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PRODUZIONE

CAPITOLO 1: La produzione dell’impresa del capitalismo industriale

1) L’impresa del capitalismo industriale

1.1 Capitalismo industriale = accumulazione del capitale per la generazione del profitto
I° Rivoluzione Industriale = Capitalismo Industriale
II° Rivoluzione Industriale = Capitalismo Sistemico (o Fordista)
L’impresa capitalistica realizza la concentrazione dei mezzi meccanici di produzione in
mano a soggetti privati.
Il profitto si ottiene per mezzo dello scambio di merci per denaro sul mercato, questo è lo
scopo! L’investimento del profitto sostiene l’accumulazione del capitale e la crescita
dell’impresa capitalistica.
Fumagalli: la crescita e lo sviluppo del capitalismo industriale sono andati di pari passo
con l’espropriazione dei saperi operai e la sottrazione dei saperi nei sistemi meccanici di
produzione poiché “la conoscenza non è patrimonio del lavoro”. Nell’ottica del capitalismo
industriale (pre-fordista e fordista) il sapere è proprietario del capitale e incorporato nella
macchina.
La produzione manifatturiera è industriale se impiega il lavoro umano come appendice dei
mezzi meccanici.Nell’economia pre-capitalistica, la produzione manifatturiera è stata
artigianale perché la macchina è stata sì appendice del lavoro umano, ma quest’ultimo era
depositario dei saperi non ancora inglobati nella macchina.
[ I mezzi meccanici della produzione industriale consentono l’ottenimento di prodotti
standard e sempre uguali, quindi perfettamente intercambiabili. Standardizzazione e
intercambiabilità sono condizioni necessarie per l’abbattimento dei costi, prezzi unitari e
sviluppo dei mercati. ]
Come anticipato, il capitalismo ha avuto due declinazioni: capitalismo industriale pre-
fordista e capitalismo fordista. Con il passaggio dall’uno all’altro, si verificano alcuni
cambiamenti:
- la forza-lavoro si astrae definitivamente dalle conoscenze artigianali dei lavoratori,
completando il processo di sottrazione dei saperi dei lavoratori nel macchinario, iniziato in
frase pre-fordista del capitalismo;
- si genera una strutturazione burocratica del potere, laddove quella pre-fordista aveva fatto
ricorso alla centralizzazione del potere nell’imprenditore individuale. Questo ebbe risvolti
positivi su tutto il sistema economico.
Più di recente, la valorizzazione del capitale di tipo fordista è stata affiancata e/o sostituita
dalla valorizzazione della conoscenza: il capitalismo cognitivo è quel sistema economico
fondato sulla valorizzazione del capitale a mezzo della conoscenza. Mentre le macchine del
sistema fordista incorporano il sapere riproducibile (di proprietà dei detentori del capitale e
sottratto ai lavoratori), nel capitalismo cognitivo il lavoratore si riappropria dei saperi che
tendono sempre più a superare i confini delle imprese e a diventare sapere sociale.
Con il progressivo cambiamento di paradigma capitalistico, l’impresa integrata fordista
lascia spazio alla rete sociale di produzione.

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1.2 I sistemi produttivi d’impresa sono strutture e processi di manufacturing.
Le strutture di manufacturing sono insiemi di componenti interdipendenti e di varia natura
(macchinari, impianti, manodopera, materiali, mezzi di trasporto, ecc.), orientati alla
trasformazione di input in output.
Si può affermare che ogni sistema produttivo aziendale, prevalente in una determinata fase
del capitalismo, presuppone l’esistenza di determinate condizioni ambientali (come le
caratteristiche della domanda, del lavoro e della tecnologia) che rendono quelle medesime
soluzioni strutturali e gestionali di manufacturing in grado di funzionare come strumenti
implementativi delle strategie di profitto, a loro volta pertinenti alle condizioni di contesto
ambientale.
Non esiste quindi un’unica one best way produttiva, ma varie possibili best way di
strutturazione e conduzione dei processi di manufacturing, ciascuna delle quali è funzione
di specifici contesti ambientali e condotte competitive d’impresa.
I sistemi produttivi teorizzati, quindi, diventano possibili opzioni strutturali e gestionali di
manufacturing delle imprese e si svincolano dalla loro dimensione storico-temporale.

1.3 Si definiscono condizioni di redditività delle imprese:


- la pertinenza della strategia di profitto alle condizioni di contesto;
- la coerenza del sistema produttivo con la strategia di profitto dell’impresa.
Skinner: le soluzioni di manufacturing adottate devono essere coerenti con la strategia di
business prescelta dall’impresa, tenendo conto dell’interazione dell’impresa con l’ambiente
circostante.
Il processo di evoluzione dei sistemi di manufacturing ha generato una sempre maggiore
interazione tra le attività aziendali (progettazione, sviluppo, produzione, ecc), fino a
comprenderle tutte in un unico processo inter-funzionale di business definito operations
management.
La coerenza di un sistema di manufacturing con una strategia di profitto è data dalla
potenzialità di questo sistema di essere strumento di attuazione di quella specifica strategia.

1.4 Le condizioni contestuali favorevoli all’emergere di una produzione standard da replicare


in grandi volumi sono:
- una domanda di mercato omogenea;
- una forza lavoro in eccesso e non professionalizzata e disposta ad accettare lavori
ripetitivi;
- una tecnologia riproducibile.
La strategia di profitto dell’impresa che si adatta a tale contesto è quella di “volume”.
Il sistema della produzione standardizzata di massa (sistema fordista) è in grado di
realizzare le strategie di volume attraverso:
a) una politica del prodotto standardizzato e unico, offerto in grandi volumi e a prezzi
unitari bassi e decrescenti al crescere della replicazione produttiva;
b) un’ organizzazione produttiva che realizza la produzione standardizzata in flussi
continui riducendo tempi e costi;
c) relazioni occupazionali che prevedono l’impiego di lavoratori che svolgano compiti
ripetitivi e retribuiti con salari fissi.

[ vedi schema pag. 6 ]

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Le strutture produttive che seguono la strategia “di volume”, adottano il metodo dell’
organizzazione scientifica del lavoro di Taylor. L’applicazione più evidente dei principi
tayloristici è la fabbrica fordista. I principi dell’ organizzazione scientifica del lavoro sono:
- lo studio scientifico dei metodi migliori di lavoro;
- la scomposizione dei compiti di lavoro in operazioni elementari;
- la correzione ed eliminazione dei movimenti non razionali;
- la programmazione dei movimenti e dei tempi più efficienti di esecuzione dei compiti;
- la standardizzazione di utensili e attrezzature.
Il Taylorismo si poneva l’obbiettivo di programmare scientificamente il lavoro così da non
richiedere alcun coinvolgimento decisionale o sforzo intellettuale da parte dei lavoratori, in
linea con l’espropriazione dei loro saperi.
Inoltre nasceva come soluzione al problema del soldiering cioè la tendenza dei lavoratori a
rallentare i ritmi di lavoro a causa di comportamenti inefficienti ed errati.

1.5 Le fabbriche fordiste impiegano lavoratori non professionali che operano su macchine
specializzate. Queste sono disposte in linee di produzione che rispecchiano le sequenze
delle operazioni programmate e standardizzate. Il layout in linea è coerente con i principi
tayloristi della scomposizione dei compiti e la standardizzazione di operazioni e
attrezzature.
Queste macchine producono parti standard (e quindi intercambiabili) in tempi brevi e
costi unitari contenuti; tale strategia fu adottata per dar vita al mercato di massa.
Per poter permettere tutto ciò è nata la linea di produzione ed assemblaggio meccanizzata
che, rendendo continuo il flusso produttivo, ha consentito di ridurre drasticamente tempi e
costi del prodotto unico e standardizzato. Questo presuppone una necessaria
rigidificazione delle strutture produttive, senza la quale l’economia di massa non sarebbe
mai nata.
Produttori e consumatori condividono l’obbiettivo della produzione di beni standardizzati
poiché essa facilita la riduzione dei prezzi e la crescita del mercato.
Rigidificazione delle strutture produttive: - macchine utensili specializzate
- linea di produz. ed assemblaggio meccanizzata
La produzione in linea, però, evidenziò dei difetti come lo sbilanciamento dei tempi tra le
workstation presenti sulla linea, dovuto alle diverse caratteristiche tecniche di quest’ultime.
A un certo punto il sistema fordista dovette armonizzare volume e varietà di modelli e
versioni per far proseguire l’espansione della base produttiva e cedette il posto al sistema
della produzione flessibile di massa, la lean production.

1.6 Il sistema della produzione standardizzata di massa non deve essere confuso con
l’organizzazione della produzione rigida di massa, emersa come dominante sistema di
manufacturing nel secondo dopo-guerra.
L’organizzazione produttiva fordista irrigidisce la struttura di fabbrica con l’impiego di
macchine specializzate disposte in linea e destinate alla produzione di un unico prodotto
standard. La necessaria rigidificazione delle strutture produttive nulla ha tolto all’intrinseca
flessibilità della fabbrica fordista, grazie ad esempio all’ assembly line. Quest’ultima non
c’entra nulla con l’automazione rigida in quanto basata sul flessibilissimo fattore umano.
La produzione rigida di massa è il sistema produttivo caratterizzato da una tecnologia che
incorpora il principio della rigidità nella struttura tecnica della fabbrica: gli insiemi delle
singole macchine diventano sistemi di macchine grazie alla transfer machine che consente
il passaggio del pezzo da una lavorazione all’altra senza l’intervento dell’uomo.
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La produzione di massa, quindi, può essere distinta in due diverse fasi (standardizzata e
rigida) che si differenziano per la variabile tecnologica. La potenziale flessibilità della
linea di assemblaggio (produzione standardizzata di massa) venne definitivamente oscurata
dalla rigidità tecnologica (produzione rigida di massa).
Ricapitolando, alla fase della necessaria rigidificazione delle strutture produttive
corrisponde il sistema della produzione standardizzata di massa (o Fordista), alla fase della
rigidità tecnologica corrisponde il sistema della produzione rigida di massa.

[ vedi schema pag. 13 ]

2) La produzione nell’ottica dell’approccio funzionale all’organizzazione e alla gestione


dell’impresa

2.1 La produzione dell’impresa del capitalismo industriale è considerata l’attività specialistica


(funzione) finalizzata alla creazione di utilità destinate al mercato. Le utilità si dividono in:
- utilità di forma, si ottiene per mezzo della produzione manifatturiera (manufacturing)
cioè con la trasformazione chimico-fisica di risorse tangibili (beni) al fine di ottenere altre
risorse tangibili;
- utilità di luogo, si ottiene per mezzo di cambiamenti del luogo di utilizzo delle risorse
tangibili, in forza delle attività di trasferimento fisico;
- utilità di tempo, si ottiene per mezzo di cambiamenti del tempo di utilizzo delle risorse
tangibili, in forza delle attività di conservazione fisica;
- utilità di possesso, si ottiene per mezzo di cambiamenti del possesso materiale delle
risorse tangibili, in forza delle attività di vendita.
Le attività di trasferimento, conservazione e vendita delle risorse sono tipologie di
produzione di servizi. I servizi, al consumo o alla produzione, sono risorse intangibili e
immateriali. La produzione manifatturiera, infatti, impiega anche risorse intangibili e i
servizi stessi possono essere impiegati nella produzione di altri servizi.
Capitalismo Industriale = fabbrica del materiale
Capitalismo Cognitivo = fabbrica dell’immateriale
La produzione consiste nella progettazione, organizzazione e gestione di insiemi di
processi produttivi. Questi ultimi sono sequenze di operazioni con cui si svolge l’attività di
trasformazione fisica di beni tangibili (input) in altri beni tangibili (output), che hanno
valore per i consumatori/utilizzatori industriali finali.
Gli input sono detti anche fattori della produzione che possono essere a fecondità semplice
o a fecondità ripetuta (vedi appunti sul quad.).
I beni sono di consumo se destinati al consumatore finale, industriali se destinati ad altre
imprese.
Il valore del prodotto dell’impresa è pari alla somma di denaro che l’acquirente è disposto
a pagare per ottenerlo ed è uguale al suo prezzo unitario. I prodotti dell’impresa si
declinano in modelli e versioni i quali soddisfano segmenti di mercato che negli anni sono
divenuti sempre più piccoli, fino a far emergere la singola persona.

2.2 Le imprese sono insieme di risorse (tangibili, intangibili, umane) che creano valore se
combinate tra loro. Il vantaggio competitivo deriva dal possesso di risorse scarse e
specifiche (tecnologia, macchinari, personale, procedure, contatti commerciali).
Le risorse si convertono in prodotti finali (outputs). Le risorse si accumulano nel tempo
diventando patrimonio genetico, il quale è specifico della singola impresa.
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Le risorse vengono combinate all’interno delle singole aree specialistiche (le funzioni
d’impresa), evidenziando le capacità organizzative cioè le abilità delle imprese nello
svolgimento delle attività generatrici del valore (cioè i processi aziendali).
Il livello di tali abilità organizzative fa la differenza per quanto riguarda il vantaggio
competitivo, misurabile tramite il differenziale di reddito.
L’impresa del capitalismo industriale crea valore per lo shareholder, ma si tratta di una
condizione necessaria alla sopravvivenza che non è più sufficiente. Il valore per l’azionista
dipende dal margine dei ricavi sui costi (reddito).

2.3 La catena del valore è uno strumento utile per la rappresentazione dei “luoghi” delle
capacità organizzative, quindi di analisi delle attività generatrici del valore.
Quest’ultime si dividono in: 1) attività primarie, 2) attività di supporto
1) - logistica in entrata: programmazione e gestione materiali e componenti;
- attività operative: progettazione e gestione della produzione (manufacturing);
- logistica in uscita: gestione magazzini prodotti finiti e ordini di vendita;
- marketing: sollecitazione e persuasione ai consumatori per l’acquisto dei prodotti;
- servizi di miglioramento o mantenimento del valore dei prodotti.
2) - approvvigionamento: gestione dei fornitori;
- sviluppo tecnologia : acquisizione e presidio delle tecnologie;
- gestione risorse umane : ricerca, selezione e gestione del personale;
- attività infrastrutturali : pianificazione, controllo qualità, finanza, affari legali.
Le attività di supporto sostengono quelle primarie nel processo di generazione del valore.
La catena del valore è un sistema di attività interdipendenti, e il vantaggio competitivo è
determinato, oltre che dalle singole attività, dalle connessioni tra quest’ultime. Le capacità
organizzative sono dette strategiche quando da esse dipende il vantaggio competitivo.
Negli ultimi anni si evidenzia una maggiore rilevanza delle capacità strategiche correlate
alla produzione, in termini di vantaggio competitivo.
Il margine è la differenza tra il valore totale creato e il costo totale delle attività.

[ vedi schema pag. 17 ]

2.4 Nell’ottica dell’approccio funzionale all’analisi dell’impresa, i processi aziendali sono le


attività svolte all’interno delle aree specialistiche dell’impresa stessa. Tali processi
vengono svolti in maniera sequenziale, in base a regole e procedure, e ogni funzione offre
il suo contributo parziale e specialistico.
Nell’ottica per processi organizzativi intra-organizzativi e complessi, invece, non sono mai
confinate entro le funzioni, bensì vengono precisate in base alla loro finalizzazione alla
realizzazione di un output. Il processo inter-funzionale è “struttura in azione”.
Secondo il concetto tradizionale, quindi, la produzione è la funzione specialistica preposta
all’organizzazione e gestione dei processi di trasformazione di input in output, la quale
avviene sulle linee o nei reparti. Prima della produzione, quindi, avremo le funzioni che la
precedono nella sequenza logica (es. progettazione prodotto), dopo avremo la logistica in
uscita.
Gestione
Progettazione Produzione Distribuzione Cliente
scorte

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Il concetto tradizionale di produzione deriva da un approccio organizzativo e manageriale
funzionale-sequenziale, fondato sui principi qui elencati:
- La rigida specializzazione e netta separazione delle funzioni. Questo è garanzia di
efficacia nello svolgimento di ciascuna attività e di eccellenza del sistema d’impresa nel
suo complesso;
- La controllabilità e governabilità dei processi. Per farlo si scompone il processo
organizzativo per semplificarlo in fasi logiche. Tutti i processi vengono sviluppati
attraverso vari stadi, per ciascuno dei quali viene fatta una descrizione dettagliata delle
attività da svolgere;
- L’emergere della funzione “dominante” nei modelli manageriali funzionali. I processi di
business che richiedono l’intervento di più competenze specialistiche si articolano in stadi
di attività tra loro separati e posti in ordine sequenziale. Ogni stadio è presidiato da una
funzione che svolge attività specialistica. La sequenza degli stadi può essere diversa a
seconda della funzione aziendale che di fatto prevale sulle altre all’interno del sistema
d’impresa.

2.5 L’approccio manageriale funzionale ha generato nel corso del tempo varie declinazioni
dell’impresa integrata, ognuna con un diverso orientamento funzionale che orienta il
sistema ad una specifica funzione aziendale che primeggia sulle altre, pur conservando la
logica sequenziale dei processi.
● Impresa “orientata” alla produzione
L’area specialistica dominante è la funzione della produzione. L’obbiettivo è raggiungere
la leadership dei costi attraverso volumi da economia di scala che facciano ridurre i
costi. L’impresa è trainata dalle decisioni prese nell’area del manufacturing.
Produzione Marketing-vendite Cliente
● Impresa “orientata” all’innovazione tecnologica
L’area specialistica dominante è la funzione di ricerca e sviluppo. L’obbiettivo è la
differenziazione attraverso la riconoscenza da parte del cliente dei benefici derivanti dalle
innovazioni proposte dalle imprese, che devono essere abili ad anticipare e stimolare le
preferenze dei consumatori.
Ricerca e sviluppo Produzione Marketing-vendite Cliente
● Impresa “orientata” al marketing
L’area specialistica dominante è il marketing, a cui viene affidato il compito di rilevare
bisogni insoddisfatti dei consumatori. Esso interviene nuovamente dopo la produzione
per la commercializzazione in termini di prezzo, distribuzione e comunicazione efficace.
Marketing Ricerca e sviluppo Produzione Marketing-vendite Cliente

3) Le tipologie dei processi produttivi

3.1 Nell’ottica dell’analisi funzionale-sequenziale dell’impresa, i processi produttivi sono stati


classificati in varie tipologie sulla base di vari criteri basati su una o più variabili. Queste
tipologie sono modelli di produzione che si sono formati per stratificazione successiva, nel
corso del tempo. Il ricorso al criterio del “grado di prevedibilità delle caratteristiche del
prodotto” conduce a due ampie tipologie di processo produttivo:
a) Processi produttivi per il magazzino, (es. impresa fordista) se è alto il grado di
prevedibilità delle caratteristiche del prodotto. Il processo continuo è tipico dell’impresa
della produzione di massa. L’impresa produce per il magazzino quando in questo va a

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“stoccare” i beni prima che defluiscano verso il mercato stabile ed omogeneo. Il magazzino
rende possibile la pronta risposta dell’impresa alle richieste del consumatore,
sincronizzando domanda e offerta, indipendentemente dalla tempistica produttiva.
b) Processi produttivi su commessa, se è basso il grado di prevedibilità delle caratteristiche
del prodotto. Le caratteristiche di beni e servizi sono definite di volta in volta dai
consumatori che inoltrano domande singole e specifiche all’impresa. Il prodotto quindi non
è standardizzato e il rapporto impresa-mercato è diretto, così come la struttura produttiva è
transitoria e non stabile.

