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ANTROPOLOGIA DEI MEDIA


a.a 2019-2020 – UniTo, ScideCom
Docenti: Pennacini, Santanera

• Prima parte: introduzione all’antropologia dei media e all’antropologia stessa: il concetto di cultura, etnia,
i tipi di società, riflessioni sul concetto di genere, antropologia visiva e – dopo – un rapporto tra media ed
antropologia. Si affronta una definizione di antropologia nelle sue diverse declinazioni: culturale,
etnografia, etnologia, antropologia visiva ecc. Si affronteranno concetti base come quello di cultura ed
etnia, passando per l’analisi delle forme di organizzazione politica e di economia in cui le diverse società si
dispongono, in relazione alla loro nicchia ecologica e la soluzione economico-adattativa; vedremo qual è
stato l’utilizzo dei media, e ci si soffermerà su qualche esempio particolare.

• Seconda Parte: si concentrerà all’antropologia dei media; obiettivo sarà quello di fornire un’idea di quali
domande si faccia l’antropologia in questo campo, e qual è lo sguardo che adottano gli antropologi a
riguardo. Si parlerà anche dei loro metodi di ricerca, affrontando diversi media: dal cinema, al video, il
cellulare, i social media e la fotografia nelle sue forme, in diversi contesti culturali: peculiarità
dell’antropologia è quello di prendere in esame tutte le culture. Ci si occuperà delle minoranze come gli
indigeni dell’amazzonia, fino alla più grande produzione di Bollywood e Nollywood. Nel campo dei social
media si studierà la relazione tra cellulare e percorsi migratori. In generale, si toccano diversi libri della
monografia, per orientarsi nella vasta scelta e capire la selezione. Ci si confronta anche con alcuni autori
classici: Faye Ginsburg, che delinea il campo dell’antropologia dei media negli anni Novanta, che ha
studiato gli aborigeni australiani e gli inuit, per avere un’idea sulla storia e la disciplina, oltre alle loro
ricerche chiave: quelle etnografiche.

PARTE PRIMA:

ANTROPOLOGIA E IL CONCETTO DI CULTURA

Cos’è l’antropologia? Etimologicamente deriva da anthropos logos, termine composto che significa “essere
umano, Uomo” e “parola, discorso, scienza”, in greco quindi la scienza dell’essere umano. Questa definizione si
compone di 3 ambiti fondamentali:

1. Etnografia (ethnos/ta ethne, cioè etnia e scrittura/descrizione = descrizione di un’etnia): un’etnia è un


gruppo umano con una determinata cultura; questa è la descrizione di un singolo caso etnografico. Ogni
antropologo parte dallo studio di una società specifica, in un contesto geografico specifico di adattabilità
ad una nicchia ecologica, per poi connettersi ad altri elementi per permettere un’analisi a tuttotondo e
capire come quella società sopravviva in quel contesto. L’antropologo connette tutti gli aspetti della vita
quotidiana: economia, parentela, genere ecc. Tutto risulta più comprensibile quando si esamina un
singolo caso/contesto.
2. Etnologia: questa identifica la scienza delle etnie; per arrivare ad una scienza delle etnie bisogna
comparare i casi etnografici, anche molto diversi tra loro, perché l’antropologia sfrutta la diversità per
comprendere quali sono gli elementi universali della vita, e quali siano gli elementi culturali specifici, le
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soluzioni particolari che le società sfrutta per soddisfare i suoi bisogni: alimentazione, comunicazione, ecc.
Normalmente, l’antropologo lavora in un contesto/società diversa da quella della sua società: il
distanziamento favorisce lo studio di una società diversa, facendoci notare aspetti della vita culturale che
a noi risulterebbero naturali/innaturali.

3. Antropologia: comparando casi etnografici differenti, raggiungiamo una dimensione universale, quella
dell’antropologia – la scienza dell’essere umano in senso generale; possiamo compiere questo studio solo
attraverso un metodo comparatista tra culture, evidenziando elementi di uguaglianza/diversità.

Ci sono molte declinazioni dell’antropologia specializzate in settori particolari.


Queste tre definizioni non sono discipline a sé stanti, ma le tre fasi della costruzione del sapere antropologico,
secondo Levi Strauss; come si formano le conoscenze che l’antropologia sviluppa? Attraverso queste tre fasi: non
sono distinti i tre approcci, ma sono tre momenti differenti differenti ma cumulativi, integrati, della costruzione di
un medesimo sapere antropologico.

Come si è sviluppata storicamente la disciplina? Nasce del XIX secolo (c.a 1870)*: in origine, le dimensioni fisica (lo
studio biologico dell’essere umano) e lo studio della cultura erano fuse assieme. Fino alla metà dell’Ottocento
l’antropologia è inquadrata nelle scienze naturali. Ci troviamo in una fase di nascita per le scienze umane. Iniziano
ad essere, in seguito, prese in considerazione con il metodo scientifico. Il rapporto tra biologia e cultura qui è
inscindibile, nell’Ottocento. L’antropologia in senso stretto si sviluppa nel ‘900, quando questi due compartimenti
si separano. Ma il rapporto stretto tra biologia e cultura non va perso di vista, perché l’uomo non è fatto di puro
spirito: l’uomo è animale e le funzioni biologiche determinano le espressioni quelle socio-culturali.
Nell’antropologia visiva si considera il sistema del visivo, biologico, che determina la comunicazione visiva e i
media stessi. La frontiera tra biologia e cultura è stata fin troppo separata, e bisogna tornare a riunirle.

*Nasce prima nei musei collegati alle scienze naturali, e poi negli istituti di biologia; utilizza il metodo scientifico
con osservazione-classificazione dei tipi umani-astrazione di concetti relativi all’umanità. È un metodo tipico di
tutte le scienze umane: l’applicazione del metodo scientifico a quelle umanistiche. Bisogna capire prima quale sia
la nostra dotazione biologica per capire l’importanza della cultura.

L’antropologia come la conosciamo oggi, nasce com Bronislav Malinowski, che introduce uno studio sul campo
(negli anni ’20); fino ad allora si basava su resoconti di viaggio di geografi, missionari ecc. comparati per arrivare a
produrre delle analisi antropologiche “da poltrona”; le prime spedizioni sul campo avviene alla fine del ‘800
(1898: spedizione allo Stretto di Torres) che non prevede, però, un’osservazione partecipante, come Malinowski
introduce in Argonauti del Pacifico Occidentale: questa necessita di visione ma anche di partecipazione, in modo
da vedere la cultura degli indigeni con i loro occhi.
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(Slide 3: Cicerone – La concezione classica di Cultura)

L’antropologia si distingue nella dimensione fisica e culturale: bisogna interrogarsi su cosa sia la cultura; cultura è
un termine generico, ma l’antropologia – alla sua nascita – introduce un nuovo concetto di cultura: grazie a quella
nuova definizione si sviluppa la metodologia antropologica.

In antropologia lo studio della biologia umana e anche del processo di ominazione (di come siamo diventati esseri
umani attraverso l’evoluzione delle specie) ci insegna tanto sulla vita culturale delle società. Quindi dobbiamo
capire quale sia la nostra dotazione biologica e come siamo arrivati ad averla, com’è evoluta, per comprendere
l’importanza della cultura nelle società umane.

Cultura per noi è un termine conosciuto, e il significato che li attribuiamo globalmente rinvia alla definizione
classica che ci hanno lasciato greci e latini (qui Cicerone): cultura animi philosophia est, cioè “la filosofia è
coltivazione/cultura dell’animo”: la cultura, per i classici, è la coltivazione della nostra mente. Per acquisire
cultura, per questa concezione classica, è necessario lo studio sui libri. La cultura, all’epoca, era elitaria – riservata
a coloro che erano in grado di leggere. Si acquisiva cultura con un lavoro individuale e personale, soprattutto
attraverso lo studio di fonti scritte. Questo concetto di cultura non ci aiuta molto ad affrontare lo studio di
determinate società che non possiedono questo concetto di scrittura. Questo era uno dei primi medium che certe
culture hanno acquisito. La scrittura è un medium molto importante, che compare in concomitanza con altre
rivoluzioni, ma in altre parti del mondo non si svilupperà: ma nonostante ciò, alcune popolazioni riescono a
sviluppare cultura. La definizione ciceroniana ci impedisce di studiare la cultura in questo modo: antropologia si
sviluppa solo nel caso in cui il concetto di cultura si allarga, anche laddove non c’è scrittura.

Concetto antropologico di cultura viene introdotto nel 1871 da Edward Burnett Tylor in Primitive Culture, che
viveva nella prospettiva di evoluzionismo culturale (concetto che non viene usato ora): le differenze che separano
le società attuali possono essere spiegate in termini temporali; alcune società odierne erano, secondo gli
evoluzionisti, primitive e assimilate alla preistoria/antichità della nostra società. E questa prospettiva che
allontana nel tempo società che sono lontane da noi ma vivono nella contemporaneità, erano il modo in cui gli
studiosi spiegavano la loro diversità. Pretendevano di spiegare la diversità sulla base di specie diverse (i
poligenisti). Ma se apparteniamo tutti alla stessa specie, perché ci si differenzia: perché alcune società sono
rimaste a livello primitivo, più lentamente di quella europea.

Tylor era quindi evoluzionista: ciò che rimane interessante del suo pensiero è la sua definizione di cultura: cultura
o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze,
arte, morale, diritto, costume o qualsiasi altra capacità di abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della
società. Non cita, qui, la scrittura – come si è già detto. È una definizione complessa, che contrasta totalmente con
quella ciceroniana.
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L’EVOLUZIONISMO CULTURALE

Importante approccio perché condiziona il nostro modo di pensare agli altri, alle popolazioni diverse e non
occidentali, e di pensare la società più in generale e il suo sviluppo. Questi modelli di sviluppo, che dominano
ancora la società contemporanea, nascono nell’Ottocento, e gli antropologi hanno la responsabilità di produrle.
L’evoluzionismo culturale è diverso da quello biologico: quest’ultimo è una teoria condivisa sviluppata da Darwin,
riportata nel 1857 nell’Evoluzione delle specie, che afferma come le specie siano collegate. Gli evoluzionisti
culturali, invece, che sviluppano questo paradigma prima in sociologia e poi in antropologia adottano visione
evoluzionista per quanto riguarda le società; postulano l’idea che tutte le società evolvano lungo un progresso
unilineare. Tutte le società sarebbero evolute da uno stadio primitivo* ad uno intermedio (barbaro) per
raggiungere il traguardo della civiltà. Tali stadi si dispongono in una linea evolutiva uniforme, che le società prima
o poi attraversano; ciò che differenzierebbe le società diverse, soprattutto extraeuropee, dalla civiltà europea che
ha raggiunto il culmine del progresso, sta nel ritmo di evoluzione: alcune società sarebbero rimaste ferme ad uno
stadio precedente, poche hanno raggiunto quella di civiltà. C’è un’idea di progresso delle società secondo un
unico modello, in un’unica direzione verso le mete della civiltà. Ad esempio, a livello religioso (di cui si occupa
principalmente Tylor), le società sarebbero evolute dallo stadio dell’animismo (in cui culture postulano la
presenza di un’anima negli oggetti), ad uno stadio religioso politeistico per poi raggiungere il monoteismo a cui
segue lo stadio ulteriore della scienza, che supera quello della religione.

*Il termine primitivo definisce la preistoria della civiltà, descrive popolazioni che passano da paleolitico al
neolitico con l’introduzione di tecnologie come l’aratro. Tutto ciò avviene migliaia di anni fa: definire gli aborigeni
come primitivi è, ovviamente, qualcosa di sbagliato, una congettura indimostrabile. Noi dobbiamo pensare che
esistono diversi modelli di sviluppo, le società evolvono – ma non tutte nella stessa direzione, a causa di scelte
differenti. Esistono società che scelgono di mantenere un rapporto con la natura non distruttivo, diversamente
dallo sfruttamento intenso dell’agricoltura/modello economico e industriale. Ciò ha a che fare sia con l’ambiente,
ma anche con le scelte-modelli di sviluppo. Siccome l’evoluzionismo si sviluppa nel periodo storico fortemente
segnato dall’espansione e del colonialismo (II metà dell’800) in cui le potenze europee controllano le terre per
sfruttarle, attraverso un’amministrazione diretta, affermare che le società extraeuropee fossero primitive e
necessitassero sviluppo, avevano lo scopo di legittimare questo colonialismo. L’Europa si assegnava una missione
civilizzatrice che tendeva far evolvere le società verso il loro modello; tale missione portata avanti da missionari,
colonizzatori ed altre personalità, legittimarono la conquista dei territori d’oltremare e la loro amministrazione,
ottenuta attraverso l’esercizio della forza. Quando si parla di evoluzionismo culturale e modelli di sviluppo (che
continuiamo a proporre anche oggi, come teorie sviluppiste) si giustificano molti interventi, magari descritti come
umanitari, che esportano certi modelli che però quelle società non hanno scelto. Questo prende forma di
cooperazione allo sviluppo, comune in ambito europeo.

La figura di Tylor è fondamentale in relazione alla definizione di cultura, al suo concetto antropologico. Come già
detto, è necessario un concetto di cultura diverso da quello classico, serviva un concetto che mettesse tutte le
società sullo stesso piano. Nonostante egli fosse un’evoluzionista, questa visione metteva comunque le società su
un piano di vicinanza: ritenere che le differenze da culture siano date dai tempi evolutivi, accorciava le distanze
rispetto alla concezione di differenze di tipo biologico, in cui esistevano razze diverse con capacità (intellettuali, ad
esempio) diverse. L’evoluzionismo è un modello unilineare, ma accorcia comunque le distanze.

La definizione di Tylor di cultura: quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, arte, morale,
diritto, costume o qualsiasi altra capacità di abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società, è
diviso in due parti: c’è un allargamento dei fenomeni culturali al di là della dimensione intellettuale, passando a
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quella materiale; la seconda afferma come la cultura si acquisisce/apprende non come qualcosa di individuale, ma
in una dimensione sociale, viene acquisita in quanto membro di una società.1 Se un bambino è abbandonato nella
foresta, non apprende cultura perché nessuno gliela insegna all’interno di una dimensione sociale. La società è
l’ambiente in cui la cultura si riproduce e si trasmette. L’essere umano è un animale sociale, non può vivere al di
fuori di essa. Le relazioni fanno parte della nostra cultura, che è indispensabile per la nostra sopravvivenza.
La cultura, per Tylor, non è solo fatto intellettuale come per la concezione classica.

Esiste cultura a prescindere dal linguaggio. Al di là del linguaggio, la nostra specie trasmette cultura anche
attraverso il corpo: questa visione del corpo si deduce da le tecnique du corps, che dimostra come il corpo sia
forse il primo strumento culturale dell’essere umano: le culture preistoriche producevano utensili che servivano
ad esteriorizzare le capacità umane. Marcel Mauss afferma come prima di questi ci sia il corpo, che è anch’esso
utilizzato come utensili e sviluppano da sé delle tecniche culturali. Sfregare due pezzi di legno è una tecnica che
usa un oggetto ma anche il corpo, che deve essere appresa e tramandata.
Noi utilizziamo il corpo secondo modelli culturali: il corpo è naturale, ma viene modellato secondo schemi
culturali: ad esempio, come ci sediamo (gli egizi a gambe incrociate, impensabile per noi per molto tempo). Il
nostro corpo è modellato secondo un habitus, che dà forma alla nostra vita quotidiana: il modo in cui
camminiamo, trasportiamo i bambini… e allo stesso tempo, in questi modelli corporei uniamo caratteristiche della
nostra società: il modo in cui si saluta, si festeggia ecc. in cui si devono rispettare regole, ad esempio, rispetto allo
status. Incorporiamo un habitus sociale che può variare tra società e culture. Non solo adottiamo modelli nelle
nostre abitudini corporee quotidiane (come camminiamo, tagliarsi i capelli, le modificazioni del corpo…) ma
proiettiamo sul nostro corpo le strutture sociali, plasmiamo il corpo secondo un modello culturale. Sono tutte
scelte che organizzano i ruoli sociali proiettando sul corpo ruoli, gerarchie, ordinamenti…
E ancora, gli ambienti in cui viviamo vengono influenzati dalla cultura, costruendosi su modelli specifici: nelle città
occidentali, molte volte gli edifici si ordinano a linee parallele, le stanze delle case sono quadrate, gli oggetti
hanno una forma che non risponde solo alla loro funzione pratica, ma rispecchia dei modelli culturali. La cultura si
spalma sugli spazi e gli oggetti e i corpi, modellandoli. La cultura, quindi, va studiata nelle sue espressioni
materiali.

CLIFFORD GEERTZ

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anche gli animali hanno cultura, non è prerogativa umana. Trasmettono informazioni culturalmente, come i primati, che sono in grado di
produrre dei segni per comunicare tra di loro; gli elefanti e altre specie migrano facendo dei percorsi sul territorio che si trasmettono tra
generazioni.
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Ma come/quando la cultura è emersa all’interno del processo evolutivo della nostra specie? Noi siamo diventati
esseri umani sapiens sapiens ad un certo punto di un’evoluzione che ci ha fatto discendere da un antenato
comune anche alle scimmie. Ad un certo punto, la linea si divide tra hominidae e pongidae, dalla quale primo
deriviamo noi. Dal Neandertal, nasce il linguaggio, ma la cultura è precedente a questo. Un’antropologo
americano, Clifford Geertz, in introduzione di culture – impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo
(1966), prende in considerazione le varie teorie di emersione della cultura nella nostra specie e quale sia l’impatto
di questa sulla nostra specie. La cultura, quindi, emerge prima del linguaggio.

1. Geertz osserva che le teorie più antiche sull’emergere della cultura fanno riferimento alla teoria del punto
critico. Studiando i ritrovamenti antropici (gli scheletri degli ominidi ritrovati soprattutto i africa) e gli
oggetti e gli utensili, molti scienziati hanno ipotizzato che la nostra specie sia diventata tale quando, in un
momento preciso (punto critico), la dimensione del cranio abbia raggiunto un punto tale da contenere un
cervello che potesse produrre reazioni neuronali sufficienti per supportare lo sviluppo del linguaggio (e la
cultura, di conseguenza)

2. Il secondo paradigma, condiviso in epoca recente, è quella dell’incompletezza biologica dell’essere


umano: prima ancora di sviluppare il linguaggio, gli ominidi producevano già strumenti culturali. La
cultura, per Geertz, precede l’emergere del linguaggio. Lo sviluppo culturale, e il progresso tecnologico
nella produzione culturale, contribuisce alla modificazione degli organi biologici: creano un ambiente in
cui il corpo stesso degli ominidi si modifica. È importante considerare come il cervello sia plastico, che si
può modificare molto rapidamente; e questa capacità di autocostruzione del cervello è vera sia a livello
filogenetico – nell’evoluzione della nostra specie – sia ontogenetico – cioè nell’evoluzione del singolo: un
bambino che non è stimolato non impara a parlare, le sinapsi non si sviluppano. Una persona che ha
subito danni celebrali, con stimoli culturali si migliora la sua situazione cerebrale.
Questa osservazione dimostra come la cultura emerga quando ancora gli esseri umani non hanno
raggiunto la dimensione per produrre il linguaggio. La cultura è quindi funzione dell’evoluzione: gli esseri
umani sono animali biologicamente incompleti; la cultura entra in maniera talmente radicale, da
diventare indispensabile alla loro sopravvivenza. Senza cultura non sopravvive*, perché gli strumenti
culturali sopperiscono alle nostre mancanze biologiche. Siamo predisposti al completamento culturale:
necessitiamo di vivere società e sviluppare/condividere cultura. Geerz diceva che un essere umano
abbandonato nella foresta non è una scimmia o un primate che non evolve, ma è un mostro incapace di
sopravvivere. Potrà farlo solo se qualcuno si prenderà cura di lui. I neonati, per diventare autosufficienti,
hanno bisogno di essere educati ed apprendere le tecniche di sopravvivenza. La cultura è quindi funzione
vitale, e non un’orpello.

*L’essere umano è biologicamente incompleto: gli animali possono esserlo meno di noi, avere un istinto
maggiore. Per la nostra specie la cultura è diventata una costruzione enorme da cui noi dipendiamo.
Possono esistere degli istinti connaturati e che non devono essere insegnati, ma comunque non riescono a vivere
al di fuori di una società – molti animali funzionano in questo modo. La dimensione di cultura e società è propria a
molte specie, come dimostra l’etologia. Noi esseri umani, avendo un corpo biologico, condizionano la nostra
realtà ed emozioni. Ma dal punto di vista antropologico, la cultura è dominante nella nostra specie: ad esempio,
ciò che distingue un uomo dalla donna; in quest’ultima questione c’è una differenziazione biologica, ma dal punto
di vista dei modelli socio-culturali è tutto determinato dalla società, che crea modelli diversi in base alla società in
cui un uomo/donna si trovano. Spesso. dimensione culturale in cui siamo immersi può avere un effetto coercitivo
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nel nostro modo di percepire la realtà esterna e di pensare, ma molte altre volte siamo in grado di compiere
scelte al di fuori di essa.

Se noi dipendiamo dalla cultura per la sopravvivenza, questo significa che non dipendiamo da una cultura globale,
ma da uno specifico modello socio-culturale; dipendiamo da tratti specifici della nostra cultura, di cui spesso non
siamo consapevoli perché ci ritroviamo immersi in questa dipendenza, che spesso consideriamo naturale.

Non esistono culture che non modificano l’ambiente per sopravvivere. I rapporti con la natura sono diversi: le
società di cacciatori-raccoglitori che non hanno sviluppato allevamento, agricoltura hanno molto rispetto per la
natura, perché dipendono dalle sue risorse. Mentre le società con tecnologie più complesse, industriali, usano in
maniera massiccia le risorse ambientali. Inoltre, tutte le culture intervengono sul corpo dei propri membri, non
vivono allo stato di natura.

La cultura, per definizione, non è universale. Ma è anche vero che le culture soddisfano, in modo particolare – con
soluzioni locali e storiche – dei bisogni universali. Perché abbiamo bisogni determinati dalla nostra biologia:
riprodurci, nutrirci… che vengono sviluppate con soluzioni diverse, che alcune volte possono somigliarsi. Questo
riporta al concetto di creatività, che è radicato in molte culture tramite soluzioni diverse, che possono essere
scambiate e continuare ad evolvere.

Non è facile adattarsi a culture differenti dalla nostra 2: fino a che punto possiamo adattarci ad un contesto? Come
esseri umani siamo adattabili, ma ciò che è stato interiorizzato precocemente non è facile da sradicare; molte
percezioni sensoriali sono culturalmente determinate, com ad esempio il termine per definire il colore; gli inuit
hanno sette diversi tipi di bianco, per definire quello che vedono nei loro ambienti. Le stesse famiglie sono fatti
culturali, ma esistono radicamenti che ci fanno pensare che il nostro tipo di famiglia sia strutturato in un certo
tipo. I sistemi culturali sono aperti ma modellizzanti: quando diventiamo consapevoli che i nostri schemi sono
culturali e non biologici, allora ci rendiamo anche conto che le costruzioni culturali sono modificabili.

Con Geertz si arriva ad un concetto di ridefinizione del concetto di cultura: il concetto semiotico di cultura.
Sposta l’attenzione dai comportamenti ai simboli: egli vuole sottolineare che la cultura sia non un sistema di
comportamenti, ma un sistema di simboli e significati; afferma che «l'uomo è un animale sospeso fra ragnatele di
significati che egli stesso ha tessuto», e afferma che la cultura consiste proprio in queste ragnatele di significati e
la sua analisi - cioè l'antropologia - non è una scienza sperimentale in cerca di leggi, «ma una scienza
interpretativa in cerca di significati». Questa evoluzione della definizione di cultura è importante dal punto di vista
metodologico: ci fa comprendere come l’uomo sia un animale particolare, che vive sospeso in una ragnatela di
significati che egli stesso ha tessuto, perché gli strumenti sono produzione umana e, questo sistema di
segni/simboli/oggetti costituiscono un tessuto in cui l’uomo rimane intrappolato, intrappolato in un sistema
culturale che fin da bambini impariamo a considerare culturale. Le produzioni culturali agiscono a questo modo.
Con significati non si intendono elementi intellettuali, ma anche fatti materiali che sono portatori di significato.
Geertz ci incoraggia a guardare la cultura come un grande sistema di significati, di forme che diamo al nostro
ambiente. I modelli che costruiamo nella nostra cultura hanno un significato, ad esempio perché facciamo palazzi
quadrati, perché ci vestiamo in un certo modo ecc. ogni forma culturale riproduce un modello culturale: noi
perseguiamo determinate forme perché veicolano determinati significati. Se la cultura è un sistema di significati,

2 In questi ultimi anni, si sta sviluppando un’antropologia inter-specie, che tiene conto del rapporto dell’essere umano con altre specie: è
indubbio che queste sviluppino scambi culturali, ed è una delle frontiere di cui si deve tenere conto.
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allora l’antropologia non è scienza naturale ma interpretativa, che vuole interpretare certi segni, e rientra nelle
scienze storiche, che non producono scienze predittive, ma spiegano i significati culturali.
Allora, Geertz ridefinisce l’antropologia (slide definizione: sebbene la cultura esista…..)
Se consideriamo la cultura come sistema di significati, allora l’attività dell’antropologo è di interpretazione: gli
antropologi studiano le rappresentazioni prodotte da altre culture, cambiando forma agli ambienti/corpi,
producendo opere d’arte e rappresentazioni… e noi antropologi a nostra volta ne produciamo. Dobbiamo
comprendere cosa cerca di esprimere una cultura con certi simboli, e a nostra volta come noi produciamo. Questo
attenua la dimensione di scienza dura in cui l’antropologia si era originariamente sviluppata.

