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«Griseldaonline» 4 (2004)

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SIMONE RAMBALDI

Orrori antichi e contemporanei: Cresila e i ‘nemici’

I n un precedente numero di «Griseldaonline», che aveva come tema l’Altro, avevo


dedicato uno studio alle rappresentazioni degli stranieri nell’arte romana. Lo stesso
lavoro avrebbe potuto trovare posto senza difficoltà anche nell’annata presente, riserva-
ta al Nemico, dato che le etnie che compaiono sui monumenti allora considerati furono
nemiche di Roma, almeno per un certo periodo, e gli stessi monumenti vennero realiz-
zati allo scopo di celebrare la vittoria delle armi romane sulle popolazioni contro le qua-
li avevano combattuto. Mi ero perciò riproposto, in un primo momento, di approfondi-
re per il nuovo numero un tema più specifico, precisamente un particolare tipo icono-
grafico, che, insieme ad altri, fu utilizzato dalla propaganda di età imperiale per incar-
nare visivamente la potenza schiacciante del princeps sui nemici dell’impero. Era mia
intenzione valutarne le principali applicazioni e, se possibile, l’effetto che poteva eserci-
tare sugli osservatori.
Ma i tristi fatti degli ultimi tempi, in particolare la tragedia della scuola di Beslan,
mi hanno portato a riflettere sul nostro presente così tormentato, e mi sono chiesto se
solo l’epoca in cui viviamo abbia visto una simile barbarie, o se episodi analoghi non si
siano già verificati in passato. In effetti, mentre tutti sono consapevoli che la storia
umana è sempre stata contrassegnata da crudeltà a danno di persone inermi, sono forse
solo in pochi a sapere che, molti secoli fa, era già accaduto che tanti bambini indifesi
venissero sterminati all’interno di una scuola mentre attendevano l’inizio delle lezioni,
e solamente a causa della furia di un gruppo di uomini.
Per ripercorrere questa vicenda dobbiamo partire dal luogo più sacro della classici-
tà, l’acropoli di Atene. Lo scrittore Pausania, che scrisse la sua Guida della Grecia nel
corso del II secolo d.C., descrive i monumenti e le opere d’arte che si potevano allora
ammirare nelle città e nei santuari da lui visitati di persona, dividendo la trattazione in
dieci libri corrispondenti alle diverse regioni del continente ellenico. Non a caso egli
dedica il suo primo libro all’Attica, la regione di Atene, perché la gloriosa città non ave-
va mai cessato di essere ammirata in tutto il mondo mediterraneo, in quanto appariva
un simbolo imperituro di tutto ciò che di bello la cultura del mondo greco-romano ave-
va saputo esprimere, sebbene ormai da diversi secoli fosse priva di importanza politica.
Naturalmente Pausania parla a lungo dell’acropoli cittadina, con i meravigliosi edifici
che l’adornavano: il Partenone, i Propilei, l’Eretteo, tutti ancora in piedi dall’epoca di
Pericle, quando era cominciata la loro costruzione. Un’ampia parte della sua esposizio-
ne, come sempre accade, è riservata alla descrizione delle statue e delle offerte votive

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Rambaldi – Orrori antichi e contemporanei

che, in gran numero, riempivano gli spazi vuoti tra gli edifici, e alla loro storia. Il suo
resoconto è per noi della massima importanza, perché una grande quantità di queste
opere d’arte è scomparsa senza lasciare traccia, e tutto quello che conosciamo in propo-
sito lo possiamo apprendere soltanto dalle sue parole e dalle notizie riportate da pochi
altri scrittori.
Pausania, insieme ad alcune sculture che erano collocate in prossimità del portico
orientale dei Propilei, descrive una statua in bronzo che rappresentava un uomo trafitto
da frecce, di nome Diitrefe, ma senza nominare l’artefice1. L’opera è andata perduta,
ma, come è accaduto in diversi altri casi, è fortunatamente giunta fino a noi la base ori-
ginale che la sorreggeva. Questa è completa dell’iscrizione dedicatoria2, dalla quale si
apprende che la statua fu eretta per volontà di Ermolico, il figlio di Diitrefe, ed eseguita
da Cresila, uno dei maggiori scultori attivi ad Atene nella seconda metà del V secolo
a.C., autore, fra l’altro, del celebre ritratto di Pericle del cui capo ci sono giunte alcune
repliche (fig. 1). Da molto tempo si discute se la scultura di Diitrefe descritta da Pausa-
nia corrisponda alla statua di un ferito morente (vulneratus deficiens), attribuito a Cre-
sila dall’altra grande fonte letteraria della quale disponiamo per la conoscenza dell’arte
greca, vale a dire i libri finali della Naturalis historia di Plinio il Vecchio3. Non si può
raggiungere alcuna certezza in merito, perché Plinio si limita a citare la scultura senza
riportare la sua collocazione e senza precisare se essa rappresentasse un personaggio in
particolare, però aggiunge che il moribondo era scolpito con tanta immediatezza
espressiva che all’osservatore sembrava di poterne cogliere l’estremo respiro (in quo
possit intellegi quantum restet animae). Cresila infatti era un maestro nell’arte di ren-
dere gli stati d’animo improntati all’angoscia e alla sofferenza: se da un lato fu l’autore
di un’opera come il già citato ritratto di Pericle, un modello ineguagliabile di compo-
stezza classica, la cui ‘olimpicità’ fu esaltata dallo stesso Plinio4, dall’altro è a lui che
viene solitamente attribuita la più patetica di quattro sculture di Amazzoni (fig. 2) che
sono giunte a noi in diverse copie e che costituiscono quattro varianti di uno stesso te-
ma, oggetto di un famoso concorso al quale parteciparono i più grandi scultori dell’epoca5.

