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INDICE
Introduzione 5
Improvvisazione e danza 17
1. La storia dell’improvvisazione come pratica performativa 17
Anni ’60 e ’70 18
Anni ’80 fino a oggi 22
2. L’improvvisazione come competenza 25
Affordance 27
Il tempo dell’improvvisazione 29
Limite 31
Ascolto 33
Accettare 34
Errore 35
Rapporto pubblico-performer 37
1. Neuroni specchio 37
2. Gli specchi di Turner 43
Liminalità, liminale e liminoide 45
Il flusso 47
3. La danza come forma di comunicazione non-verbale 49
4. Conclusioni sull’improvvisazione 51
L’arte di scegliere 55
1. La libertà nella società postmoderna 56
2. Il problema della scelta 58
3. L’improvvisazione come arte di scegliere 62
4. Il circolo virtuoso dell’improvvisazione 64
Considerazioni conclusive 65
Appendice 73
Bibliografia 81
3
4
INTRODUZIONE
5
Lo studio dell’antropologia mi ha dato lo stimolo per rispondere alle
domande che come performer nascono spontanee: io sono
consapevole di quel che produco improvvisando, ma il pubblico cosa
vede? Quanto sono consapevoli gli spettatori di quello che stanno
osservando? Ma soprattutto, è importante che siano realmente
consapevoli oppure la magia della performance li investe comunque?
L’antropologia infatti, come Cristiana Natali ha fatto notare nella sua
conferenza in Dialoghi sull’uomo, ha la capacità di “rendere strano ciò
che è familiare e familiare ciò che è strano”2 . Come è avvenuto nel
caso del provocatorio articolo di Joann Kealiinohomok, dal titolo “An
Anthropologist Looks at Ballet as a Form of Ethnic Dance”3 , il
balletto classico è apparso notevolmente diverso agli occhi dei fruitori
se guardato da tale punto di vista. In questo senso mi sono chiesta: in
una società postmoderna in cui l’arte si focalizza sul processo che
conduce al prodotto artistico, più che sul prodotto stesso, cosa è in
grado di scorgere l’audience di tale processo? Il performer è
consapevole dei valori culturali trasmessi dal suo modo di muoversi?
La risposta data dalla mia personale esperienza come danzatrice mi ha
tante volte stupito, infatti il pubblico è un attento osservatore, e
l’improvvisazione è forse uno dei settori della danza in cui il processo
è mostrato e messo a nudo, e che permette al pubblico un’esperienza
partecipativa sia attiva che passiva
Da una prospettiva antropologica ho cercato di produrre materiale che
mi potesse permettere di distaccarmi dalla posizione di spettatrice o
danzatrice, per poter osservare con attenzione quale fosse il legame tra
queste due visuali. Ho inoltre approfondito la tematica della liminalità
6
di Turner, concetto che ho trovato illuminante nel chiarire il gioco di
specchi e riflessi che si trova alla base dei processi performativi in
ambito teatrale e non.
I capitoli che seguono sono strutturati partendo dal capitolo primo, in
cui espongo l’esperimento che ho svolto, che si è composto di un
workshop e diverse performance nel centro storico fiorentino, nel
quale ho cercato di indagare la prospettiva del pubblico e dei
performers coinvolti, attraverso dei questionari scritti. I risultati di tali
risposte hanno focalizzato la mia attenzione sulla ricorrenza del
termine “libertà”. Nel secondo capitolo ho esaminato la nascita e lo
sviluppo dell’improvvisazione performativa nell’ambito della Post-
Modern Dance, dagli anni Sessanta fino a oggi. Ho concluso il
capitolo con una spiegazione delle competenze richieste a un
improviser procedendo per termini chiave. Il terzo capitolo è stato
dedicato ai processi che risiedono nel rapporto tra gli spettatori e i
performers, appoggiandomi a studi cognitivi di vario genere, dal ruolo
dei neuroni specchio alla recente analisi neuroestetica riguardo l’arte e
il teatro. Ho poi approfondito la questione che lega i drammi sociali al
concetto di liminale, individuando nell’improvvisazione un fenomeno
che appartiene, nello specifico, al campo liminoide, concetto chiave
nella mia ricerca poiché chiarisce il livello a cui avviene il gioco di
riflessi tra società e attori sociali attraverso il teatro. Nel quarto
capitolo ho presentato il quadro sociale all’interno del quale, a mio
parere, si colloca l’improvvisazione, focalizzando sulla scelta,
collegata all’idea postmoderna di libertà secondo le interpretazioni di
Bauman e Salecl .
7
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Capitolo primo
Franko M., Danza e politica, in I discorsi della danza, Utet, Torino 2007
9
ricerca, soprattutto per stimolare la loro consapevolezza e attenzione
al rapporto con l'audience.
1. Il workshop
10
danzatori, che ho preso in prestito da Sparti, oltre che da Squillacciotti
e Lusini per i campi della cognizione, e che, tra l’altro, ci ha permesso
di dialogare in modo più produttivo con il musicista che ci ha seguito
sia per il workshop che per le performance. Così abbiamo da un lato
cercato di sviluppare un modo per attingere al proprio bagaglio di
esperienze e suggestioni, dall’altro di metterle in connessione con gli
altri, con la musica e con l’ambiente. Il terzo giorno abbiamo cercato
di ripulire dall’emotività personale per focalizzare tutto sull’ascolto e
sul gruppo, proponendo di percepire lo spazio in relazione con
l’architettura del corpo nostro e degli altri danzatori. Come spunti
teorici ho trattato il tema della sincronicità junghiana, come spunto per
riflettere su come l’ascolto porta al “lasciar accadere” azioni, in questo
modo avvengono eventi in sincronia, cose che sembrano talmente rare
da sfidare le leggi statistiche, si tratta di sintonizzarsi sugli stessi
stimoli e approfondirli insieme.
Devo dire che il gruppo ha risposto benissimo al lavoro proposto,
dopo essere riusciti a tirare fuori materiale personale, attingendo
dall’immaginario, dalle proprie esperienze e dagli stimoli esterni, si
sono poi sintonizzati sulla dimensione di gruppo e l’ascolto tra loro
era decisamente forte.
2. Le performance
11
scelti, in accordo col Quartiere 1 di Firenze, in base alle tipologie di
audience che potevano offrire: posti turistici, mercati, piazze. In
questo modo ho cercato di raccogliere giovani, anziani, casalinghe,
famiglie, studenti e turisti.
Il mio ruolo era quello di coordinare le performance, aiutando i
danzatori a gestire al meglio lo spazio, dare il tempo di durata
(attraverso dei cenni avvisavo quando iniziare a trovare una
conclusione) e soprattutto mi occupavo di osservare le reazioni del
pubblico, lo invitavo a rispondere ai questionari senza distrarre dallo
spettacolo. In alcuni casi ho condotto anche delle interviste a voce.
Il primo giorno mi sono trovata a dover rivedere la presentazione del
questionario: un foglio A4 attaccato a una cartella di cartone creava un
senso di distanza dagli spettatori, che mi hanno spesso scambiata per
una sorta di venditrice. Ciò non mi permetteva di mettere a proprio
agio le persone, che difficilmente si rendevano disponibili a compilare
il modulo.