Un’altra variabile di classificazione dei processi produttivi a variabile singola è della


“modalità tecnico-organizzative in base alle quali viene realizzato l’output”:
1) Processi produttivi continui. Se la struttura produttiva di un’impresa è progettata per
ottenere una sola varietà di prodotto allora il processo produttivo è di tipo continuo. La
struttura produttiva che svolge processi in continuo è rigida. Per rigidità produttiva
s’intende l’indisponibilità di una struttura ad essere impiegata in e per produzioni diverse.
La rigidità si coniuga con il conseguimento di economie di scala, cioè con la produttività
delle strutture di fabbrica. La produttività si esprime con indici che mettono in relazione gli
input impiegati con gli output ottenuti: la produttività cresce quando a parità di risorse
impiegate crescono le risorse ottenute, oppure quando a parità di risorse ottenute si riduce
il livello delle risorse impiegate. In ogni caso al crescere della produttività diminuiscono i
costi unitari medi di produzione.
La flessibilità produttiva, quindi, è l’attitudine di una struttura ad essere utilizzata in e per
produzioni diverse. Pertanto produttività e flessibilità sono incompatibili per definizione.
2) Processi produttivi intermittenti. Se la struttura produttiva di un’impresa è progettata per
l’ottenimento di vari modelli e versioni di prodotto, allora il processo produttivo è
intermittente. Questi processi danno luogo a lotti di prodotto.
La struttura produttiva dei processi intermittenti ha un grado di flessibilità produttiva
generata o dalla presenza/impiego di semilavorati in produzioni diverse, o dalla capacità di
ridestinare ogni volta l’impianto a produzioni diverse. L’intermittenza genera flessibilità,
ma determina costi di magazzini per i semilavorati o costi di conversione. Questi ultimi
possono essere ridotti con accorgimenti che vanno dalla velocità di set-up alla frequenza
dei riattrezzaggi stessi.
3) Processi produttivi a produzioni unitarie. Se la struttura produttiva è progettata per
essere ri-configurata e ri-destinata a produzioni sempre diverse, allora si parla di processo
produttivo a produzioni unitarie. L’unicità dell’output implica la transitorietà della
struttura produttiva, dunque la sua massima flessibilità produttiva, la quale richiede
duttilità delle risorse e capacità attive nell’area della produzione.

3.2 Fino ad ora abbiamo visto le classificazioni dei processi produttivi ad una variabile. Le
classificazioni a più variabili si focalizzano contemporaneamente sulle caratteristiche delle
strutture che svolgono i processi e i lineamenti distintivi dei prodotti che si ottengono.
La classificazione proposta da Woodward riprende le precedenti tipologie e le sistematizza
in una matrice, le cui variabili sono:
- la dimensione dei flussi produttivi e il grado di standardizzazione del prodotto (asse X)
- la differenziazione e la numerosità dei prodotti (asse Y)

[ vedi schema pag. 27 ]

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Le tipologie di processo produttivo evidenziate nella matrice sono:
- il processo produttivo su progetto. Realizza prodotti unici che eseguono il progetto
concordato con il cliente. Si attiva dunque su commessa ed è della tipologia delle
produzioni unitarie (es. opere di edilizia civile, commerciale, aereonautiche). Le strutture
produttive sono estremamente flessibili e le risorse polivalenti.
Le imprese che producono su progetto più che prodotti vendono capacità organizzative ed
esperienza necessarie a soddisfare le esigenze di clienti sempre diversi.
- il processo produttivo su modello. Dà vita a prodotti vari, ripetuti in piccoli lotti,
realizzati su “modelli” che il produttore propone, ma sui quali i clienti hanno un margine di
personalizzazione. Il processo produttivo è su commessa e di tipo intermittente. La
struttura produttiva è flessibile, ma la flessibilità produttiva si declina piuttosto sulla
polivalenza delle risorse impiegate.
- il processo produttivo per grandi lotti. Al crescere della dimensione dei lotti, l’impresa
riduce la varietà produttiva e dedica ciascuna linea di produzione ad uno dei pochi modelli
su cui si focalizza. Pertanto, la flessibilità della fabbrica si riduce alle possibilità consentite
dall’assemblaggio di componenti standardizzati ottenuti da linee dedicate di produzione.
Prerequisito fondamentale, quindi, è la produzione per parti di prodotto.
- il processo produttivo continuo. Può essere frutto di una scelta imprenditoriale o essere
tecnicamente obbligato. L’obbiettivo è l’ottenimento di un elevato flusso produttivo
nell’unità di tempo per abbattere i costi e i prezzi di vendita. Tale produzione è di massa o
per il magazzino.

3.3 Un’ulteriore classificazione dei processi produttivi è quella che li ordina in funzione di
gradi decrescenti di flessibilità/crescenti di produttività:
- job shop, è il processo a produzioni unitarie, cioè su progetto. Il prodotto che si ottiene è
sempre diverso poiché risponde a specifiche richieste del cliente, stiamo parlando di
esemplari unici. L’interazione tra offerta dell’impresa e domanda di mercato è intensa.
Le fasi produttive non sono connesse e gli input sono polivalenti.
- processo a piccoli lotti è del tipo su modello. La varietà produttiva è elevata, così come la
polivalenza delle risorse e la flessibilità del flusso produttivo. Anche in questo caso
l’interazione tra offerta e domanda è elevata.
- processo a grandi lotti è quello della produzione in serie destinata al grande mercato. Gli
input sono dedicati a singole produzioni, cioè parti standardizzate da assemblare nei vari
prodotti dell’impresa. Le fasi produttive sono strettamente connesse e l’offerta esercita il
controllo unilaterale della domanda.
- processo continuo, già visto, massimizza la rigidità e la produttività dell’impianto.

Vediamo come variano gli elementi distintivi nel “viaggio” che parte dal job shop e arriva
al processo continuo:
Prodotto: nel passaggio da job shop a processo continuo decresce il numero di modelli,
cresce il volume produttivo, decresce la personalizzazione a favore della crescita della
standardizzazione; l’innovazione è meno frequente e si riducono le differenze con i
prodotti della concorrenza.
Processo produttivo: nel passaggio da job shop a processo continuo il flusso passa da
frammentario e transitorio a connesso e rigido. Le macchine sono sempre più
specializzate e crescono le dimensioni e l’automazione degli impianti. La produzione è
sempre più intensiva e orientata verso le economie di scala, gli impianti sono sempre
meno flessibili e cambiamenti radicali di processo sono rari. Il layout tende verso
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strutture in linea e il ri-bilanciamento delle linee è sempre più frequente per accrescere il
volume produttivo e ridurre il costo unitario di produzione.
Materiali impiegati: nel passaggio da job shop a processo continuo tendono a crescere
le scorte di materie prime e prodotti finiti, mentre decrescono le scorte di semilavorati.
Flusso informativo: nel passaggio da job shop a processo continuo cresce il ricorso alla
previsione della domanda, pertanto la programmazione della produzione diviene sempre
più accurata.
Manodopera e management: nel passaggio da job shop a processo continuo si riduce la
manodopera e cresce il capitale (macchine,ecc).

Usando la matrice prodotto-processo [vedi schema pag. 31] è possibile rappresentare i


principali modelli di processo produttivo in correlazione con i principali modelli di mix
produttivo: sull’ asse Y abbiamo i modelli di flusso produttivo, sull’ asse X abbiamo i
mix di prodotti. Sulla diagonale troviamo le scelte ottimali di prodotto e di processo, cioè
la combinazione migliore tra le due variabili.
Al fine di divenire strumento per la scelta dei processi produttivi, la matrice va
completata correlando ciascuna delle scelte sulla diagonale con i suoi compiti critici del
manufacturing e le sue strategie competitive. In altre parole, i compiti critici sono le
concrete modalità con cui la funzione della produzione contribuisce all’attuazione delle
strategie di business. Ciascun compito critico del manufacturing si associa ad una
particolare combinazione di prodotto/processo e ad una specifica strategia competitiva di
business. La matrice prodotto-processo “completa” [vedi schema pag.34] è quella che
contiene i compiti del manufacturing e le strategie competitive rispetto alle quali le varie
combinazioni di prodotto-processo risultano strumentali.

3.4 L’importanza della matrice prodotto-processo risiede nel fatto che essa stimola il
management a correlare le scelte produttive con le scelte di mercato, concependo entrambe
come strumenti coordinati al raggiungimento degli obbiettivi strategici.
Nei diversi settori di appartenenza, le imprese si addensano in una determinata posizione
sulla diagonale. Ciò non significa che un’impresa non possa distaccarsi dalla posizione
maggiormente “frequentata” dalla sue colleghe di settore o dalla diagonale stessa.
L’impresa potrebbe ricercare una sua posizione all’interno di una nicchia di mercato. Il
successo di questa strategia dipende dalle abilità di saper cogliere le opportunità e i
vantaggi di tale nicchia di mercato. Un esempio valido è rappresentato da Rolls-Royce.
La matrice di prodotto-processo, inoltre, può essere letta in chiave dinamica interpretando
l’asse X come la funzione del ciclo di vita del prodotto, e l’asse Y come la funzione del
ciclo di vita del processo. In tal caso la matrice descrive efficacemente la dinamica
naturale della funzione della produzione. In poche parole la diagonale può essere letta
come una linea del tempo che va dall’angolo in alto a sinistra a quello in basso a destra.

3.5 Dalla matrice prodotto-processo deduciamo che le fabbriche si focalizzano su specifici


compiti produttivi. Focalizzare un impianto comporta:
- destinare l’impianto ad un prodotto o un numero limitato di prodotti, tecnologie e mercati
- assegnare all’impianto uno o pochi compiti produttivi (se compatibili)
- assicurare la coerenza tra le scelte produttive e quelle di mercato
Secondo Skinner ciascun impianto dell’impresa deve essere focalizzato su un particolare
compito produttivo e su una particolare tipologia di prodotto, destinato ad uno specifico
mercato. I punti sulla diagonale, quindi, non rappresentano solo i compiti della produzione,
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ma anche degli impianti focalizzati. Questa prospettiva rappresenta il superamento della
one best way. Le teorizzazioni di Skinner hanno evidenziato tuttavia una serie di stati di
incompatibilià: produttività vs flessibilità degli impianti, flessibilità vs elasticità nei
volumi, personalizzazione prodotti vs produttività delle strutture di fabbrica, ecc.
L’impresa quindi deve fare una scelta che prediliga qualcosa al posto di un’altra, oppure
optare per una soluzione intermedia: sacrificare la flessibilità produttiva a vantaggio della
produttività , adottando soluzioni strutturali automatizzate; oppure, al contrario, sacrificare
la produttività a vantaggio della flessibilità produttiva, adottando soluzioni strutturali a fasi
frammentate. La possibilità di fare una scelta radicalmente produttiva o flessibile deve
presupporre un contento ambientale che sia controllabile dall’impresa a livello di
complessità e dinamismo.
In situazioni ambientali come quelle attuali, caratterizzate da complessità e turbolenza
crescenti e non dominabili, l’impresa deve saper competere su più dimensioni e sviluppare
più fattori critici di successo competitivo. L’incremento della complessità e della
turbolenza ambientale sono imputabili a tre cause:
- la crescita senza continuità della varietà della tecnologia utilizzabile dall’impresa;
- la crescita del numero dei mercati geografici di riferimento (globalizzazione)
- la crescita della varietà della domanda, determinata dallo sviluppo dei bisogni dei
consumatori e da maggiori esigenze di personalizzazione e qualità.
Le soluzioni competitive qui evocate devono consentire, in definitiva, di avvicinare job
shop e flusso continuo, cioè avvicinare strutture efficienti e strategie di prezzo a strutture
flessibili con possibilità di personalizzazione e differenziazione.

3.6 Skinner fu il primo ad evidenziare l’importanza della funzione della produzione nel sistema
d’impresa, sostenendo che le scelte di struttura e processo devono derivare dalla strategia
aziendale. La strategia competitiva assegna specifici compiti a tutte le funzioni aziendali e,
tra queste, alla produzione. I compiti produttivi non necessariamente si traducono
nell’ottimizzazione dell’efficienza produttiva. È la fine definitiva della one best way di
produzione teorizzata da Taylor e applicata alla fabbrica fordista, orientata esclusivamente
alla produttività. Ne consegue che anche la produzione ha una valenza strategica e concorre
insieme alle altre funzioni al raggiungimento degli obbiettivi strategici.
Le decisioni di fabbrica devono essere prese dall’alta direzione, la quale gestisce la
funzione di produzione attraverso il processo aziendale di determinazione delle politiche di
produzione, cioè le scelte che definiscono la struttura produttiva. Tale processo si snoda
lungo le seguenti fasi:
- Analisi della situazione competitiva, cioè la struttura del settore e le sue forze
competitive
- Analisi dell’impresa, cioè i suoi punti di forza e debolezza
- Formulazione della strategia competitiva, cioè il modo con cui l’impresa vuole
confrontarsi con la concorrenza ( leadership dei prezzi, differenziazione, focalizzazione)
- Definizione dei compiti della produzione. Skinner insiste nel delegare all’alta direzione
la progettazione e gestione della fabbrica in coerenza con la strategia.
I possibili compiti-obbiettivo della produzione sono:
- produttività: orienta la fabbrica a costi unitari bassi al crescere del volume produttivo
- performance del prodotto: le caratteristiche che lo differenziano dalla concorrenza
- affidabilità del prodotto: caratteristiche che lo rendono affidabile a favore del valore
- velocità e puntualità di consegna: abbreviare tempi di attraversamento dei materiali
per accelerare i tempi di consegna dei prodotti
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- flessibilità: adattare la produzione alle specifiche richieste del cliente e innovare
prodotti e processi
- elasticità: l’impresa è in grado di variare la quantità prodotta in funzione della
domanda
- Analisi degli aspetti economici e della tecnologia del settore industriale
- Definizione della politica di produzione cioè le decisioni riguardanti la struttura
produttiva
- Elaborazione delle decisioni riguardanti la realizzazione della struttura produttiva, i
controlli, le misure di valutazione e le procedure di revisione.
Skinner afferma che un’alta direzione che si disinteressa della fabbrica rischia di perdere di
vista le politiche di produzione, che non rifletteranno la strategia competitiva. Tutto questo
per dire che la visione dell’eccellenza produttiva in chiave puramente tecnica deve essere
accantonata in favore di una coordinazione tra scelte produttive e scelte di marketing. La
modernità del pensiero di Skinner sta nell’aver attribuito alla produzione un ruolo di
strumento competitivo.
[vedi schema pag. 41]

4) I layout degli impianti industriali

4.1 Per layout dell’impianto s’intende la disposizione planimetrica delle macchine all’interno
dello stabilimento. Si tratta di una scelta inerente alla struttura produttiva che, anche in
questo caso, può essere più orientata alla produttività (in linea) o alla flessibilità (a reparti).
Vediamo le principali tipologie di layout:
- layout in linea: le macchine svolgono singole operazioni e sono disposte in modo
contiguo, nella stessa sequenza delle fasi previste dal ciclo del prodotto. La contiguità delle
macchine riduce il lead time delle linee. Per tanto la disposizione in linea è adatta ai
processi continui. Per evitare interruzioni del flusso produttivo sulle linee occorre
procedere al bilanciamento delle capacità produttive delle macchine, ciascuna delle quali
presenta una diversa dimensione ottima minima, cioè la sua capacità produttiva nell’unità
di tempo. Ne consegue che la capacità ottima minima di un impianto composto da più
macchine sarà pari alla capacità ottima della macchina a dimensione inferiore.
Il flusso minimo di pieno impiego dell’impianto composto da più macchine è, invece, la
quantità di produzione che assicura il pieno impiego del sistema delle macchine, aventi
ciascuna diversa capacità ottima minima. Bilanciamento e saturazione delle capacità
produttive delle macchine sono decisioni da prendere in modo coordinato.
Oltre alla riduzione dei lead time, il layout in linea consente altri vantaggi per i costi:
- assenza di semilavorati intermedi (non esistono magazzini per quest’ultimi)
- maggiori rendimenti di fabbrica grazie alla specializzazione delle macchine e la
ripetitività del lavoro
- semplice programmazione e controllo dello stabilimento.
In tutto ciò si perde flessibilità dell’impianto industriale, anche se, tuttavia, il layout in
linea può essere adottato anche per processi intermittenti.
- layout per reparto (o funzionale). Nella disposizione per reparto le macchine sono
raggruppate in reparti specializzati in particolari operazioni/lavorazioni. In ogni reparto
lavora il personale qualificato in grado di usare vari macchine. I reparti raggruppano le
macchine per omogeneità di operazione/lavorazione. I prodotti,quindi, si formano
gradualmente passando per i vari reparti e sostando nei magazzini di semilavorati. Ogni
reparto esegue una fase del ciclo di lavoro. Ne consegue che lo stabilimento strutturato in
11
reparti può svolgere diversi cicli di produzione e ottenere prodotti diversi. Il layout per
reparti si adatta quindi ai processi intermittenti. Questa flessibilità produttiva genera
perdite di produttività dovute a lead time lunghi, mezzi di trasporto dei semilavorati e
complessità della programmazione e del controllo della produzione.

4.2 Tra la disposizione in linea e quella in reparti esistono soluzioni intermedie che cercano di
conciliare produttività e flessibilità:
- il layout dei reparti in linea: per contenere i tempi e i costi dovuti all’eccesiva
movimentazione dei materiali all’interno dello stabilimento, i reparti sono disposti nella
sequenza prevista dal ciclo di lavorazione.
- il layout in linea con funzionamento per cicli intermittenti: sulla stessa linea si
avvicendano diversi cicli. Il difetto sta nei costi e nei tempi di riattrezzaggio della linea.

5) La programmazione della produzione standardizzata

5.1 L’impresa della produzione di massa, come già visto, ha sfruttato le economie di scala,
supportata da flussi crescenti di vendita di beni e servizi standard. Tali flussi produttivi
sono realizzati e posti sul mercato in base alla previsione quantitativa della domanda. Per
l’impresa della produzione di massa la produttività e il principale fattore competitivo, che
risulta essere condizionato dallo sviluppo della domanda, a sua volta condizionata
dall’abbattimento dei prezzi di vendita. Questo tipo di impresa orienta quindi la produzione
all’anticipazione della domanda, al fine di poterla pienamente controllare. Si tratta di un
sistema chiuso non permeabile dall’esterno, ma capace di inviare stimoli al mercato. Esso è
perciò destinato al controllo unilaterale della domanda di mercato attraverso l’offerta di
prodotti standard che produce e accumula in magazzino (make-to-stock).
Finchè la domanda è stata omogenea, stabile e controllabile il sistema della produzione di
massa (divenuta rigida) ha funzionato, ma quando la domanda si è frantumata in domande
eterogenee l’accumulo delle scorte è diventato un investimento troppo rischioso. La
produzione di massa ha equilibrato domanda e offerta con la produzione per il magazzino,
ma le nuove condizioni ambientali hanno reso impossibile la previsione quali-quantitativa
della domanda ed il confezionamento anticipato della “risposta”. Il nuovo paradigma è la
personalizzazione di massa. Ora vediamo la programmazione della produzione e il
processo a fasi sequenziali di sviluppo dei nuovi prodotti che hanno permesso all’impresa
della produzione di massa di predisporre anticipatamente e quali-quantitativamente la
propria offerta.