1 Paus. I 23, 3-4.


2 IG I2, 527. Vd. A.E. Raubitschek, Dedications from the Athenian Acropolis, Cambridge (Mass.) 1949,
n. 132.
3 Nat. hist. XXXIV 74.

4 Ibid. Non va dimenticato che questo ritratto non riproduce fedelmente i tratti del volto di Pericle, ma

ne sublima le fattezze allo scopo di farne risaltare le qualità morali, secondo le convenzioni correnti
nell’Attica del periodo classico. In proposito vd. almeno T. Hölscher, Die Aufstellung des Perikles-
Bildnisses und ihre Bedeutung, «Würzburger Jahrbücher für die Altertums-wissenschaft», ns. I, 1975, pp.
187-208.
5 Secondo il racconto di Plinio (Nat. hist. XXXIV 53), a Efeso fu indetta una gara per una statua di

Amazzone da dedicare nel santuario di Artemide. Sarebbe stata scelta quella che gli stessi artisti parteci-
panti avessero giudicato la più bella fra tutte. Risultò prima l’Amazzone scolpita da Policleto, seconda quel-
la di Fidia, terza quella di Cresila e quarta quella di Fradmone. Tra i numerosissimi studi, si segnala il re-
cente lavoro di T. Hölscher, Die Amazonen von Ephesos: Ein Monument der Selbsbehauptung, in Agathòs
daímon. Mythes et Cultes. Études d’iconographie en l’honneur de L. Kahil («Bulletin de Correspondance
Hellénique», suppl. 38), Athènes 2000, pp. 205-218.

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È stata avanzata la proposta di riconoscere il vulneratus deficiens in una statua in


marmo conservata al Metropolitan Museum di New York (fig. 3), copia romana di un
originale che si può far risalire alla seconda metà del V secolo a.C.6 Lo stato di conser-
vazione apparentemente buono, tuttavia, è in parte frutto di un restauro, operato con
l’ausilio di alcuni calchi ricavati da un’altra replica più frammentaria dello stesso sog-
getto, conservata al British Museum di Londra. La scultura mostra un guerriero nudo,
con elmo e mantello che scende dalla spalla sinistra, apparentemente rappresentato
nell’atto di sostenersi a fatica con la lancia che stringeva nella mano destra sollevata,
mentre con la sinistra doveva reggere lo scudo. Se si trattasse veramente del ferito di
Cresila, e se questo e la statua descritta da Pausania fossero la stessa opera, come in
passato è stato sostenuto da autorevoli studiosi7, allora ci troveremmo di fronte al ri-
tratto di Diitrefe, sebbene qualcuno abbia pensato che la statua non dovesse rappresen-
tare propriamente il dedicatario, bensì uno dei nemici che egli aveva vinto8. Un elemen-
to chiave per il riconoscimento è costituito da una ferita, che ha la forma di un taglio,
visibile sotto il braccio destro. È vero che Pausania parla di una figura «trafitta da frec-
ce», ma, considerate le consuetudini della statuaria del periodo classico, le sue parole
non ci dovrebbero autorizzare a pensare a una sorta di San Sebastiano dell’antichità:
anche una statua trafitta da un solo dardo potrebbe corrispondere adeguatamente alla
sua descrizione. In passato un’eco del vulneratus è stata riconosciuta in un bronzetto
(fig. 4) proveniente da Bavai9, ma quasi sicuramente si tratta di un’Amazzone, come
dimostra la posa, molto simile a quella di un’altra delle Amazzoni di Efeso10.
L’identificazione con Diitrefe della scultura che ho descritto è però tutt’altro che
unanimemente accettata. Diversi studiosi, più che un individuo storicamente determi-
nato, hanno preferito riconoscervi un personaggio del ciclo troiano, precisamente Pro-
tesilao, il guerriero acheo che fu il primo a cadere sul suolo nemico, nel momento stesso