Ho quindi provato a cambiare strategia, lasciando che fosse il
pubblico a interessarsi senza che dovessi porgere i moduli. Ho quindi
messo una scatola con una fessura, una sorta di urna, e ho trasformato
il modulo in una specie di volantino informativo, con accanto in bella
vista delle penne. Il volantino, grazie a una grafica più accattivante,
serviva in questo modo come spiegazione della performance e
invitava a rispondere alle domande. Il risultato è stato decisamente più
positivo, in questo modo non si sentivano più “obbligati” a rispondere,
ma potevano scegliere se farlo senza neanche entrare in contatto
diretto con me. Il tutto aveva un aspetto più giocoso e invitante,
portandomi a più di 100 moduli compilati nel giro di 3 giorni.
Per poter capire meglio quanto conta sapere in precedenza la natura
dello spettacolo, ho mischiato 2 tipi di moduli: uno premetteva che
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era un’improvvisazione, l’altro invece diceva solo che si trattava
genericamente di una performance di danza. In questo secondo
questionario ho aggiunto una domanda a risposta chiusa, che chiedeva
di identificare se ciò a cui stavano assistendo era un’improvvisazione
o una coreografia.
I risultati dei moduli hanno attirato la mia attenzione su un dato: al di
là di un notevole consenso estetico da parte del pubblico, sembra
piuttosto rilevante la terminologia usata nella descrizione di ciò che è
piaciuto. Mi ha fatto riflettere in particolare la ricorrenza dei termini
“dialogo”, “umano” e “libertà”.
13
questo caso, rimanda quindi in qualche modo al termine “umano”. Ma
è stato anche spesso affiancato dal termine “coraggio”. Ciò mi ha dato
molto da pensare, infatti le nostre performance erano in strada, nel
centro storico di Firenze. In un primo momento ho dato per scontato
che si riferissero al coraggio di poter essere così liberi da ballare per
strada. Però pensandoci bene siamo continuamente circondati da
artisti di strada e, per quanto sia effettivamente più difficile
concentrarsi in un ambiente aperto, è in realtà più stressante lavorare
in un teatro per certi versi: in strada infatti il pubblico può scegliere se
rimanere o andarsene, in teatro c'è un pubblico pagante in attesa di
vedere qualcosa all'altezza di ciò che ha pagato, spesso è informato e
preparato sull'argomento o sulla tipologia di spettacolo che sta per
guardare. In generale un danzatore si prepara per esibirsi per anni e
anni, quindi il coraggio dovrebbe essere un ingrediente indispensabile
per il mestiere che vuole affrontare. Perché dovremmo essere più
coraggiosi di giocolieri, musicisti o mimi di strada?
Mi sono allora chiesta se non fosse correlato al concetto di
improvvisazione, effettivamente solo un piccolissima parte di
audience non si è reso conto che era un’improvvisazione, molti invece
hanno capito perfettamente di cosa si trattava. Quindi hanno notato la
libertà e il coraggio di danzare, improvvisando all'aperto.
Gli spettatori hanno dunque notato la capacità dei danzatori di
scegliere nel momento i propri movimenti e di creare una
composizione istantanea di musica e danza. Di fatto molti di coloro
che hanno pensato fosse una coreografia l’hanno reputata scadente,
poiché l’aspettativa compositiva è sostanzialmente diversa. Coloro
che hanno intuito, o a cui è stato detto, che si trattava di
improvvisazione, hanno trovato la performance interessante.
Sembrerebbe dunque che la parola “libertà” usata dal pubblico sia da
14
associare al processo improvvisativo inteso come “scelta”. Da ciò
posso dedurre che quello che affascina è vedere il danzatore creare dal
vivo, in diretta. In questo modo gli spettatori si sentono resi partecipi
del percorso creativo attraverso le scelte attuate nel presente dal
danzatore.
15
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Capitolo secondo
IMPROVVISAZIONE E DANZA
17
valenze: spontaneità, espressione del sé, espressione spirituale,
accessibilità, scelta, autenticità, naturalezza, presenza, rischio,
intraprendenza, sovversione politica e senso del gioco. Nonostante che
l’improvvisazione contenga tutti questi aspetti, a seconda dei periodi
storici ne sono emersi alcuni piuttosto che altri.
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Il metodo improvvisativo venne approfondito e studiato dando vita a
quelle che furono chiamate “coreografie indeterminate” o “coreografie
aperte” (opposte alle coreografie tradizionali, “chiuse”), ma anche
“situation-response composition” o “composizioni in situ”. La danza
sperimentata in questo periodo mette in scena un corpo idealizzato
come rilassato, un modo di muoversi e di comporre basato sulla
dialettica fra totale indeterminazione e improvvisazione guidata.
A differenza dei metodi basati sulla scelta casuale, sulla chance, che
pongono l’elemento decisionale al di fuori dal sé (come per esempio
per Cunningham e Cage), l’improvvisazione sembrò essere un modo
per attingere al profondo, attivando la creatività personale di ogni
singolo individuo. Iniziarono così a diffondersi eventi e spettacoli,
rimane famoso il Concerto#14 del Judson Dance Theatre nell’Aprile
del 1964, che includeva oltre che un pezzo di gruppo anche i soli dei
singoli danzatori, tra i quali “Some thoughts on Improvisation” di
Yvonne Rainer che conteneva la lettura di un saggio che essa stessa
aveva scritto sul metodo improvvisativo. “Questa prima fase della
post-modern dance è una delle stagioni più fertili e innovative della
storia della danza contemporanea.”5
Sempre negli stessi anni anche un gruppo femminista si afferma, le
5 Ibidem p 117
19
Natural History of the American Dancer, organizzato nei primi anni
’70 da Barbara Dilley.
All’epoca vi furono due stimoli di eccezionale importanza per la
danza: la nascita della Contact Improvisation e il gruppo Grand
Union.
La Contact Improvisation si diffuse intorno alla fine degli anni ’70,
evolvendosi dalle sperimentazioni di Steve Paxton. Egli stava
portando avanti una serie di esperimenti su duetti maschili, cercava un
modo di danzare insieme che permettesse di eliminare l’aspetto
aggressivo. Paxton trovò così un sistema di ricerca sul movimento
dalle forti implicazioni sociali e terapeutiche, poiché basato
soprattutto sul contatto con un altro corpo e quindi su una forma di
comunicazione fisica e percettiva.
La tecnica fu immediatamente adattabile anche alle donne, diventando
un modo per indagare le dinamiche di un corpo sottoposto alle leggi
fisiche: come dare e ricevere il peso, come alzare il partner, come
seguire, cadere, dirigere, sostenere il peso di un altro corpo. Per
trovare suggestioni e soluzioni a queste necessità dinamiche furono
studiate danze popolari, sport e arti marziali, come l’Aikido. Egli
stesso l’ha così descritta in una recente intervista:
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in quanto non è un’esperienza che facciamo normalmente. Allo scopo di
risolvere questo problema, ho ripreso in mano l’Aikido, un’arte marziale
giapponese che avevo studiato in precedenza, e ne ho estratto
l’insegnamento sui principi del rotolare. Quando si cade su di una
superficie, o quando semplicemente si cade, si colpisce il pavimento.
L’Aikido suggerisce che, in caso di caduta, si può rotolare in modo da
mutare l’energia da una traiettoria verticale a novanta gradi rispetto al
pavimento, in qualcosa che “entra” nel pavimento e cambia facilmente
l’energia in un movimento parallelo al suolo. Quindi l’energia viene re-
indirizzata molto facilmente.
