo che è morto il Figlio di Dio per
nostro bene, che amiamo Dio con tutto il nostro

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cuore, con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze, ora che gli dobbiamo di più ed
abbiamo maggior conoscenza della bontà divina, che dobbiamo fare? Se prima lo dovevamo
amare tanto che non ci rimaneva luogo per amare altra cosa, ora, che gli dobbiamo di più,
come possiamo volgere gli occhi e mettere l'affetto del cuore in creatura alcuna, mentre non
bastano milioni di cuori per appagarli del nostro Creatore e Redentore? Non vi ha titolo
alcuno in Dio che non lo renda amabilissimo, per cui non gli dobbiamo mille volontà, mille
amori e quanto siamo e possiamo; quanto più poi gli dovremmo per tutto l'insieme dei suoi
titoli?
Considera ciò che gli devi per i suoi benefizi, per il suo amore e la sua bontà e vedrai che ti
mancheranno i cuori per amarlo, anche se ne avessi tanti quanti granelli di arena vi ha nel
mare e atomi nell'aria. Ora, come puoi dividere tra le creature quell'unico che hai? Considera
poi la moltitudine e grandezza dei benefizi divini per i quali dovrebbe avvenire con Dio ciò che
avviene fra gli uomini: poiché, se dei benefizi umani si dice che i regali rompono le rupi, come
è che tanti benefizi divini non muovono il tuo cuore di carne?

I benefici di Dio.
Se Salomone disse che quelli che fanno doni, rubano il cuore di coloro che li ricevono, come
Dio non ti ruba l'anima facendoti non solo doni, ma avendoti dato se stesso in dono? Guarda i
benefizi che ricevesti nella creazione, poiché ne ricevesti allora tanti, quanti membri hai nel
corpo e potenze nell'anima; guarda i benefizi che ricevesti nella conservazione, perché ricevi
quanto hai nel cielo e nella terra, gli elementi e le stelle e tutto questo mondo che si creò per te
e senza del quale non ti conserveresti. Guarda i benefizi che ricevesti nella Redenzione che
furono tanti, quanti sono

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i malvagi dell'inferno, poiché da essi ti liberò; guarda i benefizi che ricevesti nella
giustificazione che sono tanti, quanti Sacramenti Gesù Cristo istituì e gli esempi che ti diede:
guarda quanto gli devi per averti fatto cristiano ed averti perdonato tante volte e dato di nuovo
la sua grazia. Tutti questi benefizi stanno domandando il tuo amore per mille obbligazioni.
Ora non solo questi benefizi di Dio, ma anche quelli degli uomini ti domandano l'amore per
Dio, perché non ti fa uomo alcun beneficio, che non te lo faccia Dio per suo mezzo.
Per ogni parte sei obbligato ad amare sopra tutte le cose Colui che ti fa bene in tutto e vale più
che tutto. Come è che tanti benefizi non ti pongono in alcuna preoccupazione intorno a ciò che
gli devi? Davide si crucciava di questa preoccupazione dicendo: “Che cosa darò, o Signore, per
tutto quello che mi hai fatto”? (Ps. 115, 12) pur non avendogli dato il Corpo e Sangue di suo
Figlio, non essendosi allora ancora incarnato, né essendo morto per lui. Ma dopo aver fatto
questo per noi, com'è che non ci si svela ciò che dobbiamo fare per essere riconoscenti a
misericordie tanto infinite ed ineffabili? Da noi che cosa gli possiamo restituire, se non ciò che
abbiamo ricevuto, consegnandogli la nostra anima, il nostro corpo, il cuore e quanto siamo,
considerandoci già come cosa altrui, e che già con nuova obbligazione è consegnata a Dio in
ricambio dei molti benefizi, riconoscendo che gli dobbiamo di più di quel che possiamo, non
ponendo il nostro amore nelle creature?

L'amore di Dio per noi.


Considerando poi l'amore che Dio ha per noi, vedremo pure come non ci rimane amore per
amare altre cose, né noi stessi.