6 Vd. J. Frel, The Volneratus Deficiens by Cresilas, «The Metropolitan Museum of Art Bulletin», n.s.,
XXIX, 1970, pp. 170-177.
7 Vd. G. Lippold, Die griechische Plastik, München 1950, pp. 172-173; S. Ferri in Plinio il Vecchio, Sto-

ria delle arti antiche, testo critico, traduzione e commento di S. Ferri (nuova ediz. con Introduzione di M.
Harari, Milano 2000, dalla quale si cita), p. 119, ad l. Cfr. inoltre il commento di L. Beschi e D. Musti in
Pausania, Guida della Grecia, Libro I: L’Attica, Milano 1982, p. 345, ad l.
8 Vd. G. Lippold, Die griechische Plastik, cit., p. 173, n. 1; P. Orlandini, s.v. Kresilas, in Enciclopedia

dell’arte antica classica e orientale, IV, Roma 1961, pp. 405-408, specificamente p. 405. Pausania era con-
vinto, invece, che il rappresentato fosse proprio Diitrefe.
9 Vd. J. Boardman, Greek Sculpture. The Classical Period, London 1991 (2. ediz.), tav. 238. La statuet-

ta, che in passato era stata modificata in candeliere mediante la trasformazione della lancia (cfr. G. Lip-
pold, l.c. alla n. precedente, tav. 62, 2), è oggi conservata al museo di Saint-Germain-en-Laye. Secondo
un’ipotesi risalente ad Adolf Furtwängler, ma ormai poco seguita, il vulneratus potrebbe essere identificato
col c.d. Gladiatore Farnese del Museo Nazionale di Napoli (cfr. A. Linfert, Der Torso von Milet, in Antike
Plastik XII, Berlin 1973, pp. 81-90, specificamente pp. 86-87).
10 L’«Amazzone Mattei», perlopiù attribuita a Fidia. Vd. D.S. Robertson, A Handbook of Greek & Ro-

man Architecture, Cambridge 1954 (2. ediz.), p. 338; C. Rolley, La sculpture grecque: II. La période clas-
sique, Paris 1999, p. 150.

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in cui saltava a terra dalla nave che lo aveva trasportato dalla natia Filace in Tessaglia,
dove aveva lasciato la sposa Laodamia ad attenderlo invano11. La base della copia con-
servata a Londra, in particolare, potrebbe far credere che i piedi dell’eroe fossero collo-
cati sopra una tavola lignea, pertinente alla nave che lo aveva trasportato o piuttosto al-
la passerella usata per scendere dallo scafo. La mano destra levata, perciò, non gli ser-
viva per appoggiarsi, ma per brandire la lancia (o la spada) contro il nemico. Chi accetta
questa ipotesi finisce inevitabilmente per attribuire la statua di New York non a Cresila,
ma ad un altro scultore un poco più tardo, Dinomene12, poiché fu l’unico a realizzare un
Protesilao, per quello che ne sappiamo13. Non sono tuttavia mancate altre interpreta-
zioni: si è parlato anche di Poseidone14, Palamede15 e altri ancora16.
Lasciamo da parte, ora, i problemi legati all’identificazione del guerriero di New
York con Diitrefe e concentriamoci su quest’ultimo e sull’episodio cui è associato nella
storiografia antica. Il personaggio in questione, sebbene onorato dagli Ateniesi con una
statua che ne celebrava la morte gloriosa in battaglia, si era tuttavia macchiato di un
crimine orrendo, o almeno non aveva fatto nulla per impedirlo, pur avendone proba-
bilmente la facoltà. Occorre però segnalare subito che non è detto che si tratti dello
stesso individuo: si è infatti pensato che la statua dell’acropoli ritraesse in realtà un ni-
pote che si chiamava come lui. Pausania, invece, è convinto che si tratti della stessa per-
sona e si sofferma a raccontare la sua storia. Ma il maggior numero di particolari è ri-
portato da Tucidide, che con la sua consueta potenza narrativa dipinge quello che, a ra-
gione, può essere considerato uno degli eventi più atroci mai raccontati da uno storico

11 Numerose le fonti antiche che ricordano i due personaggi: Il. II 695-710; XV 704-706; Catull. 68, 73
ss.; Strab. IX 432 ss.; Prop. I 9, 7; Ov., Ars. am. III 17; Er. 13; Pont. III 1, 110; Rem. 723; Trist. I 6, 20; Hy-
gin., Fab. 103; 104; 243; 251; 256; Ps.-Apoll., Bibl. III 10, 8; Ep. III 14; 30 ss.; Paus. IV 2, 5; Luc., Dial.
mort. 23; Philostr., Er. II 15-18; Serv., ad Aen. VI, 447.
12 Vd. J. Dörig, Deinoménès, «Antike Kunst», XXXVII, 1994, pp. 67-80, soprattutto pp. 70-74; Th.

Stathakopoulou-Karagiorga, Der verkannte Protesilaos, «Mitteilungen des Deutschen Archäologischen