ARJUN APPADURAI

Appadurai rappresenta il terzo modo di considerare il concetto di cultura, che viene ridefinito negli anni per mano
di antropologi diversi. Oggi come oggi, parlare di cultura non è facile, perché pensiamo alla dimensione globale
delle culture in cui siamo immersi. La globalizzazione non è un fatto nuovo, già nell’antichità le culture entravano
in contatto tra loro e si scambiavano significati, innovazioni: si pensi all’impero romano a quante società ha
coinvolto e quante ha influenzato. Al giorno d’oggi sono pochissime le società isolate, ma è innegabile che lo
sviluppo tecnologico (i media) hanno prodotto un’accelerazione nei processi di globalizzazione. Si trasforma la
comunicazione, come afferma McLuhan riguardo al villaggio globale: una volta la comunicazione avveniva in
presenza, mentre la comunicazione mediata dai mezzi permetteva una distanza. Nell’era attuale questa possibilità
arriva all’ennesima potenza, modificando il concetto stesso di cultura: potendo proporre modificazioni a livello
globale, con i media si superano certe barriere come quelle del linguaggio, così da definire la globalizzazione
anche come fenomeno mediatico (soprattutto audio-visivo).

Appadurai fa esplodere il concetto di cultura: diversamente da Tylor, lo fa esplodere nella dimensione globale. Il
concetto steso di cultura comincia a cambiare3, perché tutti siamo esposti a culture diverse: egli sottolinea il
processo di deterritorializzazione della cultura; ogni società condivide aspetti culturali, nonostante una volta si
pensava come queste fossero legate ad un territorio specifico. Ad esempio, le comunità buddiste in europa, che
riprendono un tipo di società nata in Cina.

Appadurai propone un nuovo concetto di cultura, perché dentro la dimensione della globalizzazione – tenendo
conto dei processi di deterritorializzazione – ci troviamo all’interno di un concetto che tiene conto del contatto. Il
concetto di cultura che propone è un concetto che utilizza una metafora, quella del frattale – forma geometrica
non euclidea e senza confini definiti e precisi, in un’organizzazione complessa e caotica che produce
sovrapposizione: oggi le culture sono frattali, si allargano sul pianeta, sovrapponendosi tra loro. La chiave per
comprendere questi fenomeni culturali è il movimento: tutto è dinamico, le culture non sono statiche, come
dinamiche sono le popolazioni che si muovono continuamente. La dispersione di gruppi umani e beni materiali
porta questa mobilità ad un punto massimo (anche di oggetti a noi non convenienti, come i virus e le epidemie).
Appadurai mette a fuoco questo tema della mobilità e delle dinamiche culturali: per studiare le culture, oggi,
dobbiamo tenere conto di questa mobilità e non considerarle come sistemi chiusi.

3 l’idea dei primitivi contemporanei è funzionale all’idea stessa di modernità: l’Europa ha bisogno di sentirsi moderno rendendo primitive
altre culture.
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IL CONCETTO DI ETNIA

Etnia è un concetto fondamentale per etno/antropologia; è un concetto particolarmente complesso e


controverso, che ha creato problemi non solo a livello teorico ma anche pratico e amministrativo, perché la
definizione che ne danno le amministrazioni va a impattare su di esse. Caucasico riporta ad una definizione
vecchia dell’antropologia fisica, che tentava di dividere l’umanità sulla base dell’aspetto fisico: si avvicina molto al
concetto di razza, che considera gli aspetti somatici. Le razze esistono effettivamente nel mondo animale, per
quanto riguarda la genetica, per quanto riguarda l’essere umano non è possibile distinguere gruppi: il patrimonio
genetico è specifico di ogni individuo, ma siccome questo è frutto di infiniti mescolamenti non è possibile stabilire
confini tra gruppi; esiste un continuum di differenze che compre tutta l’umanità. Non esistono quindi razze per il
genere umano. Fino alla scoperta del DNA, gli scienziati si dibattevano in diverse teorie per spiegare la diversità
umana: nell’800, la nascente antropologia – che vuole rendere conto della diversità umana – dibatte rispetto
all’origine dei diversi gruppi umani; un gruppo di scienziati propendeva per l’idea che gruppi diversi avessero
origini genetiche diverse (poligenisti), mentre altri sostenevano la teoria monogenista della specie unica. La teoria
monogenista prende piede prima della guerra, e viene confermata con gli studi sul DNA, dimostrando
l’inesistenza delle razze. Nell’Ottocento le teorie raziologiche vengono ben accolte per questioni di colonizzazione.
Ma l’umanità tutta è un meticciato, una mescolanza di caratteristiche.

Quando ci interroghiamo sulla nostra identità, a seconda delle situazioni do delle definizioni diverse (sono
italiana, piemontese, faccio parte di una certa famiglia, cittadina del mondo ecc.). Ma non rispondono alla
domanda: qual è la mia etnia? C’è un problema di fondo riguardo al significato del termine:

Etnia deriva dal termine greco ἔθνος (èthnos) che definiva:

- Un insieme di persone che vivono in gruppo


- Una schiera di uomini che appartiene ad una particolare tribù
- Una nazione, un popolo, che rimanda all’essere nati in un certo gruppo

Il problema si pone nel momento in cui i greci usavano ta etne/le etnie: per loro al plurale, definiva qualsiasi
popolo straniero (come i barbari, i gentili, le provincie…). Per i greci, coloro che non parlavo il greco/il logos –
balbettavano, erano barbari. Ta etne, quindi, erano gli altri – coloro che non conoscevano la lingua greca e non
possedevano la forma di organizzazione politica fondamentale della polis. Allora si aveva una dicotomia
polis/modello politico ideale-resto del mondo/barbari senza organizzazione politica. Le etnie sono gli altri, per
questo è oggi difficile dire di che etnia facciamo parte. Le etnie sono la nostra alterità, coloro con cui ci
confrontiamo. Questa definizione è stata largamente ripresa in epoca coloniale: qui si cominciano ad
amministrare le etnie, i gruppi.
Dal punto di vista dell’antropologia, l’identità è situazionale (definiamo noi stessi in base ad un’appartenenza) e
relazionale (definita sulla base di un’alterità): noi ci definiamo come italiani, in relazione a francesi o inglesi. Ma in
confronto ad un africano, ci definiamo europei. Le etnie, per l’europa, sono l’alterità. Definisce gli altri come
etnie, oppure come tribù: in passato questo termine definiva un gruppo di discendenza acefalo (clan) o una
ripartizione amministrativa, che può definire sia quelle africane che i nostri gruppi più globalizzati. Tribù, quindi,
veniva utilizzato dai latini per definire questo gruppo di discendenza/clan e viene utilizzato in periodo coloniale
(soprattutto inglese) per definire una ripartizione amministrativa, e oggi in antropologia definisce un tipo di
società in cui l’organizzazione politica è basata sul gruppo di discendenza: come le società pastorali in Africa,
definite lignatico-segmentarie. Tribù è quindi un concetto coniato per segnare le differenze tra noi – globalizzati –
e gli altri, in epoca coloniale, utilizzato in maniera etnocentrica e non più utilizzato oggi.
10

*nel vangelo di Paolo si definiscono ta etne quei gruppi fuori dal mondo civilizzato da convertire.

Se si ragiona su cos’è un’etnia, si deve cercare di dare un contenuto: che cosa condividono i membri di un gruppo
etnico? Un territorio? Una lingua? Una religione? Delle tradizioni? Cosa ci caratterizza in quanto gruppo?
In linea generale, nel parlare comune, un gruppo etnico condivide una serie di tratti – anche genetici. Questo, in
realtà è illusorio, perché i gruppi sono sempre caratterizzati dalla mobilità, difficilmente si radicano ad un
territorio, si allargano; il rapporto con il territorio è fluido. Condividono una lingua, ma possono condividerne più
di una. A maggior ragione, una religione non può definirlo, perché hanno nella loro logica il carattere dello
sconfinamento. E ancora di più, non esiste un patrimonio genetico che definisca un’etnia, poiché noi tutti
costituiamo un meticciato. Bisogna uscire dalla definizione etnica. Se ci concentriamo su ciò che i gruppi
condividono le soluzioni risulterebbero infinite e non definibili. Dobbiamo renderci conto che l’identità etnica
esiste, ma è frutto di costruzioni storiche: non è territoriale, linguistico, biologico, religioso…

Frederik Barth, ne i gruppi etnici e i loro confini (1968), mette in discussioni gli studi che analizzano i gruppi etnici
dal punto di vista dei contenuti che condividono, affermando come non ci sia nulla perché sempre in mutamento.
Bisogna basarsi sui confini, su cosa definisce i confini delle culture.
È straordinario come l’identità permanga, nonostante il personale attraversi costantemente i confini. Barth ci
suggerisce una proposta metodologica: per capire cosa sia un gruppo, bisogna studiare i confini tra gruppi, su cui
si costruisce l’identità – che risulta in una certa identità etnica. Per esempio, l’identità degli Stati Uniti: questi
nascono come risultato di migrazioni, ma poi si costruiscono un’identità specifica; e quella identità – secondo
Frederic Jackson Turner – si è formata su quella frontiera avanzata da est verso ovest, quando i pionieri
conquistarono i territori indiani, acquisendoli e costruendo una nuova identità. L’idea del Far West è quella di
costruzione dell’identità americana, un’identità mobile. Nel confronto con le popolazioni amerindie si sono anche
scambiate informazioni, oltre a distruggere le popolazioni locali. È un’identità costruita nella dialettica tra
identità-alterità: la stessa identità italiana si forma all’interno di frontiere, evidenziando differenze e confini e
cercando di superarli. C’è quindi un’esigenza di studiare i confini: i processi di etnogenesi – costruzione
identitaria4 – avvengono sui confini. Ci definiamo attraverso ciò che non siamo.

Noi rivendichiamo un’identità regionale, nazionale, o continentale: oltre ad essere relazionale, l’identità è anche
situzionale, ma non è mai e mai naturale. Nella teoria del confine, Barthes mette in discussione l’enunciazione dei
contenuti di una cultura per definirne la loro etnia, i punti di congiunzione; ciò che persiste sono i confini, le
definizioni che limitano l’area di pertinenza di un gruppo; la sua proposta metodologica ci porta a riflettere su
cosa avviene nel confronto tra società: in questo si producono innovazioni identitarie, nuove realtà etniche.
L’etnia non è un dato ma il risultato di un processo, processi che dobbiamo analizzare per definire un’etnia.

4 un’etnia può estinguersi, così come si è costruita. Si può decidere di ri-suddividersi, nel caso di noi italiani. Non c’è niente di naturale,
sono possibili modificazioni.
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JEAN-LOUP AMSELLE

Antropologo francese, cura con Elikia M’Bokolo uno storico congolese, il punto di svolta della teoria etnologica
con il saggio l’invenzione dell’etnia (1985). Punto di svolta perché sostiene una tesi provocatoria: quella che
definisce le etnie non come essenze naturali (come per l’essenzialismo), ma costruzioni risultato di un processo.
Nel libro compara una serie di casi africani, creando un’antologia di saggi di antropologi e storci relativi a diversi
gruppi africani, per capire quando quel gruppo si sia formato. Per usare questo approccio, è indispensabile
ripercorrere la storia del gruppo; facendolo, emerge che queste – in gran parte – sono realtà formate ex-novo
oppure consolidate nel periodo coloniale. Tesi di questi autori è che la colonizzazione abbia definito in maniera
netta e precisa i gruppi etnici, a naturalizzarli, perché secondo la regola divide et impera, era necessario per
amministrare questi gruppi, catalogarli e classificarli in entità distinte, in modo da governali. Ma prima del
colonialismo le cose non erano così, e i saggi lo dimostrano.

L’africa (sub-sahariana) pre-colonizzazione era una realtà molto fluida. I confini tra le nazioni africane attuali sono
quelli coloniali, introdotti nel 1885 dalle potenze europee nella conferenza di Berlino, quando si suddivisero i
continenti e introducendo i confini coloniali. Con l’indipendenza attorno agli anni ’60 del Novecento, questi
confini coloniali si sono confermati. La stessa pratica di istituzione di confini precisi è tipica coloniale. Ma p rima
cosa c’era nel continente africano? I confini non erano netti: erano realtà fluide, che presentavano un livello di
sovrapposizione e contatto molto importante; erano catene di società, in relazione le une con le altre, a volte in
simbiosi tra cacciatori-agricoltori, che si scambiano materiali e prodotti essenziali. L’identità di certi gruppi si
definisce in relazione con le popolazioni con cui hanno un rapporto di tipo simbiotico, non comprensibile
attraverso un metodo di definizione di identità tramite i confini. I colonialisti classificarono questi gruppi e
iniziarono ad attribuire delle etichette ai gruppi. Nel libro, emergono diversi casi in cui lo stesso etnonimo è
chiaramente di origine coloniale: ad esempio, sulle rive del lago Vittoria, in Tanzania, vivono gruppi di pescatori di
lingua bantu: in epoca pre-coloniale erano formate in realtà centralizzate con dei capi, in cui si identificavano (5
principati); all’arrivo dei tedeschi, attribuirono loro l’etnonimo Bahaya (i pescatori). La colonizzazione accorpò
questi 5 principati in un’unica definizione, fino a che questa non è stata interiorizzata.
Se l’et è un’invenzione, come fa l’etologia a ricostruire processi di costruzione identitaria? L’autore si domanda:
ha un senso continuare. Studiare le etnie come realtà isolate (antropologi mono-etnica), cioè studiando una
cultura singola dall’interno.

L’etnologia classica, quella funzionalista, tendeva a non comprendere i processi di etnogenesi: vedeva tutto
schiacciato nel presente. Amselle, oggi, ci propone invece un mutamento di paradigma a livello antropologico e –
invece di un’antropologia mono—etnica, propone un’antropologia topologica, che considera gli spazi e non i
gruppi: significa che non si dà per scontato l’esistenza di un gruppo; si studia una regione e vediamo chi e come
interagisce in quell’area, osservando il nascere e il morire di gruppi nelle relazioni che gli uni hanno con gli altri.
Possiamo analizzare diversi spazi di scambio: di scambio economico. economico (in Africa pre-coloniale non era
presente economia di mercato, ma gli scambi avvenivano comunque tramite reti di relazioni economiche
complesse); spazi politici: spazi di interazione, di relazioni politiche che intercorrono tra gruppi; spazi linguistici:
spesso le lingue sono in parte condivise, spesso membri dello stesso gruppo parlano più lingue. In Africa è molto
evidente questo scambio linguistico: lo swahili è utilizzato veicolare, usata per commerciale; è presente un
plurilinguismo quasi ovunque, non sono identità chiuse ma sovrapposte; spazi culturali e religiosi: osserviamo una
dimensione di scambio e condivisione anche vasti.

Amselle, a partire da queste riflessioni, sviluppa una sua idea di cultura che è un’idea originariamente meticcia:
secondo lui, il meticciato (e non la purezza etnica) è all’origine delle culture. Le culture, in virtù di quegli spazi di
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scambio, nascono dal rimescolamento/incontro di tratti culturali. Amselle va incontro il discontinuismo etnico,
per mostrale come le logiche del meticciato operino ovunque. Parla di universalità delle culture, le connessione e
disconnessioni che collegano le culture tra loro. È un continuo processo di assimilazione di elementi esterni e
rifiuto di altri. Quella di Amselle è cultura come insieme di connessioni universali, che non si riesce a contenere
in dei confini chiusi e statici.

Il tema dell’identità etnica non è importante solo nei mondi extra-europei, dove lavorano tradizionalmente gli
antropologi. Il processo di costruzione identitaria del colonialismo è presente tra noi nelle politiche di migrazione:
è necessario anche qua amministrare la diversità culturale che ha invaso il nostro mondo. E sono anche qui
necessarie delle classificazioni identitarie rigide, che possono ricordare – appunto – quelle coloniali. Mentre,
invece, dentro il mondo della migrazione è complesso e controverso: il libro di Abdelmalek Sayad, la doppia
assenza, parla dell’assenza dell’identità del luogo in cui si approda, una difficoltà ad integrarsi nel gruppo da cui si
proviene a quello in cui si va. Evidenzia dei complessi, e dolorosi, processi di costruzione identitaria all’interno dei
movimenti migratori.

ORGANIZZAZIONI POLITICHE E SISTEMI ECONOMICI


Sistemi di sussistenza e sistemi politici

È un sistema di classificazione dei gruppi: nonostante ogni classificazione sia rigida, è comunque interessante
evidenziare le tipologie politiche e sociali per avere una classificazione di questi gruppi più precisa.
Ci sono differenze sostanziali, oltre che fluidità; per costruire una griglia incrociamo, da un lato, i sistemi di
sussistenza (le modalità in cui un gruppo soddisfa i bisogni fondamentali, soprattutto di cibo, utilizzando le
tecnologie disponibili nella sua dimensione ecologica) e, dall’altra, il tipo di organizzazione che si dà (la politica).
Queste due dimensioni sono correlate, perché solo in presenza di un certo tipo di economia, si sviluppa un certo
di politica. Esiste una correlazione tra sistemi di sussistenza e tipi di organizzazione politiche: non è comunque
una relazione deterministica, sono possibili le scelte, ma comunque l’economia condiziona la politica. 5
Le principali forme di economia (economia come strategia con cui una società estrae risorse dall’ambiente
trasformandole in ricchezza) vengono classificate in quattro grandi aree:

1. Caccia e raccolta: tipo di economia che ha occupato gran parte della storia dell’umanità; i nostri antenati
nel paleolitico, lo erano. Ancora oggi, vivono società del genere, spesso piccoli gruppi che hanno
impattato contro colonialismo e modernità. Questi gruppi cacciano animali selvatici e raccolgono specie
vegetali spontanee; non esiste allevamento e addomesticamento, come non esiste l’idea di agricoltura e
coltivazione.

2. Pastoralismo: qui le specie animali sono state addomesticate; i gruppi sviluppano simbiosi con una specie
animali (normalmente bestiame) e costruendo la loro economia rispetto a tale simbiosi. Le società
pastorali sono moltissime, anche in Europa (come la Sardegna); solitamente è accompagnata anche
dall’orticoltura, una forma di coltivazione più ridotta rispetto all’agricoltura. Ma comunque l’economia è
fondamentalmente basata sul bestiame.

5 Nella stessa nicchia ecologica coesistono popolazioni che hanno fatto scelte economiche diverse, ma hanno sviluppato sistemi politici
differenti.
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3. Agricoltura: è una forma di addomesticamento delle specie vegetali, più estesa che fa uso anche di
tecnologie agricole, e consente una produzione maggiore di alimenti.

4. Industrializzazione: forma complessa che riguarda la maggior parte delle società.

A queste strategie adattative corrispondono diversi tipi di organizzazione politica. Ma cos’è l’organizzazione
politica? La politica non è solo una prerogativa del mondo occidentale, dove questa ha assunto una forme che
rinvia all’invenzione della democrazia greca. Non esistono gruppi che non si siano dati una forma di
organizzazione politica: l’umanità non è possibile senza politica. Può essere diversa dalla nostra:

1. Bande: gruppi di cacciatori raccoglitori; sono gruppi formati da un numero ridotto di persone (<80),
organizzandosi sulla base della parentela: nella banda non ci sono capi, è un’organizzazione acefala e
abbastanza ugualitaria, con pochissima gerarchia di genere (uomini e donne sono quasi alla pari); le
relazioni sono gestite tramite l’organizzazione della parentela.6

2. Società lignatico-segmentarie: definite anche tribù, sono anche loro società acefale – dei gruppi senza
capi, ma più numerosi della bande (comprendono anche migliaia di persone che si sostentano tramite
pastorizia ed agricoltura); in questo caso il principio di organizzazione politica passa attraverso la
discendenza: non solo famiglie, ma gruppi che si formano sulla base della discendenza da un antenato
comune. Sono società lignatico-segmentarie perché un clan, a discendenza unilineare, che calcolano la
loro discendenza in modo patri/matrilineare, man mano che cresce demograficamente, si segmenta il
lignaggi più piccole. Le società pastorali si formano sulla base della segmentazione, in cui il clan è il
principio strutturante della società.

3. Domini: L’emergere dell’agricoltura è fondamentale per il passaggio alla centralizzazione: dove sono
presenti capi, è necessario che l’economia dia produttiva. Solo con l’agricoltura è possibile produrre un
surplus oltre la sussistenza per mantenere i capi e i funzionari. 7

4. Regni-stati: è una società centralizzata ancora più ampia, in cui governa un sovrano e ci si organizza in
una struttura politica molto più complessa.

L’idea che la politica non sia solo una prerogativa occidentale, emerge per la prima volta in antropologia con il
volume African Political Systems, a cura di Meyer Fortes e Edward Evans-Pritchard che afferma come esistano dei
sistemi politici diversi all’interno del continente africano. Tra i gruppi etnici (evidenziati in uno dei saggi
dell’antologia) (8) se ne trovano sia di centralizzati che di acefali.

6 la parentela è una costruzione popolare: in certi casi, i parenti da parte di madre non sono considerati parenti. Le unioni matrimoniali
nelle bande sono organizzate in maniera specifica, ma spesso le unioni matrimoniali avvengono tra individui di bande diverse, essendo
l’incesto un tabù comune a tutti i gruppi etnici.

7 le società centralizzate hanno bisogno di economie molto più produttive, possibile solo con forme di agricoltura.
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Gruppi centralizzati Gruppi acefali


Zulu Nuer
Ngwato Tallensi
Bemba Logoli del Kavirondo
Banyankole
Kede

Forse per la prima volta si vede come la politica non richieda la centralizzazione: Pritchard evidenzia come le
società pastorali dell’africa occidentali si organizzano in modo così coeso da non necessitare di capi;8 possono
entrare in conflitto, ma questo conflitto è funzionale. Questa è una grande scoperta per l’antropologia.

Esistono nel mondo molti gruppi di cacciatori-raccoglitori contemporanei: sono piuttosto numerosi, anche se la
colonizzazione ha impattato violentemente su questo tipo di società ed economia. Erano moltissime in america
(sterminate dalla conquista del continente americano, tramite sfruttamento del territorio e malattie non
autoctone: le popolazioni amerindie erano in maggioranza cacciatori-raccoglitori), alcune le troviamo nell’artico
(quelle degli inuit), così come le popolazioni autoctone dell’Australia – considerate le popolazioni più antiche del
mondo. O, ancora, i gruppi africani dei pigmei, che occupano la fascia equatoriali dall’oceano Atlantico a quello
indiano, e i boscimani (termine coloniale utilizzato per definire il gruppo di bande di cacciatori-raccoglitori
dell’Africa australe, che con l’arrivo prima dei bantu e poi delle popolazioni europee sono stati sterminanti o spinti
in aree desertiche di Namibia e Botswana, dove si sono riadattate.

8 La centralizzazione può dare a livello comunicativo differenze sostanziali.


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I GRUPPI DI CACCIATORI-RACCOGLIORI: CASI ETNOGRAFICI


I Pigmei Mbuti della foresta dell’Ituri, i Khoi-San (boscimani del Kalahari) e gli Aborigeni Australiani

Sono tre gruppi di cacciatori-raccoglitori su cui abbiamo etnografie interessanti, oltre che a produzioni audio-
visive per ragionare sul tema della comunicazione.