L’altro elemento è la qualità dell’energia all’interno del corpo nel
momento del rotolare, simile a quella che abbiamo quando al mattino ci
svegliamo e ci stiriamo. Nel rotolare a terra il corpo ha in sé proprio
quella qualità, una tranquilla e semplice qualità di leggerissima
estensione, che dirigiamo verso una certa relazione formale. Nel
momento in cui facciamo questo, ci stiamo in realtà estendendo verso la
caduta. Questo è impossibile da fare se si ha paura di cadere. Quindi, in
realtà questa azione diviene una spirale positiva, tanto che nel momento
in cui si acquista confidenza nella forma, sembra quasi che il movimento
divenga più morbido, e questo da più sicurezza [...]. 6
21
uomini possono alzare uomini, donne possono alzare uomini e donne
possono alzare donne, viene indistintamente sottolineata la forza
femminile come la sensibilità maschile.
Il Grand Union fu attivo tra il 1970 e il 1976. Questo gruppo di
improvvisazione nacque invece dalla sperimentazione di Yvonne
Rainer e fu, a differenza della Contact, un fenomeno esclusivamente
teatrale e principalmente pensato per un’audience. A questo gruppo
appartennero oltre alla Rainer e Paxton anche Trisha Brown, Douglas
Dunn, Barbara Dilley, Lincoln Scott e Nancy Lewis. La loro filosofia
era basata sul fatto di incontrarsi direttamente sul palco e di presentare
il loro materiale “freddi”.
Questo gruppo esplorò l’interazione col movimento e i rapporti sociali
sotto varie prospettive: narrativa, drammatica, meta-teatrale e
quotidiana. I performers cantavano, recitavano, ballavano, citavano
film, creavano immagini con gli oggetti, dando la sensazione che il
palco fosse un luogo dove tutto poteva succedere.
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interesse per l’improvvisazione che però assunse diversi connotati sia
nel significato che nelle motivazioni. Se in precedenza
l’improvvisazione era un modo per accedere al sé autentico, in questo
periodo storico si assiste alla frammentata molteplicità di identità in
movimento per cui non esiste più un sé. Il contenuto della danza tende
quindi verso un’attestazione esplicitamente politica di identità, di
genere, di preferenze sessuali, di razza e di etnicità.
Il dibattito si complica negli anni Novanta a causa della
contraddizione tra Post-modernismo/Post-strutturalismo e l’identità
politica riguardo alla nozione di soggettività. Infatti anche se l’identità
politica non deve ricorrere necessariamente alla nozione essenzialista
di un gruppo (etnico, sessuale, razziale) spesso viene utilizzata una
retorica essenzialista. L’essenzialismo sosteneva che nonostante le
differenze di identità, sessualità ed etnia esistesse un “io” genuino,
mentre il post-modernismo lo negava. Sorse quindi un dibattito sulla
soggettività e sul sé che si è ripercosso sulla danza dell’epoca.
Se negli anni Sessanta, nelle coreografie aperte, si cercava di
esprimere i concetti di libertà e di creazione di comunità, negli anni
Ottanta si cerca di approfondire il significato di questi termini. Infatti
un tempo l’improvvisazione era collegata all’esplorazione e alla
partecipazione a una cultura dell’abbondanza. Ma gli anni Settanta
segnano l’inizio di una recessione che inizialmente sembrò
temporanea, ma la guerra alla droga, l’epidemia di AIDS, il crollo
dell’Unione Sovietica e la nuova recessione degli anni Novanta
crearono un certo scetticismo nei confronti degli ideali del passato,
facendo sembrare l’abbondanza e le comodità di un tempo antiche e
nostalgiche.
L’improvvisazione continuò ad essere usata in vari modi, non solo per
generare materiale nuovo, cosa che è destinata a rimanere come
23
marchio di fabbrica di tutto il genere contemporaneo (e che è stato un
metodo di composizione forse da sempre) ma anche come elemento di
variazione di set coreografici prestabiliti, e rimase sempre come
preparazione quotidiana per i danzatori. Fu nei primi anni Novanta
che iniziò una nuova fioritura dell’uso dell’improvvisazione come
performance: non solo come preparazione dell’evento, ma come
materiale dell’evento stesso. In tutta l’America iniziarono a
organizzarsi festival per ospitare questo genere di spettacoli, dal New
York Improvisation Festival a Engaging The Imagination di San
Francisco.
Se questa pratica negli anni Sessanta e Settanta fu un modo per
affermare che gli artisti avevano la voglia di giocare ed esplorare un
mondo nuovo che si stava aprendo di fronte a loro, quella degli anni
Novanta esprimeva un senso di urgenza e di frenesia quasi violento.
7 “La Contact Improvisation era così lenta e delicata; avevo bisogno di esplodere.
C’è una fisicità feroce che potrebbe essere un effetto dell’ambiente di New York
City. Per me, l’improvvisazione ha implicazioni politiche. Ciò che faccio è correlato
al lavoro delle Lesbian Avengers, un gruppo d’azione diretta.” Monson J. in Albright
A.C,, Gere David, Taken by surprise, Middletown, Weslyan University press 2003 p
83
24
DanceAbility, che permise ai disabili di approcciarsi alla danza e di
interagire col proprio corpo.
In Europa il declino dei primi anni del dopoguerra aveva causato un
rallentamento nella consolidazione delle correnti moderniste, portando
a una generale marginalizzazione del fenomeno. Negli anni Ottanta
inizia la riconquista di un modernismo di importazione americana e, di
conseguenza, anche delle nuove forme post-moderne.
25
una forma di composizione in tempo reale.
La competenza per tale pratica si costruisce attraverso un lungo lavoro
di esercizio ed esperienza, per cui non si crea quasi mai dal nulla, ma
dal recupero di un background di conoscenza corporee e di esercizio
fisico e mentale per raggiungere l’efficacia adeguata.
Nonostante l’esistenza di una grande quantità di stili e modi diversi di
pensare l’improvvisazione, poiché probabilmente ve ne sono tanti
quanti i danzatori che la praticano e la insegnano, esistono delle linee
guida comuni che costituiscono la base di una buona tecnica per
improvvisare col corpo. A tale proposito mi riferirò a Sparti, che ha
brevemente riassunto le condizioni dell’improvvisazione nel jazz.
Queste, non a caso, sono valide anche per l’improvvisazione in danza:
1. Inseparabilità. Composizione ed esecuzione sono atti inseparabili
nell’improvvisazione, viene quindi mostrato il processo creativo nel
momento in cui accade. Nelle coreografie invece creazione e
composizione avvengono in un momento precedente all’esecuzione.
2. Originalità. In questo senso ogni perfomance non sarà mai uguale
all’altra, poiché irripetibile. Originalità è intesa anche come potere
di sorprendere, come “capacità di spingersi al di là del noto”10.
3. Estemporaneità. In quanto avviene nel presente, in un qui e ora che
non permette di avvalersi di materiale preparato precedentemente.
Ma nonostante ciò è un’attività situata, che non nasce dal niente, ma
da una lunga preparazione .