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Per conoscere quanto grande sia questo amore divino, si ha da supporre che l'amore fino e
vero consiste nelle opere e molto più nella pazienza ed altresì nella comunicazione dei beni.
Considera ora quanto grande sia l'amore che ebbe per te il tuo Creatore, avendo compiuto tali
opere per te, quale furono quella della sua Incarnazione e della tua Redenzione; ora ti sta
facendo mille benefizi e sta operando per te in tutte le creature, facendo crescere il frumento
che ti ha da sostentare, ti fa crescere la lana che ti ha da vestire, sta sostentando il sole che ti
ha da illuminare, sta cavando dalle vene della terra l'acqua che hai da bere; in tutte le cose Egli
sta operando per te. Considera come agli elementi da l'essere, alle piante il vivere, agli animali
il sentire, agli Angeli l'intendere ed in te opera tutto questo, perché sostenta il tuo essere, la
tua vita, i tuoi sensi, la tua intelligenza, operando in le solo quanto opera in tutti gli altri gradi
della natura.
Ben provato è l'amore di Dio per le sue opere, poiché opera tanto per chi meritava di essere
annientato e disfatto. Considera pure quanto finissimo è l'amore divino, poiché soffri tali
tormenti e morte tanto penosa per te; ha sofferto tante volte quante l'hai offeso. Se la pazienza
è prova dell'amore, dove vi è pazienza tanto grande, quanto fine sarà l'amore? Se un re avesse
sofferto che un suo suddito gli avesse dato trenta pugnalate, senza tralasciare per questo di
fargli mille doni e sostentarlo con grandi rendite, chi non si meraviglierebbe di amore tanto
grande; chi non direbbe che quel re era invaghito di lui? Oh grandezza di Dio, che mille volte
sopporta che torniamo a crocifiggere il nostro Redentore e Re della gloria, e sempre tace!
Considera altresì quale amore ci porta in quanto ci comunicò tutto il bene che possiede,
consegnandoci il Padre lo stesso suo Figlio, e il Figlio dandoci il suo Corpo e Sangue, e il Padre
insieme col Figlio mandandoci lo Spirito Santo, per mezzo del

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quale siamo fatti partecipi, mediante !a grazia, della sua natura divina. Considera, se si può
immaginare maggiore o più fine o più provato amore di questo che Dio porta a noi, poiché ci
comunica quanto ha. Se amore si paga con amore, a tale amore quale amore dovrai?
Considera, se ti resta libero affetto da impiegare in altre cose fuor del tuo amato Re e del tuo
Dio. Pagagli la sua buona volontà col non aver altra volontà che la sua, amando Colui che
tanto ti ama. Corrispondendogli con l'amor reale delle opere e della pazienza.
Non si accontenta il Signore che noi lo amiamo con la lingua, anzi Egli riprende quelli che gli
dicevano buone parole ripetendo: "Signore, Signore" e non facendo ciò che dicevano. Sebbene
anche le parole possono essere buone, esse si condannano per la mancanza delle opere e per
essere così amore finto. Amiamolo davvero, sopportando molto per il suo amore,
comunicandogli quanto abbiamo. Non credere che l'amore, ti debba riuscire a buon mercato,
ma ha da essere a costo di tutti i tuoi beni. Se amerai davvero il tuo Dio che tanto ti amò, devi
risolverti a perdere il tuo onore, il tuo gusto, la tua sostanza, per servire e piacere a chi ami.

Dio è degno di amore infinito.


Soprattutto considerando chi è Dio, che è infinitamente bello, buono, sapiente, potente,
eterno, immenso, immutabile, non vi è cuore che possa convenientemente amarlo anche per
un suo solo attributo, che dire, quindi dell'amore che merita nella sua reale infinità che
contiene in modo sopraeminente tutte quante le perfezioni e bellezze delle creature che
esistono e che si possono immaginare? Tutte sono una piccola goccia rispetto ad un mare
immenso e tutte dipendono da Dio, il quale comunica le sue perfezioni e bellezze alle creature.