5.2 La programmazione della produzione è il processo con cui l’impresa della produzione di
massa gestisce la capacità produttiva, difficilmente modificabile nel breve termine, al fine
di ottenere il prodotto prestabilito che sostenga le richieste previste del mercato. Si tratta di
un’attualizzazione dei flussi futuri degli ordini di acquisto perverranno dal mercato in
futuro. In sostanza trattasi dell’elaborazione di piani d’azione per il controllo del mercato
stesso. La programmazione della produzione copre archi temporali di varia durata in base
alla quale si attuano distinti piani di produzione:
1) piani aggregati di produzione, coprono periodi futuri compresi tra i 12 e 18 mesi (più
frequentemente 6-12 mesi), hanno come oggetto le famiglie di prodotti;
2) piani principali di produzione, coprono archi temporali inferiori ai 12 mesi, hanno come
oggetto i singoli prodotti;

12
3) piani operativi, coprono archi temporali inferiori ai 15 giorni,hanno come oggetto i
singoli componenti di prodotto risultanti dalla distinta base che scompone il prodotto nelle
sue singole parti. La complessità del prodotto cresce al crescere del numero di livelli della
distinta base.
[vedi schema pag. 48]
1) Una famiglia di prodotti è costituita da un insieme di prodotti simili dal punto di vista
tecnico produttivo. La programmazione aggregata parte dai seguenti dati:
- la previsione della domanda relativa alle famiglie di prodotti;
- i compiti assegnati al manufacturing dalla strategia di business;
- le risorse disponibili e i ritmi di produzione;
- costi e produttività del lavoro ordinario e straordinario.

5.3 (continua discorso sul piano aggregato)


L’obbiettivo del piano aggregato è la determinazione, per ogni famiglia di prodotti,delle
unità da realizzare nell’arco temporale di riferimento, al fine di soddisfare la domanda
prevista. Il livello della produzione richiesta dal mercato (domanda) è una variabile
importante per la determinazione della capacità produttiva necessaria; quest’ultima è
funzione della modalità con cui la produzione sceglie di correlarsi con la domanda.
Esistono tre principali politiche di produzione per l’interazione con la domanda:
1) la politica di “livellamento della produzione”;
2) la politica “adattamento alla domanda”;
3) la politica mista.
1) La politica di “livellamento della produzione”
Adottando questa politica, l’impresa tende a realizzare la produzione ad un flusso continuo
e costante, corrispondente al livello medio della domanda di mercato, riequilibrando le
variazioni tramite le scorte. La capacità produttiva necessaria, stimata per dimensionare gli
impianti, sarà pari al livello medio della domanda. Le scorte di prodotti finiti aumenteranno
quando la domanda è inferiore alla media, mentre diminuiranno quando le richieste dei
clienti sono superiori alla media. [vedi schema pag. 50]
2) La politica di “adattamento alla domanda”
In questo caso l’impresa decide di inseguire la domanda e non far leva sulle scorte quando
la domanda supera l’offerta. L’impresa, quindi, dovrà effettuare investimenti in capacità
produttiva che coprano i fabbisogni produttivi necessari a soddisfare la domanda massima,
che presumibilmente si verificherà nel periodo di tempo preso in considerazione.
L’investimento totale è dunque sotto-utilizzato in alcuni periodi; pertanto la produttività
non è mai costante. [vedi schema pag. 51]
3) La politica mista
L’impresa cerca di gestire le variazioni della domanda attraverso la politica delle scorte e la
politica del prezzo, per uniformare l’andamento della produzione a quello della domanda, e
ridurre il livello della capacità produttiva inutilizzata. Quando la domanda scende
l’impresa riduce il prezzo, cercando di stimolare gli acquisti: il costo della politica del
prezzo è pari alla perdita di ricavi determinata dalla riduzione dei prezzi. La gestione della
domanda è affidata alla politica del prezzo, che deve renderla più stabile ed uniforme
possibile e tendente alla capacità produttiva conveniente, al fine di contenere i costi delle
scorte. La combinazione ottimale tra le due politiche è quella che minimizza il totale dei
costi di entrambe le politiche; in tale posizione di minimo si determinerà la capacità
produttiva. [vedi schema pag. 52]

13
5.4 La capacità produttiva disponibile è uguale alla differenza tra la capacità produttiva teorica
e le perdite di capacità produttiva dovute ai tempi non operativi, causati dai set-up, i guasti
e l’assenteismo. Se la capacità produttiva conveniente supera la capacità produttiva
disponibile, si rendono necessarie le seguenti soluzioni di copertura del gap produttivo:
- il ricorso alla sub-fornitura;
- l’impiego di lavoro straordinario;
- le nuove assunzioni;
- gli interventi sull’organizzazione della produzione.
La scelta della soluzione più efficiente dovrebbe ricadere su quella a costo minore. Dopo
aver effettuato la programmazione aggregata, si passa ad uno scheduling più dettagliato a
cura dei MPS (Master Production Schedule), ciascuno dei quali ha per oggetto un singolo
prodotto dell’impresa. I MPS stabiliscono:
- tempi, varietà e quantità di prodotto da realizzare;
- variazione (crescita o riduzione) del livello delle scorte dei prodotti finiti per periodo di
produzione.
Le decisioni ricomprese nei MPS rispecchiano le scelte di politica di produzione
(inseguimento della domanda, livellamento della produzione o politica mista). Inoltre
vengono quantificati i fabbisogni di lavorazione (quantificati con i MPS, le distinte di base
e la contabilità di magazzino) e i fabbisogni di approvvigionamento (da fornitori esterni) di
componenti e semi lavorati. I primi si traducono in ordini di produzione da inviare ai
reparti della fabbrica, i secondi in ordini di acquisto da inviare ai fornitori esterni.
La programmazione della produzione si conclude con i piani operativi, cioè la sequenza
delle operazioni da eseguire per realizzare i lotti, assegnando a ciascuna di esse la
macchina apposita. La programmazione delle operazioni prende la forma del FAS (Final
Assemble Schedule) che ha per oggetto le operazioni di assemblaggio.

5.5 Dall’analisi condotta è evidente che l’intero processo di pianificazione della produzione si
svolge con approccio gerarchico che parte da dati aggregati e procede verso piani di
produzione sempre più dettagliati. Tale programmazione è detta push (a spinta) perché ai
fabbisogni di lavorazione e di approvvigionamento si giunge “spingendo” tutto il processo
di programmazione lungo un percorso logico, partendo dalla previsione della domanda.
[vedi schema pag. 54]
Tutto questo è riferito ad imprese che producono per il magazzino prodotti finiti
standardizzati, anticipando la domanda di mercato (make-to-stock), ma può essere esteso
ad imprese che assemblano componenti standardizzati a loro volta realizzati per il
magazzino, al fine di assicurare al cliente un margine di personalizzazione del prodotto
finale (assemble-to-order).

6) Il processo “generico” di sviluppo del prodotto

6.1 Il processo di sviluppo del prodotto (New Product Development = NPD) è la sequenza di
attività che l’impresa svolge per concepire, progettare e lanciare sul mercato un nuovo
prodotto. Il processo generico di sviluppo del prodotto si compone di cinque fasi. L’input
del processo consiste nella focalizzazione del mercato-obbiettivo e del beneficio
fondamentale che il prodotto vuole apportare al cliente, l’output è il lancio del prodotto sul
mercato. Le cinque fasi del processo generico di sviluppo del prodotto sono :
6.1.1 lo sviluppo del concept del prodotto
6.1.2 la progettazione a livello di sistema (o progettazione preliminare)
14
6.1.3 la progettazione dettagliata (ingegnerizzazione del prodotto e del processo)
6.1.4 la verifica e il perfezionamento
6.1.5 la produzione di lancio
[vedi schema pag. 56]
Lo sviluppo del prodotto richiede la collaborazione di tutte le funzioni aziendali in ognuna
delle cinque fasi sopra-citate:
- il marketing: deve saper “leggere” il mercato anticipando le tendenze, interviene fino al
lancio del prodotto;
- la progettazione: esistono diverse discipline progettuali che interessano diverse aree
specialistiche aziendali, quali: ingegnerizzazione del prodotto e del processo, che interessa
gli ingegneri e la funzione del manufacturing; l’industrial design che interessa i designers
nella differenziazione del prodotto rispetto alla concorrenza; il grafic design per la
progettazione degli elementi immateriali del prodotto; ecc;
- la ricerca e sviluppo: è la funzione che gestisce in modo principale, ma non esclusivo, lo
sviluppo della tecnologia.
- la finanza: i progetti vanno finanziati con denaro da reperire sui mercati dei capitali, tale
denaro ha un costo e attende una remunerazione. Questa funzione valuta costi e redditività
di un nuovo progetto, oltre a reperire capitale da investire nel nuovo progetto.
6.1.1 Lo sviluppo del concept del prodotto. [vedi schema pag. 58] È la fase di sviluppo del
nuovo prodotto, nonché quella che più necessita del coordinamento tra le funzioni
aziendali. La definizione concettuale del prodotto è un processo che evoca molteplici
dimensioni del prodotto (aspetto, prestazioni, tecnologia, sensazioni tattili/visive) per
mezzo delle quali verranno attratti e soddisfatti i clienti. Le fasi per lo sviluppo del
concept del prodotto sono:
1. l’identificazione dei bisogni dei consumatori, un processo che a sua volta si scompone
in sei step:
a) la definizione dello scopo del processo di sviluppo. È la dichiarazione della mission
cioè la descrizione sintetica del prodotto e del beneficio-chiave che arrecherà al
consumatore, le performance finanziarie attese, i mercati-obbiettivo del prodotto,ecc.
l’attività è tipicamente di marketing;
b) la raccolta di dati dai clienti, tramite interviste e osservazioni dei clienti in
situazioni di utilizzo del prodotto;
c) l’interpretazione dei dati grezzi riguardanti i bisogni del consumatore;
d) l’organizzazione dei bisogni in una gerarchia;
e) la definizione dell’importanza relativa dei bisogni;
f) la riflessione sui risultati.
Dopo aver individuato un elenco gerarchico dei bisogni dei consumatori, lo sviluppo del
concept del protto procede con:
2. la definizione delle specifiche del prodotto, cioè la traduzione in termini tecnici,
estetici, tattili e visivi dei suddetti bisogni attraverso una precisa descrizione delle
funzioni, delle tecnologie, dei clienti finali del prodotto.
3. l’analisi dei prodotti dei concorrenti, utile per la progettazione del prodotto e del
processo produttivo.
4. la generazione di vari concepts di prodotto, per l’esplorazione di un range che
soddisfi i bisogni del consumatore.
5. la selezione dei concepts, che definisce quello da sviluppare.
6. il perfezionamento delle specifiche del prodotto, utile dopo la scelta del concept finale
7. l’analisi economica dei costi di sviluppo e di produzione.
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8. la pianificazione del progetto, in termini di staff richiesto, risorse necessarie, ecc.
6.1.2 La progettazione sistemica o preliminare. Durante questa fase ha luogo la definizione
dell’architettura del prodotto, cioè lo schema per mezzo del quale gli elementi funzionali ¹
di un prodotto sono organizzati in blocchi di elementi fisici ² (chunks), e di come questi
interagiscono tra loro (interfacce ³).
¹ Gli elementi funzionali del prodotto sono le singole funzioni che contribuiscono alla sua
performance globale.
² Gli elementi fisici di un prodotto sono le parti e i componenti che rendono operanti le
funzioni del prodotto.
³ Le interfacce sono le interazioni tra le parti.
Le due tipologie di architettura di prodotto che rappresentano gli estremi di un segmento
di soluzioni intermedie sono:
Architettura Integrale: - gli elementi funzionali del prodotto sono realizzabili utilizzando
diversi chunks;
- un singolo chunk rende operanti diversi elementi funzionali;
- le interfacce tra i chunks non sono ben definite, per cui i chunks
sono tra loro strettamente connessi.
Architettura Modulare: - ciascun chunk realizza un singolo elemento funzionale;
- le interfacce tra i chunks sono ben definite, per cui i chunks non
sono tra loro connessi.
La scelta dell’una o dell’altra architettura ha implicazioni su una serie di problematiche del
prodotto riguardanti la gestione del cambiamento e della varietà del prodotto, la
standardizzazione dei componenti, le performance del prodotto, la produzione, la gestione
e lo sviluppo del prodotto. L’architettura modulare consente di ridurre al minimo il
cambiamento fisico del prodotto per ottenere il cambiamento funzionale dello stesso. Ci
sono quindi possibilità di adattamento all’uso, di riutilizzo, di flessibilità nell’uso.
La varietà del prodotto concessa dalla modularità è connessa alle possibilità di
combinazioni offerte dall’assemblaggio di chunks standard, che abbatte notevolmente i
costi dei prodotti elevandone la qualità. La modularità, inoltre, semplifica l’organizzazione
e gestione del processo di sviluppo riducendo la necessità di stretta interazione tra chi
sviluppa i chunks.
Per quanto riguarda le performance del prodotto, invece, l’architettura integrale svolge un
effetto positivo in quanto la possibilità di implementare in un unico chunk più funzioni e di
accorpare strettamente i componenti consente di elevare le prestazioni eliminando i
sovradimensionamenti.
6.1.3 La progettazione dettagliata o ingegnerizzazione del prodotto e del processo. Dopo aver
stabilito l’architettura del prodotto, occorre procedere ad una progettazione di dettaglio,
che disaggreghi il prodotto in componenti reali, ciascuno dei quali deve essere progettato
da designers ed ingegneri. Si tratta di stabilire dimensioni geometriche, materiali,
attrezzature, strumenti, abilità professionali richieste ai lavoratori e componenti da reperire
all’esterno (outsourcing). L’ingegnerizzazione del prodotto consiste nella traduzione della
progettazione dettagliata in prototipi dei prodotti e al loro collaudo, che può generare
modifiche dei progetti. Questa fase coinvolge diverse figure tecniche delle varie unità
specialistiche. L’ingegnerizzazione del processo, invece, è gestita dagli ingegneri di
produzione.
6.1.4 La verifica empirica ed il perfezionamento. Prevede la costruzione e la valutazione di
molteplici prototipi. Il prototipo è “un’approssimazione al prodotto” che serve a
determinare se il prodotto funzionerà o meno così come è stato progettato, e se soddisferà i
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bisogni dei clienti-chiave. L’attività di prototipizzazione si snoda lungo tutto il processo di
sviluppo del prodotto con varie metodologie.
6.1.5 La produzione di lancio. In questa fase il prodotto viene realizzato secondo il sistema di
produzione pianificato, e fornito ai clienti selezionati. Gli obbiettivi in questa fase sono:
l’addestramento della forza lavoro, la risoluzione di qualsiasi problema produttivo e la
raccolta di informazioni utili al successo del prodotto sul vasto mercato.

6.2 Le cinque fasi del processo generico di sviluppo del prodotto sono supportate da
metodologie per la risoluzione dei problemi e la formulazione delle decisioni. Si tratta di
procedure che configurano processi paralleli a quello generico di sviluppo del prodotto.
Ogni sub-processo si struttura su più fasi di quello generico di sviluppo: stiamo parlando
delle attività di Industrial Design (ID), di Design For Manufacturing (DFM), di
Prototipizzazione e di Analisi economica del progetto di prodotto.
[vedi schema pag. 62]
6.2.1 Industrial Design (ID). La progettazione industriale è l’attività professionale di creazione
e sviluppo di concetti che ottimizzano le funzioni, il valore e l’aspetto dei prodotti, a
beneficio dell’utilizzatore e del produttore stesso. Le grandi imprese hanno dipartimenti
specializzati di ID, quelle piccole si rivolgono ad agenzie esterne specializzate. In sintesi,
l’ID si occupa di soddisfare le esigenze ergonomiche ed estetiche dell’utilizzatore del
prodotto.
Per quanto riguarda le esigenze ergonomiche, l’ID deve assicurare facilità nell’uso del
prodotto, nella manutenzione e la sicurezza nell’uso.
Per quanto riguarda le esigenze estetiche, l’ID deve rendere attraente il prodotto tramite
accorgimenti su forma, peso, dimensione e colore del prodotto stesso.
L’ID risulta determinante per le imprese che adottano una strategia di differenziazione,
contribuendo alla fidelizzazione del consumatore e alla creazione di valore della marca, al
punto che l’impresa può monetizzare i benefici addizionali al consumatore e tradurli in
premium price. In questo modo l’impresa può incassare flussi addizionali di profitto.
Le attività di ID perdurano lungo il processo di sviluppo con una durata che dipende dal
tipo di bene: quanto più affida il successo di mercato alle sue caratteristiche estetiche ed
ergonomiche, tanto maggiore sarà lo spargimento dell’ID nel processo di sviluppo.
6.2.2 Design For Manufacturing (DFM). Serve a contenere i costi di produzione del prodotto,
analizzandoli lungo tutto il processo di sviluppo. L’obbiettivo è accrescere la profittabilità
del prodotto, data dalla differenza tra ricavi e costi (tra cui quelli di produzione). Tali costi
di produzione possono essere variamente classificati:
a) costi dei componenti, acquistati esternamente o prodotti internamente, standardizzati
e personalizzati;
b) costi di assemblaggio, determinati da strumentazione tecnica e dal lavoro disponibili;
c) spese generali di stabilimento.
Inoltre, i costi di produzione si dividono in:
1. Costi fissi di produzione: non variano al variare della produzione, sebbene in un certo
range produttivo;
2. Costi variabili di produzione: variano sempre al variare della quantità prodotta.
I costi di produzione totali divisi per il numero delle unità prodotte determinano il costo
unitario medio, uno dei parametri per la determinazione del prezzo di vendita.
Contenere i costi di produzione significa agire sulle singole determinanti e su ciascuna
categoria di costo, al fine di ottimizzarle nell’ottica del raggiungimento di livelli di

17
efficienza produttiva che non penalizzino la qualità del prodotto, necessaria per il suo
successo commerciale.
6.2.3 Prototipizzazione. Gli obbiettivi di questo sub-processo sono molteplici:
- soddisfare i bisogni individuati dei consumatori e rispettare i livelli progettati di
performance;
- incentivare la comunicazione tra i tecnici e i vari stakeholder, al fine di acquisire
ulteriori informazioni circa le caratteristiche di cui dotare il prodotto;
- favorire una migliore integrazione tra i componenti del prodotto, a sua volta stimolando
un coordinamento più efficace tra i diversi membri del team di sviluppo del prodotto;
-consentire al team di sviluppo del prodotto di mostrare all’alta direzione e/o ai clienti
l’effettivo raggiungimento dei traguardi prefissati.
I prototipi del prodotto possono appartenere a quattro tipologie:
1. prototipi fisici: trattasi di oggetti tangibili;
2. prototipi analitici: trattasi di simulazioni e modellizzazioni al computer;
3. prototipi comprensivi: comprendono tutti o la maggior parte degli attributi del
prodotto;
4. prototipi focalizzati: contengono pochi attributi del prodotto.
Ciascuna di queste tipologie ha i suoi vantaggi. In ogni caso costruire o simulare prototipi è
un’attività onerosa, quindi l’opportunità di realizzarla va sempre bilanciata con i benefici
che da essa è possibile trarre. È utile ricorre alla prototipizzazione quando è elevata la
rischiosità connessa con il prodotto, in caso contrario è sufficiente un lancio di prova nel
mercato.
6.2.4 Analisi economica del progetto di prodotto. Riguarda la determinazione dei costi e dei
ricavi relativi al prodotto, con riferimento all’intero ciclo di vita. I costi generano flussi di
cassa in uscita (cash ouflows), i ricavi flussi di cassa in entrata (cash inflows).
Una misura di profittabilità del prodotto è il Net Present Value (NPV), cioè il valore
attualizzato del flusso di cassa generato durante l’intera vita del prodotto.