10 ibidem p 118
26
tuttavia propizio. 11
Affordance
11 ibidem
12 ibidem
27
“ciò che offre la possibilità di un’azione non ancora intrapresa (e che
non necessariamente verrà di fatto intrapresa)”.13
Riportando questa definizione nel campo del movimento possiamo
quindi dire che un movimento agevola quello successivo, senza
esserne necessariamente la causa. Poiché tale atto non obbliga ma
permette una risposta. Infatti la risposta dipenderà in realtà “dal
bagaglio di conoscenza e dalle capacità inferenziali di chi riceve - e
poi agisce su- quell’atto articolando appunto il suo sapere di
sfondo”14.
Trovo che la definizione di Sparti sia estremamente calzante per
questo ambito, poiché la danza ha effettivamente a che fare con
l’affordabilità dello spazio. Il lavoro di un performer ha anche a che
fare col percepire lo spazio tra corpi, tra volumi, tra architetture e
darvi un significato spesso diverso dal quotidiano. Nel mio primo
periodo di formazione nel campo dell’improvvisazione mi colpì una
frase che il mio insegnante, Alessandro Certini, spesso ripeteva: “ la
danza non si trova in me o in te, ma proprio nello spazio che creano i
nostri corpi”, ciò mi ha stimolato a concepire la danza come qualcosa
che non produco io da sola, ma che si crea nell’interazione con ciò che
mi circonda: il muro, il pavimento, gli altri corpi, e i dettagli come
buchi e venature nel legno o la consistenza del muro, tutto può
diventare stimolo, basta trovare il modo di sfruttarne l’affordance.
Come Sparti sottolinea la reazione alla affordance non è arbitraria , ma
è la continuazione più prossima alla sollecitazione fornita, di modo
che, per chi guarda (o ascolta nel caso del jazz), sia possibile tracciare
una connessione con l’atto precedente. Per agevolare questa
comprensibilità è molto importante che i performers siano capaci di
14 Ibidem p. 169
28
dosare molto bene la durata di ogni singola azione e la quantità di
azioni che si stanno svolgendo in scena. Infatti un’eccessivo accumulo
di frasi danzate rende illeggibile la dinamica che si instaura tra i
performers in azione, come d’altro canto esiste un tempo fisiologico
per il pubblico di assimilazione di un’azione, per cui a volte l’uso di
pause e fermate aiuta a spezzare il flusso di movimento e a renderlo
leggibile. Il termine che si usa in queste situazioni è “asciugare”, che
si intende sia nel fatto di chiarire l’affermazione che si ha intenzione
di proporre con tale movimento (che quindi non può essere casuale ma
deve avere una valenza comunicativa anche se astratta), sia nel senso
di ridurre la quantità di proposizioni, trovando invece un modo di
valorizzare anche quelle degli altri, affidandosi appunto
all’affordabilità di tali movimenti.
Il tempo dell’improvvisazione
29
materiale ed essere quindi in grado di accedere al materiale prodotto
anche in un secondo momento. In questa situazione quindi sono
indispensabili ripetizioni, sviluppi e leggere variazioni di uno stesso
movimento, per poter essere in grado di sviluppare una memoria fisica
e di indagare tutte le possibilità espressive di un singolo segmento
danzato. La dimensione temporale cambia, i tempi “scenici” sono, per
quanto sempre importanti, in secondo piano e vengono considerati al
momento della composizione.
Nel settore performativo dell’improvvisazione invece il “quando”
assume un ruolo fondamentale per la fruibilità del pubblico. Infatti è
necessario chiarire immediatamente ciò che si sta producendo, in
questo senso è utile saper gestire la tempistica per rendere il ritmo
della performance leggibile e al tempo stesso godibile. Quindi bisogna
essere capaci di sentire “quando” entrare in scena, “quando” uscire,
“quando” finire, “quando” lasciare il tempo di sviluppare qualcosa o
“quando” interromperlo. Imparare a gestire il “quando” è
indispensabile, ma è estremamente difficile non lasciarsi prendere
dall’irrefrenabile istinto di riempire lo spazio e il tempo di movimenti.
Improvvisando ci si sente spesso in un flusso, in cui da una cosa nasce
un’altra e poi un’altra e poi un’altra, si genera un tempo interno,
condiviso dai performers, che può portare a un movimento continuo e
indistinto dal ritmo piatto e noioso, tra l’altro tendenzialmente
incomprensibile. Si tratta di dosare con estrema attenzione e di
riuscire a percepire la composizione che si sta creando momento per
momento anche dall’esterno, dando il giusto tempo all’osservatore di
entrarvi partecipando col suo sguardo.
Sempre a proposito del jazz Sparti dice:
30
presente viene esteso in modo ritenzionale e protenzionale, [...]. Posso
infatti ricordarmi quello che ho suonato fino adesso attraverso la
ritenzione - termine che esprime il nesso fra quello che suono (o ascolto)
e quello che ho suonato un paio di note fa, e che viene ancora trattenuto
(o “ritenuto”, appunto) - nonché attraverso la riproduzione, la quale rinvia
ad una seconda forma di memoria, relativa a un passato non contiguo ma
più remoto, ad esempio una figura musicale che è parte del mio
repertorio, o un passaggio che ho suonato eseguendo lo stesso brano due
anni fa. E posso anche presentire il futuro attraverso protenzioni (le
aspettative sul futuro immediato che si formano mentre suono) e
anticipazioni di un futuro più lontano e indeterminato [...]. In questo
senso chi improvvisa esibisce l’accadere del tempo.
Limite
31
qualità di movimento ci rimangano più “affezionate” ripresentandosi
improvvisazione dopo improvvisazione. Il vincolo di dover stare in
una specifica qualità o in uno specifico soggetto aiuta il corpo a uscire
da tali pattern e permette di scoprire nuove possibilità e nuove strade
espressive.
Ciò ha inoltre delle applicazioni utili anche in campo compositivo. Per
esempio nel metodo Nikolais si usa comporre facendo improvvisare i
danzatori su una vera e propria griglia composta di spazio, tempo,
motore e forma, da costruire secondo ciò che si intende esprimere. Per
cui potrei trovarmi a improvvisare su uno spazio piccolo e direzionale,
con un tempo veloce, motore vibrato e forme spigolose, restituendo
delle immagini sicuramente claustrofobiche, come potrei invece
improvvisare su uno spazio circolare, con un tempo medio e regolare,
motore accentato e forme aperte e morbide, proponendo in questo
modo delle immagini certamente più serene e pacificanti.
Nell’ambito performativo avere una preparazione in tale direzione
permette di avere un vocabolario di movimento variegato e una
maggiore consapevolezza di ciò che sono le nostre tendenze e quindi
di decidere se cavalcarle o uscirne. Spesso si scelgono strutture
all’interno delle quali far nascere l’improvvisazione, ciò dipende
molto dal tipo di concezione che si ha dell’improvvisazione stessa e
da che tipo di situazione si cerca di ricreare. E’ possibile dare una
struttura drammaturgica all’interno della quale improvvisare, oppure
stabilire solo un’ordine di apparizione e composizione dei performers,
per esempio decidere che dovrà svolgersi un duo, un solo e poi un trio,
oppure semplicemente concordare delle qualità di movimento e in
base a quelle costruire la relazione tra i performers, come per contro è
possibile non concordare niente e lasciar accadere stabilendo solo la
durata del pezzo.