Instituts, Athenische Abteilung», CX, 1995, pp. 207-233, con ampia bibliografia.
13 La fonte in proposito è di nuovo Plinio (Nat. hist. XXXIV, 76). Il floruit di Dinomene si può collocare

negli anni 400-397 a.C. Non è da escludere che, nella rappresentazione dello sfortunato guerriero, egli pos-
sa essersi ispirato al vulneratus di Cresila.
14 Vd. E. Langlotz, Zur Deutung des sogenannten Protesilaos in New York, «Archäologischer Anzei-

ger», 1971, pp. 427-442. Lo stesso archeologo si era già occupato del vulneratus deficiens di Cresila, pro-
ponendo di riconoscerne la testa in un’erma appartenente a una collezione privata americana: Id., Ein vul-
neratus deficiens?, «Wissenschaftliche Zeitschrift der Universität Rostock», XVII, 1968, pp. 707-710. Ri-
guardo alla ferita visibile nella statua di New York, tra Frel e Langlotz si innescò una polemica che si pro-
trasse sulle pagine dell’Archäologischer Anzeiger con altri due interventi: J. Frel, The Wounded Warrior
in New York and London, ibid., 1973, pp. 120-121, ed E. Langlotz, Die Wunde des “Protesilaos”, ibid., 1977,
pp. 84-86.
15 Vd. G. Despinis, Zur Deutung des sogenannten Protesilaos in New York, in Kanon. Festschrift Ernst

Berger zum 60. Geburtstag am 26. Februar 1988 gewidmet («Antike Kunst», suppl. 15), Basel 1988, pp.
87-90.
16 Per una rassegna delle varie letture proposte, vd. J. Dörig, Deinoménès, cit., pp. 68-70.

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antico17. Come si vedrà, inoltre, la cronaca di questa vicenda presenta alcune impres-
sionanti analogie col massacro recentemente avvenuto nella scuola osseta.
Nel 413 a.C., nel pieno della guerra del Peloponneso che si era riaccesa con la sfor-
tunata spedizione in Sicilia, arrivò ad Atene un contingente di mercenari traci, formato
da milletrecento peltasti. Si trattava, cioè, di fanti armati di pelta (fig. 5), un piccolo
scudo tipicamente trace, con un’anima in legno o vimini rivestita di cuoio e a forma
perlopiù di mezzaluna, che veniva fatto risalire alle Amazzoni18. Questi soldati si sareb-
bero dovuti unire alle truppe destinate a partire per la Sicilia insieme allo stratego De-
mostene, al quale era stato affidato l’incarico di recare aiuto al collega Nicia, impegnato
a combattere i Siracusani. Ma i Traci giunsero in ritardo, quando ormai le navi avevano
preso il largo. Perciò i cittadini, non volendo provvedere al loro mantenimento a causa
delle ristrettezze economiche in cui versavano, decisero di rimandarli in patria, sotto la
guida di un Ateniese, lo stratego Diitrefe. Pensarono bene, però, di trarre profitto dalla
circostanza che si presentava, esortando i Traci a depredare tutti i nemici di Atene nei
quali si fossero imbattuti lungo la via del ritorno. Fra questi i Beoti, cioè gli abitanti del-
la regione dominata da Tebe, una delle più temibili alleate di Sparta e, da sempre, acer-
rima avversaria di Atene, occupavano un posto di rilievo. Così i Traci, mentre attraver-
savano l’Euripo, il canale che divide l’isola di Eubea dal continente, sbarcarono sulla
costa beota e assalirono all’improvviso Micalesso, un centro poco importante situato
nell’entroterra19. Gli abitanti di questa città, confidando nella loro posizione non troppo
vicina al mare, non si aspettavano minimamente di ricevere un attacco, tanto che ave-
vano trascurato di potenziare le loro vecchie fortificazioni, del tutto inadeguate a resi-
stere a un assalto imprevisto. La cittadinanza fu quindi colta di sorpresa dai Traci, i

17 Thuc. VII 27, 1-2; 29-30. L’episodio ha interessato gli studiosi a più riprese: O. Longo, Strage a Mi-
calesso (e altrove), «Sileno», 10, 1984, pp. 363-377; T.J. Quinn, Thucydides and the massacre at Mycales-
sus, «Mnemosyne», s. IV, XLVIII, 1995, pp. 571-574; C. Ampolo, Tra Greci e tra barbari e Greci. Cronache
di massacri e tipologia dell’eccidio nel mondo ellenico, «Quaderni di storia», 44, 1996, pp. 5-28, specifi-
camente pp. 20-24; L. Kallet, The diseased body politic, Athenian public finance, and the massacre at
Mykalessos (Thucydides 7, 27-29), «American Journal of Philology», 120, 1999, pp. 223-244 (il contributo
più recente, però finalizzato soprattutto a chiarire il contesto economico in cui si trovava Atene in quel par-
ticolare momento storico).
18 Vd. J.G.P. Best, Thracian Peltasts and their influence on Greek warfare, Groningen 1969. Più re-

cente, e specifico per le immagini di peltasti nella ceramica attica, F. Lissarrague, L’autre guerrier. Ar-
chers, peltastes, cavaliers dans l’imagerie attique, Paris-Roma 1990, pp. 151-189.
19 Identificato con l’odierna Rhitsona, dove è stata scavata una necropoli che ha restituito abbondante

ceramica, grazie alla quale si è potuto stabilire che la massima fioritura di Micalesso deve avere avuto luogo
nella seconda metà del VI secolo a.C. Non sono stati individuati resti della città. Pausania, che nel suo libro
dedicato alla Beozia la descrive come un centro ormai in rovina (IX 19, 4, dove rimanda a quanto aveva ri-
ferito nel passo relativo alla statua di Diitrefe), ricorda che presso la riva del mare sorgeva il santuario di
Demetra Micalessia, legato a credenze suggestive (ibid., 5). Vd. in generale K. Fiehn, s.v. Mykalessos, in
Paulys Real-Encyclopädie der klassischen Altertumswissenschaft, XVI.1, Stuttgart 1933, coll. 1005-1015;
P.N. Ure, s.v. Mykalessos, ibid., suppl. VII, Stuttgart 1940, coll. 495-510; N. Bonacasa, s.v. Mykalessos, in
Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, V, Roma 1963, pp. 300-301.