I Khoi-San

Si trovano nel Kalahari, che si trova nel territorio coloniale diviso tra Namibia, Sud Africa e Namibia. Sono una
delle tante bande con simile struttura sociale, che condividono stessa cultura e civilizzazione.

La parentela è definita tramite la discendenza da un lato, dal matrimonio dall’altra, che costituisce legami di
parentela: come la parentela, i legami matrimoniali sono differenti – può essere monogamico, poliginico,
poliandrico, oltre ad altre forme in cui ci si unisce tra stesso sesso, o con spiriti. È un invito al relativismo quello
dell’antropologia: quando si prendono in considerazione parentela, discendenza e matrimonio bisogna
comprendere le regole in vigore in un determinato contesto specifico.

Ogni banda è legata ad un’area territoriale specifica dove caccia e


raccoglie, e reperisce l’acqua – elemento fondamentale per la
vita. Le bande non sconfinano in territori vicini, ma nomadizzano
nel loro territorio. L’area in cui una banda si sposta per ottenere
ciò di cui ha bisogno determina anche il numero di membri della
banda: la presenza di buche d’acqua, animali e specie vegetali
commestibili determina la quantità di persone che possono
sostentarsi all’interno di essa.

Khoi-San è un ceppo linguistico9 (come quello delle lingue bantu)


con cui vengono definiti i gruppi di cacciatori-raccoglitori dell’area
del Kalahari. Quando gli Europei arrivano in Sud Africa, a
cominciare dalla conquista del Capo di Buona Speranza, il
territorio dell’africa australe era già occupato da popolazioni locali di cacciatori-raccoglitori di lingua bantu, che
avevano raggiunto questa zona più o meno all’epoca della nascita di Cristo, tramite una grande migrazione dal
Camerun-Africa Occidentale; raggiunta l’Africa australe, gli europei incontrano questi Khoi-San, cacciatori-
raccoglitori, e i Khoi-Khoi (pastori) che condividono un ceppo linguistico basato su suoni occlusivi (click). I pastori
Khoi-Khoi si estinguono sulla base dell’invasione europea, che si appropria dei terreni adatti alla coltivazione,
mentre le popolazioni Khoi-San vengono spinti verso nord, quando i bantu e poi gli europei si appropriano dei
terreni; vengono quindi spinti nella zona del deserto del Kalahari.

Come si organizzano le bande di Khoi-San? Sono gruppi di persone legati da vincoli di parentela, una grande
famiglia estesa (normalmente struttura della banda tipo), spesso di quattro generazioni a discendenza
patrilineare. Nelle bande non è la discendenza, ma i legami di parentela – soprattutto il matrimonio – ad essere
attiva. Le bande sono esogamiche: ci si sposa al di fuori del gruppo, perché all’interno della banda costituirebbe
incesto. L’esogamia è la tipologia più diffusa: bisogna definire quale, esogamia clanica (non ci si sposa all’interno

9 Khoi-San e Khoi-Khoi sono ceppi linguistici non scritto, che porta a un certo numero di varianti all’interno delle diverse bande.
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dello stesso clan), una metà si sposa in un’altra metà della società, oppure il matrimonio avviene fuori dai confini
etnici. Possono esserci situazioni di matrimonio endogamico, in cui ci si sposa all’interno del gruppo (come nelle
dinastie reali). Nel caso dei cacciatori-raccoglitori la regola è l’esogamica: dopo il matrimonio, il membro cambia
banda – di solito la donna. Tra le regole matrimoniali si prende in considerazione la regola di residenza: la moglie
del marito, il marito della moglie – matrilocale o patrilocale, oppure neolocale – in cui la famiglia si crea una
nuova casa.

I matrimoni, solitamente, sono combinati; ma le donne hanno una certa libertà. La struttura di genere è
interessante: i cacciatori-raccoglitori sono le società più egualitarie, con strutture di genere meno gerarchiche.
C’è una divisione sessuale del lavoro nella società: in particolare, gli uomini cacciano e le donne raccolgono.
Tuttavia, la caccia è un’attività molto importante e prestigiosa per la sopravvivenza del gruppo, ma la caccia di
animali selvatici soddisfaceva per il 20% le esigenze del gruppo, spesso si mangiavano vegetali spontanei, raccolti
dalle donne, soddisfando più della metà del bisogno alimentare della banda. Le donne sono importati a livello
economico, e questo loro ruolo è riconosciuto dal gruppo.
L’importanza economica della donna si traduce anche in una sua libertà fondamentale; la donna è libera: è vero
che i matrimoni sono combinati, ma tuttavia esiste il divorzio. Se le donne non sono contente della loro situazione
matrimoniale, possono separarsi e – per una serie di motivi – i divorzi sono comuni in questo contesto.

Dal punto di vista economico la banda è autosufficiente, e nel territorio è in grado di acquisire ciò di cui ha
bisogno. Ciò che si caccia-raccoglie viene ridistribuito tra tutta la banda: non viene sostentata solo la famiglia, ma
è presente un meccanismo rigoroso di ridistribuzione nella banda; è un meccanismo ritualizzato, detto xharo, in
cui si ridistribuisce la carne e viene fatta festa, secondo principi di solidarietà.
L’ambiente è difficile come la vita, ma non bisogna immaginare che sia un sistema economico che comporti molto
lavoro: è sufficiente andare a caccia ogni due/tre giorni e raccogliere il necessario attorno all’accampamento per
mantenere la sopravvivenza del gruppo. È una strategia adattativa vantaggiosa, che lascia molti momenti liberi –
tipicamente occupati da attività di tipo rituale e artistico. C’è una vita spirituale e religiosa molto sviluppata: in
particolare, i Khoi-San, rinviano il potere ad un’entità sovrannaturale detta Num , che può prendere possesso di
individue conferendogli potere taumaturgico, tramite una possessione spiritica avvenuta tramite iniziazione.
Questi individui – sia uomini che donne – vanno in trance per esercitare tali poteri. A fianco dell’attività religiosa,
c’è un’intensa attività artistica: pitture rupestri, danza e musica.

L’assenza di scrittura non determina l’assenza di leggi: esistono istituzioni giuridiche e convenzioni dettate
oralmente tra generazioni. Una legge con un codice orale.

Le società di caccia e raccolta sono attente nell’utilizzo delle risorse: sanno bene che dipendono da queste risorse
naturali, cacciano con attenzione e coscienza, uccidendo solo quello di cui necessitano e mostrando grande
rispetto verso di loro. Vivono in equilibrio con la natura, perché vivono di questo equilibrio. Sono le società
agricole che sfruttano le risorse naturali.

La sedentarizzazione dei Khoi-San col colonialismo gli inserisce in una società di tipo monetario, trasformando
queste popolazioni in popolazioni emarginate e confinate in zone povere, portando a problemi paralleli: diminuì
così la popolazione e avviene un processo di deculturazione. Il film documenta il passaggio dalla vita tradizionale
nomade della banda alla sedentarizzazione nella riserva, fino alla conversione religiosa e spirituale.
Oggi queste bande non sono quasi più presenti: le zone in cui cacciavano sono state trasformate in parchi
naturali. Sono sedetarizzati perché in una statalizzazione, non si può lasciare che le popolazioni si muovano
liberamente – concetto contrario alla concezione di nazioni. Normalmente i nomadi sono quelli che hanno pagato
17

di più gli effetti della colonizzazione. Così nel mondo moderno, non adattandosi alla società, finiscono ai margini
della società, spesso come mendicanti.

Principio fondamentale essenziale al funzionamento delle società di cacciatori-raccoglitori è la solidarietà: la


cultura valorizza il tema della non violenza. Sono gruppi/bande pacifici e non conflittuali. Tendenzialmente queste
società educano la prole a questi valori. [The Harmless People]

Gli aborigeni australiani

Le bande erano tante e diverse che vivevano nel territorio australiano, con 200 lingue diverse parzialmente
intellegibili; ogni gruppo aveva il suo etnonimo: quando arrivarono gli europei, vennero semplicemente chiamati
aborigeni, coloro che erano autoctoni di quella terra. Sappiamo dagli studi paleo-antropologici che questi
cacciatori-raccoglitori erano insediati in Australia fin da 10/20.000 anni prima della nostra era.
Nel 1768, James Cook sbarca a Botany Bay, vicino all’odierna Sidney, e inizia il processo di colonizzazione.
L’Inghilterra trasforma l’Australia in colonia penale, svuotando le sue prigioni dai criminali, che si stabiliscono sul
territorio australiano, nelle coste sud più temperate, partendo da sud per progredire poi verso l’interno del
continente. In quel momento pare vivessero sul continente circa un milione di aborigeni: in pochi decenni, fino al
‘900, questi si riducono a 60.000, un vero e proprio genocidio che decima la popolazione aborigena.
Gli aborigeni nomadizzavano nelle loro aree, che non possedevano individualmente, non riconoscevano la
proprietà privata: così, gli Inglesi, considerano questa terra terra niul ius, di nessuno, potendo così espellere e
uccidere gli aborigeni, sospingendoli nei deserti più a nord, secondo un processo non dissimile dai Khoi-San.

Il rapporto che gli aborigeni avevano con la terra è comunque stretto: questi, come cacciatori-raccoglitori, la
consideravano un elemento sacro che forniva le risorse necessarie al loro sostentamento; era una sacralizzazione
del territorio, che rende ancora più dolorosa l’espropriazione avvenuta nel periodo coloniale. Songlines, una
pittura aborigena, è collegata ad una loro tradizione che consiste nella creazione di percorsi di orientamento sul
territorio attraverso le canzoni: per orientarsi, gli aborigeni cantavano, che ritmati in un certo modo mostravano
gli elementi fondamentali del territorio (bacini d’acqua ecc…) e attraverso questa mappa si identificavano anche i
luoghi sacri, da cui si pensava tornassero i defunti per entrare nel corpo di una donna ed ingravidarla; una
concezione di reincarnazione: la percezione che gli aborigeni avevano della terra è quindi estremamente
sacralizzata. La storia delle vie dei canti è stata analizzata in un saggio/racconto da Bruce Chatwin, che analizza il
rapporto aborigeni-territorio. La condizione delle bande aborigeni nell’Australia
moderna è difficile, al punto che gli aborigeni non ebbero la cittadinanza fino al
1967, rimanendo per decenni come stranieri nel loro territorio.

Il processo di rappresentazione, anche visiva, di queste popolazioni iniziò molto


presto: vennero studiati e anche attraverso la fotografia e del cinema,
immettendo nel mercato immagini relative a questa popolazioni; ma erano
comunque immagini eurocentriche, rappresentate in modo sbilanciato: qui a
fianco il ritratto di un aborigeno con sullo sfondo una griglia per misurare le
dimensioni del corpo, seguendo uno studio antropometrico. Queste
rappresentazioni sono molto comuni e utili, per i colonialisti, ad analizzarli come
animali e non come persone con cui dialogare. È possibile cogliere della violenza
anche a livello di queste rappresentazioni.
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Presto cominciarono anche a riprendere queste popolazioni, e tra i film in ambito antropologico troviamo delle
riprese cinematografiche tra il 1898-99. Queste riprese erano fatte sempre mantenendo una particolare distanza
dalle popolazioni, che tendeva ad oggettivizzarle, raccontando la loro vita senza interpellarli.

Cos’è la rappresentazioni in etnografia, quali rapporti intercorrono tra chi filma e viene filmato, e come cambia
questa relazione? Con la scoperta della diversità culturale subito vengono usati dei media audio-visive per
documentare e divulgare le storie: l’utilizzo che se ne faceva era però sbilanciato dalla parte degli europei, che
avevano un ruolo di rappresentatori e padroni. Ciò è un altro modo di rappresentare la classica diversità culturale;
questa relazione inizia a cambiare abbastanza tardi, con David MacDougall: lui e sua moglie furono due cineasti,
che hanno dedicato la vita allo studio delle popolazioni e il ruolo nei media nella rappresentazioni delle alterità. Di
chi è la storia? È un loro libro del 1991, che si chiede chi sia l’autore della storia che viene documentata in queste
riprese? Andando avanti nella storia della rappresentazione etnografica, la vecchia dimensione coloniale
prevalente perde importanza, e si cerca di entrare in relazione più paritaria con i soggetti filmati, fino a dei
rapporti partecipativi-dialogici in cui le riprese diventano frutto di una collaborazione. MacDougall cerca di
analizzare questo rapporto tra lo studioso e le popolazioni che studia: il metodo coloniale è infatti criticato, e col
tempo si tenta di riequilibrarlo, tentando di costruire un’etnografia del dialogo, mettendosi alla pari con gli
“informatori” che sono la popolazione studiata e filmata. Si realizzano così rappresentazioni decolonizzati.

La storia dei media in australia è proprio attraversata da un percorso di progressivo avvicinamento: da un’iniziale
rapporto gerarchico, si passa ad un livellamento verso una collaborazione egualitaria. Ian Dunlop, documentarista
degli aborigeni, cerca di riprenderli in un altro modo: Desert People del 1964 è l’ultimo film che rappresenta la vita
di una banda di aborigeni che vivevano anca secondo il loro stile di vita tradizionale (dagli anni ’60 i territori
aborigeni erano limitati e spesso riserve, per sedentariezzarli e renderli simili ai colonizzatori, spesso ricorrendo
alla violenza: ad un certo punto, si toglievano i bambini per farli adottare a genitori bianchi). Dunlop cerca di
raccontare la storia di una famiglia aborigena, cercando di ottenere fiducia da parte di questi suo informatori.

Cambiamenti nei mediascape

Per molto tempo le rappresentazioni degli aborigeni sono state non-egualitarie: ma quando gli aborigeni hanno
potuto a realizzare le loro proprie rappresentazioni mediatiche della loro cultura? Quanto entrano come
protagonisti nel mondo dei media? Abbastanza tardi, dato il loro ruolo, ma ad un ceto punto il governo
australiano fa uno sforzo per coinvolgere questa diversità culturale anche a livello mediatico.
Tra i canali televisivi australiani viene istituito il canale SBS, un canale dedicato alla diversità culturale – che in
australia non si limita solo agli aborigeni, ma anche agli immigrati, che crea un panorama culturale variegato.
Rendersi conto di questa diversità è un’operazione importante, per contrastare questo livellamento sulla cultura
inglese, lasciando alle diverse comunità la possibilità di esprimersi. Questa concessione è stata data per ultima agli
aborigeni, e per prima agli immigrati: questo perché gli aborigeni, data la violenza subita, sono abbastanza
refrattari all’integrazione. Ma grazie agli sforzi del governo, riescono a svilupparsi dei media indigeni, a partire
dalla radio – il canale mediatico più semplice e meno costoso, e che rispecchia la tipica dimensione di oralità.
Negli anni ’90 nasce la CAMA, un’associazione dei media aborigeni – sostanzialmente stazioni radio – che
trasmettono in lingue aborigene e sono indirizzate a queste popolazioni. È un’operazione interessante, che si
trasferisce in seguito anche a livello televisivo. Tutto ciò porta ad una ricerca di riconciliazione in Australia, una
nazione dilaniata dal conflitto che hanno vissuto: il governo australiano ha chiesto scusa agli aborigeni per i fatti
accaduti solo nel 2008, cercando di avviare un processo di riconciliazione. Bisogna anche osservare che gli
aborigeni non sono stati compensati economicamente per le privazioni: i loro territori sono economicamente
19

favorevoli, ricchi di petrolio; è partito dunque un processo, che porta a problematiche di tipo giuridico legate
all’assenza di proprietà privata nella cultura aborigena sui territori. È così nata un’associazione che raccoglie
testimonianze e materiali orali/audiovisivi per affermare la proprietà degli aborigeni su questi territori, che ha
portato così alla riconquista di alcuni di questi territori. Nonostante ciò, la società rimane ancora molto divisa e la
riconciliazione tra aborigeni ed europei non è ancora avvenuta.

Il processo di produzioni indigene di rappresentazioni mediatiche è facilitato dalla semplificazione delle


tecnologie: diventa possibili quando queste si alleggeriscono sia a livello fisico che economico. Dagli anni ’70 in
poi, e soprattutto con la rivoluzione digitale, assistiamo ad un trasferimento tecnologico che la porta alla portata
di tutti. Questo è interessante quando siamo in presenta di società e culture che non hanno sviluppato scrittura –
come gli aborigeni – perché assistiamo ad un passaggio dall’oralità alla trasposizione audiovisiva, non passando
per la scrittura. La versione audiovisiva penetra maggiormente in contesti agrafi, in cui – appunto – la scrittura
non riesce. La disponibilità di tecnologie audiovisive leggere rivoluziona quindi la scena mediatica, dando la
possibilità a tutti di donare le proprie rappresentazioni. Così la rappresentazione delle culture si democratizza,
sviluppando una modalità di partecipazione dialogica – da un lato – e dall’altro le stesse culture rappresentano
loro stesse dall’interno.

Il film 10 Canoe è un esempio rilevante di un progetto collaborativo, in cui un regista olandese-australiano realizza
un film di fiction in collaborazione con una comunità aborigena (i Ramingining) interamente realizzato in lingua
locale. Il film racconta il mito delle origini di questa comunità visto dal loro punto di vista; è un film fatto da loro,
scritta, filmata e raccontata secondo la retorica del racconto degli aborigeni: in questa è presenta la voce di un
narratore, che racconta questa vicenda degli origini di questa comunità, da cui emergono gli elementi
fondamentali della loro struttura sociale: famiglia, matrimonio, legge, conflitto, rapporto coi totem… dipingendo
la vita della comunità così come loro la vogliono raccontare.

Se i canali di CAMA erano rivolti alla comunità, il film è stato creato per una diffusione internazionale: utilizza il
linguaggio degli aborigeni, ma per incuriosire il resto del mondo; raccontando una storia diversa da quelle solite. Il
film è un esempio interessante di come gli aborigeni si siano appropriati di un medium occidentale adattandolo
alle loro esigenze, per arrivare a parlare in prima persona e diventare soggetti. Da questo, sviluppano un sito web
in cui vengono caricate storie riguardanti questa loro comunità.

LE SOCIETÀ LIGNATICO-SEGMENTARIE

Sono dette anche più semplicemente tribù, sono società acefale – non dotate di capi – e che basano
l’organizzazione politica/sociale sui clan e i lignaggi. Sono società che spesso utilizzano come forma economica
principale il pastoralismo. Si passa all’addomesticamento delle specie animali, in particolare delle vacche nelle
forme più diffuse. Il pastoralismo si diffonde molto Africa, in medio-oriente con le tribù di beduini, in Europa e in
Italia (con la Sardegna) e in Asia: questa forma economica è spesso connessa, appunto, con società acefale. Ma
mentre per le società di caccia e raccolta si presentavano con forme poco gerarchiche, in questo caso l’assenza di
capi non corrisponde ad un’assenza di gerarchia: questa è molto marcata, e coloro che ricoprono determinati
ruoli sociali (come gli uomini e gli anziani) sono in posizioni superiori di altri; pur non avendo capi, la dimensione
dell’età e del genere producono quindi una piramide sociale.

L’economia pastorale comporta una sorta di simbiosi col bestiame, da cui si trae ciò che è necessario per vivere,
non solo a livello materiale ma anche dal punto di vista estetico ed artistico: un rapporto molto stretto con gli
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animali, in cui si produce anche arte dedicata a queste figure. Si parla di una sorta di complesso del bestiame
(Evans Pritchard), in cui tutto ruota attorno al bestiame. Ma ciò non significa che non ci sia anche una produzione
agricola: queste società producono orticoltura con cui integrano la loro dieta ed economia.
Due società pastorali africane sono i Nuer, studiati da Evans-Pritchard, e i Masai. Evans-Pritchard è una figura
fondamentale perché studiò diversi casi etnografici africani, e analizzò in profondità – forse per la prima volta – la
struttura di un’organizzazione politica senza capi, abbastanza poco comune per le società occidentali. Dimostrò
come sia possibile avere una società integrata e funzionante pur in assenza di capi, ma comunque non egualitaria.
Questo antropologo lavorò al servizio del governo britannico nelle sue colonie africane: si recò qui per la prima
volta tra gli Azande, ma venne richiamato per andare a studiare i Nuer – popolazione dell’attuale Sudan
meridionale – che ancora non si erano integrati (essendo un popolo bellicoso), e si stavano rivoltando; gli inglesi
commissionarono ad Evans lo studio del funzionamento di questa società per trovare una mediazione. Sui Nuer
pubblicherà diversi lavori importati, tra cui The Nuer: A Description of the Modes of Livelihood and Political
Institutions of a Nilotic People o, in italiano, I Nuer: un’anarchia ordinata – titolo paradossale rispetto a quello
inglese; descriveva qui una società senza capi ma ordinata, facendoci capire questa importante caratteristica di
questa società: il fatto di saper darsi un’ordine sociale molto funzionale pur in assenza di capi.

L’area in cui si trovano è abbastanza grande, comprende circa un milione di persone, e confliggono coi vicini
Dinka, con cui è in corso una guerra civile, per ragioni tradizionali che contrappongono queste popolazioni, ma
anche per ragioni più recenti, legate ai giacimenti di petrolio presenti sul territorio. A questo bisogna aggiungere
un fattore drammatico in questa zona, legato al cambiamento climatico: qui siamo nella fascia del Sahel, la zona
sopra l’equatore, che si sta desertificando a causa delle emissioni delle società occidentali più sviluppate che
impattano sul riscaldamento globale. Il cambiamento climatico fa scarseggiare le terre fertili utili al pascolo e
all’agricoltura, producendo confitti tra le popolazioni, che ha portato ad una guerra civile e alla comparsa di
diversi rifugiati, sia internamente al territorio in campi profughi, che esternamente portando ad avere circa un
milione di rifugiati esterni al Sud Sudan, in particolare in Uganda.

Evans-Pritchard, fa la sua comparsa in questo territorio negli anni ’30. Le sue foto mostrano com’è l’ambiente in
cui vivono i Nuer: è abbastanza secco, ma si trova sulle rive del Nilo ed è soggetto – il territorio – alle sue
variazioni stagionali; le esondazioni fertilizzano le terre circostanti: i Nuer quindi alternano due tipi di
insediamenti, nella stagione secca coltivano le terre vicino al fiume, in quella delle piogge di spostano sulle alture,
dedicandosi al bestiame. Come molte società pastorali, sono transumanti, spostandosi in base alla stagione per
far pascolare il bestiame. Si hanno quindi due insediamenti diversi e anche una temporalità (come l’ecologia
struttura la società e la cultura): il tempo è pensato sulla base dell’ecologia, il tempo/calendario è basato sulla
successione delle stagioni, seguendo un tempo ecologico legato alle attività agricole e pastorali legate alle
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stagioni; l’anno si divide, quindi, in stagioni secche e umide, mentre le ore del giorno si succedevano sulla base
delle attività necessarie alla cura del bestiame. È una concezione ciclica del tempo, in cui le giornate scorrono in
modo simile tutte le volte. Questo però non è l’unico modo con cui i Nuer calcolano il tempo: esiste un altro
modo di calcolarlo, un’altra concezione di tempo a fianco a quella ciclica, che è il tempo strutturale. Questo è la
percezione dello scorrere del tempo che si basa su elementi dell’organizzazione sociale, soprattuto sui passaggi
delle generazioni all’interno del gruppo di partenza.

In questo tipo di società il clan è il gruppo sociale fondamentale; il clan è un gruppo di parenti che contiene
soprattutto i parenti defunti: tutti sono legate da un legame di discendenza a partire da un antenato comune, da
cui i membri sanno di discendere. Esistono due grandi tipologie di discendenza, due modi con cui si può calcolare
la discendenza: unilineare, quando i parenti sono calcolati sulla base di parenti medi di uno stesso sesso
(patrilineare o matrilineare), oppure cognatizia (si considerano entrambi i rami della discendenza, come la nostra
società): i Nuer rientrano nella prima, ritengono di non essere parenti di parte di madre. Questo modo di calcolare
la discendenza dà vita a gruppi di parenti molto struturati; inoltre, se il clan contiene un numero elevato di
generazioni, è necessario dire che il clan si segmenta in porzioni più piccole, dette lignaggi: una parte di clan che
contiene le generazioni vivente 4/5 generazioni che convivono tra loro. In una società come quella dei Nuer
possono esserci cinque generazioni conviventi, grazie all’età riproduttiva meno avanzata. Le generazioni viventi
sono anche quelle che, normalmente, si ricordano. Il succedersi delle generazioni dà quindi una percezione del
tempo, che si basa sulla struttura lignatico-segmentaria: questo è quello che Pritchad definisce il tempo
strutturale.