6.3 Quello sin qui descritto è il processo generico di sviluppo del prodotto. Lo stimolo che dà
avvio a tale processo può provenire dal mercato, che suggerisce i bisogni del consumatore
alla cui soddisfazione l’impresa può provvedere. In questo caso si parla di market-driven o
market-pull.
Le determinanti dello stimolo innovativo del prodotto, oltre alla domanda di mercato, sono:
- un’innovazione tecnologica, il processo innovativo inizia con l’analisi della tecnologia e
del mercato in cui essa può essere commercializzata attraverso i prodotti. Si parla di
processo technology push che prevede una precisa tecnologia da impiegare nel prodotto,
che se non dimostra di soddisfare i bisogni del consumatore, non dà seguito al processo.
- lo sfruttamento di una piattaforma di prodotto, cioè un progetto centrato su tecnologie
componenti comuni a più prodotti dell’impresa. In questo caso la commerciabilità del
nuovo prodotto è già verificata dalle famiglie di prodotto precedentemente generate.
- una richiesta personalizzata. Il processo generico di sviluppo si articola nelle sue fasi
interfacciandosi direttamente con il cliente che ha inoltrato la richiesta.

6.4 Il metodo sequenziale di organizzazione e gestione del processo di sviluppo del prodotto è
l’approccio tipico con cui le imprese della produzione di massa progettano e gestiscono
l’innovazione di prodotto/processo. Questo si basa sulla sequenza logica delle attività di
sviluppo, ciascuna delle quali è esercitata da una funzione aziendale prevalente.

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Ogni fase del processo stabilisce alla funzione aziendale di riferimento degli obbiettivi e
delle responsabilità, congrue alle competenze specialistiche della suddetta funzione.
Gli individui che operano nelle varie funzioni aziendali vengono riuniti in project team per
lo sviluppo del prodotto, ciascuno dei quali è guidato da un team leader. I team, pertanto,
risultano essere dei gruppi di lavoro in cui gli specialisti di ogni funzione lavorano,
continuando a dar conto ciascuno alla propria funzione di appartenenza. Il leader svolge un
lavoro di coordinazione tra le diverse competenze specialistiche, non è proprio un capo.
L’approccio sequenziale allo sviluppo del prodotto è tipico dell’economia di massa,
caratterizzata da domanda abbondante e controllabile, da tecnologia propria con un tasso di
sviluppo moderato, da stabilità dei mercati, ecc. Percorrere tutte le fasi di sviluppo del
prodotto in modo sequenziale, genera continue inversioni di marcia delle fasi stesse nel
caso di esito negativo nella verifica dei risultati raggiunti, ed allunga notevolmente i tempi
di commercializzazione dell’innovazione.
La razionalità del metodo sequenziale si manifesta in un’organizzazione e gestione
dell’innovazione condotta in base ad una pianificazione delle attività specialistiche ai vari
stadi del processo e delle procedure da attuare secondo prassi consolidate e comprovate.
L’approccio razionalista al processo di sviluppo del prodotto conduce ad una
semplificazione della gestione del cambiamento attraverso la rigida separazione e la
sequenzialità delle fasi del processo stesso. Ne consegue il riconoscimento delle diversità
di linguaggio e delle difficoltà di interazione tra le diverse funzioni, che l’autorità
manageriale dovrà prevedere e risolvere in fase di sintesi del processo di NPD.
[vedi schema pag. 70-71]
Il metodo funzionale NPD presuppone una progettazione esclusivamente in-house, cioè
senza coinvolgimento di soggetti esterni nel processo di sviluppo del nuovo prodotto.
Il flusso di informazioni è unidirezionale e il fatto di non farle pervenire direttamente agli
stadi del processo in cui devono essere prontamente fruite contribuisce a rendere difficile la
comunicazione tra le fasi, ad allungare i tempi di sviluppo e i tempi di sostituzione dei
modelli. Tutti questi svantaggi portano l’impresa a focalizzarsi esclusivamente
sull’innovazione radicale del prodotto: l’upgrading continuo è possibile solo in imprese e
mercati dinamici, cioè l’esatto opposto dell’economia di massa.

19
CAPITOLO 2: La produzione dell’impresa del capitalismo cognitivo

1) L’impresa del capitalismo cognitivo

1.1 Il capitalismo cognitivo è il sistema economico che fonda il processo di valorizzazione del
capitale principalmente sulla conoscenza. Il sapere proprietario incorporato nelle macchine
della fabbrica fordista, diventa sapere collettivo. La conoscenza diventa liberamente
condivisa grazie anche al supporto di Internet. Nel capitalismo cognitivo la conoscenza
diventa sociale, cioè si produce con il contributo di tanti centri di produzione, a livello
globale, essendo risorsa che deve liberamente circolare per potersi sviluppare.
I cambiamenti alla base dell’emergere del ruolo della conoscenza nei processi di
valorizzazione del capitale sono:
- l’aumento degli investimenti nella produzione della conoscenza;
- la riduzione dei costi di codificazione e trasmissione della conoscenza.
Ma cos’è la conoscenza? Secondo Fumagalli è:
1. l’informazione, che è conoscenza svincolata dall’ apprendimento e trasmissibile con un
linguaggio codificato e condiviso, quindi replicabile serialmente;
2. il sapere, che è frutto dell’apprendimento e si traduce nel saper fare, cioè in modelli
comportamentali. È conoscenza in azione;
3. la conoscenza sistemica, che è frutto di apprendimento, non è codificabile e non è
separabile da chi la possiede.
I tre livelli di conoscenza corrispondono a tre livelli crescenti di profondità della
conoscenza medesima. La trasmissibilità della conoscenza è via via più complessa al
crescere del grado di profondità.

1.2 Il capitalismo cognitivo focalizza il ruolo centrale della conoscenza ai fini della creazione
del profitto, conoscenza che diventa prodotto e principale fattore della produzione, e che
supera i confini delle singole imprese e diventa sociale. Il sapere non è più monopolio del
capitale, ma diventa risorsa legata alle persone, pertanto si parla anche di capitalismo
personale. Rispetto alla conoscenza personale, la conoscenza sociale ha potere
moltiplicativo in quanto è conoscenza condivisa. Nei processi cognitivi, la conoscenza
sociale si moltiplica e rigenera con l’uso e la condivisione, e non ha potere di esclusione:
essendo risorsa comunitaria, non rivale, essa cresce con la condivisione e il riuso.
Il capitalismo cognitivo segna una rivoluzione delle fonti di valorizzazione del capitale, ma
non scalfisce l’esistenza delle variabili principali del sistema capitalistico, come il fine del
profitto e la proprietà privata del capitale.

1.3 Sulla base di quanto appena detto, le imprese devono far leva sul sapere non più solo
proprietario del capitale, incorporato nelle macchine, ma anche su quello delle persone, sia
interne che esterne ai confini organizzativi. La fabbrica, quindi, abbatte i suoi confini e la
produzione diviene sempre più diffusa, allargandosi ad altre unità produttive e di consumo
che formano la rete. Ne consegue che la produzione non è più osservabile a livello di
funzione aziendale o di singola impresa, ma si parla di filiere cognitive e sistemi reticolari
diffusi di competenze e conoscenze, cui le imprese partecipano creando valore per gli
stakeholders. Potremmo definire la conoscenza una “merce di passaggio” che la singola
impresa può solamente “catturare” e usare temporaneamente, contribuendo ad alimentarla,
ma non riuscendo mai a trattenerla definitivamente, poiché la conoscenza deve circolare
per poter crescere.
20
La produzione diffusa trova ragione di essere nel fatto che la realizzazione del prodotto
necessita di tante conoscenze che non possono essere trovate all’interno di una sola
impresa, e che il consumatore è una fonte importante di conoscenza: produzione e consumo
non sono più fenomeni separabili.

1.4 Un fenomeno parallelo alla produzione diffusa è la produzione sociale, cioè il nuovo modo
di produrre conoscenza generato dalle opportunità offerte dal cambiamento tecnologico.
Con la diffusione della banda larga e dei PC a basso costo, è nata la produzione non
commerciale e non proprietaria di informazioni e conoscenze. In questo contesto, le
persone assumono un ruolo centrale nel processo cognitivo. Il modello della produzione
sociale della conoscenza ha conseguenze anche sul manufacturing che vede una
democratizzazione ed estraniazione dall’impresa della manifattura: la cosiddetta
produzione distribuita. Questi fenomeni minacciano gli interessi delle imprese produttrici
di sapere industriale, che fanno ricorso a tutele legali quali i brevetti e il copyright. Ma il
processo di democratizzazione della produzione della conoscenza è ormai avviato e non
sembra arrestabile.

1.5 Le capacità e le competenze organizzative sono il frutto dell’apprendimento collettivo e il


risultato della capitalizzazione della conoscenza sociale di cui si appropria
temporaneamente l’impresa. Esse si esprimono attraverso la routine cioè la parte
automatica ed abitudinaria del saper fare organizzativo, le pratiche e i comportamenti
aziendali che sono svolti in modo ripetitivo ed automatico. Chiaramente non tutte le
competenze sono di routine. In generale le competenze riguardano il saper fare e il saper
pensare delle imprese. La generazione e l’accumulazione di nuova conoscenza abilitano le
imprese alla creazione, difesa e sviluppo delle competenze organizzative. Quest’ultime
danno perciò visibilità e valore alle imprese e alle filiere nei mercati di riferimento.
La generazione del valore nei sistemi di imprese richiede a ciascuna di queste lo sviluppo
ed il presidio di altre capacità come il saper fare accesso al sapere collettivo e di saper
integrare il sapere proprietario con quello sviluppato a livello di catena del valore.
Le filiere, quindi, sono sistemi diffusi di competenze, ad affrontare e gestire il
cambiamento ambientale, anticipando i cambiamenti o addirittura suscitandoli.
Per impresa diffusa pro-attiva si intende la filiera cognitiva capace di determinare il
cambiamento ambientale sviluppando continuamente risorse e competenze distintive.
L’impresa, quindi, può essere adattiva o pro-attiva rispetto al cambiamento ambientale e,
dosando queste due strategie, è in grado di mantenere il vantaggio competitivo.

1.6 Sono flessibili i sistemi che riescono a gestire al meglio il rapporto con l’esterno
declinandosi in adattamento e pro-attività. L’adattamento può essere di due tipi:
- passivo e meccanico, l’adattamento dell’impresa alle mutate condizioni ambientali
incorpora risposte programmate al cambiamento di un contesto, i cui possibili stati
futuri sono già stati delineati, quando è possibile. In questo caso la conoscenza è la
capacità di far fronte a problemi specifici tramite un meccanismo di apprendimento che
nel momento della decisione riduca il gap informativo.
- inter-temporale e all’informazione, riconosce il valore del tempo ai fini
dell’acquisizione delle informazioni necessarie a ridurre l’incertezza ambientale, e
accrescere così la conoscenza dei fenomeni nel momento stesso della decisione. Le
imprese che possiedono capacità di adattamento inter-temporale ed all’informazione

21
sono in grado di attendere l’informazione ed apprendere dall’esperienza, al fine di
assumere un’azione organizzativa coerente con il contesto.
Quando la situazione esterna si fa a complessità ed incertezza crescenti, le imprese, per
essere in grado di affrontarla, devono sanare sia i gap informativi sui possibili stati
futuri della natura (apprendimento informativo), sia i gap cognitivi relativi alla
comprensione degli stati futuri della natura (apprendimento cognitivo).
Tra i meccanismi di generazione di conoscenze nuove ci sono quelli da interazione o di
apprendimento collettivo. I processi di apprendimento dovrebbero integrare il learning
basato sull’esperienza, compensandone i limiti.

2) Le teorie organizzative sull’apprendimento e sulla creazione della conoscenza

2.1 Sulla base di quanto detto finora, ne consegue che le imprese post-fordiste sono
organizzazioni in grado di apprendere (learning organization), cioè sistemi che creano ed
accumulano nuova conoscenza nelle proprie strutture in virtù dell’interazione con
l’ambiente circostante. L’apprendimento organizzativo si genera nei processi di business
che creano conoscenza attraverso la trasformazione dell’esperienza. L’apprendimento
permette all’organizzazione di intraprendere azioni efficienti nell’ambiente in cui vive ed
interagisce. Questo avviene grazie all’apprendimento individuale degli individui che
compongono l’organizzazione: l’apprendimento organizzativo, quindi, procederà di pari
passo con quello individuale.

2.2 I modelli mentali individuali rappresentano la memoria attiva dell’individuo e hanno un


ruolo attivo nell’apprendimento poiché essi influenzano ciò l’individuo vede, seleziona ed
immagazzina di un’esperienza. I modelli mentali esistono sia a livello individuale che
organizzativo e si articolano in routine e strutture. Le routine sono i modelli (criteri) che
guidano le azioni ripetitive e programmabili. Le strutture sono i valori, le idee, e la cultura
che guidano le scelte relative alle azioni che diventeranno routine. I modelli mentali
individuali o collettivi sono il “luogo” in cui risiede la maggior parte della conoscenza.
L’apprendimento organizzativo non è semplicemente la somma degli apprendimenti
individuali, ma dipende anche dalle sinergie che accrescono il valore e il livello della
conoscenza prodotta. Come anticipato, perché ci sia apprendimento organizzativo è
necessario che si realizzi il trasferimento dell’apprendimento individuale
all’organizzazione. Esistono difficoltà di esplicitazione dei modelli mentali al fine di
renderli trasferibili e condivisibili: occorre un linguaggio condiviso e l’uso di archetipi in
grado di trasferire la nuova conoscenza individuale a livello organizzativo.
I modelli mentali collettivi contribuiscono a creare l’ambiente organizzativo che incoraggia
gli individui a divenire agenti dell’organizzazione stessa. A tal fine operano anche le altre
“learning disciplines”:
- shared vision, cioè lo sviluppo nell’organizzazione di un’immagine condivisa del futuro
che si cerca di creare;
- team learning, in modo che il gruppo possa sviluppare capacità ad un livello maggiore
rispetto alla semplice somma delle capacità individuali;
- systems thinking, al fine di sviluppare una chiave d’interpretazione sistemica delle forze
che influenzano il comportamento delle organizzazioni;
- personal mastery, le organizzazioni devono rappresentare il luogo ideale dove gli
individui possono sviluppare le proprie competenze.

22
2.3 Le routine sono lo specchio delle competenze e delle capacità e sono difficili da replicare
poiché si tratta di conoscenza implicita. L’esperienza è in grado di far evolvere e adattare la
routine. Secondo numerosi studi, la fonte primaria del vantaggio competitivo dell’impresa
è la creazione di nuova conoscenza organizzativa; senza apprendimento le imprese non
realizzano il miglioramento continuo dei processi di business e non difendono quindi le
competenze. Il legame tra l’apprendimento organizzativo e il miglioramento delle
performance aziendali è alla base delle capacità dinamiche, cioè l’abilità delle imprese di
rinnovare, integrare e riconfigurare le capacità strategiche, interpretandole come fonte di
vantaggio competitivo in mercati dinamici e turbolenti. L’impresa evolve apprendendo, ma
segue una traiettoria di sviluppo delle capacità che è fortemente influenzata dalla sua stessa
storia. La flessibilità è l’abilità delle imprese di gestire il cambiamento ed è il marchio
distintivo della learning organization. I processi di learning, però, hanno dei limiti:
producono il rapido miglioramento delle capacità organizzative sulla base
dell’accumulazione di nuova conoscenza mutata dall’esperienza, ma riduce lo stimolo a
misurarsi con nuove competenze, che non possono maturare nel breve periodo e sulla base
dell’esperienza. Secondo Levinthal e March, il learning presenta almeno tre forme di
“miopia” che inducono le organizzazioni a produrre risposte adattive, specializzate e
semplificate: 1. Miopia di tipo temporale: fa ignorare i lunghi periodi di tempo;
2. Miopia di tipo spaziale: genera focalizzazione solo sulle azioni correnti;
3. Miopia che comporta un’attenzione selettiva sugli insegnamenti che
possono essere tratti dai successi, ignorando l’analisi delle esperienze
fallimentari.
Tali forme di “miopia” conducono l’organizzazione a coinvolgersi prevalentemente nello
sfruttamento (exploitation) delle proprie capacità e poco nell’esplorazione (exploration) di
nuove idee alternative.
Le organizzazioni realmente in grado di apprendere sono quelle in grado di dividere le
proprie risorse tra il miglioramento delle capacità attuali e il cambiamento radicale delle
medesime. Le imprese che adottano l’explotation si adattano rapidamente al mondo che
cambia con rapidi sviluppi delle proprie capacità: i ricavi sono prevvedibili poiché
ravvicinati, ma c’è il rischio dell’obsolescenza. Viceversa, le imprese che adottano
l’exploration sviluppano ciò che non sanno: gli investimenti sono incerti e i tempi di
sviluppo rischiano di allungarsi troppo. Le imprese, dunque, devono trovare un equilibrio
tra le due strategie, anche se il learning rende difficile ciò a causa delle “miopie” sopra-
citate e l’ostinazione a rinnovarsi piuttosto che innovarsi.