32
Ascolto
33
What is revealed (in contact improvisation) is mutual understanding, a
basic system, a mode of communication. Touch. The fast and subtle skin
processing masses, vectors, emotions, giving the muscles the information
to correctly move the bones, so the duet, can fall through the time and
space of demostration, neither partner hurt, hampered, subjected,
objectified. Steve Paxton (ibidem p275)
Accettare
34
abbandonare le proprie proposte altrettanto velocemente. Infatti
sviluppare questa capacità permette di inserire eventuali “incidenti di
percorso” in un discorso comunque coerente.
Si dice che il danzatore deve in qualche modo mettere da parte l’ego,
con ciò si intende mettere in primo piano la composizione e farsi
strumento di quel che avviene. Questo implica di abbandonare le
proprie manie di protagonismo. Ascoltare e accettare servono anche a
capire come e quando dare spazio agli altri, nell’ottica di valorizzare
la composizione totale.
Errore
35
36
Capitolo terzo
RAPPORTO PUBBLICO-PERFORMER
“Dance is a spatial extension of the body that reaches out and touches other
bodies,
just as a voice is a aural extension”15
Ivar Hagendoorn
1. Neuroni Specchio
15“La danza è un’estensione spaziale del corpo che si estende verso l’esterno e tocca
gli altri corpi, proprio come la voce è un’estensione uditiva.” op cit in S. Blackeslee,
M. Blakeslee, The body has a mind of its own, New York, Random House Trade
Paperback Edition, 2008.
37
accaduto se fino ad allora si credeva che quei neuroni si attivassero
solo per funzioni motorie? Inizialmente si pensò a un errore, fu quindi
un caso fortuito la scoperta nel cervello della scimmia e, in seguito,
nel cervello umano, di uno speciale tipo di neuroni, - attivati sia
dall'esecutore durante l'azione che dall'osservatore della medesima
azione - la funzione dei quali sarebbe alla base “della cognizione,
dell'intenzione, dell'azione e della rappresentazione, oltre che
dell'interazione sociale”16
Nel corso di tali sperimentazioni, verrà individuata la presenza di due
tipi di neuroni che sono stati chiamati “canonici” e “specchio”. I primi
reagiscono durante l'esecuzione di un'azione compiuta in prima
persona e durante l'osservazione di un oggetto che può partecipare alla
medesima azione, ad esempio, mentre la scimmia afferra il cibo o
mentre osserva il cibo che può essere afferrato. I secondi, i “neuroni-
specchio”, reagiscono sia quando l'azione è eseguita in prima persona,
sia quando è osservata la stessa azione eseguita da un altro. Per la
scimmia, nei molti test effettuati, lo stimolo visivo rivelatosi più
efficace per attivare i neuroni-specchio è la visione di un'azione in cui
la mano o la bocca di un altro individuo interagisce con un oggetto. In
ogni caso, anche in assenza di oggetto, il gesto motorio deve essere
finalizzato ad una azione che abbia un senso per la scimmia: non ha
senso per lei vedere qualcuno che mima il gesto di prendere
un'inesistente nocciolina, ha senso invece schioccare le labbra, in
assenza dell'oggetto cibo, mentre spulcia una compagna. In assenza di
oggetto, i neuroni specchio della scimmia non reagiscono ad una
pantomima.
Nell’uomo è stata riscontrata oltre alla presenza di neuroni specchio
visuo-motori, che reagiscono secondo un sistema di “risonanza
16 Cappelletto, C., Neuroestetica. L’arte del cervello, Milano, Laterza ,2010, p 127
38
motoria” più complesso di quello della scimmia, anche di neuroni
specchio audio-visivi, che rispondono al suono di azioni avvenute e
quindi anche ad azioni di natura astratta. Le reazioni umane
all’ambiente non sono risposte agli stimoli sensoriali esterni, ma sono
piuttosto “forme di immaginazione attraverso le quali il soggetto
simula internamente l'intenzione psicofisica associata all'azione che
sta osservando”.17
Si possono quindi considerare intenzioni e volontà come espressione
di una spinta energetica interna, un”conato esecutivo”, in questo caso
cerebrale e muscolare. L'intenzionalità, che ricorre nelle “Ricerche
logiche” di Husserl, può essere definita come “movimento di
reciprocità dell'atto intellettuale di un soggetto che si rivolge a un
oggetto, prendendolo di mira, e di un oggetto che gli risponde,
prestandosi ad essere afferrato intellettualmente”18.
Eugenio Barba, in “La canoa di carta”, delinea il concetto di sats:
17 Ibidem 129
18 Ibidem p131
19 Barba cit in Cappelleto p 131
39
L'antropologia teatrale, attraverso la dissezione del comportamento
dell'attore, riconduce la totalità della sua espressione ad una molteplicità
di livelli di organizzazione delle prassi corporee di movimento. Ciò
costituisce un naturale ponte di dialogo con le neuroscienze cognitive che
indagano il ruolo del sistema corpo-cervello nella cognizione sociale.20
40
risultato degli esperimenti ha rivelato che l'attivazione neuronale
dell'osservatore risulta maggiore quando l'azione è accompagnata
da un'intenzione contestuale. Sebbene il gesto sia spesso ambiguo,
non si può sciogliere tale ambiguità dicendo che il suo senso
dipende dal contesto, ma piuttosto “è forse più interessante
chiederci che cosa produce il fatto che un gesto possa avere la
stessa definizione posturale e aprirsi a azioni e intenzioni
plurivoche.” 22
3. Il carattere finzionale del sistema specchio. Una delle differenze
fondamentali tra il sistema specchio della scimmia e quello umano
è che quest'ultimo reagisce anche alla osservazione dell'azione
mimata.
22 Ibidem p 134
23 Ibidem p135
41
legati a un comportamento imitativo hanno piuttosto a che fare con la
comprensione degli eventi motori altrui e delle altrui intenzioni
partendo dall’esperienza di sé. Infatti è proprio partendo dai propri atti
motori che viene garantita la comprensione di quella degli altri, “dove
per comprensione qui non si intende la spiegazione dell’intenzione,
ma la capacità di riconoscere nell’evento motorio un tipo di atto”.24
Calvo-Merino ha condotto delle indagini di neuroimaging nel campo
dell’estetica teatrale. L’esperimento consisteva nel mostrare dei video
di capoeira a soggetti di diverse competenze: esperti nella danza
classica, esperti in capoeira e inesperti del tutto. Nei soggetti che
avevano un’allenamento tale da poter compiere i movimenti mostrati,
risultava una maggiore attivazione nella corteccia premotoria, nel lobo
parietale superiore destro e nel solco temporale sinistro. Quindi il
cervello umano comprende le azioni altrui attraverso una simulazione
motoria e ciò dipende dal soggetto coinvolto.“Il cervello risponde
dunque a configurazioni di azioni orientate che possiamo definire
educate, ma non transitive od orientate a uno scopo.”25
Il danzatore dunque improvvisando imposta il suo bagaglio di
esperienza, abitudini motorie, libertà espressiva e creativa nel
costruire con l’improvvisazione una sequenza di movimenti in cui
ogni movimento è necessario a quello prossimo. In questo modo lo
spettatore risponde immaginando in anticipo il movimento che sta per
svolgere il danzatore.
24 Ibidem p137
25 Ibidem p 139
42
solidali tra loro [...] 26
26 Ibidem p 140
27 Ibidem p 143
43
dato dall’osservazione che riguarda la struttura di entrambi. Turner ha
infatti riscontrato che i drammi sociali seguono un procedimento
drammaturgico composto da quattro fasi:
1. Rottura 2. Crisi 3. Compensazione 4. Reintegrazione (o nuova
rottura)
Egli considera dunque la matrice empirica dei principali generi di
performance culturali proprio il dramma sociale, dunque sono queste
quattro fasi a fornire il contenuto, la forma e le procedure dei generi
performativi più tardivi.