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quali, già propensi alla crudeltà per natura20 e ora imbaldanziti dalla totale impunità
che ritenevano di avere, devastarono l’abitato e trucidarono tutti coloro in cui si imbat-
terono. Nessun essere vivente veniva risparmiato: uomini, donne, bambini, persino
animali da soma21 vennero fatti a pezzi dalla loro furia sanguinaria. Ma il crimine più
orrendo, tale da rendere la strage di Micalesso tristemente nota in un’epoca in cui, pe-
raltro, le distruzioni e gli eccidi non dovevano essere fonte di grande meraviglia, fu lo
sterminio di un grande numero di fanciulli, i quali erano appena entrati in una scuola. I
mercenari, infatti, si avventarono all’interno dell’edificio, che era la scuola più grande
della città22, e massacrarono sul posto tutti gli alunni che vi trovarono23.
Dopo tanta violenza, i Traci ripartirono per il loro paese, inseguiti dai Tebani che
riuscirono a ucciderne alcune centinaia mentre si stavano imbarcando. Il ruolo rivestito
dal comandante Diitrefe nei fatti di Micalesso rimane oscuro. Tucidide non riferisce di
alcun tentativo, da parte sua, di evitare o almeno limitare il misfatto perpetrato dai
mercenari; anzi, durante il resoconto del massacro non viene nemmeno più nomina-
to24. Che Diitrefe avesse acquistato una dubbia fama anche in patria parrebbe dimostra-
to dall’irrisione dei poeti comici, testimoniata in alcuni frammenti conservati 25. Riguar-
do alle altre sue imprese, accennate ma non descritte da Pausania, siamo informati po-
chissimo: grazie ancora a Tucidide, sappiamo soltanto che si schierò con gli oligarchici
che, ad Atene, avevano ordito il colpo di Stato del 411 a.C. e che condusse una spedizio-
ne proprio in Tracia, nel corso della quale fu inviato a Taso per rovesciare il regime de-
mocratico che era stato costituito nell’isola. In Tracia probabilmente morì, due anni

20 Così rileva Tucidide, il quale, all’inizio della sue relazione, precisa che questi mercenari appartene-
vano alla tribù dei Dii, la più arretrata e violenta dei Traci, particolarmente dedita alle attività di razzia. Vd.
O. Longo, Strage a Micalesso…, cit., pp. 372-374.
21 Ibid., pp. 370-371, per altri casi di uccisione di bestiame nel corso di avvenimenti bellici.

22 È difficile immaginare quale fosse l’aspetto della scuola, perché non siamo molto informati

sull’‘edilizia scolastica’ nel mondo greco. Di norma gli istituti erano di proprietà dei maestri. Tucidide usa il
termine didaskaleîon, che indicava propriamente la scuola dove si imparavano i primi rudimenti di lettera-
tura e musica, diversa dalla palaístra, dove i giovinetti, quando erano più grandi, cominciavano a dedicarsi
agli esercizi fisici. La fonte più dettagliata sulle modalità dell’istruzione in Grecia è Pl., Prot. 325c-326e,
dove si riflette essenzialmente la situazione ateniese, per la quale vd. R. Barrow, Greek and Roman Educa-
tion, London 1996 (3a ediz), pp. 31-56. Più in generale, per conoscere ciò che le testimonianze antiche han-
no tramandato sulle scuole greche, è ancora utile P. Girard, s.v. Educatio: Grèce, in Dictionnaire des anti-
quités grecques et romaines d’après les textes et les monuments, a c. di Ch. Daremberg, E. Saglio, R. Pot-
tier, II.1, Paris 1892 (rist. anast. Graz 1969), pp. 462-477.
23 Molto crudo il verbo katékopsan utilizzato da Tucidide: nelle sue Storie compare soltanto in altri

due passi, uno dei quali riferito a un abbattimento di animali (I 128, 4). Vd. l’analisi di O. Longo, Strage a
Micalesso…, cit., pp. 365-366. Non è possibile suddividere uniformemente per fasce d’età l’educazione gre-
ca, perché le sua varie fasi potevano sovrapporsi e soprattutto dipendevano in buona misura dalla volontà
dei genitori e dai loro mezzi finanziari, ma di solito i fanciulli cominciavano a frequentare il didaskaleîon
verso i sei-sette anni e non dovevano cessare prima dei dodici. Perciò si può stabilire con certezza che le
vittime dei Traci furono tutte giovanissime.
24 Vd. T.J. Quinn, Thucydides…, cit., pp. 571-572.
25 Il più significativo deriva dalle Feste di Platone Comico (fr. 30 K.-A.), che bolla Diitrefe come «pazzo,

cretese, poco ateniese». Vd. O. Longo, Strage a Micalesso…, cit., p. 377. A proposito della qualifica di «cre-
tese», vd. infra.