2.4 [Le prime righe di questo paragrafo sono un riassunto di quanto descritto nei paragrafi
precedenti]
Nell’ottica della learning organization l’attenzione è sul come le organizzazioni creano
nuova conoscenza (i processi di apprendimento individuale ed organizzativo) e sul dove
essa si immagazzina (la memoria e la struttura organizzativa).
I processi di apprendimento organizzativo sono una combinazione di esteriorizzazione e
interiorizzazione della conoscenza procedurale e concettuale.
Critiche alla learning organization provengono da vari ambiti, tra questi “La teoria della
creazione della conoscenza” secondo la quale le organizzazioni creano conoscenza
attraverso processi di interazione tra conoscenza implicita e conoscenza esplicita, che
danno vita a quattro modalità di interazione/conversione. [vedi schema pag. 88]

23
Com’è per la learning organization anche nella prospettiva della knowledge-creating
company: - la creazione di nuova conoscenza è un processo dinamico che inizia a livello
individuale per poi “montare” a livello organizzativo;
- la conoscenza è di due tipi: esplicita o tacita (implicita). La prima è formale e
sistematica, quindi facilmente condivisibile. La seconda è personale, non
formalizzata, quindi difficilmente trasferibile.
Vediamo le quattro risultanti dell’interazione tra conoscenza esplicita e tacita:
1. da tacita a tacita. Il trasferimento della conoscenza tacita avviene attraverso la
condivisione dell’esperienza. Questo processo di creazione della conoscenza
organizzativa è la socializzazione;
2. da tacita a esplicita. Convertire la conoscenza implicita in esplicita vuol dire
formalizzarla e renderla facilmente condivisibile. Tale processo è detto esteriorizzazione
della conoscenza implicita attraverso la sua articolazione in un linguaggio condiviso;
3. da esplicita a esplicita. Tale processo è detto di combinazione;
4. da esplicita a tacita. Quando la conoscenza esplicita è condivisa nell’organizzazione
viene interiorizzata, cioè diventa conoscenza tacita.
Ciascuna di queste quattro modalità di conversione della conoscenza crea nuova
conoscenza. All’interno delle organizzazioni le interazioni tra le forme di conoscenza sono
strutturate in un ciclo continuo, caratterizzato da progressivi slittamenti modali nell’ordine
socializzazione-esteriorizzazione-combinazione-interiorizzazione.
A differenza della learning theory, la teoria della creazione della conoscenza non si limita
alla conversione dell’esperienza individuale in conoscenza organizzativa. Le quattro
modalità di conversione della conoscenza, infatti, creano la “spirale della conoscenza”,
definita come “l’aggrovigliarsi dinamico” delle quattro modalità, determinato dalle spinte
di “slittamento modale”. Tali spinte amplificano a livello organizzativo la conoscenza
individuale, fino a portarla a un livello inter-organizzativo.
[vedi schema pag. 90]

2.5 L’analisi di Kogut e Zander sulla knowledge based firm si focalizza sulle combinative
capabilities, cioè sulle capacità delle organizzazioni di combinare le capacità esistenti al
proprio interno per creare nuove applicazioni del sapere. Secondo i suddetti studiosi, le
imprese fanno meglio dei mercati nel trasferimento e nella condivisione della conoscenza
tra gli individui. Tale conoscenza è esplicita e implicita, appartiene agli individui ma è
incastonata nelle regole, nelle routine e nei principi organizzativi con cui essi cooperano
nei contesti sociali. Nonostante ciò le organizzazioni conservano capacità autonome di
creazione di creazione della conoscenza: le già citate combinative capabilities, che
favoriscono le relazioni tra individui ed organizzazioni.
Grant, invece, affronta il tema del trasferimento della conoscenza, che implica l’esame di
altri due argomenti: la capacità di assorbimento di chi riceve la trasmissione e
l’inefficienza del processo di trasferimento della conoscenza. Il trasferimento della
conoscenza coinvolge colui che fornisce la conoscenza, con la sua abilità di usare
linguaggi condivisi, e il recipient, con le sue capacità di assorbimento. Alla base dell’idea
di Grant c’è la concezione dell’impresa come istituzione in grado di integrare la
conoscenza degli individui che la compongono. L’integrazione delle conoscenze
individuali richiede, secondo Grant, l’esistenza di una conoscenza comune quali un
linguaggio comune, ecc. i “prodotti” delle integrazioni delle conoscenze individuali sono le
capacità organizzative, che se risulteranno distintive e durature rappresenteranno il
vantaggio competitivo dell’impresa.
24
3) L’apprendimento per interazione dell’impresa del capitalismo cognitivo

3.1 Le imprese sono sempre più orientate a dar rilievo alla dimensione relazionale nei processi
di apprendimento delle organizzazioni, con il network che fa da medium attraverso il quale
tali processi si sviluppano. Il network (inter-organizzativo) è un sistema di relazioni
sociali, professionali e di scambio tra organizzazioni. Si tratta di un contesto sociale che
può essere geograficamente disperso, in cui vivono imprese appartenenti a un’industria,
sempre aperto a nuovi ingressi o fuoriuscite di partner che non ritengono più vantaggioso
legarsi a quel contesto. Se la partecipazione ad un network relazionale è un mezzo per
accedere ad informazioni e conoscenze specialistiche possedute dai vari partecipanti, il
network stesso è una risorsa su cui tutti i partner possono far leva per rendere più della
concorrenza. Tale risorsa è quasi inaccessibile a quanti non appartengono a quel contesto
sociale, oltre ad essere difficilmente replicabile per gli altri network. Il network, inteso
come risorsa comune e condivisa tra le organizzazioni, può essere anche definito capitale
sociale. La struttura di un network, cioè il suo modello di relazioni, è unico e dipende dalla
sua storia ed è essa stessa una risorsa comune. Alcune modalità per organizzare
l’apprendimento collettivo sono: gli accordi nella ricerca e sviluppo, le pratiche di co-
design, le partnership su singoli progetti, gruppi di lavoro inter-funzionali, ecc.

3.2 Il network, in definitiva, agevola il trasferimento, l’integrazione, la ricombinazione per


nuove applicazioni delle conoscenze specialistiche possedute dalle singole organizzazioni,
nonché la creazione e la successiva condivisione tra i partner di nuova e ulteriore
conoscenza. Le relazioni esterne nei processi d’apprendimento, quindi, non vengono
utilizzate solo come meccanismo per compensare la mancanza di capacità interne, ma
anche come mezzo per accrescere il bagaglio delle proprie competenze. Le relazioni tra le
organizzazioni per l’apprendimento non possono più essere suddivise in exploiting ed
exploring, questo perché le piattaforme inter-impresa rendono lo sfruttamento delle
conoscenze contestuale all’esplorazione di nuove opportunità tecnologiche, in virtù del
processo d’integrazione dei partner e di creazione di nuova conoscenza collettiva. Di
contro, un network può bloccare o limitare gli sforzi dei partner a ricercare nuove
opportunità tecnologiche e rappresentare un vincolo alla crescita delle organizzazioni.

3.3 Recentemente gli studiosi si sono focalizzati sul knowledge sharing network cioè il
network fondato su routine istituzionalizzate a livello inter-organizzativo di trasferimento,
ricombinazione e creazione di nuova conoscenza specializzata, da condividere tra tutti i
partecipanti al network stesso. Attraverso tali processi di trasferimento, condivisione e
combinazione delle conoscenze, regolati soprattutto dalle routine istituzionalizzate entro il
network, le organizzazioni apprendono reciprocamente e accrescono il proprio bagaglio di
capacità e competenze distintive.
Tra produttori e fornitori si instaura un particolare legame inter-organizzativo: le tier
supplier partnership, cioè le modalità con cui il produttore trasferisce conoscenza ai
fornitori, necessaria ad una gestione efficace della suppli chain (catena di fornitura) con
apprendimento collettivo di entrambe le parti. Le relazioni, nelle tier partnership, sono
trainate dal produttore e producono un livello modesto d’innovazione. Il learning network,
cioè il modello di network non centrato sul produttore, possiede meccanismi di
trasferimento e di combinazione della conoscenza che eleva le competenze di tutti gli attori
del contesto relazionale.

25
Il learning network è dunque decentrato dal capitalismo cognitivo, ma centrato
sull’apprendimento collettivo. Questa tipologia di network si mostra adatta alla gestione
della discontinuità tecnologica, favorendo l’apprendimento delle imprese che operano in
mercati turbolenti. I legami che si creano tra i partner non sono quelli produttore-fornitori
focalizzati sui benefici del produttore, bensì relazioni inter-organizzative che coinvolgono
tutti gli attori sociali desiderosi di innalzare il livello delle proprie conoscenze/performance.

3.4 La conoscenza, dunque, non matura solo all’interno dell’organizzazione aziendale, ma


viene in gran parte “catturata” all’esterno dei propri confini, nelle reti sociali cui esse
partecipano. Il capitale sociale aziendale è l’insieme delle risorse che pervengono alla
singola impresa attraverso le relazioni esterne, agevolandola nel raggiungimento dei propri
obbiettivi. Questo permette alle organizzazioni di venire in possesso di una quantità di
informazioni, conoscenze, risorse e competenze nettamente superiore a quella che
riuscirebbero ad acquisire da sole. Il capitale sociale di un network genera benefici sulle
performance di ciascuna impresa, purché le relazioni inter-organizzative rispettino norme
di equità e reciprocità.

3.5 Le imprese, con la propria attività, coprono solo una porzione della suppli chain, e la
tendenza attuale è verso una progressiva esternalizzazione delle attività. In questo modo le
imprese dipendono sempre più da competenze e capacità incorporate entro i network inter-
organizzativi, composti non solo da produttori e fornitori, ma anche da organizzazioni
governative, finanziarie e di ricerca. Le relazioni entro i network sono:
- partnership based, relazioni bilaterali tra impresa ed attori esterni come collaborazioni
con università o centri di ricerca;
- sponsorship based, rapporti unilaterali di supporto (finanziario e non), fornito all’impresa
da banche commerciali, agenzie, organi governativi.
Il livello di corporate social capital è funzione:
- della disponibilità e numerosità di canali nel network attraverso cui l’impresa può
instaurare legami di partnership e sponsorship;
- della numerosità e qualità delle risorse esterne all’impresa, entro i confini del network;
- del livello della capacità di assorbimento e di combinazione delle competenze per
generare nuova conoscenza.
Le risorse e competenze interne e il corporate social capital sono le leve strategiche
interdipendenti e complementari di creazione del valore: le capacità interne facilitano le
imprese ad accumulare capitale sociale, mobilizzando risorse complementari di unità
organizzative esterne e stimolando queste ultime a collaborare. A sua volta, il capitale
sociale aziendale aiuta le imprese ad accumulare risorse interne, fornendo accesso ad
informazioni, conoscenze, capitale umano e finanziario.
[Breve riepilogo di quanto detto finora]
Con la teoria del capitale sociale è ragionevole affermare che la competizione non si fa più
solo tra le singole imprese, ma tra intere catene di produzione e fornitura. L’apprendimento
inter-impresa può avvenire per interazione, lavorando insieme su progetti specifici, oppure
facendo leva su risorse e competenze che compensano la mancanza di quelle interne,
quindi focalizzandosi su capacità di assorbimento e capacità d’integrazione flessibile.
In conclusione, il possesso delle core competencies e le difficoltà di
appropriazione/replicazione di esse per la differenziazione e la difesa dalla concorrenza
non bastano: nell’economia cognitiva è il possesso di competenze centrali di una rete di
attori e il capitale sociale a non rendere replicabile la rete e appropriabile il vantaggio.
26
4) Processi, gradi e metodi di personalizzazione di massa

4.1 [Le prime righe ripercorrono il passaggio dal capitalismo dell’impresa fordista al
capitalismo cognitivo, con tutte le suddette novità di quest’ultimo]
La domanda è ormai irrimediabilmente disomogenea e chiede sempre più varietà e
personalizzazione del prodotto. Gli users sono ormai protagonisti nei processi di sviluppo
dei prodotti, che essi stessi richiedono all’impresa, oltre a diventare protagonisti dei
processi di produzione. Il ruolo di protagonista dello user nelle filiere cognitive si associa
ad un modello di manufacturing distribuito, che incarna la democratizzazione della
produzione. Le imprese del capitalismo cognitivo vedono il mondo circostante in maniera
diversa rispetto alle imprese fordiste ed è per questo che decidono di conseguire
contemporaneamente economie di varietà, per garantire ai clienti prodotti vari e
personalizzati a prezzi convenienti, economie di qualità, per garantire ai clienti prodotti
che soddisfino esigenze specifiche e privi di difetti, e infine economie di velocità, per
garantire ai clienti la consegna in tempi brevi e una continua innovazione.
È il riconoscimento che il capitalismo cognitivo è un capitalismo personale, poiché
riconosce il ruolo importante delle persone.
La personalizzazione di massa è il paradigma manageriale e competitivo in base al quale le
imprese orientano strutture e gestione allo sviluppo, alla produzione, alla
commercializzazione e consegna ai consumatori di beni o servizi vari e personalizzati,
mantenendo un’efficienza vicino a quella della produzione di massa.
La spirale di retroazione di Pine II descrive la sequenza circolare delle fasi del processo di
interazione impresa-mercato in regime di personalizzazione di massa.
[vedi schema pag. 104]

4.2 L’obbiettivo principale della mass costumization (personalizzazione di massa) è soddisfare


ogni singola richiesta dei clienti senza compromettere il costo e la produttività delle
strutture. Flessibilità e produttività, quindi, sono le caratteristiche tipiche. I prodotti
costumized recano un premium price che rappresenta il valore della costumizzazione,
riconosciuto dal cliente, e che compensa il costo sostenuto dall’impresa. Tale premium
price deve però essere in linea con i prezzi del settore, sebbene rappresenti un surplus di
prezzo del prodotto non standard. La customizzazione del prodotto genera nel cliente una
disponibilità a pagare fino ad un WTP (Williness To Pay) cioè il prezzo massimo che una
persona è disposta a pagare per il prodotto customizzato.

4.3 Il manufacturing è l’area specialistica delle imprese maggiormente interessata dal


paradigma della mass costumization, sebbene non sia l’unica. I processi produttivi di
queste imprese sono del tipo non make-to-stock, nel quale rientrano diverse tipologie
produttive. Quest’ultime sanano il trade-off produttività-flessibilità con soluzioni efficaci.
Esistono diverse classificazioni di tali tipologie non make-to-stock. Ecco la più diffusa:
- Assemble-To-Order (ATO). Il prodotto è realizzato di volta in volta in base agli ordini del
mercato e risulta dall’assemblaggio di componenti standardizzati;
- Make-To-Order (MTO). I processi produttivi si attivano al ricevimento dell’ordine,
insieme alle richieste di materiali ai fornitori. Il grado di personalizzazione è maggiore del
processo ATO;
- Engineering-To-Order (ETO). Vengono realizzati prodotti unici, progettati per specifici
clienti. Il grado di personalizzazione è massimo.

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Tralasciando la classificazione di Hill [pag. 107], vediamone una più recente elaborata da
Amaro e Hendry che si fonda su tre variabili:
1. grado di personalizzazione del prodotto, a sua volta classificabile in quattro categorie:
- pure: prodotto progettato e realizzato per il cliente specifico;
- tailored: prodotto realizzato su specifica richiesta a partire da un progetto base;
- standardized: prodotto con progettazione modulare e assemblaggio su ordine;
- none-standard: prodotto standard creato su ordine poiché troppo costoso.
2. numero di capacità organizzative da attivare e coordinare per realizzare il prodotto, che
aumenteranno quanto più il prodotto sarà personalizzabile.
3. attività da svolgere dopo l’acquisizione dell’ordine (consegna, assemblaggio, acquisti..).
Un’ultima classificazione elaborata da Ahlstrom e Westbrook individua sette metodi per
customizzare i prodotti, riconoscendo nell’assemblaggio di moduli primari il metodo più
efficiente.

4.4 Pine elenca cinque medoti per realizzare obbiettivi di varietà e costo allo stesso tempo, cosa
impensabile nella produzione di massa. Tali metodi di personalizzazione si focalizzano, di
volta in volta, su una o più attività della catena del valore dell’impresa. Vediamoli:
- Customize services around standard products and services. L’impresa realizza
prodotti/servizi standard e procede alla personalizzazione in fase di commercializzazione e
consegna. Le attività più interessate dalla personalizzazione, in questo caso, sono il
marketing e la distribuzione (servizi alberghieri o di compagnie aeree).
[vedi schema pag. 110]
- Create customizable products and services. La personalizzazione dei prodotti avviene
progettando e commercializzando un prodotto di massa che sia personalizzabile dallo
stesso utilizzatore. Le attività della catena di creazione del valore interessato in questo caso
sono lo sviluppo dei prodotti e il marketing (produzione sedie e tavoli con
personalizzazione della postura, lavatrici con diversi lavaggi per vari tipi di bucato).
[vedi schema pag. 111]
- Provide point-of-delivery customization. La personalizzazione avviene dopo che il cliente
ha effettuato la propria scelta. Questa volta le attività coinvolte sono la produzione e la
commercializzazione. [vedi schema pag. 111]
- Provide quick response throughout the value chain. L’obbiettivo è fornire al cliente ciò
che vuole nel minor tempo possibile. La consegna fa partire una reazione a catena che
risale tutta la catena del valore fino alla produzione. In questo caso, quindi, tutte la attività
sono coinvolte nel processo di personalizzazione di massa. In sostanza si riducono i tempi
di attraversamento dei materiali lungo l’intera catena del valore. [vedi schema pag. 112]
- Modularize components to customize products and services. Anche secondo Pine il
metodo migliore per la mass customization è quello di creare componenti modulari che
possano essere combinati in vario modo nei prodotti finali. Il consumatore, quindi, non
interviene nella progettazione, bensì nell’assemblaggio dei componenti standardizzati.
Maggiore è la varietà di combinazioni maggiore è il grado di personalizzazione che
l’organizzazione modulare può offrire. L’assortimento e la gamma dei prodotti sono
determinati dai consumatori reali e non presupposti. La modularità si fonda su tre principi:
- l’architettura modulare del prodotto: il prodotto è un sistema di parti indipendenti che
possono essere assemblate in vari modi;
- l’architettura modulare del processo di produzione: il processo è composto di unità
organizzative specializzate indipendenti, che possono essere flessibilmente coordinate;

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- il contributo della logistica alla modularità: i flussi informativi e i materiali lungo la
catena del valore possono far affidamento sui contributi dell’operatore logistico.
Adottando questi tre principi produttivi, il manufacturing può delegare all’assemblaggio
finale la personalizzazione del prodotto, preservando la produzione di massa dei
componenti modulari.

5) L’approccio per processi all’organizzazione e alla gestione dell’impresa

5.1 L’approccio per processi alla gestione ed organizzazione aziendale riconosce nei processi
inter-funzionali o complessi gli elementi in cui le imprese devono strutturarsi e essere
gestite. La soddisfazione del cliente è l’obbiettivo di ogni processo di business, ne
deduciamo che un processo inter-funzionale è l’insieme di attività, che utilizzando input di
varia natura, produce output che hanno valore per i clienti (“il flusso dai materiali ai
prodotti”). Al processo sono attribuiti costi e tempi di esecuzione, livelli di qualità, che
esprimono l’efficienza del processo stesso. L’approccio per processi inter-funzionali
all’organizzazione aziendale ridisegna le strutture aziendali, facendo emergere unità
organizzative che integrano i compiti tradizionalmente assegnati alle singole funzioni. Le
strutture funzionali, quindi, passano da verticali ad orizzontali. I processi aziendali,
integrando risorse e capacità funzionali, sono capacità organizzative di ordine superiore,
che consistono nelle potenzialità di un insieme di risorse e capacità diverse di svolgere
compiti complessi. La prospettiva basata sulle capacità organizzative di ordine superiore
supera la resource based view, focalizzandosi sulle relazioni incrociate tra le diverse
attività aziendali.