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Ora, se gli uomini, che, come dice il Savio, si compiacciono della bellezza delle creature, la
stessa compiacenza avessero per Dio, intenderebbero dalle creature quanto più bello
dev'essere il Signore di tutte esse, poiché Colui che le fece è l'Autore e il Padre della stessa
bellezza. Se ammirano la virtù e la forza che hanno le creature per operare, debbono capire
che Colui che le fece è molto più potente di esse, perché dalla bellezza e grandezza del creato
l'intelligenza può conoscere quella del Creatore. Se l'effetto è buono, non può a meno di essere
buona anche la causa, perché nessuno da ciò che non ha. Chi fece cose tanto belle e buone non
può non essere bellissimo e sopra modo buono, se l'immaginazione potesse anche riunire in
una sola tutto il bello e perfetto di tutte le creature, possibili ed immaginabili, infinitamente
più bello e perfetto sarà Dio.
Ne segue che, essendo Dio infinitamente perfetto e bello, sarà pure infinitamente amabile; lo
dobbiamo amare con amore infinito, perciò, anche se la capacità del nostro cuore fosse
infinita, la dovremmo impiegare tutta in amare cosa tanto perfetta ed amabile. Ma, essendo
limitato il nostro cuore, come gli possiamo togliere parte di esso per metterlo in cosa di questa
vita? Oltre a ciò, è tanta l'amabilità di Dio che neppure abbiamo a permettere a noi stessi di
amarci, se non per Lui. E se non dobbiamo amare noi stessi, come ci divertiamo ad amare
altra cosa?
O Dio infinito! Come mi rallegro che siate tanto buono e tanto perfetto, tanto bello e principio
di ogni bene, perfezione e bellezza, sicché io non solo debbo allontanare l'amore da tutte le
altre creature, ma altresì da me stesso, per metterlo in voi, da cui dipende tutto il mio essere e
discende tutta la mia perfezione, come i raggi dal sole e le acque dalla fonte! “Come la
conservazione dei raggi, dice un dottore mistico, dipende più dal sole

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che da essi, e la conservazione del fiume dipende di più dalla fonte che da se stesso, così pure
il bene dell'uomo dipende più da Dio che da se stesso, perché Dio è la fonte dell'essere e di
ogni bontà”.
Ne consegue che l'uomo, amando se stesso viene a cadere e a perdersi; fuggendo da sé ed
aborrendosi viene a guadagnare se stesso come sta scritto nel Vangelo (Io., XII. 25): “Chi ama
l'anima sua la ucciderà, e chi la odia in questo mondo la salverà per la vita eterna”. Da qui
nasce che uno deve considerarsi non come cosa sua, né di alcuno, ma solo e tutto di Dio,
dipendente in tutto il suo essere che è temporale da quel pelago infinito di essere e di
perfezione che è in Dio. Da qui nasce il trovarsi lo spirito libero e disimbarazzato per andare a
Dio con tutta la forza della sua intenzione e del suo amore, perché non trova cosa da amare, né
a cui piacere fuor che a Dio, perché tutto ciò che si trova nelle creature si trova infinitamente
maggiore in Dio. Quando uno ha raggiunto questo stato, per quanto varie e differenti siano le
sue opere, è sempre uno e il medesimo il fine che in esse pretende e sempre consegue il fine
che pretende, se chiudendo gli occhi a tutte le creature, come se non fossero, non pretende più
che piacere alla divina bontà per se stessa.
Ben può accadere che, guardando i fini particolari di ogni opera, le nostre azioni abbiano stati
differenti, perché delle volte saranno altre nel principio, altre nel mezzo, altre alla fine e molte
volte, per disturbi differenti che succedono e contraddizioni che traversano, non
raggiungeranno il loro fine; ma guardando all'intenzione di colui che opera, esse stanno
sempre nel loro fine, perché in qualunque stato in cui l'opera si trovi, colui che la compie con
questa intenzione, sempre è ordinato al fine