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dopo l’episodio di Micalesso26. Pausania però, descrivendo la statua posta vicino ai


Propilei dell’acropoli ateniese, cadde molto probabilmente in un equivoco, come gli è
successo in altri casi. Sono infatti noti almeno due personaggi col nome di Diitrefe: un
Diitrefe I, vissuto probabilmente nei decenni centrali del V secolo a.C.27, e un Diitrefe
II, vale a dire quello di Micalesso, stratego nel 414/413 a.C. Poiché i caratteri
dell’iscrizione dedicatoria risultano più antichi della seconda data, molto probabilmen-
te è da escludere che Ermolico fosse figlio di Diitrefe II, ma semmai suo padre o suo zio.
Quindi la scultura osservata da Pausania non era stata offerta per lo stratego che aveva
ricondotto in patria i mercenari traci, ma per un suo antenato, di cui Tucidide ricorda il
figlio Nicostrato in tre passi diversi28. Sulla base dunque dell’analisi epigrafica e delle
cronologie che si possono ricostruire per i vari membri della famiglia, la statua dedicata
da Ermolico a firma di Cresila risalirebbe allora al 440 a.C. circa, una data che si adat-
terebbe meglio anche al periodo in cui è documentato il floruit dello scultore, coinci-
dente con la piena età di Pericle.
Tornando ora all’episodio che ho descritto, si deve rilevare che esso non trova paral-
leli nella documentazione storica in nostro possesso29. Nel mondo greco-romano, infat-
ti, quando veniva conquistata una città che non si era arresa concordando le condizioni
della pace, la sorte riservata ai suoi abitanti poteva essere delle più varie. Ma anche un
vincitore particolarmente crudele si limitava, nella maggior parte dei casi, a uccidere
soltanto i maschi atti alle armi, evitando di eliminare le donne e i bambini, dai quali po-
teva trarre lauti guadagni vendendoli come schiavi30. Il massacro degli alunni nella
scuola di Micalesso, come di tutti gli altri esseri inermi incontrati per le vie della città,
non si spiega quindi che come atto di inumana ferocia, inaudito anche per gli spietati
scenari delle guerre antiche31. Sebbene Pausania supponesse che la cittadinanza fosse
stata totalmente annientata, i corredi tombali recuperati nella zona non hanno rivelato

26 Thuc. VIII 64. Vd. I. Kirchner, Prosopographia Attica I, Berolini 1901 (rist. anast. Berolini 1966), n.
3755. Cfr. inoltre il commento di L. Beschi e D. Musti in Pausania, Guida…, cit., p. 346, ad l., con ulteriore
bibliografia.
27 Vd. I. Kirchner, Prosopographia Attica, cit., n° 3753 (cfr. anche n° 5163).

28 III 75; IV 119; 129. Sulla famiglia cui appartenevano i due personaggi a nome Diitrefe vd. W.R. Con-

nor, The New Politicians of Fifth-Century Athens, Princeton 1971, pp. 156-158, dove è anche riportato un
albero genealogico.
29 L’unica altra grave sciagura in una scuola di cui siamo a conoscenza per l’antichità, avvenuta però in

seguito a una fatalità e non a un episodio bellico, è riferita da Erodoto (VI 27): all’inizio del V sec. a.C., a
Chio, il tetto di una scuola crollò, causando la morte di tutti i bambini che vi si trovavano, tranne uno solo,
che riuscì a scampare alla tragedia.
30 Vd. O. Longo, Strage a Micalesso…, cit., pp. 366-370; Y. Garlan, Guerra e società nel mondo antico,

Bologna 1985 (ediz. orig. La guerre dans l’antiquité, Paris 1972), pp. 66-68; L. Canfora, Tucidide e
l’impero: La presa di Melo, Roma-Bari 1992, pp. 109-110, n. 81.
31 Nel corso della guerra del Peloponneso non si registrano, infatti, altri episodi di uccisione indiscri-

minata di donne e bambini.

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Rambaldi – Orrori antichi e contemporanei