Un dramma, come suggerisce l’etimologia del termini, non è realmente
completo fin quando non viene inscenato, cioè recitato su una qualche
specie di palco di fronte al pubblico. Il pubblico teatrale vede il materiale
della vita reale presentato in forma significativa, non si tratta solo di
semplificare e ordinare le esperienze cognitive e emozionali che nella
“vita reale” risultano caotiche. Si tratta di mettere in discussione i principi
ordinatori accettati nella “vita reale”.28
44
per affermare un fatto reale: per esempio il modo di fossi nella frase se io
fossi te”. Rito, carnevale, festa, teatro e generi performativi analoghi
possiedono chiaramente molti di questi attributi. 30
45
prima e il dopo. La liminalità si colloca in uno spazio atemporale di
momentanea sospensione del passato, un attimo di “pura
potenzialità”32 . Questa corrisponde alla terza fase dei drammi sociali,
quella fase di compensazione in cui si cerca di condurre una sorta di
autoanalisi collettiva successiva alla “crisi” avvenuta.
Fanno dunque riferimento a questa fase tutti i rituali religiosi e
giuridici ma anche lo sport, il gioco, il teatro, il cinema, la letteratura,
la musica e tutto ciò che “gioca” con “i fattori della cultura,
raccogliendoli in combinazioni di carattere sperimentale, talvolta
casuali e grotteschi, improbabili, sorprendenti, sconvolgenti.”
Se questa fase liminale nelle società tribali inverte lo status quo, nelle
società industriali lo sovverte. Quindi se il rituale tende ad accogliere
il conflitto, dimostrandolo simbolicamente, nel teatro e nei generi di
“intrattenimento” della società industriale svela i conflitti, mostrando
le zone d’ombra e il malessere sociale.
32 Ibidem p 87
46
toni piuttosto seri, a volte minacciosi, mentre il fenomeno liminoide è
una questione di gioco e di divertimento, in cui non vige l’obbligo a
prendervi parte, ma vi si partecipa solo se si vuole. Oltretutto il
liminoide si presenta come fenomeno “individualizzato”, nel senso
che il singolo artista, in quanto specialista del suo settore, produce
fenomeni di questo tipo, ciò non vuol dire che esso produca simboli,
idee e immagini dal nulla, ma si confronta con l’eredità collettiva. Alla
base di questa distinzione tra liminale e liminoide vi è l’elemento
importante dell’alta specializzazione e professionalizzazione che si è
sviluppata nelle società industriali, per cui anche l’intrattenimento
entra a far parte di un settore di professionisti specializzati nel
mestiere.
il flusso
47
il soggetto e il suo ambiente, fra stimolo e risposta, o fra presente, passato
e futuro. 34
48
durante l’esecuzione, scacciando la paura o la preoccupazione.
5. Esigenza di azioni non contraddittorie, coerenti, bisogna accettare
per vere le regole che sono date dall’evento liminoide che stiamo
praticando.
6. Non necessita di finalità o ricompense esterne, è proprio il flusso
stesso la felicità massima.
Turner sottolinea che ciò che va analizzato del flusso è soprattutto il
contenuto di questa esperienza, pur essendo un’esperienza individuale,
porta dei simboli condivisi dalla communitas.
49
corpi o anche lo spostamento d’aria causato da un movimento vicino.
Per comprendere il potenziale comunicativo della danza possiamo
impostare un paragone con il linguaggio verbale e non verbale. Hanna
propone di considerare la danza nel non verbale come consideriamo la
poesia rispetto alla prosa nel verbale. In comune danza e linguaggio
hanno varie caratteristiche: hanno entrambi una ricezione direzionale;
intercambiabilità, nel senso che mittente e destinatario possono essere
la stessa persona; dislocazione, l’oggetto cui si fa riferimento può non
essere direttamente presente; produttività, messaggi mai creati prima
possono essere inviati e recepiti all’interno di principi strutturati;
trasmissione culturale; ambiguità; affettività, come espressioni di stati
interni con il potenziale di poter cambiare umore e cambiare il senso
di una situazione; e un assortimento di potenziali partecipanti alla
comunicazione.
Esistono per contro delle differenze tra danza e linguaggio:
1. la danza è principalmente motoria, visuale e cinestetica, mentre il
parlato usa il canale audio-vocale, secondariamente entrambe le
comunicazioni si appoggiano anche su canali auditori, olfattivi,
prossemici e tattili.
2. Il linguaggio verbale esiste in una dimensione temporale, mentre la
danza richiede oltre a questa anche la dimensione spaziale.
3. L’abilità di un interlocutore di percepire l’esito del proprio discorso
è un fenomeno acustico, cosa impossibile nella multisensorialità
della danza, se non altro perché il danzatore non può vedere la
propria immagine.
4. Il fatto che chi parla può contemporaneamente compiere altre
azioni non è generalemente applicabile alla danza.
5. La danza ha più difficoltà nel comunicare complesse strutture
logiche rispetto al linguaggio parlato.
50
6. Nello studio della lingua si tende a ridurre a fonemi e morfemi,
mentre in danza l’esistenza di unità minime non è riscontrata. Cosa
che secondo Hanna è più che altro riconducibile a mancanza di
studi sull’argomento poiché una sorta di sintassi come quella che
governa il linguaggio verbale può essere riscontrato anche in danza.
4. Conclusioni sull’improvvisazione
51
drammaturgico uno spettacolo di improvvisazione sarà quasi sempre
deludente. Ma allora chi invece ha gradito la performance cosa ha
visto?
La risposta che mi sono data è che l’improvvisazione in qualche modo
mette in scena la “crisi” del performer, non intendo questo termine in
senso esistenziale, in scena non viene mai portato qualcosa di troppo
personale, anzi come abbiamo detto si va piuttosto nella direzione di
perdita dell’io. Intendo invece “crisi” in termini turneriani come la
fase di transizione e di ridefinizione: è la fase ambigua del liminale
che si trova tra crisi e compensazione. In scena abbiamo difatti un
performer messo a nudo, che si trova a creare e a comporre momento
dopo momento esponendo le proprie proposte, ripensamenti, tentativi
e incidenti di percorso, che deve quindi definirsi movimento dopo
movimento. E’ ciò che Csikszentmihalyi chiama flusso che permette
questo, e che diventa protagonista nell’improvvisazione.
Molte persone mi sono venute a cercare, dopo lo spettacolo, per
chiedermi quanto fosse improvvisato di ciò che i danzatori facevano.
Quando spiegavo loro che niente era stato strutturato, e quindi si
trattava di un improvvisazione completamente libera non volevano
crederci. Ciò creava ancora più attenzione e curiosità riguardo alle
performance che si stavano susseguendo.
Credo che questa reazione sia comprensibile alla luce del fatto che
l’improvvisazione non è molto conosciuta in Italia, anche se
largamente praticata, essa assume dunque un’aura magica per chi è
abituato a vedere solo coreografie e a pensare che i danzatori
procedano nel loro lavoro solo in quella direzione.
Mi sembra però imprescindibile che ciò che tiene alto l’interesse del
pubblico sia osservare il performer interagire con lo spazio, col suono,
con gli altri danzatori, o con il pubblico stesso, creando passo passo.