5.2 L’impresa orientata a processi complessi abbandona la logica della sequenzialità delle fasi
di svolgimento dei processi (tipica dell’approccio funzionale) a favore della simultaneità o
sovrapposizione (overlapping) logico-temporale delle fasi. [vedi schema pag. 116]
Questo si coniuga con un ricco scambio di informazioni continuo lungo tutto il percorso
del processo, fatto soprattutto di comunicazione informale tra colleghi di funzioni diverse.
Proprio tramite la comunicazione informale si trasmette la conoscenza tacita, ritenuta più
efficace di quella esplicita per la generazione di nuova conoscenza e competenze. La
sovrapposizione logico-temporale delle fasi, inoltre, riduce inevitabilmente i tempi di
svolgimento dei processi. Infine, la soddisfazione del cliente, obbiettivo di qualunque
attività d’impresa, crea valore per tutti gli stakeholder attraverso i ricavi futuri che questa
garantisce all’impresa.

5.3 Progettare un processo significa definirne gli obbiettivi in termini di qualità, costi e tempi;
le funzioni coinvolte; la concatenazione delle fasi in cui si svolge. Gestire un processo
significa coinvolgere gli individui di tutte le funzioni, per assicurare il contributo
entusiastico di tutti ai fini della creazione del valore. La struttura organizzativa per
processi si manifesta quando viene riconosciuta la dimensione organizzativa alle unità di
processo (i team) cui è affidata la gestione dei flussi inter-funzionali di attività. Il
passaggio da una pura struttura funzionale ad un'altra per processi richiede un ridisegno
radicale dei processi, che ha come obbiettivo la razionalizzazione/semplificazione dei
processi stessi, per soddisfare il cliente meglio della concorrenza. Come già detto, nella
progettazione organizzativa per processi la gerarchia si appiattisce in una struttura
orizzontale che permette uno scambio di informazioni senza il filtro dei vertici, facendole
così pervenire direttamente a chi ne fruisce. I team, in breve, si auto-governano.
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5.4 L’autorità e la responsabilità del disegno organizzativo e della gestione dei processi sono
affidate ai proprietari dei processi (process owner). Il team inter-funzionale è posto sotto
l’autorità del process owner, il quale avrà buone qualità di leadership, competenze
tecniche, autonomia, ecc. I compiti di un process owner sono:
- definire confini e scopo del processo;
- formare ed organizzare il team di gestione del processo;
- definire i sotto-processi ed affidarli ai giusti individui;
- stabilire costi, tempi e qualità per la soddisfazione del cliente e puntare al miglioramento;
- attuare dei cambiamenti per soddisfare sempre al meglio i bisogni del cliente;
- eliminare conflitti inter-funzionali e assicurare il coordinamento;
- mantenere e favorire il contatto con i clienti ed i fornitori.

5.5 Secondo Porter un’altra determinante del vantaggio competitivo è il sistema delle attività,
cioè le relazioni tra le attività stesse, che risultano più significative del possesso di singole
risorse e competenze distintive. Queste ultime, infatti, sono facilmente imitabili, quindi
rappresentano un vantaggio competitivo debole, a differenza del sistema di attività,
difficilmente imitabile. Con il capitalismo cognitivo, però, abbiamo visto che i processi
non possono più essere confinati nelle singole aziende. Pertanto si parla di sistema del
valore che colloca le singole catene del valore, e quindi i singoli sistemi delle attività, in
strutture reticolari fortemente relazionali. Nei network sociali di unità di business
interdipendenti, benché indipendenti, ciascuna impresa si focalizza su competenze centrali,
da condividere con le altre per la realizzazione di un processo condiviso di business. Come
conseguenza la produzione diventa condivisa e l’impresa diffusa e più piccola, poiché si
focalizza solo su competenze distintive, con outsourcing di attività un tempo proprietarie.

5.6 Con il capitalismo cognitivo si perfeziona la nozione di produzione integrata per il


vantaggio competitivo, che supera la visione funzionale del manufacturing, includendo
attività specialistiche come la progettazione e la consegna al cliente. I processi produttivi
integrati non sono solo flussi di materiali da governare, ma anche flussi informazioni e
conoscenze da gestire. Questi flussi partono dai fornitori e arrivano ai clienti.
La produzione integrata, invece va dallo sviluppo del prodotto (influenzato dal cliente) alla
lavorazione vera e propria; dalle forniture (logistica in entrata) alla distribuzione (logistica
in uscita). Il cliente è la principale forza che realizza l’integrazione delle attività
specialistiche. [vedi schema pag. 122] I processi integrati di business appartengono alle
variabili della strategia competitiva di un’impresa. In un’ottica di sempre maggiore
diffusione della produzione integrata tra co-produttori e users, le operations vanno intese a
livello di filiera cognitiva.

6) L’approccio per processi allo sviluppo di nuovi prodotti

6.1 Sul finire degli anni ’70 gli studiosi si focalizzano sulla velocità d’immissione sul mercato
dei nuovi prodotti. Il metodo che emerge e quello del Concurrent Engineering (CE), anche
detto metodo dello sviluppo parallelo del prodotto o a fasi sovrapposte. La simultaneità o
sovrapposizione delle attività e delle fasi di sviluppo del nuovo prodotto esige l’impiego di
team, composti da membri di diverse funzioni aziendali. Questi team inter-funzionali sono
unità “semi-autonome” guidate da manager, all’interno della struttura organizzativa
gerarchica. Diversamente dall’organizzazione funzionale, l’organizzazione per progetti
presuppone legami forti all’interno dei project team, per cui il leader responsabile di un
30
progetto ha piena autorità decisionale sul medesimo e valuta i vari specialisti che lavorano
nel team. [vedi schema pag. 124]
L’organizzazione a matrice prevede la compresenza di posizioni manageriali funzionali e
di posizioni manageriali progettuali. Esistono due versioni di organizzazioni a matrice:
quella pesante,dove prevalgono i legami organizzativi del team; e quella leggera, dove
prevalgono i legami organizzativi di tipo funzionali. Ne consegue che il leader, nel primo
caso, ha un autorità decisionale pesante sulle attività del team [vedi schema pag. 125]; nel
secondo caso, invece, è un coordinatore piuttosto leggero. La gestione per progetti-prodotti
induce ciascun manager a pensare unicamente al successo del proprio progetto, ed orienta
l’impresa al lancio sul mercato di un prodotto alla volta, cioè quello ritenuto migliore tra
quelli che hanno terminato lo sviluppo.

6.2 I benefici apportati dal Concurrent Engineering nel processo di NPD sono molteplici, tra
cui: tempi ridotti di sviluppo, miglior risoluzione dei problemi, focalizzazione di tutto sulla
soddisfazione del cliente, maggior apprendimento dei team, maggiore potenzialità creativa
dell’impresa, il team come singolo “punto di contatto” tra tutti gli specialisti.
Analizziamo meglio tali benefici. A differenza dello sviluppo sequenziale del prodotto, in
cui il flusso delle informazioni è mono-direzionale, in questo caso i flussi sono bi-
direzionali e intesivi, favorendo la generazione di nuove conoscenze/competenze lungo
tutto il NPD. Allo stesso tempo le fasi sono più brevi, favorendo la velocità d’immissione
sul mercato e la riduzione dei costi d’innovazione. L’orientamento integrato allo sviluppo
di nuovi prodotti stimola flessibilità e creatività dell’impresa, favorendo lo scambio di idee
e di progetti ambiziosi, che saranno più spesso soddisfacenti per i clienti. Per concludere, le
imprese che adottano il metodo CE fanno della velocità, qualità, produttività, innovatività
il loro vantaggio competitivo.

6.3 I team inter-funzionali si possono definire un network interno. Com’è noto, se un’impresa
sa far funzionare network interni, sa anche creare network esterni. Il processo di NPD con
il metodo CE crea un network interno, ma coinvolge anche network esterni come i
fornitori, con cui instaura rapporti di partnership. In realtà la reciprocità offerta dal metodo
CE non si limita ai fornitori, ma finisce per diramarsi in più direzioni, uscire dai confini
organizzativi, estendendo le capacità d’integrazione flessibile con altre organizzazioni.
Quest’ultimo aspetto colma la mancanza di conoscenze e competenze di un’impresa in
ambito di innovazione, e l’aiuta a sopperire alla crescente complessità dei prodotti e
all’incremento della competizione. Integrando così le proprie competenze con quelle dei
partner, l’impresa ha benefici in termini di tempi e costi di sviluppo, oltre alla qualità e alla
riduzione del rischio connesso con l’innovazione.
Se da un lato il metodo CE di NPD abbatte le “problematiche d’interfaccia” nelle
organizzazioni, dovute a differenti obbiettivi e interessi delle funzioni, dall’altro genera
problematiche d’interfaccia tra le organizzazioni.
[vedi schema pag. 128] per le differenze tra metodo del concurrent engineering e il
metodo sequenziale.

31
CAPITOLO 3: Lean manufacturing

1) Il sistema della produzione snella

1.1 La produzione snella è il sistema organizzativo e gestionale della produzione che ha i


lineamenti del sistema di produzione della Toyota. È un’implementazione della strategia
“riduzione dei costi a volumi costanti”, articolandosi in:
a) una politica di prodotto, orientata all’offerta di modelli e versioni che soddisfano le
domande di ampi segmenti di mercato. Il prodotto è sottoposto a processi innovativi sulla
base del miglioramento continuo (kaizen);
b) un’organizzazione produttiva, orientata all’eliminazione di qualsiasi spreco (muda), è
gestita con metodo pull, in base al quale la produzione si attiva su richieste effettive dei
clienti (anziché su previsioni della domanda). Il metodo pull richiede una produzione di
semilavorati/componenti e l’assemblaggio dei prodotti effettivamente richiesti. Le scorte,
dunque, sono composte da semilavorati e vanno ridotte a livello minimo. Il sistema
produttivo che emerge è nominato just in time cioè “produrre i pezzi necessari nel
momento giusto e nella quantità richiesta dal mercato”;
c) relazioni occupazionali basate sulla valorizzazione della polivalenza dei lavoratori e sul
loro consenso alla costante riduzione dei costi a volumi costanti di produzione.
La produzione snella è coerente in contesti dove la domanda è frammentata in ampi
segmenti strategici di clientela, da lavoro polivalente, da una tecnologia fatta di macchine
specializzate. [vedi schema pag. 131] La lean production è successiva al sistema fordista
ed è strettamente connessa a quest’ultimo.

1.2 La produzione snella si propone di realizzare contemporaneamente compiti del


manufacturing ritenuti incompatibili sino a quel momento come la varietà, la qualità,
l’economia di costo, la velocità, la produttività e l’eliminazione degli sprechi. Questi sono i
principali obbiettivi della Lean! [vedi schema pag. 132] La Figura 2 evidenzia che la
produzione snella è un approccio alla mass customization, che vuole soddisfare il cliente
agendo su molteplici fattori critici di successo competitivo, con un’efficienza produttiva
vicina a quella della produzione di massa. La Lean si può definire, infatti, produzione
flessibile di massa. Essa si fonda su due metodi: la produzione just in time e il controllo
della qualità (jidoka). Del primo abbiamo già accennato, quanto al secondo serve ad
evitare che i pezzi difettosi diventino prodotti. Pertanto, il controllo qualità avviene
durante il processo di lavorazione poiché la produzione insegue la domanda con scorte
ridotte al minimo.

2) I principi del pensiero snello

2.1 Womach e Jones hanno descritto i cinque principi del pensiero snello:
2.1.1 la definizione del valore;
2.1.2 identificazione del flusso del valore;
2.1.3 far scorrere il flusso;
2.1.4 sistema pull;
2.1.5 la perfezione.

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2.1.1 La definizione del valore, avviene da parte del cliente che individua il prodotto in grado
di soddisfare le proprie esigenze, ad un dato prezzo e in un dato momento. Il valore, però, è
creato dal produttore. Ogni attività che assorbe risorse ma non crea valore è muda. I sette
sprechi del manufacturing sono: 1) i difetti; 2) la sovrapproduzione; 3) i magazzini inutili;
4) le lavorazioni inutili; 5) gli spostamenti di persone inutili; 6) i trasporti di beni e pezzi
inutili; 7) le attese.

2.1.2 Identificazione del flusso di valore. Il flusso di valore è l’insieme delle attività necessarie
a realizzare un prodotto. La sua identificazione serve a eliminare attività che non creano
valore per il cliente.

2.1.3 Far scorrere il flusso, cioè fare in modo che il prodotto fluisca ininterrottamente
attraverso le attività creatrici del valore. Il flusso deve essere continuo, pertanto si
abbandona la logica per lotti e si adotta quella per flussi in modo tale che il lavoratore
percepisca il suo contributo nell’avanzamento del flusso e abbia una visione d’insieme del
processo. Inoltre vengono riformulate le pratiche e le attrezzature per evitare scarti e
fermate che generano sprechi.

2.1.4 Sistema pull. Sono i clienti a tirare (pull) il prodotto dall’impresa, così si evitano sprechi
dovuti a prodotti indesiderati: è la messa in atto del just in time. La produzione minimizza i
lotti di produzione e si propone tempi rapidi di set-up delle linee per il cambio di
produzione in base alle richieste. Il sistema pull tende a ridurre i magazzini dei prodotti
finiti e delle materie prime poiché anche i rifornimenti di quest’ultime avvengono in just
in time.

2.1.5 La perfezione. Le imprese devono puntare alla perfezione migliorandosi continuamente


attraverso la riduzione degli sprechi lungo tutto il flusso del valore, grazie anche alla
soluzione organizzativa dei team di prodotto che accresce la capacità dei lavoratori di
visione dell’intero flusso e il coinvolgimento degli stessi nel percorso di miglioramento.

3) Il just in time

3.1 La produzione just in time è un metodo di organizzazione e gestione del manufacturing che
adegua l’offerta alla varietà della domanda: l’impresa realizza il prodotto richiesto nel
momento e nelle quantità richieste. Tale metodo si può paragonare al make-to-order e si
traduce in riduzioni di scorte e aumenti di produttività. Come anticipato, la riduzione delle
scorte implica un controllo autonomo della qualità (jidoka). L’essenza strategica del just in
time sta nella riduzione del tempo di risposta alla domanda di mercato grazie al
contenimento dei lead time, dovuti sempre all’eliminazione degli sprechi. La capacità di
ridurre progressivamente i lead time esprime il miglioramento continuo perseguito
dall’impresa. Questa rappresenta un vantaggio competitivo misurabile in base ai
differenziali di reddito generati dai minori costi (per il contenimento degli sprechi) e dai
maggiori ricavi (per la velocità di risposta alle richieste varie del mercato).

3.2 Come già detto, a differenza della produzione make-to-stock, che adotta una produzione
push (spinta), il just in time adotta la produzione make-and-delivery-to-order poichè è
l’ultima fase del processo (l’assemblaggio) a dar avvio alla produzione sulla base delle
richieste effettive del mercato. Risalendo a monte del processo si osserva che anche gli
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ordini di materiali ai fornitori avvengono seguendo la logica pull. In breve, con il pull
system, abbiamo un’inversione dei flussi informativi rispetto alla produzione di massa: ad
attivare tali flussi non è la fase a monte (programmazione della produzione sulla base di
previsioni della domanda), bensì quella a valle (l’assemblaggio sulla base degli ordini
effettivi del mercato). Grazie al metodo pull l’impresa riesce ad interagire con il mercato
che presenta una domanda non omogenea e imprevedibile. La flessibilità del just in time
risiede nei magazzini intermedi di semilavorati, pertanto non è una produzione “zero
scorte”, anzi la produzione in ogni reparto si attiva per ricostituire i pezzi prelevati dalle
fasi più a valle. Il just in time si fonda su una razionalizzazione interna attraverso la
creazione di rapporti con i consumatori da un lato e con i fornitori dall’altro. Con la Lean i
produttori fanno il passo necessario verso la mass customization, ri-organizzando tutto il
sistema del valore, basato su rapporti interattivi e collaborativi sia con i clienti che con i
fornitori.

3.3 Il kanban altro non è che un cartellino contenente informazioni su componenti e


semilavorati. Può essere kanban-prelievo, che contiene info sul tipo di pezzi che la fase a
valle deve prelevare dalla fase a monte, e il kanban-ordine di produzione, che contiene info
sui pezzi che la fase a monte deve produrre. [vedi schema pag. 140]
La tecnica kanban funziona in questo modo: la linea di montaggio invia alla linea di
lavorazione a monte (Fase A) il kanban-prelievo, contenente la richiesta di prelievo dei
pezzi. Nel deposito della fase A, a ciascun pezzo è applicato un kanban-ordine di
produzione. Nella fase A i kanban-ordine di produzione vengono prelevati ogni tot per
sapere tipi,quantità e sequenza dei pezzi da produrre, che rimpiazzeranno quelli già
prelevati. Questa tecnica è l’esempio concreto della logica pull, ma può accadere che la
varietà quali-quantitativa della domanda crei una discontinuità lavorativa nelle linee e nei
reparti. Per livellale il flusso produttivo si ricorre alla programmazione giornaliera delle
sequenze, che informa la linea di montaggio finale sull’ordine con cui devono avanzare i
vari lotti dei modelli di prodotto, in modo da ridurre le variazioni nelle quantità prelevate
di ciascun pezzo dalle fasi a monte ed evitare che sulle linee di produzione a monte ci siano
grandi escursioni nelle quantità di produzione.

4) La riduzione del lead time

4.1 Il lead time è il tempo di attraversamento che impiegano i materiali a diventare prodotti
finiti. Si compone di tre elementi:
1) il tempo di lavorazione dei lotti nelle linee;
2) il tempo di attesa dei lotti tra le linee;
3) il tempo di trasporto dei lotti tra le linee.
Per garantire il flusso continuo, con tutti i vantaggi del caso, è auspicabile ridurre la
dimensione del lotto, riducendo così anche il suo tempo di produzione. Per farlo occorre
ridurre il tempo di set-up delle linee e valutare la disposizione degli impianti (layout).
Nella produzione just in time è frequente la combinazione delle linee ad U.
[vedi schema pag. 142] Questa disposizione si caratterizza per la vicinanza delle
postazioni di lavoro che determina una riduzione del numero di operai necessari, con
conseguente riduzione dei costi di manodopera. Gli operari, però, dovranno essere
polivalenti per gestire più macchine e più attività. La polivalenza si acquisisce anche con la
rotazione delle mansioni dell’operaio all’interno del suo reparto. Un altro vantaggio della
disposizione ad U è la riduzione del tempo di trasporto dei pezzi tra le linee, il quale
34
dipende anche dai mezzi impiegati. Il tempo di attesa tra le linee dipende dal bilanciamento
delle linee stesse e dalla dimensione del lotto. Per bilanciare le linee occorre standardizzare
i cicli normalizzando il tempo ciclo, cioè il tempo necessario per produrre un singolo
pezzo, e il ciclo delle operazioni, cioè la sequenza delle operazioni.