cesure nella continuità dell’insediamento, che perciò non si spopolò e sopravvisse alla
terribile prova cui fu sottoposto32.
Ma per essere precisi, i mercenari traci non si muovevano nemmeno in un vero e
proprio contesto di guerra, dato che la loro impresa era nata soltanto come una spedi-
zione di razzia da compiersi mentre ritornavano in patria, dopo che non avevano potuto
prendere parte alla spedizione per la quale erano stati ingaggiati. A maggior ragione,
dunque, il loro atto fu atroce e ingiustificabile, poiché decisero di devastare una città
indifesa e ignara del pericolo cui stava per soccombere, non un importante centro forti-
ficato che li avesse magari logorati per anni costringendoli a mantenere un duro asse-
dio, con molte vittime anche fra le loro file. Solo la crudeltà li spinse a commettere un
crimine così grande, una crudeltà non certo molto diversa da quella manifestata di re-
cente da un pugno di terroristi pronti a trucidare centinaia di bambini inermi da loro
presi in ostaggio, come è avvenuto nella scuola di Beslan. Nel 416 a.C., dunque tre anni
prima di Micalesso, gli Ateniesi non avevano esitato ad assediare Melo, l’unica isola del-
le Cicladi che era sempre riuscita a sottrarsi alla loro egemonia, rimanendo fedele a
Sparta, e a sterminarne poi tutti i maschi adulti33. Ma in quel caso poteva essere ac-
campata, come triste giustificazione, la logica implacabile dell’imperialismo ateniese,
che non poteva tollerare la riottosità di un’isola dell’Egeo, anche perché ciò avrebbe po-
tuto costituire un pericoloso precedente, capace di incoraggiare, in seguito, defezioni
fra le Cicladi alleate. E comunque fu risparmiata la vita della popolazione non idonea
alle armi, la quale venne venduta come schiava secondo le consuetudini invalse presso
gli antichi che sono state ricordate in precedenza. Nessuna logica poteva invece motiva-
re la strage commessa dai Traci guidati da Diitrefe, perché nessuna logica si può trovare
in un episodio che appare dettato soltanto dalla ferocia e dalla follia degli uomini che ne
furono responsabili34.
Il periodo in cui ebbe luogo il massacro di Micalesso fu peraltro uno dei più fulgidi
della storia ateniese, un periodo contrassegnato da avvenimenti che per i secoli succes-
sivi, e fino ai nostri giorni, hanno rappresentato un ineguagliabile modello culturale. È
vero che allora, a causa dell’infausta spedizione in Sicilia che si sarebbe tragicamente
conclusa proprio nello stesso anno 413, la guerra del Peloponneso aveva ricominciato a
infuriare, ma si può calcolare che, nel secolo e mezzo intercorso tra la prima guerra per-
siana (490 a.C.) e la battaglia di Cheronea, per mezzo della quale Filippo il Macedone si

32 Paus. I 23, 3. P.N. Ure (Mykalessos, cit., col. 510) sospetta che Tucidide potesse sopravvalutare le
capacità di sterminio dei barbari. Tuttavia l’eccidio nella scuola, così particolare e senza paralleli, deve es-
sere ritenuto sicuramente autentico.
33 Thuc. V 84-116. Il brano tucidideo, comprendente il celeberrimo dialogo fra i Melii e gli ambasciatori

ateniesi, è studiato in modo approfondito nel saggio di Canfora citato in una nota precedente.
34 Vd. T.J. Quinn, Thucydides…, cit., pp. 572-573, dove sono analizzati molto finemente gli elementi

narrativi che rivelerebbero la deplorazione di Tucidide per l’accaduto, pur nella sobrietà e nel distacco con
cui di norma tratta gli avvenimenti, e pur sottacendo il ruolo del concittadino Diitrefe, come si è detto. In
particolare la precisazione che gli alunni si trovavano a scuola da poco tempo servirebbe per suggerire la
completa sorpresa dei bambini, colti alla sprovvista in un giorno qualunque.

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sarebbe impadronito della Grecia (338), Atene si trovò a combattere per una media di
non meno di due anni su tre35. Questo stato, si può dire, di guerra permanente non
ostacolò, e nemmeno frenò il progresso e le mirabili conquiste di civiltà compiute da
Atene: costituì semmai una sorta di sottofondo, certo preoccupante, ma non tanto da
impedire che nel frattempo la vita culturale e artistica della città attica continuasse il
suo corso, producendo opere che hanno influenzato profondamente tutto il successivo
sviluppo della civiltà occidentale. Si pensi solo che l’anno prima di Micalesso, nel 414,
Aristofane aveva rappresentato gli Uccelli ed Euripide, forse, l’Ifigenia in Tauride; nel
415 erano state messe in scena le Troiane, che trasformano in poesia sublime l’angoscia
dei tempi con la loro lancinante denuncia degli orrori della guerra, culminante nel
compianto di Ecuba sul cadavere del nipote Astianatte, anche lui piccola vittima del fu-
rore degli uomini36. In quegli stessi anni era giunta a compimento la sistemazione mo-
numentale dell’acropoli, ormai provvista di tutti i principali edifici la cui costruzione
era stata avviata a partire dall’età periclea, eccettuato il solo Eretteo, che per varie ra-
gioni sarà terminato soltanto poco prima della sconfitta ateniese nella guerra pelopon-
nesiaca37, mentre la scultura a tutto tondo si arricchiva di nuovi capolavori, come le
opere dei due grandi allievi di Fidia, Agoracrito e Alcamene38. Eppure nello stesso tem-
po, al di fuori dell’Attica, veniva perpetrato il terribile crimine raccontato da Tucidide,
materialmente a opera di mercenari famigerati per la loro indole sanguinaria, i quali
erano però guidati da un Ateniese che, per quello che ne sappiamo, nella migliore delle
ipotesi non fece nulla per evitarlo.
Le impressionanti analogie fra la vicenda di Micalesso e quella di Beslan, che non
possono certo passare inosservate, non attenuano in nessun modo, naturalmente, lo
sgomento che la carneficina compiuta in Ossezia ha suscitato in tutti noi. Ma al di là
delle evidenti somiglianze nelle modalità e negli effetti, si potrebbe mettere in risalto
un’analogia forse ancora più inquietante, perché più profonda. Anche adesso, nella no-
stra epoca caratterizzata tanto fortemente da un continuo progresso e da una comuni-
cazione ormai davvero globale, può purtroppo accadere che un odio cieco abbia il so-
pravvento su qualunque sentimento di pietà, e scateni il suo furore con una violenza e
una crudeltà che non avremmo più voluto credere possibile. Questo è recentemente av-
venuto in un angolo di mondo per noi lontano, ma forse non più lontano di come dove-
va apparire la Beozia ai cittadini di Atene. Le più grandi conquiste che lo spirito e
l’ingegno dell’uomo riescono a guadagnare nel loro faticoso cammino, evidentemente,