52
Dà una sorta di brivido vedere come questo decide cosa fare momento
dopo momento, la domanda che viene spontanea al pubblico è “cosa
farà ora?...e ora?”.
Rispetto alla teoria di Turner l’improvvisazione in danza si propone
come un fenomeno liminoide, mettendo al modo congiuntivo la scelta
del performer e dunque questo rappresenta all’indicativo il dramma
sociale legato alla scelta.
Considerando che la danza contemporanea ha trovato diverse
tecniche, strategie e metodi per mettere il danzatore in condizione di
sapere cosa deve fare e come lo deve fare passo dopo passo, mi
sembra quindi che essa proponga una soluzione piuttosto chiara,
configurandosi come terza fase dei drammi sociali, cioè quella
compensativa, d’altronde lo stesso Turner definisce questa come la
fase da cui il teatro stesso nasce.
53
54
Capitolo quarto
L’ARTE DI SCEGLIERE
Vedo l’improvvisazione come un approccio alla danza che mette a fuoco quel
momento di passaggio dal non conosciuto al conosciuto. Le situazioni che si
vengono a creare nell’improvvisazione cambiano continuamente a vari
livelli. Uno stato di precarietà che può diventare molto creativo. All’interno
di esso possiamo infatti fare delle scelte che trasformano il caos in azioni
con una forma e un senso compiuto, sempre partendo dall’interazione con
gli altri, con il pubblico, cogliendo l’imprevisto per agire all’interno di esso.
55
1. La libertà nella società postmoderna
56
l’ambivalenza dell’esperienza di questa sorta di crollo e “la
conseguente incoerenza di desideri e atteggiamenti si sono proiettati
nella sconfitta dell’ordine mondiale e nel fallimento dell’audacia
intellettuale e delle sue capacità di comprensione”. In sostanza dunque
al posto delle “leggi di natura” si sono sostituite le “leggi di mercato”.
La crescente incertezza di cui parla Bauman è dovuta ad alcuni fattori
responsabili:
1. Il nuovo disordine mondiale: le politiche del blocco di potere sono
state sostituite da qualcosa di sconosciuto, dall’aspetto incoerente e
disorientato. La mancanza di interpretazioni coerenti porta a
previsioni apocalittiche.
2. La deregulation universale: la competizione economica è regolata
dalla totale cecità morale. La fiducia di un tempo nelle capacità di
autoregolazione lascia spazio solo a una crescente disuguaglianza
economica tra continenti, paesi e cittadini stessi. Nessuna
occupazione è garantita e non c’è abilità in grado di assicurarla a
lungo.
3. Lo spirito del consumismo ha indebolito anche la rete di protezione
costituita dai rapporti interpersonali. Si tende a identificare l’altro
come un “potenziale mezzo per ottenere gradevoli esperienze”38 .
Parallelamente a questo è avvenuto il lento disfacimento delle
competenze sociali, sostituite, ancora una volta da prodotti
tecnologici offerti sul libero mercato.
4. I media veicolano un potente messaggio, supportato da mezzi di
persuasione efficace, che sottolinea “l’essenza indeterminata e
leggera del mondo”. In un mondo tale nulla accade definitivamente,
ma si dissolve rapidamente senza lasciare traccia, non esistono
conoscenze che non siano precarie e provvisorie.
38 ibidem p 63
57
La “società dell’incertezza” porta dunque a non poter mai risolvere il
“problema dell’identità”, poiché mancano le basi per la costruzione di
un’identità solida, cioè le nozioni di familiare ed estraneo, di “noi” e
“altri”. In mancanza di una “verità unica”, definizione che Bauman
sottolinea come pleonastica, siamo preda di una responsabilità
maggiore nel fare le nostre scelte.
Mentre farsi un’identità è un’esigenza fortemente sentita e un esercizio
incoraggiato da ogni autorevole medium culturale, avere un’identità
solidamente fondata e resistente e restarne in possesso “per tutta la vita”,
si rivela un handicap piuttosto che un vantaggio poiché limita la
possibilità di controllare in modo adeguato il proprio percorso
esistenziale [...].39
39 ibidem p 67
58
modelli di comportamento differenti, di essere allo stesso tempo argilla
plasmabile e abile scultore.40
40 ibidem p 109
59
femminile, una crescente competizione che pose accanto al “self-made
man” la “self-made woman”.
Nella visione postmoderna invece la situazione cambia poiché un
relativo benessere economico sembrerebbe essere garantito, non esiste
più un percorso definito e chiaro per la realizzazione personale. La
vita individuale è concepita più che altro come un opera o come
un’impresa, come qualcosa che va sviluppata, perfezionata e
rielaborata fino a raggiungere il massimo potenziale.
L’idea di scelta si radicalizza: ogni aspetto della propria vita diventa una
questione di decisioni da prendere con cura, in modo da avvicinarsi
quanto più all’idea di felicità e di realizzazione di sé proposto dalla
società. [...]. Tutti noi siamo invitati a comportarci come aziende: fare un
piano per gli obiettivi della nostra vita, compiere investimenti a lungo
termine, essere flessibili, riorganizzare l’impresa della nostra esistenza e
rischiare il dovuto in modo da incrementare gli utili.41
Al giorno d’oggi però sembra che anche semplici scelte, come quale
detersivo comprare, ci mettano di fronte a una crescente incapacità di
scegliere. Nell’indecisione la tendenza è comprare la cosa più
pubblicizzata, oppure prendersi del tempo per valutare accuratamente
tutte le possibilità che vengono offerte.
Nella vita privata sembra evidente la stessa forma di paralisi, che porta
alla ricerca di un consiglio di “esperti” per poter prendere le proprie
decisioni. Figure professionali come coach, motivatori e consulenti in
ogni settore ne sono sintomo. Questo sembra confermato anche
dall’aumento spropositato di vendite di libri di autoaiuto e di riviste
pronte a dare consigli su come migliorare ogni settore della propria
60
vita: sessuale, familiare, lavorativo e personale. Ogni scelta implica
prendersi una responsabilità:
42 ibidem p 45
61
la Salecl riprende il concetto del grande Altro, di Lacan, che secondo
le conclusioni di Dufour in epoca postmoderna è scomparso.
62
performance fisica che conta , quanto la qualità delle sensazioni che il
corpo riceve durante le prestazioni.43
63
4. Il circolo “virtuoso” dell’improvvisazione
Il mondo del lavoro pare essersi accorto che questo spazio aperto
dall’improvvisazione permette di allenare le proprie capacità di scelta.
Come Bauman e Salecl hanno entrambi dimostrato, il problema legato
al prendere decisioni è un problema che riguarda la nostra epoca, di
conseguenza siamo tutti coinvolti. Esistono figure professionali che
fanno della scelta il proprio mestiere e che per questa ragione hanno
un grande di carico di responsabilità. In questi settori del lavoro, da
qualche anno a questa parte, l’improvvisazione è richiesta nel percorso
di formazione, è infatti stata notata la possibilità di sviluppare
attraverso di essa le proprie capacità di problem solving, decision
making, team building, leadership e mind mapping. Proprio questa
terminologia sembra avvalorare l’idea della Salecl e di Bauman su
un’eccessiva interiorizzazione delle leggi che regolano il mercato e
l’impresa: all’improvvisazione, in questo campo, sono state tolte le
terminologie usate dagli artisti e tradotte in termini fruibili al settore
manageriale.