4.2 [vedi schema pag. 144] per una sintesi sulle componenti del lead time.
[vedi schema pag. 144] per le condizioni di funzionamento del just in time.

4.3 Il pensiero snello fa proprio il concetto di flusso unitario (one-piece flow), di memoria
fordista. Lavorare un pezzo alla volta significa non immettere sulla linea altro materiale
fino a quando non è stata completata la lavorazione in corso. I vantaggi sono:
1) una maggiore visibilità del processo produttivo;
2) la riduzione dei lead time;
3) la riduzione delle scorte;
4) una maggiore flessibilità (di mix e di quantità) delle risorse produttive.
Il one-piece flow è un obbiettivo teorico, nella realtà si produce per lotti, cercando di
ridurre al minimo la loro dimensione. La tecnologia per gruppi ha come obbiettivo la
riduzione della dimensione dei lotti, armonizzando la produttività consentita dalla
disposizione in linea con la flessibilità generata dall’alternanza dei cicli produttivi.
La tecnologia per gruppi identifica famiglie di pezzi che presentano similarità produttive
per quanto riguarda le caratteristiche fisiche e il processo di produzione. Il progetto della
famiglia di pezzi segue la logica del progetto “aperto” che può essere agevolmente
modificato/ampliato/aggiornato, e dar luogo a nuovi pezzi senza dover “reinventare” tutto
daccapo. La produzione della famiglia di pezzi avviene in un area dello stabilimento (cella
di produzione), che comprende macchine disposte in linea, e realizza gli obbiettivi tipici
della produzione snella. La tecnologia per gruppi dà luogo a una specifica struttura
produttiva definita produzione cellulare, che presenta un layout ad isole o celle
tecnologiche. Ogni cella, a sua volta, presenta un layout ad U. Il Cellular Manufacturing
System (CMS) si presta bene a tipologie produttive come l’assemble-to-order e, rispetto al
job-shop, riduce tempi di set-up e di flusso, costi di gestione delle scorte, ma è inefficiente
quando cresce la frequenza del cambiamento di mix produttivo. La tecnologia delle
macchine dell’automazione flessibile contribuisce notevolmente all’ampliamento dei range
di varietà e variabilità produttiva consentita dalla struttura cellulare della fabbrica.

4.4 Nella progettazione di una fabbrica cellulare, le macchine vengono dunque raggruppate in
isole o celle, che eseguono fasi complesse di produzione, comuni a più cicli produttivi.
Nelle isole le macchine sono disposte in sequenza. Dalle isole si ottengono componenti di
prodotto, che possono essere standard o meno. In ogni caso questi stazionano
temporaneamente in magazzini intermedi, prima di confluire sulle linee di assemblaggio o
completare la lavorazione in altre celle. Oltre ai vantaggi in termini di produttività dovuti
alla disposizione in linea delle macchine nelle isole, la disposizione cellulare genera
flessibilità grazie alla produzione ed assemblaggio di parti di prodotto. Quest’ultima può
essere ulteriormente amplificata con applicazioni di automazione flessibile nelle celle, che
diventano sistemi flessibili di produzione. La flessibilità tecnologica associata alla
flessibilità produttiva della linea di assemblaggio, moltiplica la varietà di gamma di
prodotti gestibile dall’impianto industriale. [vedi schema pag. 147]

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5) Il controllo della qualità

5.1 Questo concetto si è gradualmente modificato, assumendo progressivamente i significati di:


- assicurazione della qualità basata sull’ispezione;
- assicurazione della qualità basata sul controllo del processo produttivo;
- assicurazione della qualità già in fase di sviluppo del nuovo prodotto.
Il controllo della qualità ha inizio con l’ispezione e il collaudo dei prodotti finiti e impiega
il campionamento statistico per assicurare l’assenza di difetti nei prodotti. Il controllo
ispettivo della qualità ha degli inconvenienti:
1. se l’impresa vuole raggiungere la perfezione non può affidarsi solo al controllo post-
produzione, poiché usa le tecniche del campionamento e non garantisce che pezzi difettosi
vengano commercializzati;
2. se l’impresa vuole eliminare gli sprechi, tale controllo non è efficace poiché non assicura
l’eliminazione di errori e difetti nel processo di produzione;
3. il feedback delle informazioni dal reparto ispezione a quello di produzione, che ha
causato il difetto, può impiegare troppo tempo ed essere poco esaustivi per evitare il
ripetersi di errori futuri;
4. non tutti gli output delle imprese sono prodotti tangibili, e per alcuni il controllo
ispettivo si realizza solo distruggendo il prodotto, quindi generando dei costi;
5. gli ispettori non producono valore, anzi lo assorbono, riducendo la produttività totale.
Questi inconvenienti hanno spinto le imprese giapponesi verso l’assicurazione della qualità
basata sul controllo del processo di lavorazione. In questo caso l’operaio di linea è
incaricato di svolgere l’ispezione sull’oggetto del proprio lavoro, quindi il feedback è
l’intervento correttivo sono istantanei. Questo approccio riduce drasticamente il numero di
prodotti difettosi e degli sprechi, rendendo secondario il controllo ispettivo. L’approccio
all’assicurazione della qualità all’interno del processo produttivo sottolinea che la qualità
deve essere costruita con il prodotto. L’impresa che assicura la qualità del proprio prodotto
si garantisce il riacquisto da parte dei clienti, oltre a un passa-parola che promuove
gratuitamente il prodotto.

5.2 Il controllo della qualità basato sul processo produttivo impiega la tecnica del controllo
autonomo della qualità (jidoka). Tale tecnica serve a rendere impossibile il passaggio di
pezzi difettosi attraverso le fasi del processo, e prevede due meccanismi:
- un meccanismo per rilevare anomalie o difetti;
- un meccanismo per fermare la linea o la macchina quando si verificano anomalie/difetti.
Il processo produttivo deve assolutamente fermarsi quando viene rilevato un difetto
durante la lavorazione del prodotto. L’interruzione, infatti, forza l’attenzione degli operai
sul problema e sulla ricerca delle cause del difetto, al fine di correggerlo. Si attiva, dunque,
un processo di apprendimento collettivo che evita il presentarsi dello stesso difetto in
futuro. Il meccanismo per rilevare l’errore può basarsi su dispositivi automatici, cioè
sistemi sicuri (detti anche pokayoke) che sono dotati di sistemi di rivelazione,
d’interruzione e di segnalazione, che intervengono al posto dell’uomo nel controllo della
qualità basato sul processo produttivo. [vedi schema pag. 151]
La tecnica jidoka riconosce all’operaio l’autorità e la responsabilità di interrompere il
flusso produttivo, cosa impensabile nel sistema fordista. La riflessione sulle cause
dell’interruzione genera inevitabilmente un miglioramento della progettazione e/o
dell’esecuzione dei compiti di lavoro.

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5.3 Oltre ad assicurare la qualità, il controllo autonomo della qualità ha anche altre finalità:
1. rende possibile la produzione just in time: solo assicurando pezzi buoni in ogni fase è
possibile realizzare una produzione flessibile con scorte al minimo;
2. riduce i costi del lavoro: non servono ispettori che verifichino i prodotti finali;
3. stimola il miglioramento: la componente umana ha la sua importanza fondamentale nel
miglioramento, il controllo autonomo della qualità sollecita i lavoratori alla riflessione
continua per risolvere qualunque problema.
Se il controllo autonomo della qualità favorisce il just in time, a sua volta, è proprio
quest’ultimo ad attivare il controllo autonomo della qualità: riducendo scorte e manodopera
in eccesso, il just in time fa emergere i problemi in un clima di urgenza e condivisione, che
difficilmente verrebbero notati in un sistema di sovrapproduzione come quello fordista.
[vedi schema pag. 152] Come già detto, macchine e linee devono necessariamente
fermarsi in caso di errore, poiché non ci sono scorte o manodopera in eccesso. Le
interruzioni generano riflessione collettiva, che a sua volta genera conoscenza necessaria
alla modifica delle routine e delle strutture organizzative per il miglioramento di prodotti e
processi. [vedi schema pag. 153]

5.4 Le attività di miglioramento, stimolate dal controllo di qualità, possono determinare anche
una riduzione della forza lavoro sulle linee di produzione. Tali riduzioni possono essere
suggerite dagli stessi lavoratori, ma non è un nonsenso perché:
- sul lavoratore agisce il controllo interiorizzato,che fa coincidere gli obbiettivi
dell’individuo con quelli dell’impresa a cui appartiene;
- il lavoratore è flessibile in quanto polivalente, pertanto può essere agevolmente spostato
in un'altra linea in cui c’è bisogno.
Nella Lean l’approccio prediletto al miglioramento è di tipo incrementale, cioè lento ma
continuo. I miglioramenti spesso partono da suggerimenti di operai singoli o da gruppi di
questi (circoli di qualità). Tali suggerimenti possono riguardare le operazioni manuali, con
conseguente riprogrammazione dei processi produttivi (cicli delle operazioni, tempi-ciclo
di lavorazione). Quest’ultima può evidenziare forza lavoro in eccesso, pertanto è necessaria
una flessibilità del numero degli operai nelle linee e nei reparti, resa possibile dalla loro
polivalenza. I suggerimenti, però, possono riguardare anche il miglioramento del
macchinario. La riduzione della forza lavoro non danneggia i lavoratori, ma li fa sentire
attivi ed utili alla produttività dell’impresa. Le riduzione della forza lavoro, però, devono
essere supportate da un sistema industriale e finanziario di tipo reticolare, che consente ad
un lavoro in eccesso di essere spostato in un’altra azienda del network inter-organizzativo
cui l’impresa partecipa. [vedi schema pag. 155-156]

5.5 Più di recente, avendo focalizzato il principio del valore, il pensiero snello è giunto al
concetto di assicurazione di qualità in ogni fase di creazione del prodotto, dallo sviluppo
all’assistenza post-vendita. La qualità non è più soltanto assenza di difetti, ma è
soddisfazione delle esigenze del consumatore, evitando sprechi nella progettazione di
beni/servizi insoddisfacenti. Stiamo parlando del controllo totale della qualità (Total
Quality Control, TQC). [vedi schema pag. 157]
Nel soddisfare le esigenze del cliente, non si può trascurare il controllo dei costi, della
quantità e dei tempi di consegna dei prodotti. Ad esempio, se un prodotto è troppo costoso
non potrà mai soddisfare pienamente il consumatore.

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Il controllo totale della qualità, in un’accezione più ampia, si estende alla valutazione di
tutta l’azienda ed evoca la stessa azione manageriale, tesa alla gestione della qualità in una
prospettiva sistemica (Total Quality Management, TQM).
[La parte finale di questo paragrafo è dedicata ad una serie di considerazioni che
riepilogano quanto detto finora sulla Lean, vedi pag. 158-159]

6) Il miglioramento continuo

6.1 Per raggiungere la perfezione le imprese devono essere orientate al miglioramento. Il


processo di riduzione di costi, tempi, sprechi ed errori non ha mai fine, per cui gli
obbiettivi sono solo miglioramenti incrementali ma non definitivi delle performance
aziendali. Il miglioramento può essere di due tipi: miglioramento continuo, basato su
progressi piccoli e costanti nel tempo; e miglioramento radicale, che è discontinuo e mira a
produrre in frequenti ma grandi avanzamenti nelle performance aziendali.
Il miglioramento può avere al contempo due nature: passiva (o adattiva) e proattiva.
Combinando natura e tipologie si ottengono quattro categorie di miglioramento: passivo-
incrementale, proattivo-incrementale, passivo-radicale, proattivo-radicale.
Il kaizen indica il miglioramento di tipo proattivo-incrementale e ha come obbiettivo
l’eliminazione non occasionale degli sprechi. Esistono varie modalità e strumenti per
attuare un miglioramento continuo (alcune già analizzate):
1. la riduzione al minimo delle scorte ottenuta con la tecnica kanban, con la quale
emergono anche problemi/errori;
2. possibilità di ciascun lavoratore di interrompere la linea in caso di problemi,
richiamando così l’attenzione degli altri operai. L’interruzione implica la risoluzione del
problema, cui si presta bene la tecnica dei “5 Perché”;
3. l’uso di checklist degli sprechi con cui i lavoratori evidenziano sprechi da eliminare;
4. il costante richiamo alle “5S”, cioè le norme-base di esecuzione delle operazioni;
5. strumenti come i circoli di qualità, il ciclo PDCA (Plan-Do-Check-Act), attraverso cui è
possibile risolvere i problemi in modo sistematico.

6.2 Il metodo kaizen si fonda sul principio che tutto è in continuo movimento e solo attraverso
il miglioramento costante si possono prevenire le crisi. I traguardi ambiziosi vanno
realizzati col metodo incrementale e l’innovazione deve nascere dal basso (le workstation)
e procedere verso l’altro dell’organizzazione, esattamente il contrario di quanto avveniva
nelle imprese di produzione di massa (Ford). Il kaizen anticipa gli eventi, oltre ad
affrontare attivamente i cambiamenti. Più recentemente è emerso il concetto di kaikaku,
cioè il miglioramento radicale finalizzato a produrre incrementi notevoli delle performance
aziendali (ad esempio quello di un’azienda che attua un reengineering totale dei processi
aziendali). Il miglioramento continuo rappresenta l’obbiettivo “ideale” dell’impresa, al di
sopra di ogni altro obbiettivo. [vedi schema pag. 163]
La produzione snella, incorporando meccanismi di risposta adattiva e di miglioramento
incrementale, non è idonea a garantire l’interazione dell’impresa con un ambiente
fortemente dinamico e caratterizzato da una domanda instabile e orientata alla
personalizzazione. Il miglioramento continuo determina un’inerzia del sistema
organizzativo alla gestione dei grandi cambiamenti, e sembra adattarsi meglio ad un
ambiente relativamente prevedibile.

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7) Lo sviluppo del prodotto nella prospettiva della produzione snella

7.1 Le imprese che competono sul fattore tempo nei mercati di massa, oltre ai lead time,
mirano a ridurre un altro tempo importante: quello di commercializzazione
dell’innovazione di prodotto (il time-to-market). Essere in linea con la variabilità del
mercato, significa adottare un “miglioramento forzato” per gestire il cambiamento, la
domanda esigente di innovazione e la velocità della concorrenza di immettere nuovi
prodotti. Vincere sul tempo dell’innovazione significa acquisire un vantaggio competitivo.
Come già detto, il miglioramento incrementale è quello prediletto dalla Lean, ma si
dimostra inefficiente in casi di grande cambiamento, dove è opportuno un miglioramento
radicale. Lo sviluppo dei nuovi prodotti (NPD) nell’impresa Lean si fonda su:
- processi con sovrapposizione (overlapping) delle fasi di sviluppo, gestiti da team di
diversa estrazione funzione e guidati da manager “pesanti”;
- orientamento alla gestione dell’innovazione per singoli progetti di prodotto, che
condividono poche parti e tecnologie, incoraggiando i team leader a concentrarsi solo sul
loro progetto;
- contributo dei fornitori nella gestione della complessità e turbolenza ambientale;
- gestione a flusso dei progetti di sviluppo: si lancia un solo prodotto alla volta (quello
ritenuto potenzialmente più redditizio).
In sostanza, la Lean adotta il metodo Concurrent Engineering (CE) di NPD che genera
velocità, flessibilità ed economicità di gestione dell’innovazione, purchè non cresca il
numero di progetti da gestire (e quindi il numero di team).
Come anticipato, il produttore condivide con i fornitori costi e rischi connessi con la
varietà e variabilità dei prodotti, e lo fa in quattro “modalità”:
- il co-design, intervento del fornitore in fase di progettazione del nuovo componente;
- il sistema a progetti privati, che delega ai fornitori tutto lo sviluppo dei componenti del
nuovo prodotto, su direttive generali da parte del produttore (interfacce, layout prodotto);
- oltre alla progettazione, i fornitori si possono occupare dell’ingegnerizzazione del
processo di produzione dei componenti, come nel caso del sistema dei progetti forniti;
- la supplì proprietary parts, che delega ai fornitori lo sviluppo di componenti standard
venduti ai produttori tramite catalogo.

7.2 Le aziende che operano in mercati molto turbolenti e complessi, a causa dell’intensa varietà
e variabilità delle esigenze dei clienti e dell’estrema accelerazione del progresso
tecnologico, sono più orientate alla mass customization che si dimostra più efficace della
Lean in termini di grado di personalizzazione. L’approccio della Lean prevede:
- offerta di una varietà entro un range produttivo ben stabilito dalla possibilità di
assemblaggio delle parti standard;
- personalizzazione giocata soprattutto sul tempo di evasione degli ordini del mercato;
- variabilità orientata al miglioramento continuo e al controllo dei time-to-market.
La mass customization richiede, come abbiamo visto, strutture e metodi di sviluppo molto
diversi dalla Lean, che mirano a soddisfare le esigenze di ciascun cliente, coinvolto egli
stesso nelle attività della value chain. Un approccio del genere è impensabile per la Lean
per via dei costi che si lieviterebbero eccessivamente. Lo snellimento, però, rappresenta il
traguardo intermedio dell’impresa, il passaggio da produzione a personalizzazione di
massa, che passa per il miglioramento continuo. Anticipando l’analisi di una domanda
frantumata in miriadi di richieste personalizzate, si afferma che lo sviluppo di un prodotto

39
deve avvenire tramite la piattaforma di prodotto, ovvero l’architettura multi-progettuale
che contiene concetti, componenti chiave e tecnologie condivisi tra più modelli.
Questo riduce i costi di sviluppo poichè i prodotti condividono una piattaforma comune,
oltre a generare economie di velocità (che, di contro, causano problemi d’interfaccia tra le
funzioni). Le piattaforme stimolano anche l’outsourcing , cioè la segmentazione del
processo di sviluppo e realizzazione tra una pluralità di imprese. Le piattaforme, dunque, si
affermarono nel momento in cui le imprese elevarono i livelli di condivisione e comunanza
dei componenti tra più modelli di prodotto, al fine di ridurre tempi e costi d’innovazione.

8) Riflessioni sul pensiero snello

8.1 L’analisi sulla Lean si divide in due prospettive: una concettuale e l’altra pratica.
La prima si può riassumere così: la Lean ha come principale obbiettivo l’eliminazione
degli sprechi, che richiede la precisa identificazione del desiderio del cliente (il valore) e
dell’insieme di attività (flusso del valore) attraverso cui si forma il valore. Tale flusso deve
essere continuo, ciò è possibile grazie alla produzione per piccoli lotti “tirati” dai clienti. Il
sistema produttivo dev’essere continuamente migliorato in vista della perfezione, poiché ci
saranno sempre sprechi da eliminare o errori da correggere.
La seconda si focalizza sulle tecniche di riduzione degli sprechi come il just in time, i
quality system, i team-work, la produzione cellulare, la supplier integration. Tali pratiche,
tra cui le quattro bundles (Just In Time JIT, Total Quality Management TQM, Total
Preventive Mantainance TPM, Human Resource Management HRM) garantiscono un
sistema produttivo efficiente e di qualità, che produce i prodotti richiesti ai prezzi attesi dai
clienti. Dall’unione delle due prospettive nasce il paradigma produttivo della Lean, che è
sostanzialmente quello adottato da Toyota dagli anni ’50 in poi.