Discendenza
Nel grafico è rappresentato un certo numero lignaggi, da A (antenato comune da cui discendono) fino ad un
aumento del numero dei membri del lignaggio che, raggiunto una certa quantità, si segmenta (a causa anche di
problemi di residenza in un singolo territorio legato alla disponibilità per la sopravvivenza); da qui, molti lignaggi
sanno di discendere da un antenato A, ma sono tra loro segmentati. La continua riproduzione del lignaggi produce
continuamente segmentazione. La segmentazione è data da questa continua ed esponenziale crescita
demografica che, raggiunto un certo livello dettato dalla disponibilità del territorio, si segmenta in ulteriori
lignaggi. È una struttura temporale.
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Organizzazione Interna
Come sono organizzati i loro villaggi? Evans-Pritchard propone uno schema per descrivere la residenzialità: al
centro c’è la capanna, in cui vive normalmente una famiglia: si consideri che il matrimonio è poliginico, e il
compound – il recinto domestico – contiene diverse case in cui vive la moglie del capo famiglia con i suoi figli (il
marito, a turno, passa da una casa all’altra). Questi recinti sono riuniti in un vicinato, che forma un villaggio (la
tribù) È una struttura di tipo territoriale. Molti villaggi formano una sezione tribale terziaria, il distretto. In
seguitosi forma la terra dei Nuer, e più in grande i territori vicini che vanno a formare una nazione. Anche a livello
territoriale è una sorta di sistema di scatole cinesi.

Relazione tra i segmenti


Ma in che rapporto stanno le diverse tribù, che tipo di relazione intercorre tra loro? In un altro schema,
l’antropologo cerca di far capire quali siano le relazioni tra i segmenti. Il tema di conflitto ed alleanza è
fondamentale nel mantenimento dell’equilibrio, perché non è presente un ordine costituito, ma c’è un sistema di
integrazione sociale che mantiene comunque l’equilibrio. L’ordine e integrazione della società si basano su un
equilibrio dettato primo dalla segmentazioni; bisogna tenere conto, però, che le società pastorali sono
conflittuali. La razzia del bestiame è comune; inoltre è normale lo sconfino ai fini di rubare il bestiame. Oltre
questo, esiste un’istituzione giuridica importante detta la faida di sangue, una regola di diritto consuetudinario
secondo la quale, se io subisco un torto, io sono obbligato a vendicare il mio gruppo di parenti. La combinazione
di violenza endogena e dell’istituzione della faida, fa sì che il conflitto sia sempre presente in questa società. Cosa
può avvenire? Prendiamo in considerazione z2: i membri di z1 razziano dei capi di bestiame di z2; i membri di
quest’ultima sono obbligati a vendicarsi (anche se può non avvenire: il capo dalla pelle di leopardo può
ricomporre queste dispute). Così scatta la faida. Cosa avviene se il conflitto non si scatena a questo livello, ma tra
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z2 e y, cioè ad un livello più alto (non tra membri di villaggio, ma tra membri e unità terziaria), z1 e z2 si alleano e
vanno contro a x2. Il conflitto può risalire fino ai confini di tribù e fare un’alleanza tribale, contro altre tribù.
L’esistenza della faida e delle razzie fa sì che il conflitto sia sempre presente, ma anche utile al fine di creare
alleanze, sviluppando legami tra i vari livelli della società, che hanno funzione di integrazione sociale. Si può dire
quindi che il conflitto ha funzione di equilibrio sociale: nonostante tenda sempre a crescere, tuttavia questi
conflitti producevano alleanze, relazioni che finivano per integrare la società. I segmenti di pari grado entrano in
conflitto tra loro, ma se questo conflitto sale di grado, si scatenano le alleanze.

Un’altra modalità con cui la società Nuer veniva integrata, oltre alla struttura della discendenza/residenza, con la
terza forma di organizzazione sociale che è quella delle classi di età: queste attraversano la società,
sovrapponendosi ai clan. Queste classi sono gruppi di maschi, che sono stati iniziati nello stesso periodo10. Ciò che
si vede nell’immagine è l’operazione chirurgica del gar, effettuata al momento di iniziazione – nel momento di
pubertà. In questo rito di passaggio sono sottoposti a prove che, una volta superate, gli porteranno a diventare
uomini: questa non comporta la circoncisione come in altre comunità, ma l’incisione di sei linee sul volto. È una
sorta di marchio d’identità molto netto e preciso, indispensabile alla costruzione dell’identità maschile. La
cerimonia del gar forma questa classe di età, perché questi giovani vengono iniziati entrando a far parte di questa
classe: tutti i ragazzi che raggiungono la pubertà nell’arco di sei anni, diventano quasi fratelli rientrando nella
stessa classe di età. La struttura delle classi di età integra la struttura clanica, solidificando le strutture sociali.
Sono relazioni molto forti quella dei personaggi appartenenti alla stessa classe di età. Per quattro anni, dopo
questi sei, nessuno viene iniziato. Dopo si ricomincia con le iniziazioni, creando una nuova classe di età. Sono una
decina le classi di età, gruppo a cui viene dato un nome specifico. Queso raggruppamento identifica una nuova
strutturazione del tempo. Questo sistema compatta, quindi, ancora maggiormente la loro organizzazione sociale.
Queste tre istituzioni rendono la società molto coesa e, nonostante siano fondate sul conflitto, la mantengono in
equilibrio.

I RITI DI PASSAGGIO

Sono definiti processi antropo-poietici: definizione di costruire l’essere umano. La persona deve essere
culturalmente costruita: molte società ritengono necessario intervenire sul processo di costruzione della persona,
secondo un modello culturale specifico. Il gar è un esempio di rito di passaggio antropo-poietico: I Nuer ritengono
che gli uomini adulti debbano essere costruite tramite un processo che intervenga sul loro corpo e sulla loro
psiche, perché superare quell’intervento porta l’individuo a maturare. Sono processi andro-poietici, più

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spesso i riti di passaggio puberali, spesso prevedono delle operazioni di tipo chirurgico (spesso in ambito genitale). Le società pastorali
sono gerarchiche, e per interiorizzare la gerarchia, spesso si interviene sui corpi. C’è molta pressione sociale affinché tutti affrontino questi
riti di passaggio: è fondamentale per costruire l’identità individuale ed etnica.
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precisamente, di costruzione della mascolinità. In altre società ci sono anche processi gineco-poietici, anche per le
donne.
Questa idea del passaggio rinvia ad un concetto più generale, spiegato da Arnold Van Gennep: egli ha studiato
tuto quell’insieme di rituali che fanno parte dei momenti di passaggio nel ciclo della vita: da infanzia a età adulta,
il matrimonio, come si entra e si esce dalla società (nascita-morte). La vita degli individui è costellata da
cambiamenti, e tutte le società sottolineano questi cambiamenti attraverso dei rituali. I tipi di passaggio possono
essere diversi, a seconda del momento della vita in cui vengono effettuati (nel caso del gar è, appunto, puberale).

Van Gennep osserva che questi riti hanno tutti la stessa struttura, sono organizzati sulla base di tre fasi
successive:

1. Di separazione: in cui il candidato viene isolato/separato dal gruppo sociale.


2. Di margine: in cui si svolge un’operazione/rituale/evento che celebra il cambiamento.
3. Di riaggregazione: rientra nel gruppo con il nuovo status acquisito.

È uno schema generale che si ritrova ovunque: anche i Masai, altra società pastorale, utilizzano i riti di passaggio
per costruire le posizione sociali. Nel loro caso, non solo i maschi attraversano il rito puberale, ma anche le
ragazze vengono sottoposte alla circoncisione femminile, secondo una pratica di modificazione degli organi
genitale molto diffusa in Africa, che l’OMS cerca di mettere a freno per i suoi effetti negativi sulla salute.

Il caso dei Masai porta a riflettere sulla questione di genere, anche all’interno dei meda.
I riti antropo-poietici sono universali, e sottolineano i cambiamenti di ruolo sociale. Va Genepp considera comune
anche la struttura di questi riti. Questi rituali non sono solo delle celebrazioni di un cambiamento che avviene
naturalmente, ma sono anche rituali che creano il cambiamento – creano l’essere umano plasmandolo secondo
un modello specifico culturale: processi antropo-poietici, di costruzione dell’essere umano.

La teoria di Geerz affermava che la cultura non segue l’evoluzione degli organi, soprattutto del cervello, ma lo
precede: la cultura quindi modella l’essere umano. Questo fa capire perché esistono i riti antropo-poietici e
perché sono così importanti, e perché è così importante intervenire sui corpi (nel caso dei Nuer o dei Masai).
Senza questo intervento della cultura, e una plasmazione dell’uomo, esso sarebbe incompleto. A questo
proposito, si può citare l’argomento dei tatuaggi: molti se li fanno per ragioni estetiche, ma al di là di questa
motivazione c’è l’esigenza di modificare il nostro corpo, non mantenendolo allo stato di natura – e si interviene su
esso anche con processi invasivi e, a volte, dolorosi. Nel caso dei riti antropo-poietici dei Masai o dei Nuer, non è
una scelta, e il tema della pressione sociale sull’individuo alla conformazione e presente lì come in altre culture. Il
tema della scelta è sempre presente, però.

Alcuni riti prevedono la modificazione del corpo: il dolore provocato dall’intervento si stampa nella memoria del
candidato, provocando un processo di cambiamento a livello psicologico (rituali psico-dinamici). È un’esperienza
formativa, e molte sono le culture che sfruttano il dolore e la sofferenza come modificatori della psiche: una
violenza utilizzata con il fine del cambiamento.

La cultura dei Masai, è una società di pastori dell’Africa orientale (tra Kenya e Tanzania). Appartengono ad un
insieme di gruppi che parlano lingue del gruppo maa, società i pastori che condividono una struttura sociale
simile, progettato da Paul Spencer:
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La piramide demografica descrive la popolazione Masai 11: è larga


alla base, e va a restringersi man mano che l’età delle persone
aumentano (differentemente da quelle europee). In questo caso,
alla base, abbiamo i bambini/e: nella fase della vita che precede la
circoncisione, non c’è distinzione tra maschi e femmine; in questa
fase pre-rito ragazzi e ragazze sono considerati uguali dal punto di
vista del genere12

Le cose cambiano nel momento in cui si arriva alla pubertà: quando


le ragazze affrontano il menarca e i ragazzi si sviluppano. In questa
fase (attorno 12/13), i ragazzi vengono circoncisi, mentre le ragazze
vengono sottoposte ad un rituale analogo che consiste nella
scissione delle gradi labbra: è una pratica di mutilazione sanzionata
dall’OMS.

I ragazzi vengono circoncisi in un rituale che li trasforma non in adulti, ma in giovani/moran, che hanno una
funzione particolare in questa società: i moran sono ragazzi circoncisi (hanno un’età dai 14/24-25 anni), e in
questi dieci anni i moran vivono per conto loro, lasciano il recinto domestico, recandosi a vivere nella Savana,
dove possono andare a caccia di animali selvaggi. Vivono tutti insieme, da soli, e non possono sposarsi in questa
fase: i moran hanno delle relazioni sessuali non ancora circoncise, oppure anche con donne circoncise ma
comunque adulte – che probabilmente hanno già sposato un patriarca.
Alla fine del moranato, alla fine dei 10 anni in cui conducono una vita libera coi coetanei, ci sarà una grande
cerimonia detta Leunoto, che è la più importante rito di passaggio masai, durante il quale gli anziani patriarchi
dichiarano finito il periodo di fase libera della vita, dopo la quale i giovani diventano maschi adulti e possono
sposarsi (e vengono anche loro definiti patriarchi. E così possono sposare quelle ragazze appena state circoncise,
perché – se per i ragazzi – esistono tre gradi sulla piramide, per le donne ne esistono solo due (non circoncise e
circoncise); queste potranno sposare i patriarchi – uomini più vecchi di loro di circa 10 anni o più. Data l’età dei
patriarchi, questi riescono ad esercitare un potere sulle donne.

Come si può vedere, la struttura di questa socità, concepita attraverso l’utilizzo dei principali riti di passaggio
(circoncisione ed eunoto), produce automaticamente delle relazioni altamente asimmetriche tra generi. Non è
presente un’uguaglianza di genere che è presente, ad esempio, tra i khoi-san. Qui per una pura ragione
demografica di età, le donne sono sottoposte al potere dei patriarchi. Anche dal punto di vista giuridico, questi
esercitano una forma di potere pronunciato sia sulle donne che sui bambini; in questa situazione esistono
persone che sono giuridicamente dipendenti – che non hanno autonomia o possibilità di possedere delle
proprietà (soprattutto il bestiame): donne non circoncise e circoncise, bambini. Il patriarca è l’unico a possedere
le donne, i bambini e il bestiame.

11 La struttura è molto simile a quella dei Nuer: i moran sono guerrieri. Il sistema però è ben strutturato, e la conflitualità non impatta
sull’equilibrio.
12 In molte lingue i bambini sono considerati neutri dal punto di vista del genere (child/children – boys, girls).
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In questa gerarchia di potere, i Moran sono esseri indipendenti e liberi, ma non possono possedere nulla e non
possono sposarsi: è come se per 10 anni i ragazzi vivessero una fase liminare – un lungo momento di passaggio,
durante il quale i ragazzi infrangono tutte le regole che, quando saranno adulti, dovranno rispettare. È una fase di
marginalità sociale, che i ragazzi sperimentano e durante la quale si sviluppano dei rapporti di amicizia e quasi
fratellanza tra il gruppo, e che poi rimarrano tutta la vita.

Per le donne, la circoncisione non comporta l’acquisizione di autonomia, a differenza degli uomini. Queste
dipendono dal marito o da qualunque relativo maschio, è necessaria sempre una figura maschile che si occupi
della loro sopravvivenza. Per quanto riguarda la circoncisione femminile, sono le donne ad applicarla, non è
un’imposizione maschile: le donne sono consapevoli che la pratica è funzionale a quel determinato tipo di società.

C’è un mito della circoncisione femminile che racconta come le donne, una volta, fossero guerriere e che queste
incontrarono un gruppo di pastori e che, questi guerrieri moran attaccarono con le donne, ferendole e creando la
vagina, che loro ancora non avevano. Da quel momento in poi le donne si unirono con i moran, rimasero incinte e
smisero di essere guerrieri, e divennero mogli. Quell’azione di incidere il corpo delle donne è l’origine della
circoncisione. È necessario circonciderle affinché diventino fertili: una donna non circoncisa non ha la possibilità di
prodursi. La fertilità è una costruzione sociale, non è necessario iniziarle attraverso una pratica che tolga loro la
verginità ma è necessario circonciderle affinché diventano fertili.

In queste culture il matrimonio crea alleanze tra i gruppi, e la sessualità si pone ad un livello diverso – è personale
e molto libera: il che porta ad una sostanziale tolleranza per un’adulterio, a meno che questo non sia conclamato.
Sposare in questo lingua è un verbo transitivo: l’uomo sposa una donna, ma non viceversa. E per questo è il
patriarca che sceglie la donna. Le donne (come i bambini e il bestiame) sono Enkitorria, cioè dipendenti dal
patriarca: all’interno della società esiste questo legge del rispetto (nkanit) delle regole, nonostante la violenza che
può subire. È una regola etica che le donne e i bambini seguono, che mantiene ciascuno a stesso posto. 13

LE MODIFICAZIONI GENITALI FEMMINILI

L’OMS ha guardato queste modificazioni classificandole in:

1. Clitoridectomia: eliminazione di quella considerata la parte maschile della donna, come il prepuzio è
considerato quella femminile.
2. Escissione (parziale/totale rimozione del clitoride e delle piccole labbra, con o senza escissione delle
grandi labbra.
3. Infibulazione (restribgimento dell’apertura vaginale, tagliando e riposizionando le labbra interne o
esterne (effettuata nell’antichità in Egitto o in tempo più recente in Sudan): è la pratica più dolorosa,
detta anche circoncisione faraonica. Nel momento del primo atto sessuale devono essere incise
nuovamente, e spesso vengono richiuse nel momento in cui il marito parte.
4. Altre procedure dolorose praticate sui genitali: punture, perforazioni, incisioni.

13
Il divorzio non è molto comune tra queste tipologie di società. In società in cui la struttura di genere è molto asimmetrica in cui le donne
sono particolarmente assoggettate agli uomini, il divorzio risulta molto raro.
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LA DEFINIZIONE DI GENERE

Il genere si distingue dal sesso: il sesso è il processo che attribuisce un sesso biologico ai neonati, e si fonda sul
patrimonio genetico (XY o XX), sullo sviluppo gonadico e degli ormoni, sul sesso anatomico e caratteri secondari.
Il genere, invece, deriva dall’inglese gender: nella nostra lingua risulta confuso, quando parliamo di genere riferito
al maschile e femminile, facciamo riferimento alla categoria grammaticale; così ci rediamo conto che attraverso i
processi antropo-poietici, la mascolinità o la femminilità sono culturalmente costruiti, secondo modelli variabili a
seconda delle culture. Sono costruite sia socialmente, che attraverso modificazioni genitali. È importante tenere
distinte la dimensione biologica del sesso da quella socio-cultuale del genere, per apprezzare il lavoro della
costruzione – nelle varie culture – del ruolo di donna o uomo: una donna Masai è diversa da un italiana, o da una
Khoi-San. Attribuisce ad una distinzione biologica attributi che si differenziano culturalmente.

Molte società considerano la possibilità di un uomo biologicamente tale, che sviluppa caratteristiche femminili e
viceversa. È importante studiare le specifiche costruzioni di genere di ogni società, e considerare il ruolo che la
comunicazione ha in questa costruzione dei modelli di genere. Sul corpo delle donne di Lorella Zanardo analizza
proprio questa impronta della società e dei suoi media sulla costruzione delle donne in italia.

LE SOCIETà CENTRALIZZATE
Il Rwanda

Queste società basano la loro economia sull’agricoltura o su forme più complesse. L’economia agricola è
fondamentale per sostenere l’organizzazione politica: solo un’economia che produce molti più beni rispetto alla
caccia e alla raccolta, e la pastorizia, consente di produrre un surplus (un oltre al fabbisogno) che può essere
utilizzato per mantenere delle persone che non lavorano, che fanno lavori specializzati al servizio della società.
Hanno quindi una produzione economica più importante, tramite l’agricoltura che è lo sfruttamento di risorse
specializzate, che permette la produzione di beni alimentari che possono anche essere conservati; così si crea
un’economia più produttiva, che consente un aumento demografico sostanziale, e consente anche uno sviluppo
di quello che Neil Durkheim definiva una forma di solidarietà organica. In una società meno produttiva c’è
comunque una solidarietà (come nei cacciatori-raccoglitori), ma è di tipo meccanico – che si sviluppa senza creare
ruoli particolari. In quelle centralizzate i compiti si specializzano, e in questo modo si coopera su una base di una
solidarietà in cui ognuno fa la sua parte, facendo in modo che la società si mantenga e progredisca. In particolare,
l’aumento della produzione agricola consente l’istituzione di ruoli politici, consente di avere e mantenere dei capi
e un apparato burocratico che svolge il suo lavoro per il buon funzionamento della società, apparato burocratico
necessario per le società centralizzate che sono molto numerose.
Queste società hanno un’economia redistributiva: si riesce a distribuire i beni tra i vari gruppi sociali, elemento
importante per la coesione sociale.

Altro aspetto da tenere presente è l’organizzazione territoriale di queste società: una società centralizzata occupa
un territorio più vasto, ma questo territorio è organizzato in centri (le capitali), che sono tipiche di questa
centralizzazione; il sovrano vive, normalmente, in un centro politico, da cui si diramano le sue prerogative di
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governo per controllare il territorio. Anche a livello urbanistico hanno caratteristiche particolari: queste società si
ritrovano ovunque, e anche il sistema urbano e l’urbanizzazione non sono appunto prerogative delle società
occidentali. Possiamo trovarle anche nel mondo extra-europeo, e hanno prodotto anche loro grandi città – magari
con caratteristiche diverse.

Una delle società centralizzate africane è il Rwanda: si trova


nel cuore dell’Africa dei grandi laghi. È un ottimo esempio di
questo tipo di società, che nasce anticamente in un contesto
extra-europeo, è ben organizzata e ha una situazione peculiare,
in cui il colonialismo ha portato a situazioni drammatiche, in
cui i media hanno un ruolo importante. Siamo nel cuore
dell’Africa sub-sahariana, nella regione del grandi laghi, in un
sistema idrografico complesso. In questa zona, per tante
ragioni legate all’ecologia soprattutto, si sono sviluppate molte
società centralizzate. Questi fattori ecologici quali sono? I
fattori di latitudine equatoriale e altitudine crea un clima molto
favorevole, in cui le precipitazioni rendono le terre fertili,
adatte all’agricoltura e al pascolo, portando ad una capacità
produttiva tale da permettere il passaggio alla centralizzazione.
Questo territorio è diviso tra cinque territori post-coloniali, che separano le etnie: l’arrivo degli europei impone
dei confini a queste: Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Rwanda, Tanzania, Burundi ULTIMO MANCA
Il Rwanda era un regno che aveva già grossomodo gli stessi confini già in epoca pre-coloniale: i colonizzatori prima
tedeschi e poi i belgi hanno deciso di tenere questi confini uguali a quelli precedenti, perché si trattava di regni già
coesi e definiti. Il Rwanda è un paese prettamente coloniale che sono quasi interamente disboscati: gli agricoltori,
a differenza dei cacciatori-raccoglitori, distruggono la foresta per impiantare i loro campi – c’è un pesante
intervento sulla natura. Queste popolazioni adottano un’agricoltura taglia e brucia: disboscano, bruciano il
terreno come fertilizzazione, sfruttano i terreni per 20/30 anni fino al termine della loro produttività, e si
spostano continuamente attuando lo stesso schema. Gli agricoltori di lingua bantu hanno tendenzialmente
disboscato la foresta per penetrare sempre di più al suo interno con i loro campi. La coltivazione di banane è
giunta in questa zona nel IX-X secolo: la diffusione di banane e platani ha creato una rivoluzione dal punto di vista
agricolo ed economico14, perché essa ha una produttività eccezionale; questo ha portato ad una consistente
spinta demografica. Ovviamente, oggi esistono anche coltivazioni di tipo estensivo (cash-crop), di tè, caffè, canna
da zucchero ecc. dettati in seguito alla colonizzazione e alla necessità di esportazione: in questo tipo di
produzione, anche in seguito al periodo di colonizzazione, si usano OGM per una produzione più estensiva.

Ma non sono solo agricoltori, ma anche pastori: interessante di questa regione è il fatto che, accanto ad
un’agricoltura che si sviluppa in maniera importante, si sviluppa anche tra XI e XII secolo una forma di
pastoralismo estensivo. Non sono però gli stessi gruppi che praticano agricoltura e pastoralismo: nella regione
convivono nelle stesse società gruppi delle due categorie. Le due economie si sono fuse in un sistema molto ben
integrato, in cui agricoltori e pastori si scambiano i beni che producono, secondo forme sociali complesse. Ancora
oggi, dentro le società dei grandi laghi, troviamo a convivere gruppi di agricoltori e pastori.
I pastori allevano vacche dell’Ankole, di cui hanno centinaia di capi da cui derivano speso prodotti caseari, ma non
carne – essendo una risorsa importante.

14 in queste culture le banane sono un cibo base, ma ha anche un importante significato simbolico e culturale.
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Com’era strutturato il regno pre-coloniale? Nella regione dei grandi laghi, fino ad un certo momento le società
erano di tipo lignatico-segmentario. Fin quando non fanno la loro comparsa i regni (XIV secolo), i gruppi di
quest’area erano organizzati in clan di discendenza patrilineari. Possiamo solo immaginare, non derivare da fonti
scritte, la struttura generale di questi gruppi. Fino a quel momento 1850-60, in questa società non c’era scrittura:
così la loro storia la ricaviamo dalla forma orale. Esiste una storiografia basata sulle tradizioni orali, e il Rwanda ne
era ricco: esistevano delle figure di bardi, specialisti della memoria storica, che ricordavano le genealogie dei
sovrani, e ricordavano a memoria dei poemi epici, in cui si tramandavano le storie e le gesta dei capi e degli eroi.
Studiando questi miti, gli storici hanno potuto ricostruire la storia pre-coloniale.
Sappiamo che attorno al XIV secolo emergono dei primi regni, formati da clan patrilineari che si spostavano sul
territorio nomadizzando. Ad un certo punto, questi si coalizzano per dar vita a dei regni, e ciò avviene sulla spinta
della crescita demografica, e probabilmente anche sulla spinta di migrazioni da nord che mettono in discussione
la situazione tradizionale; a quel punto emerge una società di tipo nuovo, in cui è presente un capo supremo –
una forma politica di tipo centralizzato, in cui vari clan creano una coalizione, in cui si elegge un sovrano. Il
Rwanda si forma come regno centralizzato (XVII sec.) e si dà una struttura politica raffinata, con al suo vertice un
sovrano mwami, che regna sulla società. Ma non si tratta di un sovrano assoluto: i sovrani di queste società
centralizzate non regnavano da soli, ma condividevano il potere con altre figure importanti (un apparato
burocratico). I mwami regnavano assieme a due figure femminili: notiamo come si utilizza il genere per bilanciare
il potere politico del sovrano. Egli regnava assieme alla madre e ad una sorellastra: la madre sovrana, in tutti
questi regi, è colei che tiene sotto controllo il potere del figlio, facendo in modo che non ne abusi; anche la
sorellastra ha una funzione politica analoga, di bilanciamento. La regalità era quindi bifronte, in cui il maschile e il
femminile dovevano essere presenti. A fianco, ancora, c’erano ministri, capi territoriali e – infine – il popolo.