64
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Conclusioni sull’improvvisazione
65
coloro che non si sono accorti che la performance che stavano
osservando era improvvisata, hanno tendenzialmente risposto che
non gli era piaciuta. Invece la maggior parte degli spettatori che
hanno capito, o a cui è stato svelato che i performers
improvvisavano, hanno invece gradito lo spettacolo.
Dunque qualcuno ha considerato la performance una coreografia
scadente. Effettivamente secondo un’aspettativa di tipo estetico o
drammaturgico uno spettacolo di improvvisazione sarà quasi
sempre deludente. Ma allora chi invece ha gradito la performance
cosa ha visto?
La risposta che mi sono data è che l’improvvisazione in qualche
modo mette in scena la “crisi” del performer, Non intendo questo
termine in senso esistenziale, in scena non viene mai portato
qualcosa di troppo personale, anzi come abbiamo detto si va
piuttosto nella direzione di perdita dell’io. Intendo invece “crisi” in
termini turneriani come la fase di transizione e di ridefinizione: è la
fase ambigua del liminale che si trova tra crisi e compensazione. In
scena abbiamo difatti un performer messo a nudo, che si trova a
creare e a comporre momento dopo momento esponendo le proprie
proposte, ripensamenti, tentativi e incidenti di percorso, che deve
quindi definirsi movimento dopo movimento. E’ ciò che
Csikszentmihalyi chiama flusso che permette questo, e che diventa
protagonista nell’improvvisazione.
Molte persone mi sono venute a cercare, dopo lo spettacolo, per
chiedermi quanto fosse improvvisato di ciò che i danzatori
facevano. Quando spiegavo loro che niente era stato strutturato, e
quindi si trattava di un’improvvisazione completamente libera non
volevano crederci. Ciò creava ancora più attenzione e curiosità
riguardo alle performance che si stavano susseguendo.
66
Credo che questa reazione sia comprensibile alla luce del fatto che
l’improvvisazione non è molto conosciuta in Italia, anche se
largamente praticata, essa assume dunque un’aura magica per chi è
abituato a vedere solo coreografie e a pensare che i danzatori
procedano nel loro lavoro solo in quella direzione.
Mi sembra però imprescindibile che ciò che tiene alto l’interesse
del pubblico sia osservare il performer interagire con lo spazio, col
suono, con gli altri danzatori, o con il pubblico stesso, creando
passo passo. Dà una sorta di brivido vedere come questo decide
cosa fare momento dopo momento, la domanda che viene
spontanea al pubblico è “cosa farà ora?...e ora?”.
Rispetto alla teoria di Turner l’improvvisazione in danza si propone
come un fenomeno liminoide, mettendo al modo congiuntivo la
scelta del performer e dunque questo rappresenta all’indicativo il
dramma sociale legato alla scelta.
Considerando che la danza contemporanea ha trovato diverse
tecniche, strategie e metodi per mettere il danzatore in condizione
di sapere cosa deve fare e come lo deve fare passo dopo passo, mi
sembra quindi che essa proponga una soluzione piuttosto chiara,
configurandosi come terza fase dei drammi sociali, cioè quella
compensativa, d’altronde lo stesso Turner definisce questa come la
fase da cui il teatro stesso nasce.
67
L’improvvisazione non lascia traccia, non è definitiva e non è
ripetibile. Il performer si definisce nel presente della performance,
compiendo le sue scelte passo dopo passo sulla scena. Si pone in
una situazione di “precarietà creativa” per riprendere le parole di
Certini sopra citate. Sembra che il danzatore si sia volutamente
calato nei panni di attore sociale in scena. Come se avesse
riprodotto una “scenografia postmoderna” della situazione sopra
descritta. In questo senso la definizione di Post-Modern Dance non
poteva essere più calzante. Oltretutto il corpo percettivo, e sensibile
del performer sembra corrispondere perfettamente al nuovo
concetto di corpo del cercatore di sensazioni descritto da Bauman:
68
Trovo interessante il ruolo dei limiti. La Salecl nota che la
mancanza di restrizioni a cui siamo sottoposti al giorno d’oggi
porta a ridefinire personalmente dei limiti, e che in realtà persone
soggette a una minore possibilità di scelta sembrano essere più
soddisfatte degli altri. Il limite nell’improvvisazione ha infatti un
ruolo creativo e vivificante, anche quando l’improvvisazione è
libera il limite è comunque dato dal dialogo con il contesto.
Sembra che l’arte abbia proposto uno spazio protetto in cui potersi
liberare dall’ansia della scelta, in cui le parole chiave sono
accettazione, ascolto e mancanza di giudizio. Sembra inoltre aver
riportato l’attenzione su un nodo cruciale: la scelta non è quasi mai
razionale, è intuitiva e sociale. Di fatto i performers si allenano a
compiere decisioni condivise e a dover sentire cosa fare, più che a
decidere cosa è meglio fare.
Il mondo del lavoro pare essersi accorto che questo spazio aperto
dall’improvvisazione permette di allenare le proprie capacità di
scelta.
Come Bauman e Salecl hanno entrambi dimostrato, il problema
legato al prendere decisioni è un problema che riguarda la nostra
epoca, di conseguenza siamo tutti coinvolti. Esistono figure
professionali che fanno della scelta il proprio mestiere e che per
questa ragione hanno un grande di carico di responsabilità. In
questi settori del lavoro, da qualche anno a questa parte,
l’improvvisazione è richiesta nel percorso di formazione, è infatti
stata notata la possibilità di sviluppare attraverso di essa le proprie
capacità di problem solving, decision making, team building,
69
leadership e mind mapping. Proprio questa terminologia sembra
avvalorare l’idea della Salecl e di Bauman su un’eccessiva
interiorizzazione delle leggi che regolano il mercato e l’impresa:
all’improvvisazione, in questo campo, sono state tolte le
terminologie usate dagli artisti e tradotte in termini fruibili al
settore manageriale.
70
continuare non solo professionalmente ma anche nello studio e
riflessione.
71
72
APPENDICE
73
74
Performance: Portici di P.zza Repubblica, Firenze
75
Performance: Ponte Vecchio, Firenze
76
Performance: Via Calzaiuoli, Firenze
77
INFO:
State assistendo ad una performance di Stat
improvvisazione che fa parte di un progetto impro
dellʼUniversità di Siena legato alla danza. dellʼ
Per completare il lavoro avremmo bisogno delle vostre risposte ad Per comp
alcune semplici domande su quello a cui state assistendo. alcune sem
si no non so si
5) Abbiamo quasi finito! Come ultimo sforzo descrivi con 3 aggettivi ciò che ha visto 5) Abbiamo qu
Età:......................................................................... Età:..................
Occupazione:.......................................................... Occupazione:..
GRAZIE !
78
INFO:
State assistendo ad una performance che fa State
parte di un progetto dellʼuniversità di Siena parte
legato alla danza.
Per completare il lavoro avremmo bisogno delle vostre risposte ad Per com
alcune semplici domande su quello a cui state assistendo. alcune s
si no non so si
6) Abbiamo quasi finito! Come ultimo sforzo descrivi con 3 aggettivi ciò che ha visto 6) Abbiamo
Età: Età:
Occupazione: Occupazione
GRAZIE !
79
80
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