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a cui aspira, che è piacere a Dio con le sue opere. Per questo nessun avvenimento e nessuna
contraddizione lo può disturbare dal conseguimento del suo fine.
Secondo questo, gran cosa è l'esser giunto a comprendere con la luce del cielo, come tutti i
beni e doni discendano dall'alto e che lassù vi ha una potenza infinita, una bontà, sapienza,
misericordia e bellezza infinita, dalle quali derivano queste proprietà che tanto limitatamente
vediamo partecipate nelle creature.
E gran cosa è aver scoperto il sole per mezzo dei suoi raggi e, guidati dal fiume, essere giunti
alla fonte ed aver colto il centro, dove vengono a unirsi la moltitudine delle perfezioni create.
Ivi riposerà il nostro cuore, senza aver cosa da cercare più avanti, e quanto sarà amare Dio con
tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente e con tutte le forze. Siccome quelli che
arrivano a questo stato, non hanno altre preoccupazioni, se non quella di far la volontà di Dio
sopra la terra con quella perfezione con cui si fa nel cielo, così non v'è altro riposo, se non
quello del salire dalla terra ed entrare nel cielo per supplire le mancanze che si trovano sulla
terra riguardo al compimento della divina volontà.
Nessuna cosa li trattiene da questo, non hanno incominciato azione alcuna che non l'abbiano
anche finita; i loro negozi sono sempre al punto di essere conchiusi, quando Dio li chiama, ed
essi sono somiglianti ai servi che stanno aspettando il loro Signore per aprire subito la porta
appena che sono chiamati.
Prepariamoci dunque per questo, allontanando l'amore da tutto ciò che è temporale e creato
per metterlo nel Creatore che è eterno. Amiamolo con amore non delicato, ma robusto; non
effeminato, ma forte e virile, che possa portare qualsiasi peso e vincere qualsiasi difficoltà e
disprezzare qualsiasi interesse, piuttosto che allontanarsi dall'amore

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e rompere le sue leggi ed offenderle, sia pur leggermente. Sia l'amore forte come la morte, che
non rifugga cioè lo stesso volto della morte, né le volti le spalle. Allora la vincerà, se la
sopporterà per amore. Sia la sua fiamma tanto accesa, che se cadessero sopra di essa molte
acque e numi precipitosi di tribolazione, non sia più che la rugiada che cade nella brage che la
assorbe e consuma e si ravviva ancor di più. Sia l'uomo tanto superiore a sé e sopra tutte le
cose che, se il mondo gli offrisse tutti i suoi averi per spogliarlo dell'amore, metta tutto sotto i
piedi e lo disprezzi come fosse nulla.
A questa carità bisogna conformarsi con la povertà, accettando senza lamento la fame e la
nudità, il freddo e il calore, che sono le sue compagne inseparabili; soffrire con mansuetudine
le ingiurie, sopportare con pazienza le infermità, non venire meno nelle persecuzioni, aver la
longanimità nelle tentazioni, sopportare le molestie dei prossimi, non stancarsi delle sue
qualità, non indignarsi delle sue trascuranze, né lasciarsi vincere dalle sue ingratitudini; nelle
aridità spirituali non tralasciare gli esercizi ordinari e nelle consolazioni e gusti non tralasciare
di attendere ai propri obblighi.
Che possa infine dire con l'Apostolo San Paolo (Rom. VIII, 35-39): “Chi ci separerà dalla carità
di Cristo? Forse la tribolazione, o l'angustia, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la
persecuzione, o la spada? ... Sono sicuro che né la morte, né la vita, né gli angeli, né i
principati, né le virtù, né le cose presenti, né quelle future, né la fortezza, né l'altezza, né la
profondità, né alcun'altra creatura ci potrà separare dalla carità di Dio.”

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