Una caratteristica dei regni dei grandi laghi era la presenza di una stratificazione sociale: gruppi diversi con
occupazioni diverse. In Rwanda, come in Burundi, ci sono:

- gruppi di pastori Tutsi


- agricoltori Hutu
- minoranza pigmei (in origine cacciatori-raccoglitori) Twa;

In epoca pre-coloniale i tre gruppi coesistevano pacificamente nel regno, ma c’era tuttavia una marcata gerarchia
sociale, perché la dinastia regale erano Tutsi – al vertice del regno c’era un’aristocrazia pastorale. Il popolo, la
maggioranza, era costituito da contadini Hutu e una piccola percentuale di Twa. Queste tre classi occupazionali si
scambiavano beni attraverso un sistema ben regolato dal punto di vista giuridico: i signori Tutsi controllavano i
loro contadini Hutu, attraverso un contatto (un’istituzione giuridica) detto ubuhake (che ricorda la relazione
vassallatico beneficiaria feudale), cioè una relazione tra Tutsi e Hutu sugellata dal dono di un capo di bestiame;
così il contadino si legava a questo signore, a cui avrebbe dovuto sempre fornire derrate alimentari e delle corveé
(prestazioni professionali), il cambio il signore Tutsi proteggeva il contadino dalla violenza che poteva essere
esercitata sulla popolazione. Questa era una relazione ereditaria. Ovviamente, questi tre gruppi erano
tendenzialmente endogami (si sposavano al loro interno), ma poteva avvenire che ci fossero matrimoni misti – ad
esempio tra Hutu e Tutsi, e riusciva a recuperare capi di bestiame sufficienti, poteva diventare Tutsi. Tutte queste
sono classi occupazionali, in cui un Hutu poteva diventare Tutsi tramite l’accumulazione di bestiame.
I Twa avevano funzioni particolari nel regno: vivevano nella capitale e in questa avevano la funzione di poliziotti o
di musicisti, giocolieri, vivendo a corte a stretto contato col sovrano. La capitale aveva una caratteristica
particolare, differente dai centri che conosciamo, cioè era mobile: una sorte di corte itinerante. Alla morte del re
o durante il regno, questa veniva distrutta e spostata, questo per la necessità di circolazione del potere in tutto il
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regno; non essendoci modo di comunicare, ci si spostava a piedi ed era quindi necessario per il sovrano di
spostarsi sul territorio per portare la sua parola.

In epoca pre-coloniale, quindi, il Rwanda era una società stratificate, con rapporti disuguali ma con meccanismi
politici di bilanciamento e integrazione. Il potere politico era legato alla dimensione sacrale, alla sacralizzazione
del sovrano legato a dei rituali complessi. La regalità si trasmetteva all’interno di una dinastia, tuttavia un sovrano
poligamo aveva tanti figli. Ma in questi regni si evitava la regola della primogenitura, perché non si voleva una
successione automatica, ma una competizione tra i figli maschi del sovrano del defunto. Quando il sovrano
moriva, scoppiava il caos inter-regno, durante il quale i fratelli/figli si combattevano a vicenda, in modo da
esprimere il candidato migliore.

Cosa avviene il questo regno quando arrivarono gli europei? Il Rwanda venne attraversato per la prima volta
verso la fine del 1800, e colonizzato dai tedeschi nel 1890. Questa colonizzazione dura pochi anni, è superficiale, e
a loro subentrano i belgi dopo la prima guerra mondiale. Questi già controllavano il Congo, arrivando a controllare
Rwanda e Burundi. Assieme alla colonizzazione si ha il processo di evangelizzazione: questo viene integralmente
convertito dai missionari cattolici, i padri bianchi. L’evangelizzazione produce dei cambiamenti molto importanti:
questa penetra nelle coscienze popolari, cercando di modificare la loro visione del mondo e del potere politico e,
più in generale, la percezione della società.

All’arrivo degli europei, questi osservano i gruppi, e vedono in queste differenze tra Hutu e Tutsi (anche estetiche)
c’è qualcosa di particolare, che si può vedere anche sul piano estetico. Queste differenze somatiche esistevano,
ma forse erano anche il risultato di una strategia (i Tutsi si sposavano tra loro) dettata dal matrimonio e con la
dieta. Quando arrivano gli europei, questi notano in queste differenze somatiche una differenza razziale; subito
introducono l’idea che i tre gruppi siano tre razze differenti. E oltretutto, osservando la raffinatezza della corte,
fanno l’ipotesi camitica, ipotizzando che i Tutsi siano giunti da nord, dall’Etiopia o da un’altra società più evoluta,
dove le tradizioni del governo centralizzato erano ben sviluppate. Arrivati avrebbero sottomesso la popolazione,
portando il loro tipo di governo.

I missionari utilizzarono la loro prospettiva e, dal momento che l’amministrazione coloniale si bastava sul sistema
del governo indiretto (i belgi mediavano il loro potere attraverso i Tutsi), rafforzarono questo potere – costruendo
anche scuole per i Tutsi, per dargli strumenti in più. I contadini Hutu non vennero educati, le chiese furono per
lungo tempo separate, e in questa fase coloniale in Rwanda si sviluppava un apartheid, in cui gli Hutu erano
discriminati. Se in epoca pre-coloniale c’era la possibilità di passare da un gruppo all’altro, in periodo coloniale
quella possibilità è preclusa. Questa mobilità è bloccata tramite un censimento: bisognava definirsi in uno dei tre
gruppi, in base al numero di capi di bestiame posseduti. Per affermare questa divisione, si creano delle carte di
identità: su di queste viene scritto ubuoko, un temine neutro che non ha né significato razziale, né etnico (a
differenza di come viene tradotto); tuttavia, nella colonia belga, si trasformano queste definizione in definizioni
etniche. Questo irrigidimento crea un crescente malcontento da parte degli Hutu, che subiscono questa struttura
disegualitaria, in cui non si aveva un bilanciamento come nel mondo pre-coloniale.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, grande trauma sia per l’Europa che per le colonie, l’impero coloniale non è più
gestibile: iniziano le prime rivolte, che si manifestano in Rwanda con il malcontento degli Hutu. Gli intellettuali
Hutu si organizzano, e nel 1957 un gruppo capeggiato da Gregoire Kaybanda, scrivono il manifesto degli Hutu,
esprimendo il loro desiderio di ribaltare la situazione politica. Ma gli Hutu hanno completamente interiorizzato
l’idea delle tre etnie, e quindi vogliono che i Tutsi tornino da dove sono venuti. Il manifesto coalizza il desiderio di
rivalsa Hutu, e nel frattempo il Belgio comincia a smobilitare. Nel 1961 il Rwanda diventa una sorta di monarchia
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indipendente ma, con un colpo di stato, questa viene abolita. Gli Hutu, che avevano subito l’emarginazione di
questo sistema, vanno al potere e iniziano i primi massacri di Tutsi. L’ipotesi camitica è riutilizzata dagli Hutu per
perseguitare questi gruppi. I Tutsi iniziano una diaspora nei paesi confinanti: la violenza continua in maniera
strisciante e, tra gli anni ’60 e ’90 c’è un’escalation di episodi violenti che mostrano una deliberata preparazione.
L’amministrazione coloniale, ancora in auge, viene utilizzata dai capi villaggio/borgomastri per stilare le liste di
Tutsi da eliminare.

Scoppia, nel 1994, quello che è considerato l’ultimo grande genocidio del Novecento, e il più veloce: in tre mesi
vengono assassinate circa un milione di persone, in maggioranza Tutsi ma anche Hutu moderati. A capo del
conflitto l’abbattimento di un aereo con il presidente Rwanda e il presidente del Burundi: questo induce gli Hutu a
iniziare il genocidio.

Il genocidio dura tre mesi e produce due milioni di profughi: Sebastiano Salgado, fotografo, documenta questi
profughi in fuga verso il Congo. Fondamentale in questo genocidio fu il ruolo dei media: i media locale, in
particolare dei giornali (soprattutto Kangura), che iniziano la propaganda dell’odio, e la radio15; ruolo
fondamentale lo ebbe la radio-televisione libera delle mille colline: questa iniziò a trasmettere ossessivamente
l’incitamento all’odio, dicendo come bisognasse tagliare gli alberi più alti. Le milizie si armarono di machete,
andando per tre mesi in casa per casa per sterminare chi di dovere. Il tutto sotto gli occhi dell’opinione pubblica
occidentale, perché si conosceva la situazione generale: c’era con contingente di pace dell’ONU, che
disperatamente chiesero un intervento delle Nazioni Unite, ma queste presero una risoluzione di non intervento,
questo perché l’anno prima in un’attentato in Somalia erano state uccide una decina di Marines. Questo
genocidio proseguì, fino a quando Paul Kagame, presidente del Rwanda, rioccupò lo stato, terminando il
genocidio.

Cosa succede dopo il 1994? I genocidari Hutu fuggirono dal paese, aiutati dalla Francia con un corridoio
umanitario, in Congo – destabilizzando il territorio del Kivu e iniziando nel ’96 le guerre del Congo 16. In Rwanda
Kagame diventa presidente, cercando di riorganizzare una nazione distrutta dalla violenza. Lo fa riprendendo ed
ispirandosi alla presenza femminile nelle strutture politiche del Rwanda pre-coloniale, ricordando come queste
donne avessero avuto la funzione fondamentale di evitare gli abusi di potere. Così si istituisce il National Women
Council, affidando alle donne la gestione della ricostruzione. Questa è proceduta positivamente, e la presenza di
queste donne è molto importante: il 68% del parlamentari Rwandese è infatti di sesso femminile.

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La televisione è poco diffusa in Africa sub-sahariana, data anche da una rete elettrica poco capillare. La radio è olto più diffusa: il vero
medium di massa qui è la radio, che si collega anche alla dimensione di oralità tipica di queste culture.
16 La Francia aveva dei grossi interessi nell’area. La presenza dei missionari. Nell’ultima fase supportavano particolarmente gli Hutu, ma
fecero l’errore di non disarmarli nel loro passaggio in Congo, creando un uovo focolaio di guerra.
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PARTE SECONDA:

LO SGUARDO DELL’ANTROPOLOGIA NELLO STUDIO DEI MEDIA

I Media non sono oggetto di studio unico dell’antropologia, anzi questa si occupa tardi di questo argomento: si
struttura attorno agli anni ’90, mentre l’antropologia nasce nella seconda metà dell’800. I media, anche moderni –
come il cinema, sono già stati oggetti studiati da altre discipline come la sociologia. Bisogna capire in che termini
l’antropologia si avvicina allo sviluppo dei media.

Il concetto di cultura è lo studio principale dell’antropologia: bisogna immaginare che questa, quando si avvicina
allo studio dei media, gli studia come prodotti culturali. Non viene quindi studiata la cultura in generale, ma forme
particolari di cultura, le loro differenze. I media sono quindi relazionati a forme particolari di cultura: sono parte
della cultura, ma anche la cultura è un media come forma di mediazione.

Il concetto di cultura di Tylor ripresa da Primitive Culture, può essere letta con un occhio verso i media: i media
stessi sono al cuore di questa definizione; queste capacità ed abitudini si acquisiscono attraverso dei supporti, che
possono essere il diritto, la morale ecc. Quindi i media, che siano oralità, scrittura, dipinti, sculture o media
contemporanei, sono al cuore del concetto stesso di cultura. Quindi:

• Se avviciniamo la definizione di cultura di Tylor a quella di media, possiamo trarne l’idea che i media sono
ovunque, non sono solo frutto della modernità: dove c’è cultura ci sono esseri umani, in modo identico
possiamo dire dei media. E per questo, l’antropologia studia tutti i media – non solo i moderni –
sciogliendo il nesso media-modernità.

• Se la cultura in generale non esiste, ma esistono solo forme particolari di cultura, possiamo dire la stessa
cosa dei media: i media, in generale, non esistono – esistono solo media immersi in determinati contesti
culturali. L’antropologia, per studiare i media, partono dal contesto: gli antropologi in una società vedono
quali siano i loro media significativi, e da qui fanno cominciare il loro studio. Quindi non media che
dall’esterno hanno un impatto sulle culture, ma come elemento integrato in esse.

• Non esistono media senza cultura: non esistono media come strumenti tecnici e aculturali, come ad
esempio la fotografia; nel caso della fotografia analogica, nel nostro contesto culturale è diventato
strumento per catturare ricordi, per costruire la memoria; questo non era un legame intrinseco al
medium e necessario alla sua dimensione tecnica, era un nesso costruito culturalmente. Certamente nella
sua materialità, la fotografia consentiva questa possibilità – ma era comunque possibilità di costruzione di
ricordi, e non necessità. Nel contesto dell’Africa Occidentale, lo stesso media è stato usato per scopi
diversi: il gruppo etnico degli Yoruba diventa negli stessi anni ‘60/‘80 uno strumento per proiettarsi e
immaginarsi nel futuro, un gioco esplorativo; nel continente orientale, la fotografia è utilizzata in rituali
magico-religiosi per colpire misticamente la persona rappresentata. Sono tre concretizzazioni diverse
della fotografia, ed è questa differenza che interessa l’antropologia.

Esistono diverse forme di cultura, e i media esistono solo in contesti culturali, esistono forme diverse di uno
stesso media. La forma tecnica ha comunque un impatto, apre un ventaglio di possibilità che non è infinito: con la
macchina fotografica non posso rappresentare in 3D; ma a questa dimensione di durezza, che porta ad una certa
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formattazione della realtà, si accosta una dimensione fluida e indeterminata – le culture – che possono modellare
i media e fargli dire cose diverse.

Se colleghiamo la definizione di cultura in senso antropologico ai media, possiamo affermare che questi sono al
cuore delle dinamiche culturali: l’acquisizione non è possibile senza media, e quindi il nesso cultura-media si
declina nei termini di acquisizione e trasformazione culturale. Questo punto ci porta ad una questione molto
ampia, di cui l’antropologia e altri discipline si sono occupate: qual è la relazione tra media e globalizzazione? I
media sono uno strumento di livellamento, cancellano la differenza culturale (la teoria di imperialismo culturale,
l’americanizzazione del mondo)? Oppure i media esaltano la differenza culturale, perché permettono alle società
di far circolare le loro produzioni culturali a livello globale? Queste sono due grandi interrogativi che si pone
l’antropologia dei media e con cui si è confrontata. Si può intuire che l’antropologia abbia problematizzato la tesi
dell’imperialismo culturale.

Cosa sono i media in senso antropologico? Media e medium non sono sinonimi: queste evocano immagini
diverse, con significato diverso.

MEDIA MEDIUM
Tecnologia Parlare con l’aldilà
Strumenti di comunicazione Tramite
Canale di Trasmissione Due dimensioni
Mezzo e strumento Messaggio
Mass media Trasmissione
Insegnamento Canale
Supporto di informazione Rete
Collettività Ponte
Conoscenza Mediatore
Simultaneità Giornale
Collega mondi

Queste due accezioni della parola, ci permettono di mettere in luce diverse dimensioni che l’antropologia tiene
assieme: si può dire che l’antropologia studia i media alla luce dei medium e viceversa. Il medium, è più un ponte
che mette in contatto mondi diversi e lontani, e nel farlo li trasforma reciprocamente: si pensi allo sciamano, che
nei suoi viaggi mistici cura i malati, ristabilendo un’armonia tra il mondo degli spiriti e degli umani, e nel fare ciò si
trasforma, acquisisce conoscenza. C’è quindi un medium che trasmette un messaggio, trasformando i due e
mondi e sé stesso: di questo si è occupato l’antropologia. Quando si avvicina allo studio dei media in senso
moderno, lo fa alla luce di tutto il bagaglio di conoscenze accumulate con lo studio dei medium: le pratiche rituali,
di sciamanismo ecc., collegando questi due mondi apparentemente lontani.
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Quali domande specifiche porta dietro questo nesso tra medium e media?

• L’idea che i media non siano solo occidentali, ma sono di tutto il mondo: i canti rituali, il tamburo,
internet… e non studia solo i media recenti: amplia sia in senso spaziale che temporale lo sguardo. Non
c’è quindi uno sviluppo in cui un medium viene sostituito dall’altro, vi è l’idea che i panorami mediatici
siano complessi – in cui vecchi e nuovi coesistono (come la radio, che sopravvive alla televisione) oppure
si ricombinano tra di loro. Steve Jobs, ad esempio, presenta l’Iphone come combinazione di tre media:
Internet, telefono e IPod. Si tratta di studiare i media in senso allargato diacronicamente e
geograficamente e farli relazionare.

• Non si può studiare i media isolatamente: per capire come funziona la fotografia in una società, devo
studiarla in relazione agli altri media. Lo sviluppo della fotografia in occidente si sviluppa il relazione alla
pittura, in Africa con la scultura e via dicendo.

• Lo sguardo dell’antropologia ai media porta con se l’idea del medium come mediatore tra mondi: non c’è
una visione solo strumentale dei media come trasmettitori di un messaggio tra emittente e ricevente, ma
costruiscono relazioni, perché uniscono mondi, persone e realtà, tracciano relazioni. Si studia i media in
termini di relazione e mediazione tra realtà, come qualcosa che sta nel mezzo. Allargando ulteriormente
la concezione di media, la cultura è essa stessa forma di mediazione.

• I media hanno valenza politica: si studiano i media anche come mezzi che non si limitano a trasmettere,
ma hanno anche un impatto della realtà perché collegano – e nel momento in cui lo fanno escludono
qualcos’altro, perché la relazione che instaurano non può essere paritaria (cosa viene detto, a chi viene
detto, cosa viene nascosto…), e fa sì che i media possano diventare sito di conflittualità.

IL METODO DELL’ANTROPOLOGIA

Studia i media come prodotti culturali, immersi in contesti sociali specifici: ma con che metodo? In antropologia
classica, è utilizzato il metodo partecipante: in maniera semplice, anche nello studio dei media, l’antropologia
adotta questo stesso metodo. Se voglio studiare la produzione cinematografica di una certa società, non posso
solo guardare i film – ma devo partecipare al contesto di produzione. Un’osservazione che fa sì che non mi possa
limitare a guardare il contenuto del media, alle sue estetiche e i linguaggi utilizzati, ma mi faccia ampliare lo
sguardo per vedere cosa succede attorno al media e che impatto abbia sul prodotto finale. Nel fare ciò, gli stessi
antropologi utilizzano media come strumento/i di ricerca; questi stessi media non sono neutri: utilizzare un media
piuttosto che un altro, influenza il tipo di conoscenza, di relazione che instaura con le persone e gli interlocutori e
il tipo di prodotto finito – la formattazione è diversa tra film e monografia scritta.

QUANDO E COME NASCE L’ANTROPOLOGIA DEI MEDIA

Seppure studi antropologici dei media c’erano già stati prima, solo negli anni ’90 il campo vero e proprio si
struttura, e le prime ricerche avvengono a proposito della produzione audio-visiva. Le prime ricerche importanti
avvengono sulla produzione di film tra minoranze etniche. Il cinema non occidentale è quindi il primo oggetto di
studio: parlando di produzione filmica non occidentale, non si parla di qualcosa di marginale. Le principali
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industrie non occidentali sono Bollywood (India) e Nollywood (Nigeria): il primo si ritrova al terzo posto come
produzione mondiale. Uno dei film più visti di sempre è Awara del 1951, film indiano che ha avuto un successo
strepitoso, ma circolante solo in reti che toccano l’Europa e l’America solo trasversalmente. Fare antropologia del
cinema occidentale significa anche occuparsi di reti non mediatiche in cui quella occidentale non è al centro: sono
flussi he avvengono all’interno del Sud globale, si tratta di decentralizzarci – come antropologi dei media –
combattere l’etnocentrismo, andando a guardare altrove, ricercando sul campo – nei luoghi dove i film vengono
prodotti, e fare ricerca sulla sua distribuzione e il suo pubblico. Bisogna immergersi in una realtà non
cinematografica e off-screen, nei luoghi in cui sono prodotti e consumati.

Se si guardano i film attraverso questo metodo, si potranno analizzare e rendersi conto dei processi di
negoziazione e delle casualità di produzione culturale. Solo con la ricerca off-screen mi rendono conto degli errori,
delle gerarchie, delle conflittualità interne ecc. In questo senso arrivo a sciogliere la figura dell’autore unico dietro
la produzione dei film: la creazione del film sorge dall’interazione di una pluralità di attori. Si potrà vedere come
questa collaborazione di concretizza in molti esempi, secondo un’autorialità diffusa.

Studiare il cinema attraverso il metodo dell’osservazione partecipante, significa studiare progetti minori e falliti –
nel caso di Hollywood potrebbe prendere in considerazione le aspiranti star, i side-jobs degli aspiranti attori ecc.

L’idea che il film in quanto prodotto culturale non abbia significato unico: il pubblico partecipa a questa creazione
di significato. Bisogna analizzare le diverse forze in campo per capire come la produzione di un prodotto culturale
di frutto di negoziazione e casualità. L’idea è che la ricezione di un film non è qualcosa di passivo: il significato del
film non è tutto contenuto e determinato nel testo filmico. Un film non è interpretato allo stesso modo da tutti,
ma pubblici diversi con background culturali diversi lo interpreto in maniera diversa – hanno un ruolo attivo nella
costruzione del significato dei film. Bisogna rapportarsi anche con diversi pubblici per capire come leggono i film.

ANTROPOLOGIA DI UN FILM: UN FALSO OSSIMORO

Come mai questo ritardo? Proprio perché l’antropologia aveva fatto inizialmente sua che gli occidentali fossero
distruttori della cultura, l’antropologia andava contro i media – considerati distruttori del soggetto. Ma tale teoria
viene poi messa da parte:

La frase mostra come, dietro l’idea di media come uccisori della differenza culturale, sottolinei una passività delle
altre culture, che sarebbero inermi di fronti alla cultura occidentale più forte e potente (e superiore). Tale
affermazione svela questa visione delle culture altre come passive, sottese ad un’idea di media come distruttori
della differenza culturale. Un’antropologo – negli anni ’80 – accusa i suoi colleghi di appiattirsi sulla retorica,
andando in campi di ricerca a grande creatività culturale – lasciando da parte lo studio dei media nelle altre
culture. Questa idea di media come nemici della cultura e promotori di impoverimento culturale, ha portato ad un
certo ritardo allo studio di questo oggetto.
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NANOOK OF THE NORTH, 1922, ROBERT FLAHERTY

Emblematica di questa dicotomia che si sviluppa tra media moderni-culture altre è il caso degli inuit: il loro
coinvolgimento nella produzione di film è tutt’altro che recente; quello che viene considerato il primo
documentario realizzato è quello riportato nel titolo, che ha come oggetto la vita in Canada di un gruppo di inuit.
Il 1922 è una data importante in antropologia, in quanto è la data di uscita della monografia di Malinowski, che è
il padre fondatore del metodo antropologico dell’osservazione partecipante; ma questa è anche data importante
nella storia del cinema, in cui esce Nanook of the North: Robert Flaherty nel realizzare questo documentario,
applica un metodo che è in sintonia con il metodo dell’osservazione partecipante. Flaherty, che vuole girare un
documentario che ricostruisca la vita quotidiana di una famiglia di inuit, non si limita a girare velocemente in loco
il documentario, ma soggiorna per un lungo periodo presso la comunità e costruisce delle relazioni – anche di
fiducia – per coinvolgerli nel processo di produzione del film. Quindi, impara la lingua locale e spiega alla
comunità inuit cos’è un film, cosa significa produrlo, arrivando anche a trasmettere loro delle conoscenze
tecniche. Questa comunità, prima dell’incontro, non sapeva cosa fossero tutte queste nuove nozioni: Flaherty si
preoccupa di fargli comprendere il significato della finzione filmica, della produzione di un film-documentario e di
trasmettere loro conoscenze tecniche, tanto che alcuni di loro imparano a riparare l’attrezzatura, partecipano
attivamente alla produzione come camera operator, e Nanook stesso sarà in rado di riplasmare il suo ambiante di
vita sulle esigenze della sua comunità: quando Flaherty deve girare una scena nell’igloo, quello originale degli
inuit è piccolo anche per l’attrezzatura; così Nanook prova a costruire un igloo più grande, che crolla – costruisce
quindi metà igloo che dava l’illusione di essere all’interno di esso. Questo fa capire quanto questa comunità
avesse compreso il significato del film, e fosse coinvolto attivamente nella sua realizzazione.

