Secondo ricerche successive alla morte del regista (awenuta a Maurepas,
Parigi, nel 1957; era nato a Vienna nel 1885), quello che egli aveva raccontato della sua infanzia e adolescenza era falso: Stroheim non era un nobile, non era stato ufficiale dell'esercito austriaco, era figlio di un modesto cappellaio ebreo e aveva servito come soldato semplice. Da questa storia inventata e riraccontata a più riprese con minuzia di particolari, Amengual deduce un'infanzia infelice, rimossa, con forti sensi di colpa che avrebbero portato poi il regista a «farsi odiare» (dai suoi committenti, e per un certo periodo anche dal suo pubblico di attore), come inconscia volontà di punizione continuamente provocata. Stroheim sarebbe stato in definitiva artefice anche del proprio disastro di artista, dell'impoSS1l>ilità a esprimersi con i mezzi del cinema alla fine del breve periodo 1919-32, comunque frastagliato di disawenture e di continue mutilazioni alle sue opere. Quale che sia la verità, è certo che perfino un Welles, un Ejzenstejn, un Buiiuel riuscirono prima o poi a realizzare i loro film e proseguire in una carriera che per Stroheim si chiuse definitivamente all'awento del sonoro, ma non per colpa del sonoro. A eccezione del secondo, perduto, tutti i suoi film sono incompleti, rimontati, contaminati, tagliati. Greed (Rapacità, 1924) presenta circa un quarto del primitivo montaggio e meno della metà di quello che Stroheim si era piegato a rifare. Foolish wives (Femmine folli, 1921) fu ridotto a quasi la metà. Merry-go round (Donne viennes� 1923) fu completato e montato da un altro regista. La seconda parte di The wedding march (Sinfonia nuziale, 1926) fu montata da Sternberg e distnl>uita col titolo Honeymoon (Luna di miele). Queen Kelly (1928) fu interrotto a un terzo delle riprese per l'awento del sonoro. Walking down Broadway (1932) fu rimaneggiato con aggiunte da altri. Senza contare che l'unico serio tentativo di ritorno alla regia, in Francia, con La dame bianche, a lavorazione pronta fu abbandonato per lo scoppio della seconda guerra mondiale. Con l'eccezione di The devil's passkey (1919), ambientato a Parigi, di Femmine folli, ambientato a Montecarlo, di Greed e Walking down Broadway, ambientati in America (il primo ha un prologo semi-documentario girato in esterni minerari, e un celebre finale nella Death Valley, e per il resto è San Francisco), l'azione di tutti i suoi film ha luogo a Vienna o in immaginari regni mitteleuropei. Una Vienna odiata e amata, che dà comunque il segno distintivo alla sua opera, in modo ossessivamente vendicativo, ma da cui gli è impossibile distaccarsi. Di essa mostra il retroscena del potere (la corte come i bordelli, e in Queen Kelly corte mitteleuropea e bordello africano avrebbero dovuto costituire le due parti del film), la logica del servilismo (ognuno serve qualcuno, in uno stato sovranazionale in cui fin il monarca si dichiara «servo»), il feticismo delle cerimonie e delle parate e in particolare delle divise, la costante presenza dell'oro. Di fatto, gli interessano non il funzionamento di una società, ma le aberrazioni che la rivelano, e il modo in cui esse corrompono ogni innocenza. In questo senso, Vienna o Montecarlo (una Montecarlo già postbellica, che fa stranamente pensare a Hollywood) o San Francisco si equivalgono. La società è retta dalla «rapacità•, dalla bramosia - nei loro aspetti di bramosia di denaro e di bramosia erotica, la seconda in quanto contestualizzata al deviante dominio della prima, ridotta anch'essa a feticismo (si veda la splendida scena di The merry widow, La vedova allegra, 1925, in cui i tre protagonisti maschili osservano la donna, chi guardando al pube, chi ai piedi, chi al volto; ma anche tantissime altre scene, in altri film e nello stesso). La lenta degradazione della coppia di Greed è diretta conseguenza di un contesto ben più che delle intime nevrosi dei due. Stroheim è regista eccessivo in tutto. Allievo di Griffith, non cura come lui - osserva Bazin - il montaggio, bensì l'inquadratura, al cui interno lavora con un accumulo di dati tutti significativi: «Egli restituisce il cinema alla sua funzione primaria, gli insegna di nuovo a mostrare. Uccide la retorica e il discorso per far trionfare l'evidenza; sulle ceneri dell'ellisse e del simbolo, crea un cinema dell'iperbole e della realtà; contro il mito sociologico della vedette, eroe astratto, ectoplasma dei sogni collettivi, riafferma la più singolare incarnazione dell'attore, la mostruosità dell'individuale». Attua «una rivoluzione del concreto». Ma questo concreto è barocco, è ,1sionario, irrealistico per eccesso di realismo. Guida lo spettatore dove vuole il regista, lo conduce violentemente a disvelare la presenza immediata, abituale, spingendone l'occhio sugli aspetti più vistosi, pronto a renderli ancor più ,1stosi per raggiungere il suo scopo. Stroheim opera sul rimosso, mostrandone gli effetti a tutto tondo. Ben diverso dalla crudezza comunque elegante di un Lubitsch, che solletica il pubblico e perciò conquista i produttori, l'erotismo di Stroheim accumula figure ed episodi che oltrepassano il limite del dicibile, contro ogni savoir /aire, fino a metterne in causa le pulsioni malate, e con ciò stesso l'impossibilità della pienezza erotica. Perfino la vedova allegra, sana americana dell'epoca del jazz, non può che partecipare, padrona-vittima suo malgrado, di questa corruzione, in quanto detentrice dello scatenante potere del denaro. Ecco allora le molte figure della castrazione che, oltre il feticismo, compaiono in ogni film di Stroheim. L'umanità finisce per essere fascinosamente repellente, non vi è posto per neSSlllla nostalgia di «paradisi perduti» poiché ogni innocenza è subito turbata e awilita dall'altrui colpevolezza, in un giro senza fine. n destino amaro di Stroheim - cui Wilder offrirà con lucido rispetto di recitare un rivelatore se stesso in Viale del tramonto - è la conseguenza, anche, di una dismisura inaccettabile alla capitale del cinema, che Stroheim definirà «fabbrica di salsicce». La malattia va controllata, canalizzata, e il cinema è uno degli strumenti più efficaci, almeno per decenni, per farlo. Chi, partecipe, ne addita la ragion d'essere mette in causa troppo: dice ciò che va, se non del tutto taciuto, solo sussurrato.