35 Vd. Y. Garlan, Guerra e società…, cit., p. 7.


36 Eur., Tr. 1167-1199.
37 In merito alla cronologia delle costruzioni dell’acropoli, basti qui citare L. Schneider, C. Höcker, Pe-

ricle e la costruzione dell’Acropoli, in I Greci: Storia, cultura, arte, società, II. Una storia greca, 2. Defini-
zione, a c. di S. Settis, Torino 1997, pp. 1239-1274, specificamente pp. 1253-1254, 1270-1271.
38 Per una prima informazione, vd. T. Hölscher, I successori di Fidia, in Storia e Civiltà dei Greci, a c.

di R. Bianchi Bandinelli, VI, Milano 1979 (con ristampe), pp. 355-385.

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Rambaldi – Orrori antichi e contemporanei

non evitano il rischio che ai margini rimangano zone inesplorate, da dove possono con-
tinuare ad emergere i più cupi fantasmi dell’irrazionalità e della ferocia, per i quali ogni
essere finisce per assumere l’aspetto di un nemico, persino la creatura più innocente e
indifesa, perché per loro non è possibile il dialogo, e quindi la comprensione e
l’amicizia. Ma a questi fantasmi, che ancora oggi, come nella Grecia di tanti secoli fa,
insistono a disorientarci, non dovremmo mai permettere di allontanarci dalla nostra
via, né di farci cadere nel pessimismo e nella rassegnazione. Dobbiamo invece tenere
ben presenti i traguardi che, nonostante tutto, l’umanità seguita a raggiungere, perché
solo così potremo trarre incoraggiamento per andare avanti ancora.
Ho già rilevato che la statua dell’acropoli, della quale ho descritto la presunta copia
conservata a New York, potrebbe non essere stata dedicata al Diitrefe che condusse i
mercenari traci, ma a un suo antenato. Tuttavia se Pausania, diversi secoli dopo, ritene-
va che rappresentasse proprio lui, ciò significa che quell’identificazione si era ormai
consolidata ed era divenuta opinione corrente. Lo scrittore, che riferisce in modo molto
distaccato l’episodio di Micalesso, dà l’impressione di essere più interessato a una breve
digressione sugli armamenti che inserisce subito dopo, perché, come confessa lui stes-
so, l’aveva stupito il fatto che Diitrefe fosse trapassato da frecce, che erano armi poco
usate dai Greci, tranne i Cretesi39. Di fronte all’onore che credeva fosse stato concesso a
Diitrefe con una statua in un luogo tanto importante, nonostante l’infamia di cui si era-
no macchiati gli uomini da lui guidati, Pausania non manifesta alcuna meraviglia; egli
aggiunge, anzi, che gli Ateniesi ricordavano ancora diverse imprese da lui compiute,
sebbene non così famose.
Noi, invece, speriamo di non rimanere mai indifferenti davanti a tutto quello che
potrà farci ricordare la terribile tragedia di Beslan.

39 Vd. il commento di L. Beschi e D. Musti in Pausania, Guida…, cit., pp. 345-346, ad l. Questa puntua-
lizzazione non può non ricordare il citato frammento di Platone Comico, che accusava Diitrefe di essere
‘cretese’, forse perché, in qualche occasione a noi sconosciuta (magari una di quelle ‘varie imprese’ che, se-
condo Pausania, gli Ateniesi ancora rammentavano), aveva assoldato arcieri provenienti da quell’isola (vd.
G. Lippold, s.v. Kresilas, in Paulys Real-Encyclopädie der klassischen Altertumswissenschaft, XI.2,
Stuttgart 1922, coll. 1714-1717, specificamente col. 1715). Oppure si deve pensare solo a un mero insulto,
dovuto alla fama di slealtà di cui i Cretesi godevano (vd. C. Ampolo, Tra Greci…, cit., p. 23).

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Fig. 1. Erma di Pericle.

Fig. 2. Amazzone di Cresila.

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Rambaldi – Orrori antichi e contemporanei

Fig. 3. «Protesilao».

Fig. 4. Bronzetto di Saint-Germain-en-Laye.

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Fig. 5. Peltasta.

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Simone Rambaldi
(Università di Bologna)

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