Tutto ciò non lo comprendiamo se ci limitiamo a guardare solo il documentario: in questo viene proposta la
dicotomia netta tra inuit (minoranza) e la tecnologia mediatica moderna (estranea alla cultura locale).
In una parte del film sono presenti il protagonista con un grammofono, che ricostruisce un’estraneità dello stesso
rispetto a questa produzione mediatica. L’intera scienza si basa sull’osservazione, mentre i sensi sono più legati
alla maniera istintiva di conoscere il mondo – considerati primitivi. In questo video, Nanook si approccia ad una
tecnologia moderna attraverso quest’ultimo metodo, i sensi primitivi, con una comprensione pre-razionale; in
questo modo Flaherty ci presenta l’estraneità totale che Nanook e la sua comunità avrebbero rispetto ai media
moderni, ricostruendo l’illusione di un autore che cattura in maniera immediata.

Il caso di Nanook ci rivela l’atteggiamento che l’antropologia ha lungo ha avuto rispetto ai media presso società
altre, e quanto anche la partecipazione di minoranze alla produzione mediatica e a culture mediatiche come
quella cinematografica sia qualcosa tutt’altro che recente. Proprio tra le prime ricerche di antropologia dei media
condotte da Faye Ginsburg, si sono svolte tra le minoranze: questi studiano il particolare tipo di produzioni
audiovisive che le minoranze realizzavano per mantenere la loro peculiarità culturale, produzione intese da chi le
realizza come strumenti di conservazione della differenza cultura, di tramite per le tradizioni, che recuperano la
preoccupazione antropologica per la differenza culturale. Sono produzione intese per difendere la differenza
culturale. Faye le chiama screen memories, per indicare produzioni mediatiche riportate da minoranze, con uno
spirito di attivismo culturale, per conservare e tramandare le loro tradizioni che vedono minacciate nel contesto
degli stati nazionali. Tra le screen memories che prende in considerazione degli anni ’70, c’è proprio questa degli
inuit. In questi anni, un’organizzazione attivista chiede una licenza per aprire un canale satellitare per combattere
il fatto che la televisione canadese non gli dava nessuna visibilità a questa società – erano sempre rappresentati
da altri. Così gli inuit si ritrovavano a consumare prodotti mediatici in cui la loro cultura, il loro stile di vita e la loro
lingua non erano rappresentati, non trovavano spazio nella sfera pubblica (peculiarità propria di molte altre
minoranza), non erano presenti auto-rappresentazioni. Per combattere ciò, questa associazione prova a
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domandare una licenza per iniziare una produzione inuit, in lingua inuit per un pubblico inuit. Questa
programmazione ha come oggetto la storia locale inuit: si recuperano tecniche di caccia, di pesca, di costruzione
facendo dei brevi filmati con funzione di trasmissione della conoscenza alle nuove generazioni. Queste produzioni
sono le prime ad essere studiate dagli antropologi: al centro vi è l’idea della difesa della differenza culturale.

Queste screen-memories – all’apparenza piuttosto semplici – portano al centro il legame tra media e differenza
culturale: cosa significa filmare una cultura? È possibile conservare le culture in questo modo? È un grande
dibattito: cosa succede se una leggenda orale viene trasformata in un filmato? Si perde/guadagna qualcosa
passando da oralità a video? Questo riporta all’idea se i media trasferiscano o se trasformano nelle loro
trasposizioni. Ci si è chiesti se queste screen-memories ci restituiscano le voci delle minoranze, oppure se queste
vengono trasformate nella trasposizione. Questo è un dibattito che può essere riassunto in maniera semplificata
individuando due estremi:

• C’è chi è pro, che afferma come ci sia una completa trasparenza tra minoranza e media, e così io possa
trasferire. Così le screen-memories sono immediate.
• C’è chi è contro, che afferma che non è possibile essere trasparenti, perché nel momento in cui si
trasporta sui media, queste culture si trasformano. Si impacchettano le culture in una forma comunicativa
occidentale, e in qualche modo la cultura si occidentalizza.

La complessità di culture come quella inuit non può essere espressa in forma adeguata nel documentario, e la
trasformazione diventa anche semplificazione. Altri pongono attenzione alla materialità della macchina da presa,
con l’idea che si guarda il mondo attraverso la macchina: cambia il modo di percepire e relazionarci alla realtà,
creando uno shift di percezione, che a sua volta innesca un cambiamento, e mostrerà la cultura in maniera
diversa. E qui ancora l’idea che non si possa conservare qualcosa come una cultura indigena attraverso le screen-
memories: si modifica nello stesso tempo in cui si rappresenta.

Questi due poli ci appaiono estremi ed inconciliabili. Ma è possibile una mediazione che ci porti a riflettere sulla
posizione che Faye adotta ed elabora?

Il link riporta una clip del primo lungometraggio inuit, Atanarjuat – the fast runner, che ha ottenuto uno
strepitoso successo, arrivando fino a Cannes. Il lungometraggio riprende una leggenda inuit che parla di questo
fast runner, un giovane inuit che ha causato una gelosia del figlio e del capo, a causa del matrimonio che ha avuto
con due mogli, che hanno ucciso suo fratello e lo costringono a scappare. La leggenda finiva in maniera
sanguinosa, il film invece con la riconciliazione.

Gli anziani locali hanno dimenticato delle cose, quindi per recuperare certe cose e capire come ambientarla, il
regista non si limita alle interviste, ma consulta anche delle fonti che appartengono ai primi esploratori europei,
che nei loro diari raccontavano le società inuit che incontravano. Così ricostruiscono abitudini e costumi. Si
mostra così una produzione stratificata, che mette in scena una leggenda – ma con un finale diverso – che è
ricostruita attraverso non solo interviste agli anziani, ma con fonti parallele degli esploratori.
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OLTRE LA DICOTOMIA CONSERVARE/OCCIDENTALIZZARE

Ma come si fa a capire quanto di quello che stiamo vedendo sia inuit, e quanto è in linea con il cinema
occidentale? Qual è la sua specificità? La cultura locale ha impatto sul modo di narare? C’è un’estetica inuit?
Lo stile di recitazione dipende dalla cultura nella quali si è immersi: esistono diversi criteri per giudicare una
buona recitazione; quella che appare naturale è solo un tipo tra i tanti di concepire la recitazione. L’enfatizzazione
può essere apprezzata o meno, può essere adatta a trasmettere qualcosa.
In questo caso, si rompe la finzione filmica e si guarda in camera – rompendo quella nostra concezione della
recitazione. Non sappiamo se sia una rappresentazione naturale, o impostata per il lungometraggio.
Il film ci permette di fare un ponte tra il mondo degli inuit e quello occidentale: con le screen-memories si va oltre
la dicotomia conservare-distruggere, oltre la dicotomia citata nei punti precedenti. Faye afferma che bisogna
soffermassi sull’idea dello stare in mezzo tra due mondi; queste memories vanno considerate come prodotti
inter-culturali, oltre il media come rappresentazione di una cultura. Tutto nasce da un’esigenza creata da un
incrocio di sguardi: sono produzioni-ponte interculturali, parlano agli inuit, ma non si fermano lì. Vogliono parlare
oltre questa comunità, per far conoscere la storia e i punti di vista interni a questa, anche in altre lingue: in questo
caso il mondo non-inuit è quello canadese, e quello delle altre minoranze nel mondo. Ad esempio, possiamo
vedere un dialogo tra inuit e aborigeni australiani: questi ultimi, a loro volta, usano gli stessi mezzi per combattere
la loro battaglia.

L’idea del ponte rimanda all’idea di costruzione di relazioni: oltre l’idea di conservare e occidentalizzare, sono
produzioni che trasformano le culture; queste sono in continuo movimento, sono vive e in continua mutazione e
dinamismo. E, la produzione di screen memories partecipa alla dinamicità di queste culture. E, come ponti,
costruiscono relazioni tra generazioni, tra minoranza e non minoranza, e tra minoranze stesse. Stanno in un
panorama in cui globale e locale si costruiscono e non sono in opposizione.

Nel considerare come queste produzioni trasformano, si può riflettere su come i media non rappresentino realtà
che pre-esistono: non danno voce a comunità pre-formate, ma partecipano alle dinamiche delle comunità che
vogliono rappresentare, costruiscono la realtà che rappresentano. Ovviamente, nel portare avanti questo tipo di
trasformazioni, dobbiamo considerare il fatto che dobbiamo portare avanti battaglie di tipo politico: nel caso delle
screen-memories è evidente; gli inuit, tramite queste, vogliono acquisire visibilità e dare spazio ad una contro-
rappresentazione positiva ripresa dall’interno. Partecipare alla sfera pubblica tramite l’audio-visivo, permette di
proporre un’alternativa, che presenti l’associazione inuit-primitività come inesatta.
Si è visto quindi come le screen memories trasformino partecipando alle dinamiche culturali, che permettono
alle culture di rimanere ed essere vitali, rispondendo alle sfide che si presentano.

Da un lato, gli inuit erano oggetto di rappresentazione – quindi con questo film danno nuovo significato allo storia
inuit; dall’altro lato, trasformando la realtà che vanno a rappresentare, le attribuiscono un nuovo significato. La
leggenda inuit, che da orale diventa film, si trasforma e acquisisce nuovo significato.
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BOLLYWOOD

Una vera propria industria cinematografica: non ci si trova più all’interno di un contesto di nicchia, con produzioni
e circuiti che non toccano un pubblico di massa, ma nella più grande industria cinematografica al mondo.
Spostarsi da Hollywood non significa parlare di produzioni minoritarie e locali, ma anzi – le due più grandi
industrie – sono al di fuori di America ed Europa: India e Nigeria.

Anche le produzioni cinematografiche commerciali si interrogano sul valore della diversità culturale, su come
costruirla e mantenerla in relazione al modello mainstream di Hollywood. Bollywood è un cinema che è nato negli
anni ’10 nel ‘900, variegato di generi e che è cambiato nel tempo. In sintesi, analizziamo il remaking di film
americani, provando ad affrontare il tema della relazione media-differenza culturale attraverso l’analisi
antropologica del remaking. È considerato una sorta di trovata commerciale: si riprende un film di successo in una
certa parte del mondo, e lo si ricrea – spesso per motivazioni economiche – in un altro contesto. Ma dobbiamo
analizzarlo da un punto di vista antropologico, sottolineando le dimensioni prettamente culturali. Abbiamo
sempre sottolineato l’idea di media come ponte, e quindi vediamo il remaking come una relazione/mediazione tra
mondi diversi: in questo caso, America ed India.

La città cuore di Bollywood è Bombay (o Mumbai), sulla costa ovest dell’India; la maggior parte dei film di questa
produzione sono in hinglish – un mix tra la lingua locale e l’inglese (considerando che l’India era colonia
britannica), oppure in dialetto, misto tra hindi e urdu, una lingua comprensibile sia a chi parla hindi che urdu,
venendo compresi così da un ampio pubblico.

• Fase dell’esordio:Quando si dice che è la prima industria cinematografica al mondo, si parla di una
produzione di circa 2000 nuovi film all’anno. Il nome Bollywood rimanda ad Hollywood e deriva dalla crasi
del nome della capitale e quella della città del cinema, e si diffonde – il nome – dagli anni sessanta. La
produzione inizia nel 1913 con Raja Harishchandra, ancora sotto il governo coloniale inglese (che durerà
fino al ’47): siamo in un contesto di colonizzazione; questo contesto politico influenza il tipo di film
prodotti: non si producono film impegnati politicamente, che vanno a portare avanti una critica allo
status quo, o messaggi di tipo sociali – il clima coloniale non lo avrebbe permesso. Si producono, in
questo momento, film di evasione: musical romantici e altri, con intenti quasi totalmente commerciali. In
questo tali non incontrano opposizione da parte dell’amministrazione, che incoraggia le produzioni di
questo tipo. Preferisce una produzione di evasione, piuttosto che nello stile di Hollywood: questi erano
visti negativamente, perché si vede in essi un elemento di pericolo contro la loro supremazia in India,
vengono considerati diseducativi per il pubblico locale perché porterebbero ai loro occhi un
rovesciamento dello sguardo; qui infatti i britannici si vedevano come superiori alla popolazione coloniale,
e miravano a mantenere questa diseguaglianza: i film di Hollywood rischiavano di rovesciare lo sguardo,
che mostrerebbero i bianchi nella loro quotidianità, minando la relazione di distanza e superiorità che gli
inglesi volevano mantenere. In secondo luogo, vi è un problema dei primi piani sulle attrici bianche: non
vogliono che lo sguardo degli indiani possano avvicinarsi alla figura delle donne bianche. C’è una visione
razzista, in cui gli uomini sono considerati incapaci di controllare i loro stimoli, che cerca di accorciare la
distanza tra uomini locali e corpo delle donne bianche. Così si tende a favorire una produzione di film
locali proprio per limitare questo accesso alla filmografia americana.

• Età dell’oro: verso la fine del colonialismo inglese, fino agli anni ’60, in cui inizia una produzione di film più
impegnati socialmente, portando alla nascita di una filmografia più impegnata.
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• Fase della Bollywood classica (anni ‘70/‘80): in cui nasce il tipo di filmografia che noi conosciamo, il
masala film, che come le spezie, sono è un mix di generi – commedia, musical, romanticismo, thriller –
portando avanti tante linee narrative intersecate tra loro. È il genere che ha reso Bollywood famoso a
livello globale.

• New Bollywood: la Bollywood contemporanea, globale, con uno star-system sviluppato ed una diffusione
internazionale.

UNA RICERCA ANTROPOLOGICA SU BOLLYWOOD: IL REMAKE HOLLYWOODIANO


(Avvai Shanmughi – Mrs. Doubtfire)

Affrontando la differenza culturale attraverso una lente diversa e utilizzando la ricerca, l’antropologa Ganti ha
fatto un ricerca antropologica del tema Hollywood-Bollywood. Ha compiuto questa ricerca viaggiando sul campo
per vede come questi film fossero prodotti, secondo il solito metodo dell’osservazione partecipante: Ganti
frequenta il mondo del cinema di Bombay, i provini, i casting, i set, le riunioni di lavoro con lo staff, i cinema per
studiarne la ricezione; e affronta la vita quotidiana dei suoi componenti, per studiare come contesti e produzione
filmica si intreccino. Ganti partecipa nelle vesti di assistente alla regia, per cercare di cogliere il punto di vista
interno di chi vive e lavoro in quell’ambito. Da qui, osserva che molte attività che vendono nel mondo
cinematografico indiano, non trovano un corrispettivo americano: ci sono delle specificità culturali – ha figure
professionali e obiettivi non coincidenti con hollywood. Viene attratta dalla comune attività di visione di film
americani che i registi compiono, per capire se sia possibile farne un remake locale. In particolare, in queste
sedute, registi e sceneggiatori discutono di temi di identità, di differenza culturale, appartenenza e
rappresentazione, di possibile ricezione e adesione al contesto culturale locale – per capire se un film americano
può essere trasformato in un film indiano; vengono sottolineate quindi delle differenze di ricezione,
trasformazione e rappresentazione che possono cambiare tra film americani e film indiani, e come queste
possano essere accettate dal pubblico indiano, e se possa rappresentarsi in questi remake. Sono tutte variabili
non direttamente riconducibili all’ambito economico: vengono considerate anche variabili culturali/di differenza;
in questo senso, il remaking attrae l’antropologa, che andrà ad analizzarlo, evidenziando come questi traducano,
trasformino e correggano. Secondo Ganti, è il processo di rimediazione attraverso il quale il popolo indiano
ricostruisce una sua differenza rispetto alla società americana, come questa pensi sé stessa in relazione agli altri.

Tutto ciò porta a riflettere su come i media partecipino alla formazione dell’identità e delle appartenenze in
maniera complessa: non abbiamo una comunità già costituita e i media la rappresentano; nel momento in cui
Ganti evidenzia come il remake sia un processo di costruzione identitaria e di differenza, vediamo come i media
partecipino alla costruzione di questi. L’identità non esiste a priori, ma questa è in continua costruzione – a cui i
media partecipano attivamente. Il remake è un processo di trasformazione che comprende queste questioni
identitarie, un processo di traduzione, trasformazione e rimediazione dei film americani in indiani, formando
l’identità sulla base delle differenze.

La tesi dell’imperialismo culturale: le culture altre vengono investite dalle grandi potenze e assumono
passivamente alcune caratteristiche. Questo nel caso di Bollywood non vale particolarmente: esistono dei
mediatori culturali che fanno sì che i flussi mediatici globali non investano direttamente il pubblico, ma ci sia
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l’operazione di remaking nel mezzo, che rende digeribile il flusso al pubblico locale 17. C’è un attivismo: non c’è un
pubblico passivo che viene investito dai flussi globali, ma è presente una risposta attiva a questi flussi – il remake
– che porta al consumo locale. Si osserva in questo caso una creatività culturale dei flussi globali, per creare un
prodotto adatto alla cultura in cui approdano le idee. Non è comunque da considerare un’appiattimento verso
l’occidentalizzazione. Con il remake, siamo di fronte a flussi mediatici globali che non arrivano fino a noi – o ci
sfiorano solo18. Bollywood ha un grande seguito in Africa: non a caso, qui abbiamo remaking dei film indiani con
caratteristiche locali.

IL REMAKE DI MRS. DOUBTFIRE

Daniel Hillard viene licenziato perché improvvisa battute durante il doppiaggio. La moglie Miranda, preoccupata per la
Versione americana

sorte dei tre figli, chiede il divorzio, insieme all’affidamento dei tre bambini: Daniel potrà vederli soltanto nei week-
end. Costretta ad assumere una governante, Miranda mette un’inserzione sul giornale: Daniel, che è affezionato ai
figli, si inventa un travestimento da anziana istitutrice inglese e si presenta nella casa dell’ex moglie. Irriconoscibile,
viene assunto come “Mrs. Doubtfire” e può occuparsi dei figli. Frattanto riesce a trovare un lavoro da facchino in un
centro di produzione televisiva dove viene notato dal produttore mentre si diverte ad inventare un programma per
ragazzi. Ottiene così un lavoro; riesce a rendere confortevole il modesto appartamento in cui abita. Intanto a casa
dell’ex moglie tutto si svolge nel migliore dei modi: riesce ad avere le confidenze di Miranda e di Lydia, Chris e Natalie,
dei quali avverte l’affetto e la nostalgia per il padre, riuscendo anche a mettere zizzania fra la sua ex moglie e Stu, il
nuovo fidanzato. Al ristorante il pranzo con il produttore coincide con il pranzo di fidanzamento di Miranda con Stu.
Daniel viene smascherato ma riesce ad ottenere l’affetto dei figli e forse di Miranda, che capisce quanto sia
importante Daniel per i ragazzi.

17i film americani rifatti con il processo di remaking hanno più successo degli originali: la gente comune preferisce il remake rispetto al
doppiaggio in lingue locali. Ganti dice che Hollywood non è considerata una vera e propria concorrente dai filmmaker indiani, proprio
perché – se non vengono rimediati e trasformati in maniera indiana – i film indiano non hanno grande successo presso il pubblico indiano.

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esistono festival corrispondenti a quelli americani: questi hanno criteri per valutare i film che non necessariamente corrispondono alla
variante americana; i criteri di giudizio, infatti, non sono universali ma culturali. Cambiando la cultura cinematografica, cambiano i criteri di
giudizio per valutare un’opera (in questo caso si parla di etno-estetica).
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Janaki, una donna sposata che vive separata dal marito, lotta per il divorzio dal marito Pandian. Offre varie ragioni per
Versione indiana:

volere il divorzio. Ha sposato Pandian contro i desideri del ricco padre Vishwanathan Iyer. Ma non è in grado di venire
a patti con la vita nella piccola casa di Pandian senza servizi. Pandian è un assistente regista di danza con un reddito
modesto e non è in grado di trascorrere molto tempo con la famiglia. Tutto questo si accumula e Janaki decide di
chiedere il divorzio, che è concesso. Il tribunale ordina a Pandian di incontrare sua figlia Barathi, una volta alla
settimana e questo è il suo unico conforto. Barathi, tuttavia, lo ama molto e non gli piace l'accordo.
Basha, amico musulmano di Pandian, gli consiglia di rubare sua figlia da Janaki. Pandian acconsente, ma nel farlo viene
scoperto; ora non può assolutamente incontrarla. Quindi Pandian scopre che Vishwanathan Iyer ha pubblicizzato una
donna che si prende cura di sua nipote. In una conversazione con Joseph, un truccatore, Pandian ha l'idea di
interpretare una vecchia, in modo che possa stare con il suo bambino e la sua ex moglie senza che loro lo sappiano.
Joseph concorda con questo piano e la trasformazione viene fatta da Pandian ad "Avvai Shanmugi", una donna
anziana e degna Iyer all'età di circa 70 anni. Shanmugi fa domanda per il lavoro, ma viene respinta come un'altra
donna era stata scelta. Ma Viswanathan rifiuta il suo primo assunzione da quando ha avuto un'infatuazione dopo aver
guardato Shanmugi, facendo immediatamente Viswanathan assumere Shanmugi. Per le prime 2 settimane, l'intera
famiglia non era a suo agio con Shanmugi come cameriera. Quando Barathi viene ferito mentre spara fuochi d'artificio
e prende fuoco, Shanmugi la lancia in uno stagno contro i desideri della famiglia, che crede che avvolgere la lana sia il
modo giusto per spegnere un incendio. Quando un dottore viene a dare un'occhiata alla ferita di Barathi, elogia
Shanmugi per aver somministrato il trattamento giusto, il che induce la famiglia a pensare che Shanmugi fosse
un'opzione migliore e a tenerla rimasta a casa. Poco dopo, tutti i membri della famiglia iniziarono ad avvicinarsi a
Shanmugi, inclusi Janaki e Barathi. Quando Barathi incontra correttamente Shanmugi, la riconosce quasi
immediatamente come Pandian, ma accetta di non rivelare il suo segreto.
Rathna è una ragazza innamorata di Pandian, ma viene costantemente respinta. Basha assume il ruolo di muto cuoco
Iyer ed è ammesso nella casa di Vishwanathan Iyer su raccomandazione di Shanmugi. Tuttavia, Basha viene catturato
più tardi mentre fa il suo namaz, mandando in frantumi entrambe le menzogne - che è muto e un Iyer. Seguono
circostanze esilaranti e lentamente Shanmugi riesce a convincere la famiglia della sua sincerità. Tanto che il padre
vedovo di Janaki inizia a provare simpatia per Shanmugi e in effetti lo propone anche a lei. Nello stesso periodo,
Mudaliyar, la padrona di casa del luogo in cui vive Pandian, simpatizzando con lei per essere vedova, si imbatte in
Shanmugi. Questo succede molte volte e anche Mudaliyar inizia a provare simpatia per lei.
Nel frattempo, Pandian inizia lentamente a rendersi conto che Janaki non lo ha completamente dimenticato.
Shanmugi respinge le proposte di Vishwanathan dicendo che suo marito è vivo. Aggiungendo al caos, dice a
Vishwanathan che Joseph è suo marito; mentre Pandian dice a Sethurama, segretario di Vishwanathan, che Mudaliyar
è il marito di Shanumgi. C'è molta confusione dopo questo, ma alla fine si risolve. Avvai Shanmugi convince
Vishwanathan che il posto giusto di Janaki è quello di suo marito. Mentre il padre di Janaki va a parlare con il suo
estraneo genero, Shanmugi rivela il suo vero io come Pandian a Basha rimuovendo la camicetta. Lo vede Janaki, che
fraintende la scena e crede che Shanmugi sia una seduttrice. Janaki va a casa di Pandian per reclamarlo, ma vedendo
Rathna che aspetta lì, e gli abiti di Shanmugi in giro, pensa che anche suo marito sia promiscuo. Janaki lascia e tenta il
suicidio tentando di saltare in un fiume, ma Shanmugi la ferma. Shanmugi rivela la sua identità di Pandian. Janaki e
Pandian si riconciliano, mentre Pandian uccide Shanmugi attribuendo la sua morte all'annegamento nel tentativo di
salvare Janaki dal suicidio.
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La versione indiana non è fatta per un pubblico come noi: può essere bellissimo per noi, ma il giudizio estetico ha
ragioni diverse da quelle del pubblico indiano. L’idea centrale del travestimento del padre per vedere i figli è
comune, ma molti altri dettagli sono diversi.

Cosa pensano di dover fare i registi indiani per creare un remake?

• Bisogna aggiungere un universo morale, immergendo le trame in esso – sostituendo le scene di sesso, e
trattando le pulsioni, con danze e canti.

• Bisogna immergere i personaggi in una rete di relazioni più ampia: in Hollywood non si conoscono mai i
genitori dei personaggi, spesso sono individui non connessi – non sono nodi di relazioni più ampie.
Bisogna aggiungere dele relazioni perché il film risponda alle esigenze del pubblico indiano

• Bisogna aggiungere movimento emotivo: per fare questo caricano i personaggi.

• Bisogna aggiungere linee narrative inclini allo stile masala: sottotrame che aggiungano ingredienti al film.

• Bisogna aggiungere musica, balli e canti: non rappresentano sospensioni temporanee della trama, ma
contribuiscono a portare avanti la storia. Questa si esprime attraverso una forma diversa da quella di
hollywood.

Si può così osservare l’aspetto culturale del remake, che cosa i registi pensano di dover fare per far sì che questo
sia accettato e permetta identificazione col pubblico indiano. In questa lettura del remake si può osservare come
questo remake non serva ad addolcire la differenza america-india, ma sia sito della costruzione di questa
differenza tra le due. Attraverso la riflessione tra indiano-non indiano, costruiscono questa differenza attraverso
operazioni interne al film.

Lo studio antropologico ci permette di sfumare la linea temporale produzione-ricezione di un film: nel caso dei
produttori di Bollywood, la ricezione avviene prima della produzione del remake. In secondo luogo, mostra come
l’idea di pubblico/audience sia al cuore della produzione filmica, quindi un’idea di pubblico e ricezione che
avviene prima della produzione.

Non abbiamo flussi mediatici globali che investono una realtà locale passiva, in maniera immediata e senza che ci
sia qualcosa di mezzo: in questo caso, i film-maker prendono questi flussi da intermediari e li inseriscono nei
media, una rimediazione dei media. Bollywood è molto amato in Africa: qui abbiamo un altro caso di
rimediazione, e non flussi culturali che impattano in maniera immediata. Anche qui sono presenti figure di
mediatori: nel caso della Nigeria, giovani locali guardano film di Bollywood e ne fanno qualcos’altro,
trasformandoli e riformattando il contenuto in un altro medium; I film indiani diventano romanzi, canzoni e film a
loro volta remake. Questo passaggio di contenuti, che si trasformano in questo passaggio di riformattazione tra
media alla luce del contesto culturale (es. film > romanzo) è detto appunto rimediazione tra media, ponendo
l’attenzione sulla trasformazione in questo trasferimento.
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LO SCANDALO DEL CINEMA VIDEO AFRICANO E LA RAPPRESENTAZIONE DELL’AFRICA


Esempi dalla Nigeria

Il primo film in Ghana risale al 1992 quindi agli esordi di Nollywood e ci parla immediatamente di un cinema che
esce dalla dimensione locale per raggiungere una dimensione transnazionale.

Queste locandine hanno un impatto forte, scioccante, e sembrano proporre


un’immagine dell’Africa e degli africani molto negativa, con pratiche
primitive e disumane (esempio: il cannibalismo).
È una filmografia che possiamo definire scandalosa perché ci pone davanti
una rappresentazione complessa, problematica che pone diversi
interrogativi e a lungo etichettata come rappresentazione che gli africani
danno di loro stessi che vanno a però a perpetuare l’immagina dell’Africa
prodotta all’esterno; una rappresentazione di sé volta al negativo dove la
tradizione è presentata non come qualcosa da tramandare, conservare ma
da condannare.
L'antropologia è stata la prima disciplina a prendere sul serio questa
filmografia senza etichettarla come cinema spazzatura o che propone
sempre le stesse tematiche negative e razziste. L’antropologia mette in
relazione questa filmografia con i contesti nei quali è prodotta, consumata e
da lì è in grado di riprodurre l'interesse culturale e sociale, politico ed
economico.

Gli antropologi hanno visto che in Nigeria Nollywood aveva un grandissimo successo, veniva apprezzato dal
pubblico locale e anche nazionale dunque se vogliamo uno sguardo antropologico, non decidiamo a priori ciò che
è degno di essere studiato, ma andiamo a vedere che cosa le persone in un determinato contesto considerano
interessanti.

Cinema coloniale

Il cinema coloniale nasce nella seconda metà dell'800 quando la Nigeria è una colonia inglese e gli inglesi, così
come le altre potenze coloniali in Africa, usano il cinema con scopi di dominio.
Vengono girati in Africa due tipi di film:

• Film di propaganda girati nelle colonie per pubblico europeo, dunque girano nelle loro colonie ma le
immaginano per il pubblico europeo e soprattutto quello inglese perché attraverso la produzione di film
che, possiamo definire di propaganda, vogliono legittimare l’impresa coloniale dunque spiegare dal loro
punto di vista il colonialismo e creare consenso attorno l’impresa coloniale. Fanno questo attraverso la
realizzazione di film che mostrano i colonizzatori come civilizzatori, non come sfruttatori, sono benefattori
che portano la civiltà e modernità presso società selvagge e primitive.
- Cast misti: registi e sceneggiatori europei, attori europei e africani
- I personaggi sono per esempio ingegnere, dottore, missionario, amministratore coloniale per quanto
riguarda gli uomini bianchi ed invece personaggi tipo come l’africano docile, selvaggio, feroce,
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stregone, ecc. Trama: ci sono personaggi europei, bianchi colonizzatori, portatori di scienza, conoscenza,
razionalità, che vogliono curare, creare infrastrutture, portare progetti che vanno a migliorare vita locale e
dall’altra parte abbiamo africani primitivi che non capiscono, arretrati, che cercano di opporsi ai progetti
dell’Occidente che inevitabilmente alla fine trionfano.
Il pubblico pensato è, come detto precedentemente, il pubblico europeo e il modello possiamo
riscontrarlo in Nanook of the North dove, in maniera diversa, troviamo quella stessa idea di indigeni
completamente estranei alla modernità, alla tecnologia cinematografica che incarna la modernità.
I personaggi africani sono attori che mettono in scena il primitivo, lo stregone, ecc. ma queste produzioni
vengono presentate come documentaristiche, si nega quindi il fatto che gli africani partecipino
attivamente e si dedichino alla finzione e al film.

• Film di propaganda girati nelle colonie per il pubblico delle colonie cioè girano in Africa dei film che sono
diretti al pubblico europeo. L’Inghilterra apre delle vere e proprie case di produzioni (la prima: Colonial
Film Unit) per finanziare produzioni di film per il pubblico delle sue colonie perché vede nel cinema un
efficace strumento di dominio dove questi film vengono intesi come film pedagogici, in grado di istruire
(civilizzare), modernizzare i locali attraverso storie didattiche che insegnano valori, abitudini, pratiche
dell’Occidente agli africani. Esattamente come l’altro tipo di produzione, anche in questo troviamo una
rappresentazione della cultura locale come negativa, arretrata, pericolosa per gli stessi membri di quella
collettività che, grazie al consumo dei film, devo rendersi conto dei limiti dell’universo locale,
abbandonarlo e aprirsi alla cultura Occidentale.

Rappresentazione dell’Africa dopo l’indipendenza (anni ’60)

Quando i cineasti africani dell’Africa indipendente iniziano a realizzare i loro film si trovano a doversi confrontare
con la produzione coloniale e con la rappresentazione dell’Africa, delle sue culture che era propria del cinema
coloniale (fortemente razzista),che un po’ riprende l’immagine dell’Africa di cinema commerciali come Hollywood
e provano a combattere quest’idea proponendo una contro rappresentazione che costruisse la prima
rappresentazione cinematografica dell’Africa, realizzata da africani. Questo significava proporre un’auto
rappresentazione che mostrasse il valore della propria cultura e che facesse questo attraverso un linguaggio
cinematografico che fosse locale, che non riprendesse i linguaggi della cinematografia Occidentale e quindi che si
trattasse di elaborare una vera e propria tradizione cinematografica africana.
Questi film così impegnati, che hanno come pubblico quello africano, in Africa non piacciono, non li conosce
nessuno, circolano poco perché le sale cinematografiche sono poche e tendono a non trasmettere la filmografia
africana, e il pubblico non si riconosce

Vuole essere una filmografia autenticamente africana, intellettuale e quindi paradossalmente piace molto agli
intellettuali europei. Il grande pubblico nigeriano invece guarda film stranieri, che apprezza e che fanno la sua
cultura cinematografica. Da un lato abbiamo sale cinematografiche che sono poche e che tendono a trasmettere
film stranieri, di serie b, film che hanno diritti di diffusione bassi e dunque facilmente acquistabili (film di arti
marziali, movie americani, vecchi film indiani), ma anche la televisione tende ad avere una scarsa
programmazione locale; questo anche perché compagnie straniere (francesi, inglese) regalano le soap opera o
telefilm alla televisione africana per adeguarsi alla bassa capacità di spesa degli acquirenti locali, ma anche
seguendo una vera e propria politica di espansionismo culturale tanto che la programmazione televisiva sul
continente era per lo più occupata da una programmazione straniera, ad esempio, a Capo Verde il 90% era
prodotto altrove. Infine abbiamo i video club, cinema informali ovvero chi non può permettersi il cinema, non ha
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accesso e non ha un televisore privato, può entrare nei video club per un prezzo accessibile anche dai quartieri
dove troverà delle panche e un televisore (con lettore vhs) che trasmette delle videocassette piratate di film che
fanno parte della cultura popolare mondiale. Spazi dove si guardano i film collettivamente, frequentati dalle
persone dei quartieri popolari, principalmente uomini, che si riuniscono per guardare la TV e i film.
La tecnologia video va quindi a inserirsi in strati sociali diversi da quelli dei cineasti africani impegnati ed
accessibile alle masse che la usano per fare film in cui si riconoscevano e che a loro piacevano. Si tratta di
ragionare sulla relazione produzione e consumo ovvero quanto questa produzione digitale, video possa essere
considerata una copia e quanto invece ci sia creatività e rielaborazione.

“Nollywood” è un nome che non è stato dato da coloro che lavorano nelle industrie del cinema nigeriano, ma è
un nome che proviene dall’esterno ed è stato dato nel 2002 da un giornalista del New York Times componendo le
parole “Nigeria” e “Hollywood”. È un nome che arriva abbastanza tardi se pensiamo al fatto che i primi video film
vengono prodotti tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 (anche se il primo film di Nollywood viene
comunemente considerato Living in Bondage del 1992 in quanto è il primo film ad aver avuto grande successo e
per questo viene considerato il primo film).

Se il nome “Nollywood” viene criticato per la sua assonanza con Hollywood, i nigeriani lo apprezzano ed iniziano
ad utilizzarlo loro stessi proprio per questa assonanza: avere un nome che così richiama l’industria più potente era
visto come segno di prestigio, un nome che veicola le ambizioni dei film maker nigeriani che vogliono imporsi sulla
scena mondiale e quindi diventare una cinematografia mainstream, guardata e consumata in contesti diversi e a
livello globale.

Nollywood è qualcosa di significativo da un punto di vista quantitativo in quanto è la seconda industria


cinematografica al mondo per numero di film prodotti all’anno ed è qualcosa di rilevante per quanto riguarda pil
della Nigeria, andando a costituire l’1,2% della Nigeria e quindi ha un impatto economico sulla vita del paese non
trascurabile soprattutto se pensiamo a un paese come la Nigeria che ha puntato sull’ estrazione del petrolio.
La nascita di una produzione “popolare”

Il contesto di crisi economica di fine anni ’80 e inizio anni ’90 crea le condizioni fertili per la nascita di Nollywood.
La Nigeria ha un debito pubblico enorme ed è costretta ad accettare dalla banca centrale dei prestiti che
avvengono a patto che si introducano dei piani di aggiustamento strutturale che prevede anche liberalizzazioni
economiche cioè l’arrivo di merci e prodotti che prima non disponibili come la tecnologia video. In secondo luogo,
i piani di strutturamento prevedono tagli alla spesa pubblica quindi i salari vengono tagliati, si attuano dei
licenziamenti di massa dal settore pubblico, molte persone vengono mandate in prepensionamento e si bloccano
assunzioni nel settore pubblico.

Nei primi decenni post indipendenza (anni ‘60-’70) la Nigeria ha vissuto un periodo di espansione economica dove
era fattibile, per chi riusciva a studiare e laurearsi, trovare un impiego nel settore pubblico e questo tracciava la
strada per la mobilità sociale ascendente; vi era l’idea che chi studiava, si laureava poteva accedere a uno stile di
vita fatto di un certo benessere economico, ma con i tagli, ovviamente, il settore si contrae, si sgretola. Ci
ritroviamo dunque con un aumento della disoccupazione giovanile, anche fra giovani che hanno livello di studi
elevato e che quindi devono inventarsi nuove strade per guadagnarsi da vivere.

Infine, la crisi economica va a colpire anche le forme di intrattenimento tradizionali: l’aumento esponenziale della
criminalità porta i cinema pian piano a chiudere, la televisione ha le stesse difficoltà perché il taglio della spesa
pubblica ha effetti sulla televisione pubblica e quindi viene licenziato il personale, non si investe più nella
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produzione locale e si ha una diminuzione della qualità della programmazione. Inoltre vi era soprattutto una
forma di teatro popolare, itinerante dove le compagnie portavano i loro spettacoli in giro per il paese e, con
l’aumento della criminalità, viaggiare diventa qualcosa di pericoloso quindi le compagnie, a mano a mano, si
sciolgono o trasformano i loro spettacoli da live a programmi televisivi o spettacoli in VHS.

Il combinarsi di questi tre elementi (crisi delle forme di intrattenimento tradizionali, la disoccupazione giovanile e
la disponibilità della tecnologia video) crea terreno favorevole a una produzione video locale per una produzione
commerciale cioè giovani locali si appropriano della tecnologia video per realizzare film che sono intesi come
merci da vendere al pubblico locale. Essi utilizzano il formato del VHS, home video cioè della videocassetta che
può essere distribuita velocemente tramite bancarelle, commercio ambulante per raggiungere subito il pubblico,
bypassando i problemi della televisione e del cinema, e per essere consumata nei video club o nelle case private
quindi in ambienti sicuri, che non comportano il dover uscire di casa, allontanarsi dal proprio quartiere,
raggiungere sale cinematografiche che era diventato qualcosa di pericoloso.

Nollywood nasce a Lagos in quello strato sociale medio-basso urbano costituito da tanti giovani che avevano
importanti ambizioni e che si trovano a confrontarsi con beni nuovi che sviluppano in loro un desiderio di
acquisto, possesso, di un certo stile di vita che non sembra facilmente appagabile proprio per la crisi economica.
I protagonisti del primo video “Living in Bondage”:

• Kenneth Nnebue: imprenditore mediatico che commercia in prodotti mediatici piratati. Nnebue mette in
campo la conoscenza del mercato informale, com’è possibile smerciare una videocassetta e raggiungere
velocemente il pubblico. È il produttore.

• Okechukwu Ogunjiofor: sceneggiatore, neo laureato che non ha trovato lavoro dunque appartiene a quei
giovani che non riescono ad essere assunti nella funzione pubblica e mette in campo delle competenze di
tipo intellettuale, scrive la sceneggiatura che, a detta sua, è ispirata alla sua stessa biografia.

• Chris Obi Rapu: regista che lavora per ... nigeriana che sta attraversando periodo di difficoltà economica e
quindi accetta di partecipare come regista come lavoretto per arrotondare il suo salario

Il protagonista di Living in Bondage è Andy, ragazzo di Lagos che pur avendo studiato non riesce a trovare un lavoro che gli
permetta di mantenersi e nel frattempo vede tutti i suoi ex compagni di scuola che hanno stili di vita molti lussuosi, hanno
accesso a beni della modernità e che lui può solo permettersi di vedere ma non di acquistare.
Ad un certo punto, uno dei suoi ex compagni di scuola rivela il segreto di come è riuscito ad arricchirsi ed invita Andy a
partecipare di una setta che promette un arricchimento facile e veloce che arriva in cambio di un sacrificio umano infatti lo
spirito chiede a Andy di sacrificare la persona sua più cara. Andy rimane sconvolto, cerca di aggirare la domanda offrendo in
sacrificio una prostituta ma non funziona ed Andy si convince a sacrificare sua moglie. Andy diventa ricco, ha accesso allo stile
di vita moderna, si risposa però il fantasma della moglie morta comincia ad apparirgli portandolo alla follia. Andy diventa pazzo,
lo vediamo mangiare spazzatura in mezzo alla strada ed incontra quella prostituta che voleva sacrificare e che ha cambiato vita,
si è convertita alla religione pentecostale e decide di portarlo in chiesa dove Andy viene esorcizzato, e quindi liberato dai vincoli
di questi spiriti.

Il problema delle sette nella Nigeria degli anni ’90 era un problema che causava un grande allarme sociale; Living
in Bondage non era letto come fiction ma come un film che smascherava ciò che tutti sapevano, ciò di cui tutti
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mormoravano ma che nessuno aveva il coraggio di mettere in scena in questa maniera, denunciando la pratica
del sacrificio umano agli spiriti per poter accedere a beni materiali.

Quali reazioni ha suscitato questo film?


Il film ha suscitato scandalo fra gli intellettuali; è un film che mostra come le credenze locali siano violente,
materialistiche, che portano alla rovina coloro che le seguono e ovviamente il film viene condannato in quanto
visto come controproducente, visto come una riproposizione dell’immagine negativa dell’Africa dominante nei
media con l’aggravante che si trattava di un’autorappresentazione.
Il cinema è animato da una grande ricerca estetica, da un linguaggio cinematografico autoctono e questo film
viene condannato anche per la poca ricerca estetica.
Etnoestetica: criteri di giudizio locali; ciò che è considerato bello varia da cultura a cultura. Se noi applichiamo i
nostri criteri estetici, adottiamo uno sguardo etnocentrico cioè trasferiamo le nostra categorie sugli altri e li
guardiamo attraverso le nostre (non c’è ricerca estetica),ma se guardiamo le etno-estetiche allora possiamo
renderci conto della ricerca estetica che anima produzioni anche low cost come Living in Bondage, solo che si
ricerca qualcosa che non corrisponde a quello che ricercheremmo noi. Per esempio, il valore dell’originalità non è
universale: film come Living in Bondage funzionano da traino infatti tanti giovani, visto il successo, si gettano nella
produzione di film e tanti vanno a riprendere la stessa trama che rielaborano ma, appunto, il valore dell’originalità
non è universale e nel contesto nigeriano, come in altri africani, è molto più apprezzata la variazione sul tema
ovvero saper prendere un tema e lavorarci sopra, introdurre delle variazioni. Ugualmente è apprezzatissimo il
moralismo.

La religione pentecostale è un ramo del cristianesimo che prende estremamente piede in Nigeria e l’antropologa
Meyer Birgit prova a dare una spiegazione al successo di questa religione: a differenza del cattolicesimo, la
religione pentecostale ha un atteggiamento rispetto alle credenze tradizionali africani diverso ovvero, mentre il
cattolicesimo ci dice che le forze mistiche e gli spiriti non esistono, che sono superstiziosi da combattere, la
pentecostale dice che esistono, hanno una lavoro efficacia ma il mondo spirituale tradizionale è satanizzato e
visto negativamente.

Gli intellettuali, che vengono da questa filmografia che vuole decolonizzare l’immaginario e liberarlo dalle
influenze della colonizzazione, vedono in questa filmografia qualcosa di negativo, un fallimento di quella versione
negativa della cultura locale contro la quale si batteva il cinema d’autore.
Come è stato detto precedentemente, la prima disciplina a considerare seriamente Nollywood è l’antropologia
che trova alcuni punti di interesse:

• Il sincretismo: espressione di nuove forme di immaginazione vs modello dell’imperialismo culturale. Non


è visto come plagio, anzi, fa parte di uno di quei tratti che fanno di un film, un buon film. → Un'estetica
del cambiamento che vuole ricombinare il materiale a disposizione nel panorama mediatico locale. Gli
intellettuali vedevano nel sincretismo un limite che li faceva dipendere dagli ex colonizzatori.

• Diari sociali della Nigeria. Le ricerche antropologiche riguardano sia la produzione dei film sia il loro
pubblico: cogliamo così come si tratti di una produzione che non evita i problemi della Nigeria, ma, anzi,
da voce ed esprime le ansie, paure, ambizioni e desiderio che anima i giovani di Lagos dell'epoca e per
questo si parla di Nollywood come “diario sociale della Nigeria”. Erano film con tempi di produzione
ridotti che permettevano di assorbire temi di attualità.
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• Critica alla modernità: la denuncia delle diseguaglianze e la violenza dell’esperienza della modernità
locale (invece che riproposizioni di immagini primitiveggianti) [Blood Money e Glamour Girls19] Se siamo
più attenti al contesto socio-culturale possiamo vedere come i film diano voce all’ansia e all’insicurezza
materiale e spirituale degli abitanti di Legos degli anni ’90, e come portino avanti una critica verso la
società Nigeriana dell’epoca, fatta di diseguaglianze tra élite e maggioranza povera. Film come il primo
denunciano questa insicurezza, il senso di precarietà e l’estrema tensione sociale, lo sfruttamento da
parte delle minoranze attraverso un linguaggio locale (la stregoneria, le sette, le élite che si arricchiscono
a spese dei più deboli, il sacrificio). Dietro lo stile di vita moderno ci sono rituali, un mondo magico.
Abbiamo una modernità che è l’altra faccia della tradizione: modernità e tradizioni vanno assieme. La
modernità ha un lato oscuro fatto di rituali, anche violenti, di sfruttamento e di guadagno di ricchezza a
spesa della maggioranza povera20. Il sacrificio svuota e consuma la maggioranza della popolazione per
ingrandire un élite.

In Blood Money, il protagonista è un direttore di banca che cade nella tentazione dell’arricchimento facile e
veloce. Prima prova con l’organizzazione di alcune truffe, che non hanno successo; così decide di entrare nel culto
satanico di Voltures, dove riceve una banconota magica che deve dare ad un bambino (che incarna il futuro del
paese). Questo si trasforma in una macchina per fare soldi, venendo chiuso in una stanza della casa di Mike,
vomitando soldi. Per farlo, ha bisogno di essere alimentato attraverso sacrifici umani; Mike sacrifica tutti i membri
della sua famiglia, rimanendo alla fine individualizzato. Completamente solo, impazzisce. Parallelamente, c’è il
tema di commercio di parti umane: un altro personaggio si arricchisce vendendo a imprenditori stranieri bianchi
organi che ha strappato dal corpo di giovani nigeriani; attraverso l’idea del commercio di organi si tematizzano le
diseguaglianze che legano la Nigeria all’Europa, in cui si risucchiano risorse del paese verso l’esterno, a scapito dei
giovani Nigeriani; ma tematizza anche la responsabilità delle élite in tutto ciò: si sacrifica il benessere collettivo
del paese creando alleanze con classi dirigenti di altri paesi. La paura di essere rapiti per il commercio di organi è
una paura anch’essa diffusa nel paese.

19
Glamour Girls parla della migrazione di donne nigeriane in Italia.
20
I film nigeriani sostanzialmente sono misogini, che classifica il mono femminile in due categorie: la donna buona e pura, oppure la donna
cattiva/prostituta. La donna urbana che sceglie di non sposarsi e ha ambizioni sociali è condannata dalla maggior parte dei film di
Nollywood come come donna pericolosa ed egoista, fuori dagli schemi. Allo stesso modo si trovano donne all’interno delle sette.
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LA FOTOGRAFIA
Il ruolo della fotografia famigliare e quotidiana

Due aspetti da approfondire:

• I media come qualcosa che sta nel mezzo e costruiscono relazione, attraverso la fotografia quotidiana.
• Rifocalizzare la differenza media-differenza culturale, come la fotografia può dire cose diverse in differenti
contesti culturali: come la fotografia analogica, nella nostra cultura sia stata una pratica legata alla vita
famigliare e al desiderio di costruire una memoria (l’album fotografico), e come questa sia stata usata
come legame col passato; e come, in altri contesti (come nel caso dell’Africa Occidentale, in Nigeria) sia
stata invece utilizzata per viaggiare dal presente al futuro possibile.

La fotografa ha sviluppato un progetto fotografico sulla famiglia della classe media. Un’approccio che si utilizza
per lo studio della fotografia è quello dell’analisi testuale: si va a guardare una fotografia come fosse un testo; va
letto scomponendolo nelle sue varie parti, vedendo come il fotografo ha composto l’immagine, per poi capire in
quale modo - attraverso varie scelte – viene trasmesso un messaggio ed un significato. Si analizza la fotografia,
non la si inserisce in un contesto, non si guarda come questa circola e a chi è diretta, non si guardano le foto non
sviluppate… ma si fa un’analisi contenuta nell’oggetto che vogliamo studiare.

Nella foto, adottando questo approccio, guardiamo come le figure sono


disposte, quale sia lo sfondo, le pose delle figure, un’analisi delle
impressione che questa può dare; possiamo osservare la simmetria dei
corpi e come questa può rompersi ecc. Tutto quello che cogliamo nella
foto può rimandare a delle impressioni e delle spiegazioni: attraverso
questa analisi della costruzione della fotografia possiamo ricostruire
quale messaggio la fotografa/o ha voluto trasmetterci. La Arbus, ad
esempio, forse ha voluto confezionare un messaggio rimandante alla
solitudine della famiglia media americana, alla distanza dei componenti,
un messaggio provocatorio che gioca con il suo titolo.

Diane Arbus, Famiglia sul prato di una casa, Come si è visto, non ci si immerge del contesto di produzione e
una domenica a Westchester, NY (1949) distribuzione, non è stato necessario esaminare la temporalità, ma
abbiamo sviluppato un’analisi interna alla fotografia. Ma questo non è
l’approccio a cui si limita l’antropologia: è necessario immergere i media nel contesto di produzione – questo fa
l’antropologia anche quando si tratta di analizzare la fotografia. È interessante cosa la fotografa ha voluto
trasmetterci tramite la sua fotografia.

Quali ragionamenti, mosse e movimenti diversi o complementari fa l’antropologia durante lo studio della
fotografia? Generalmente, la maggior parte delle ricerche in questo campo non si sono occupate di fotografi
professionisti, ma di fotografia sviluppata da gente comune, una fotografia vernacolare; e ha adottato un sguardo
che va oltre la considerazione della fotografia come testo, si immerge nei contesti di vita delle persone. Si tratta
quindi di guardare a quella realtà attorno all’immagine, ciò che succede prima-durante-dopo lo scatto. Bisogna
andare a vedere quale ruolo svolge la fotografia nella vita quotidiana, un’analisi che sconfina oltre il medium in
sé. Come fa tutto questo? Sempre tramite l’osservazione partecipante, recandosi e frequentando le situazioni
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sociali in cui si scattano foto, capire cosa si è fotografato e cosa non è oggetto di fotografia. Esistono situazioni,
oggetti e persone che vengono fotografati, e altri che non lo sono. La fotografia è quindi culturalmente
determinata. L’antropologia si chiede per chi si fanno foto, dove si pubblicano, quali si pubblicano e in che modo
si mostrano. Se voglio adottare uno sguardo antropologico, ciò che interessa non è una tendenza innata separata
dalla cultura: ciò che si sceglie di fotografare, è qualcosa di culturalmente determinato, naturalizzato. È
importante andare in altre culture, perché quando si studia un certa cultura molte cose risultano banali e quasi
invisibili; allora, passando da altre culture, ciò che gli altri vedono come scontato a me apparirà strano: e su
questo devo soffermarmi per arrivare a capirlo, ed è qui che sta il valore del mio sguardo straniero, che riesce a
cogliere ciò che è invisibile a quella cultura; e, tornando indietro, posso rendermi conto che ciò che è scontato per
me è in realtà frutto di una scelta culturale. La cultura influisce sempre sull’inconscio.

Un’altra delle tecniche usate dall’antropologia è quella dell’elicitazione. In questo modo, installando una
relazione di fiducia (ad esempio) con i ragazzi che fanno foto con i cellulari, analizzerò il loro modo di fare
fotografia, facendomi spiegare il perché e il come delle foto, che messaggio trasmettono, come sono state fatte
ecc.
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La fotografia quotidiana è quella di cui spesso si è occupata l’antropologia, come di tutte le micro-pratiche
quotidiane. Quali metodi vengono utilizzati per studiare la fotografia?

• Lettura testuale ed elicitazione


• Fotografie amatoriali, quotidiani, vernacolari, popolari e commerciali: la fotografia al singolare non essiste
• Dimensione sensoriale: improtanza non solo all’interpretazione mentaleI ma anche ai sensi del corpo.

Anche qui è presente osservazione partecipante: si osserva cosa succede prima dello satto, attraerso quali mani
passano le fotografie, dove vengono appese e conservate, come vengono dimenticate, quali interpretazioni
vengono date, che emozioni suscitano… tutto ciò è possibile tramite la frequentazione dei contesti in cui si
produce-si fa uso delle fotografie. Esistono ifnatti diverse culture/linguaggi fotografici; non dobbiamo proiettare
su altri la nostra cultura ftografica, ma dobbiamo elicitare per scoprire le altre culture fotografiche.

Quale ruolo svolge la fotografia nella vita quotidiana delle persone? Come la fotografia gioca un ruolo nel mondo
in cui sognamo, desideriamo , ricordiamo, pensiamo, agiamo e ci connettiamo? Sono tutte domande lecite nello
studio antropologico della fotografia. Cosa diventa di volta in volta il linguaggio fotografico vernacolare? Bisogna
immergere la fotografia nella dimensione dell’esperienza quotidiana per andare a vedere gli usi locali della
fotografia, cosa vuole dire un popolo quando utilizza la fotografia. L’antropologia si cala nei contesti, quindi anche
quando si parla di fotografia non lo si fa in generale.

LA CULTURA KODAK

Gli album fotografici sono oggetti culturali a cui siamo abituati. Alcune ricerche degli anni ’70 e ’80 nel contesto
culturale occidentale viene effettuato uno studio antropologico sulla cultura kodak, costruita attorno all’attività
della fotografia analogica amatoriale. La fotografia analogica ha avuto un ruolo particolare nella vita quotidiana,
nel modo in cui abbiamo ricordato e agiamo e ci connettiamo.

Un momento di svolta della fotografia è avvenuto quando la Kodak ha lanciato la macchina fotografia brownie,
con un’importante caratteristica: facile da usare, economica e leggera; una macchina fotografica che non
comportava grande competenze tecniche (you press the button, we do the rest), che facilita così la diffusione di
una fotografia popolare e amatoriale. Ha una grande diffusione, e diventa col tempo un oggetto onnipresente
nelle famiglie di classe media delle famiglie degli anni ’70 e ’80.

Come pubblicizza la Kodak questa fotografia? Per rendere la macchina oggetto di


uso comune, utilizza varie pubblicità: queste creano un legame tra la fotografia e i
figli, la vita di coppia, la famiglia, la sfera affettiva e l’idea di conservazione; un
legame tra il mondo degli affetti, dei momenti positivi che si vogliono conservare
e non dimenticare. Ma ciò è innato nella tecnologia fotografica, o è qualcosa di
culturale? Non era iscritto nella tecnologia che questa fosse utilizzata per
catturare i ricordi: tutto è successo perché si è scelta la strada di quella
potenzialità della tecnologia fotografica. Nella nostra cultura fotografica, la
fotografia ha giocato un ruolo nella sfera degli affetti e del
mantenimento/costruzione di un ricordo.
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In genere, differenza grande rispetto ad oggi, la macchina fotografica era un possesso famigliare – e non
individuale. Nella cultura Kodak la macchina fotografica era un’oggetto famigliare, ma non tutti i membri
potevano maneggiarlo: generalmente era il padre di famiglia che scattava le fotografie. Lo sguardo dietro alle
fotografie quindi è uno sguardo maschile adulto, qualcosa di diverso rispetto ad oggi, che ci fa riflettere su una
dimensione di scelta che c’è dietro gli usi dei media. Le famiglie compravano la macchina fotografica: la nascita di
un figlio, o in occasione di un viaggio.

Abbiamo un grande numero di fotografie prodotte, ma cosa si fotografava? Si privilegiano alcuni oggetti (anche
per il costo economico del rullino), ci sono delle scelte dettate dall’inclinazione culturale: nella cultura Kodak, si
fotografava soprattutto persone amate, vita famigliare, nuovi acquisti importanti o viaggi; erano assenti il mondo
lavorativo, le persone sgradite, i momenti tristi e la banalità della vita quotidiana (che è grande protagonista,
invece, della nostra vita quotidiana contemporanea).. Difficilmente si fotografavano sconosciuti o qualcuno con
cui non si aveva relazione significativa (se si pensa al taglio di una fotografia della parte con una persona sgradita,
si può notare come nella fotografia debbano rientrare personalità a noi gradevoli). Ciò che colpisce è che tutto ciò
mostra l’esistenza di un’uniformità della fotografia: in molti album sono presenti foto molto simili come tema;
tale uniformità fa pensare all’esistenza di una cultura fotografica condivisa, che fa sì che le persone scattino lo
stesso tipo di foto.

Concentrandosi sulle etno-estetiche, una fotografia ben riuscita è tale quando:

- È presente una composizione dei soggetti gradevole


- Quando le persone sorridono
- Quando non è mossa, senza altre considerazioni estetiche

È importante individuare il nesso fotografia-memoria: la fotografia entra nei meccanismi di costruzione della
memoria, diversamente da oggi che è a condivisione immediata e spesso non recuperabile. La fotografia non si
limita però a registrare passivamente la memoria, partecipa invece alla strutturazione della memoria/dei ricordi.
Nel momento in cui fotografo, costruiscono un ricordo un futuro e come quello verrà ricordato: per questo chiedo
di cambiare espressione. In questo modo il ricordo potrà essere consumato con nostalgia, che è il mood fondante
della fotografia che stiamo analizzando. C’è un legame attivo e stretto con la memoria, in cui la fotografia
struttura il ricordo futuro della nostra vita.

La fotografia costruisce relazioni e appartenenze, cioè non registra ma performa. Una fotografia che non registra
solo la vita famigliare, ma interviene nella costruzione delle relazioni famigliari, e del senso di appartenenza
all’identità famigliare. Si immagini come se un membro mancasse da ogni fotografia all’interno dell’album: ciò
non sarebbe semplicemente una marginalità semplicemente registrata, ma contribuisce a consolidare questa
marginalità; come il rifiuto di farsi fotografare collabora alla creazione di un’idea di marginalità: la fotografia
struttura i ruoli/identità famigliari, partecipando attivamente all’attività famigliare, non limitandosi solo a
registrarla. E se la fotografia può cementare delle relazioni, può anche distruggerle: fotografare una persona in
maniera non appropriata, violando l’etichetta fotografica (per esempio, fotografare qualcuno in momenti
imbarazzante), può andare ad incrinare la relazione sociale.

Nei riti di passaggio la fotografie svolgono un ruolo fondamentale. Perché? Primo, per la dimensione del ricordo.
Ma si deve anche vedere come questa partecipi al rito di passaggio – immortalando l’evento – e sancisca questo
nuovo status. Questa fotografia si inserisce in una narrazione del soggetto, e addomestica questi momenti di
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cambiamento: inserisce il soggetto in una narrazione di sviluppo. Di nuovo si ha una fotografia che interviene
nelle situazioni sociali in cui viene utilizzata, in questo caso nel momento di cambiamento di status.
Utilizzare la fotografia in questi momenti di trasformazione aiuta ad addomesticare questi momenti, rendendoli
da un lato consumabili in un futuro/renderli accettabili e poi, inserendoli in una successione (come un album
fotografico), il momento di cambiamento è inserito in una linea di sviluppo del soggetto; l’essere inserito in una
successione, ci mostra come la rottura non sia radicale: in questo modo il cambiamento è addomesticato, non si
vede come una rottura quell’evento che è stato documentato: fotografia come aiuto per questi momenti
critici/di svolta, in cui si compiono passaggi in cui il buon esito non è scontato.

Per la fotografia analogica occidentale è possibile concludere che: vengono scattate in momenti speciali, in cui le
persone propongono il loro lato migliore, positivo, mostrano conquiste e momenti importanti; la fotografia della
cultura Kodak ci mostra gli individui in momenti in cui si comportano bene e sono felici di farlo. Una cultura
fotografica che celebra la felicità famigliare e i successi, celebra in linea con i valori dominanti della società
occidentale: ci si fotografa mentre si aderisce alle norme sociali, e ci si mostra contenti di farlo. È quindi una
cultura fotografica conservatrice, che non vuole sovvertire le norme sociali o trovarne di nuove, ma le conferma;
ci mostra individui che si comportano bene e aderiscono alle norme con soddisfazione. È una fotografia che non
sfida lo status quo, ma lo conferma. Una ridondanza della fotografia analogica, dove si scattano sempre le stesse
foto, e l’uniformità degli album – che mostra una ripetitività funzionale alla conformazione sociale. Dunque è una
fotografia che mostra come, in una certa cultura e momento storico, si pensa che la vita andrebbe vissuta e che
non andrebbero sovvertite le norme sociali. Una fotografia funzionale al mantenimento di uno stato sociale, a
differenza di altre culture che mostrano le potenzialità di cambiamento dei soggetti rappresentati in foto.

LA FOTOGRAFIA IN AFRICA
La fotografia nella Nigeria degli Yoruba

Ci troviamo sempre negli anni ’60 e ’80 – quando in Europa si sviluppa la cultura Kodak – mentre in Africa
qualcosa di completamente differente. Questo permette di uscire dalla visione determinista delle tecnologie
mediatiche, secondo le quali queste produrrebbero gli stessi effetti ovunque. Se in Occidente la fotografia veniva
usata per costruire relazioni e cementare un senso di appartenenza, raccogliendo le foto in album, e permettono
di costruire la memoria famigliare, mentre in Africa questo ambito memoriale è secondario, ma è una fotografia
fatta per esplorare il futuro e giocare con questi futuri possibili; una fotografia non legata alla nostalgia, ma legata
al desiderio e alle ambizioni, fatta per essere esposta e per circolare, per essere regalata, differentemente da
quanto succedeva in Occidente.

Basta uno sguardo superficiale per rendersi conto come la tipologia di fotografia sia completamente differente
dalla nostra. Verso la metà dell’800 arriva in Africa la fotografia, con il colonialismo. Questa si intersecava con
l’esercizio del potere, una dimensione politica dei media. Si fotografavano le opere realizzate dai colonizzatori, le
infrastrutture… e poi prodotte e diffuse, per far vedere la potenza dei colonizzatori e per suscitare ammirazione
rispetto alle opere realizzate. Una maniera per visualizzare le opere realizzate dai colonizzatori e diffondere il
potere coloniale.

La fotografia era fatta anche per sorvegliare la popolazione, oltre che per classificare. La fotografia era uno
strumento di classificazione ed identificazione della popolazione. È una fotografia che entra in questo esercizio del
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potere: spesso era la prima volta che le persone venivano fotografate, e traspare nelle espressioni delle persone
la violenza di questa pratica fotografica.
Gli europei vogliono anche essere fotografati anche per una fotografia di uso privato. Gli studi fotografici, in
questo particolare caso – come nelle colonie inglesi della Nigeria – ci possono essere anche tecnici locali. Da
questi studi fotografici, dopo l’indipendenza (anni ’60) vengono rilevati dai nigeriani, e fanno nascere la tradizione
Yoruba, che sarà talmente importante in Africa occidentale, da descrivere il fotografo col termine Yoruba.

Nelle colonie si ha quindi sia

• Una fotografia antropometrica con finalità scientifiche, antropometriche.


• Una fotografia dai toni esoticizzanti a fini commerciali, da vendere in Europa negli anni in cui si sviluppava
un gusto per l’esotico e il primitiveggiante.
• Una fotografia magica collegata alle pratiche rituali: questo legame tra fotografia e magia lo si ritrova fin
dagli albori. In Europa, la fotografia si sviluppa per fini utilitaristici ma anche per creare un’illusione della
materializzazione degli spiriti;

Gli europei in Africa portano questa dualità realismo/scienza-magia/ritualismo anche in Africa. Questa fotografia
entra in risonanza con l’ambito del fantastico: un uso che si ritrova in modo particolare tra i missionari; per
cristianizzare la popolazione locale si servivano i media (primo tra tutti la Bibbia), come la stampa, il cinema, la
musica e, soprattutto, la fotografia. In maniera interessante, la fotografia viene sfruttata in una doppia maniera,
facendo leva sulla dimensione materiale della tecnologia, sull’oggetto della macchina fotografica, estraneo al
contesto locale, e che suscitava nella popolazione un doppio sentimento: stupore e meraviglia per questi
strumenti miracolosi, ma anche paura per l’estraneità di tale oggetto. Sfruttando questo doppio sentimento, lo
utilizzano per i loro fini, come prova della superiorità del Dio cristiano, che dotava loro missionari di questi mezzi
straordinari e magici. I missionari quindi sfruttano dei media non famigliari per incutere timore ed ammirazione
nella popolazione: così loro stessi coltivano l’inserimento della fotografia nel dominio del magico-sovrannaturale.
La fotografia era utilizzata per diffondere messaggi e dimostrare la grandezza del Dio cristiano, che agiva
attraverso questi media. L’oggetto-fotografia incarna la potenza di questo nuovo Dio dei missionari.

Nel momento in cui la Nigeria diventa indipendente, la fotografia viene riappropriata localmente: ciò fa sì che la
fotografia si trasformi. Questa fotografia entra nelle dinamiche di cultura locale, rimodellato su questa e
trasformandosi in un mezzo espressivo ben inserito nella cultura locale. La fotografia passa da strumento di
dominio ad essere parte della cultura nigeriana.

FOTOGRAFIA POST-COLONIALE
Gli anni ’60-’80 e gli studi fotografici Yoruba

Si sviluppa una fotografia di studio, ma anche una itinerante: fotografi che viaggiano con la strumentazione
(compresi anche di fondali) per l’Africa occidentale e diffondono la cultura fotografica Yoruba oltre i loro confini,
creando una sorta di cultura fotografica, in cui si trova un’ecumene fotografico – un punto in cui la parola Yoruba
diventa sinonimo di fotografo.

Gli studi fotografici funzionano come piccole imprese commerciali, a gestione famigliare, in cui non c’erano
restrizioni nell’esercizio di tale professione alle donne. Ma rimane comunque una fotografia declinata al maschile,
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nonostante le poche limitazioni. In questi studi, ereditati dall’esperienza coloniale, si trovano fondali, oggetti di
scena (in parte ereditati col colonialismo, in parte integrati con nuovi ingressi)… l’esistenza della figura dei
fotografi riporta a riflettere sul fatto che la macchina fotografica non era possesso famigliare (come nella cultura
Kodak) e quindi, quando si desideravano fotografie, ci si recava negli studi. Un buono studio fotografico metteva
a disposizione dei clienti una grande varietà di oggetti scenografici, e possiede un fotografo con grandi abilità di
foto-ritocco (ricollegandoci così all’idea di etno-estetica): in ogni fotografia venivano aggiunti dei dettagli per
renderla più gradevole all’estetica locale.

Ma cos’è lo stile Yoruba? Cosa fotografano?


Non si fotografavano paesaggi, oggetti ordinari e situazioni sociali, ma si fotografano principalmente persone e
gruppi, ritratti personali e di gruppo, tra cui possiamo distinguere tra due tipologie:

• Il ritratto formale, a cui non possono accedere tutti, ma solo gli anziani (di status sociale elevato) che
vengono ritratte in abito tradizionale, seduti, con lo sguardo in camera ed un’espressione che non lascia
trasparire emozioni, a corpo intero e ripresi dal basso verso l’alto (la posizione di chi si inchina); e sono
inclusi degli oggetti rinvianti al loro status sociale.

Mentre in Europa la relazione stretta della fotografia è con la pittura, qua abbiamo una relazione con la scultura: i
criteri estetici della scultura locale regolano anche la fotografia; i valori di solidità, chiarezza, simmetria.
Altro elemento che regola la scultura è quello della mimesi relativa, un’ideale al mezzo tra rappresentazione
realistica del soggetto e una rappresentazione completamente astratta/ideale, che lo rende incarnazione di
questi: un giusto mezzo tra l’astrazione e l’unicità del soggetto. Lo si ritrova espresso nella posa statuaria, nelle
espressioni che non lasciano trasparire emozioni, che rimandano nell’estrema stilizzazione della posa, a questo
ideale di mimesi relativa. Ci sono poi criteri estetici di visibilità e chiarezza e, accanto a questi, dei criteri sociali:
spesso si è visto l’incorporazione di oggetti che rimandano allo status della persona rappresentata, tanto che è
stato detto che questo tipo di fotografia non rappresenta l’individuo in un momento specifico della vita, ma
vogliono rappresentare un’individuo che si sovrappone all’elevato status sociale che occupa; fotografie che
rappresentano ruoli sociali, e non soggetti particolari: una celebrazione di questo rango elevato. Questo tipo di
fotografie celebratorie non era certo fatto che essere racchiuso in un album, ma era un tipo di fotografia da
esibire; generalmente erano appese nelle case, e spesso fatte circolare come regali, contribuendo alla costruzione
di una reputazione di personaggi importanti. Chi le riceveva, la appendeva in casa – gesto che, da un lato, voleva
portare rispetto verso il soggetto.

• Il ritratto informale: a cui potevano accedere le persone comuni, aperto a tutti; generalmente le persone
comuni non avevano macchina fotografica, si recavano quindi negli studi fotografici. Le scenografie
coloniali vengono riappropriate per essere utilizzate in queste auto-rappresentazioni.

Quali oggetti generalmente si ritrovano negli studi Yoruba? Ad esempio, città, strade, oggetti di uso comune,
interni di casa arredati, costumi di scena…
Apparentemente non sembrano ritratti che vogliono immortalare un momento di biografia del soggetto, ma
sembrano ritratti che mirano ad ampliare l’orizzonte di vita dei soggetti, ampliandoli in situazioni di vita che non
appartengono alla loro quotidianità: mostrano soggetti potenziati, con qualcosa in più che rinvia al mondo della
modernità; una modernità che prende forma in maniera materiale con le scenografie e gli oggetti di scena.
Fotografia che rinviano ad una realtà lontana dai contesti di vita dei soggetti: non sembrano ritratti che
immortalano il soggetto in una determinata fase della vita, ma proiettano il soggetto in un altrove. Una fotografia
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che non cerca realismo, ma gioca con la fantasia: non mostra cosa il soggetto sia, ma coma potrebbe diventare.
Tutto ciò non deriva dalla tecnologia mediatica, ma dal contesto culturale che si appropriato di questa tecnologia.

Nell’universo culturale Yoruba abbiamo un’idea della persona diversa: prima della nascita vi è l’idea che i soggetti
possano scegliere il loro destino; si dà per scontato che questo sia positivo. Ma l’idea di destino non è come la
nostra: non è qualcosa che si realizza a prescindere, ma è una possibilità che per compiersi deve essere inseguita
con sacrifici e lavoro da parte della persona. Le fotografie rappresentano un potenziale trasformativo in positivo:
ci proiettano in un futuro possibile di trasformazione, dicendo cosa un giorno di potrà essere; anticipano futuri
possibili e rappresentano prove di futuri possibili, che mi permettono di sperimentare con la mia potenzialità.
In questo senso, gli studi Yoruba sono stati considerati spazi liminari di sperimentazione ed apertura, dove non si
rafforza lo status quo, ma si gioca e si sovverte lo stato delle cose, si sperimentano alternative. Ovviamente, una
fotografia di questo tipo non è di nuovo fatta per essere chiusa in un album, ma è fatta per essere vista: gioca con
il desiderio e l’ambizione, è fatta per circolare ed essere regalata, per dimostrare il proprio potenziale
trasformativo: e quindi partecipa alla costruzione di relazioni e, in qualche modo, partecipa alla promozione
sociale dei soggetti. Nel loro mostrare le potenzialità trasformative, le fotografie aiutano a compierle in due modi:

• Anticipando futuri possibili ed attivando la parte di possibilità.


• Costruiscono nuove relazioni mediate dalla circolazione di queste.

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