8.2 Schonberger si riferisce al Lean con il termine Japanese Production Management (JPM),
con il quale indica un insieme di best practices di gestione della produzione. Egli parla di
due generazioni del pensiero snello. La prima è caratterizzata dai seguenti contributi:
1. movimento di interesse scientifico per le best practices nel campo delle risorse umane,
per il coinvolgimento dei lavoratori;
2. movimento di interesse scientifico per le best practices nella gestione della qualità;
3. movimento di interesse scientifico per le best practices nell’organizzazione e gestione
dei sistemi produttivi (just in time).
La seconda generazione emerge quando il just in time accoglie contributi più maturi.
Emerge in seguito anche il concetto di miglioramento continuo (kaizen). Nel corso del
tempo la Lean si è ampliata a settori come i servizi, si è affermata a livello globale e ha
continuato ad arricchirsi di contributi (soprattutto dal mondo occidentale) in ambito di
strategie e tecniche manageriali. Tali contributi sono confluiti nel World Class
Manufacturing (WCM) che ingloba anche le attività adiacenti alla manifattura nella
collection di best practices.
Il sistema Lean è stato, comunque, oggetto di considerazioni critiche da parte di studiosi,
che ne hanno evidenziato i limiti tra cui: relazioni industriali eccessivamente stabili, che si
ritorcono contro in situazioni di complessità e turbolenza, in cui dovrebbero essere
prontamente riconfigurabili; eccessiva rigidità del miglioramento continuo, che rallenta le
risposte dell’impresa all’ambiente, dovuta alla cultura conservatrice e fanatica dei
giapponesi. Questi limiti hanno portato all’affermarsi di un recente paradigma: l’agile
manufacturing, più reattivo ed efficace in ambienti eterogenei e instabili come quelli attuali.
40
CAPITOLO 4: Agile manufacturing

1) L’agile manufacturing

1.1 Definiamo agile il sistema produttivo che abilita l’impresa alla modifica della propria
offerta a costi bassi e in tempi brevi, in risposta o in anticipo al cambiamento della
domanda. L’agile manufacturing indica i sistemi produttivi orientati a bassi volumi dei
lotti ed elevata varietà di mix produttivo, necessari a fronteggiare ambienti turbolenti.
Il concetto di agility si può riassumere nelle seguenti capacità: realizzare prodotti di qualità
e altamente customizzati, produrre prodotti/servizi ad alta conoscenza, mobilizzare core
competencies, risposta ad esigenze sociali/ambientali e al cambiamento/incertezza,
realizzare l’integrazione inter/intra impresa. L’agility è qualcosa di più della flessibilità,
cioè della velocità di risposta alla domanda variabile dei clienti, bensì è da intendersi come
la capacità di esplorazione e sfruttamento dei cambiamenti di contesto che rappresentano
opportunità strategiche per conseguire vantaggio competitivo. Il principale driver
dell’agility, dunque, è il cambiamento e le sue caratteristiche distintive sono la reattività e
la pro-attività del sistema nei confronti della domanda e del contesto ambientale.
Le imprese che adottano l’agile manufacturing sono quelle globali della mass
customization, oltre ad essere un’abilità organizzativa delle imprese diffuse del capitalismo
cognitivo.

1.2 L’agile manufacturing si può considerare un’evoluzione del lean manufacturing, dal quale
assimila numerose tecniche e metodi. Rispetto a quest’ultimo, però, si concentra sulle
capacità di risposta/anticipazione della domanda, come le accelerazioni dei time-to-market.
In questa prospettiva il cliente diventa parte del network sociale (responsive supply chain)
e i prodotti sono realizzati ricorrendo a soluzioni di virtual enterprise, cioè alleanze
temporanee di imprese indipendenti fra loro, che collaborano per ampliare le proprie
competenze e rispondere meglio alle opportunità offerte dal mercato.

1.3 Sebbene il Lean si focalizzi sull’eliminazione degli sprechi e l’agile manufacturing si


focalizzi sulla rapida riconfigurazione dei processi produttivi in risposta alle imprevedibili
richieste del mercato, non significa che l’uno non si ponga gli obbiettivi dell’altro.
L’agile manufacturing, infatti, stressa l’importanza di un sistema produttivo di essere
prontamente reattivo ai cambiamenti della domanda, sforzandosi al contempo di essere
Lean. In definitiva, le differenze strutturali e gestionali tra Lean e agile derivano dalla
differenza tra le priorità competitive dei due sistemi. [vedi schema pag. 181]
Il Lean, in quanto modello produttivo universale, ha elementi operativi compatibili con
qualsiasi sistema produttivo; pertanto dovrebbe essere di supporto all’agile manufacturing
distinguendo, però, la complementarietà con pratiche e tecnologie manageriali agile.
Il Lean e l’agile sono due paradigmi produttivi distinti, seppur in parte coincidenti (solo il
secondo però implementa il primo). Per concludere, l’ideale è una leanagile production: la
produzione snella viene in ampia parte contenuta nei modelli di agile manufacturing, i
quali sono pienamente coerenti con contesti ambientali complessi e turbolenti.

1.4 In presenza di domanda instabile, le potenzialità del Cellular Manufacturing Sistem (CMS)
svaniscono, per cui occorre adottare il Dynamic Cellullar Manufacturing System (DCMS)
che prevede una configurazione delle celle in grado di cambiare da un periodo all’altro, al
fine di fronteggiare il cambiamento imprevedibile della domanda. Quando il cambiamento
41
della produzione diventa assai frequente, il DCMS diventa insostenibile per via
dell’aumento dei costi dovuto alla dilatazione dei lead time. Il Virtual Cellular
Manufacturing System (VCMS) può essere definita la tecnologia manageriale che abilita
l’impresa alla rapida risposta al mercato nel rispetto del contenimento dei costi. Il VCMS si
caratterizza per una flessibilità produttiva generata dalla disposizione delle macchine, poste
sotto il controllo di computer come files di processo. Le macchine sembrano disposte a
caso, ma non e’ così: ogni macchina dello stesso tipo dev’essere disposta vicino a
macchine di altro tipo. Ogni macchina rappresenta una workstation, che a sua volta fa parte
di una cella virtuale. Ogni attività produttiva ha un suo percorso di svolgimento, ma
esistono varie alternative di percorso: ciò può diventare un problema nel momento in cui
c’e’ una grande varietà di workstation e queste saranno maggiormente disperse nella
fabbrica, generando un numero insostenibile di percorsi alternativi con cui possono essere
svolti gli ordini di produzione. L’esistenza di alternative di percorso produttivo, però, e’ un
attributo della fabbrica flessibile che permette di risparmiare costi e tempi di ri-
attrezzamento. La produzione, infatti, procede dopo aver individuato le macchine libere più
vicine tra loro. [vedi schema pag. 184] In situazioni di grande instabilità della domanda, il
VCMS rappresenta l’alternativa migliore che, pur appartenendo all’agile manufacturing, si
rifà ai concetti del Lean al fine di contenere i costi e accelerare i tempi di risposta al
mercato.

2) La modularità in manufacturing

2.1 La produzione modulare evoca una tipologia d’impresa virtuale che ispira la propria
condotta produttiva ai concetti dell’agile manufacturing. Per modularità si intende un
sistema composto di parti indipendenti ed interdipendenti, detti moduli. Un modulo è un
sub-assemblato di componenti elementari, cioè una parte di sistema che forma un’unità
funzionale, che svolge una specifica funzione del sistema stesso. Per funzione s’intende la
singola prestazione che può svolgere il sistema. L’indipendenza del modulo nel sistema
genera intercambiabilità dei moduli che svolgono la stessa funzione e invariabilità degli
altri moduli rispetto al cambiamento del singolo. Il modulo, dunque, può essere sviluppato,
fabbricato ed innovato indipendentemente dal resto del sistema e si correla con gli altri
moduli per mezzo di relazioni preordinate (le interfacce). Per poter funzionare, la
soluzione progettuale e produttiva della modularità deve coniugarsi con una domanda di
mercato del tipo “mix-and-match” dei moduli per soddisfare i bisogni personali dei
consumatori. La mappatura dalle funzioni di un prodotto ai suoi componenti fisici può
essere una dei seguenti tipi:
1) many-to-one : se molte funzioni sono allocate in un solo componente;
2) one-to-many: se una funzione è esercitata da più componenti insieme;
3) many-to-many: se molti funzioni sono esercitate da più componenti;
4) one-to-one: se una funzione è allocata in solo componente.
Solo l’ultima mappatura è tipica dell’architettura modulare del prodotto, ove i singoli
componenti fisici possono presentarsi in molteplici versioni pur svolgendo la medesima
funzione. Tali versioni, però, devono attenersi alle interfacce stabilite nel progetto
modulare. Il mixing e il matching dei componenti modulari, consentiti
dall’intercambiabilità delle parti, generano numerosi modelli e versioni che soddisfano le
richieste specifiche del singolo acquirente. Se, invece, l’architettura di un prodotto prevede
interfacce accoppiate tra i componenti è necessaria ogni volta una variazione nel progetto
poiché si tratta di un prodotto del tipo sistema integrale.
42
2.2 L’architettura modulare si divide in tre tipologie strutturali in funzione del modo in cui
sono organizzate le interazioni tra i componenti:
- slot: se le interfacce tra i componenti, seppur disaccoppiate, sono diverse per ogni
tipologia di modulo;
- bus: se ciascun componente si connette ad un unico canale di collegamento (bus) tramite
interfacce disaccoppiate e dello stesso tipo;
- sectional: se le interfacce sono tutte dello tipo (standardizzate) e i componenti possono
essere liberamente assemblati.
Pine II approfondisce questa classificazione, sempre sullo stesso principio:
1. component-sharing modularity: i componenti standardizzati sono impiegati in molti
prodotti garantendo così molte varietà e tempi brevi di realizzazione e consegna.
2. component swapping modularity: l’intercambiabilità dei componenti modulari, che
svolgono la stessa funzione, consente di produrre a bassi costi e in tempi brevi una varietà
elevata di differenti prodotti semplicemente cambiando i moduli;
3. cut-to-fit modularity: uno o più moduli di prodotto sono continuamente variabili
all’interno degli standard di compatibilità con gli altri moduli;
4. mix modularity: i moduli sono “mescolati” in combinazioni sempre diverse per creare
un’elevata varietà di prodotti;
5. bus modularity: il componente comune a più prodotti è la struttura portante (bus), alla
quale è possibile “attaccare” differenti tipi di moduli;
6. sectional modularity: consente il grado massimo di varietà: i moduli possono essere
accoppiati in vari modi liberamente poiché c’è una totale standardizzazione delle interfacce.

2.3 Le principali determinanti della complessità ambientale che hanno stimolato l’emergere
della modularità sono le seguenti:
- l’importanza della variabile del costo del prodotto, in seguito all’emergere di produttori a
basso costo di paesi in via di sviluppo;
- una segmentazione del mercato che ha spinto le imprese a fronteggiare una domanda di
prodotti varia e personalizzata;
- un lavoro non professionale e a basso costo dei paesi in via di sviluppo che si
contrappone al lavoro qualificato pronto a difendere i traguardi raggiunti;
- l’accelerazione degli sviluppi tecnologici che ha spinto ad una maggiore collaborazione
tra diversi soggetti innovatori;
- le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) che offrono supporto
alla produzione e alla fornitura.
La strategia di profitto ideale in un contesto simile è una strategia di volume, diversità,
innovazione e flessibilità che va attuata con una politica del prodotto orientata all’offerta
efficiente e rapida di modelli di prodotti globali/transnazionali. Tali prodotti sono generati
da piattaforme comuni e da un sistema produttivo caratterizzato a valle da
un’organizzazione make-and-delivery-to-order, e a monte da un’esternalizzazione
(outsourcing) strategica e operativa delle attività ai fornitori. Questi ultimi, grazie al
contributo delle ICT e lo sviluppo della globalizzazione, possono anche essere sparsi
internazionalmente e offrire comunque il loro valido contributo. [vedi schema pag. 191]

43
3) L’organizzazione della produzione modulare

3.1 L’organizzazione della produzione modulare è di tipo reticolare. Il coordinamento inter-


organizzativo avviene grazie alla potente struttura informativa, la struttura organizzativa,
invece, non è gerarchica ma tutte le imprese hanno pari potere contrattuale. L’impresa
focale della rete è il produttore modulare, che collaborano con fornitori di vario livello. La
crescente complessità tecnologica e dei processi produttivi, ha portato le imprese a
focalizzarsi solo sulle proprie core competencies, anziché inglobare troppe competenze che
non riescono a presidiare. Le catene di produzione e fornitura sono diventate i contenitori
organizzativi dei processi innovativi/produttivi “diffusi” tra le diverse imprese, legate tra
loro da relazioni di tipo cooperativo, flessibili e reversibili. Tutto ciò avviene in un
contesto globale, con un network che include imprese sparse in tutto il mondo. Questo
outsourcing strategico sancisce un ampio coinvolgimento dei fornitori nelle attività
strategiche ed operative della produzione. In sintesi: la modularità evoca una struttura e un
management che supera i confini della singola impresa, ampliando il sistema di creazione
del valore a tante imprese indipendenti e interdipendenti. Questa è la tipica soluzione
adottata dalle imprese assemblatrici che cercano profitto puntando su innovazione e
flessibilità, esternalizzando gli investimenti e riducendo i costi. La modularità è l’approccio
più efficiente alla mass customization, poiché è il più adatto a fronteggiare la domanda di
un mercato di massa che pone richieste personalizzate a prezzo contenuto.

3.2 Le catene di fornitura modulare sono, dunque, strutture non gerarchiche di produttori di
vario rango, ognuno dei quali offre le proprie competenze specialistiche. La modularità in
produzione riduce la complessità del processo di fabbricazione poiché l’assemblatore del
prodotto sistema-modulaare gestisce un numero minore di’interfacce rispetto al
manufacturer del prodotto sistema-integrale. Questa minore complessità produttiva si
traduce in una riduzione dei lead time per via della parcellizzazione/parallelizzazione delle
attività produttive. I vari livelli della catena di produzione sono disposti in una struttura
piramidale rovesciata. [vedi schema pag. 194] La catena di produzione modulare è una
porzione importante della supply chain modulare.
Le tre forme tipiche di organizzazione di produzione del prodotto modulare sono:
1. Consorzio modulare: il produttore (manufacturer) non è direttamente coinvolto nella
produzione/assemblaggio dei moduli, che è assegnata ai fornitori di primo livello (first tier
supplier). L’unità assemblatrice finale (main plant) è composta da officine modulari
(modular workshops), ciascuna delle quali appartiene ad una main assembly line
appartenente al produttore, ma gestita dai fornitori. Il manufacturer mantiene, però, il ruolo
di sviluppo della piattaforma e dei progetti. Nel consorzio modulare, i fornitori di primo
livello sono localizzati all’interno dell’impianto del manufacturer, che mette a disposizione
terreni, infrastrutture, macchinari, ecc. La manodopera, invece, rimane rigidamente
separata tra quella del produttore e dei vari fornitori;
2. Condominio industriale o supplier park: i produttori di moduli sono localizzati nelle
estreme vicinanze dell’impianto di assemblaggio finale. Il produttore investe nei terreni,
edifici, infrastrutture che mette a disposizione dei fornitori di primo livello che, a loro
volta, investono in impianti e macchinari dedicati alla produzione. In questo caso il
produttore ha il controllo dell’assemblaggio finale;
3. Impianti “satellite” dei fornitori: i fornitori costruiscono impianti nelle vicinanze del
main plant, dai quali moduli sono consegnati just in time.

44
In conclusione: la soluzione modulare all’organizzazione e gestione della produzione
genera economie di costo, di varietà, di flessibilità, di velocità, di qualità, a vantaggio di
tutti i partecipanti alla catena di produzione.

3.3 Nella realtà, le imprese ricorrono a soluzioni molto diverse da quelle teoriche sopra citate.
Inoltre, il fenomeno della dispersione mondiale dei fornitori è esattamente l’opposto di
quello della loro prossimità al main plant. In ogni caso, i motivi che spingono i fornitori di
primo livello alla prossimità geografica al main assembling line sono:
a) I costi logistici. I costi di trasporto e di altri servizi accessori sono a carico dei fornitori,
pertanto la vicinanza geografica potrebbe giocare a loro favore. Nel caso di una strategia
just in time è indispensabile la vicinanza tra fornitori e assemblatore. In altri casi, invece, è
opportuno valutare vantaggi e svantaggi della prossimità. Una soluzione alternativa
consiste in magazzini di scorte dei fornitori localizzati direttamente all’interno
dell’impianto produttivo: a fronte dei costi di mantenimento scorte, il fornitore riduce i
costi di trasporto;
b) Le relazioni inter-organizzative fondate sulle competenze. I fornitori, oltre ai pezzi da
assemblare, mettono a disposizione del produttore conoscenze, competenze, tecnologie,
garantendo miglioramenti dei moduli e soddisfando al meglio il produttore stesso. A volte,
ingegneri e tecnici dei fornitori lavorano direttamente nel main plant del produttore;
pertanto la vicinanza geografica si dimostra un enorme vantaggio a favore di queste
relazioni cognitive.

4) La modularità in progettazione. Le strategie multi-project

4.1 I processi di sviluppo dei nuovi prodotti dipendono dall’architettura del prodotto stesso. I
prodotti integrali richiedono un’elevata coordinazione tra le aree specialistiche
dell’impresa, poiché il cambiamento di un componente implica la modifica di tutti gli altri.
I prodotti modulari, invece, consentono ad ogni modulo di essere trattato come una black
box; ne consegue che progetto, produzione e collaudo di un modulo possono essere
facilmente esternalizzati ai fornitori di moduli. L’orientamento attuale è proprio
quest’ultimo, a beneficio di velocità ed efficienza del processo di sviluppo di nuovi prodotti
consentendo, al contempo, un’elevata varietà di prodotti grazie al mix ed al matching dei
moduli consentiti dalle interfacce disaccoppiate. Il contributo dei fornitori, quindi, è
fondamentale. L’architettura modulare del prodotto favorisce, inoltre, la standardizzazione
dei moduli, seppur vari. Il livello d’innovazione che una value chain può generare è
superiore a quello sommato delle singole imprese partecipanti, in virtù dei processi
d’apprendimento inter-organizzativo che avvengono nella value chain medesima.

4.2 Nelle imprese modulari, la gestione dell’innovazione prevede, in sintesi, la scomposizione


dei prodotti in core components comuni a più progetti-famiglie di prodotti, e proprietari
components specifici a ciascun prodotto. Gli studiosi hanno individuato quattro strategie
progettuali di prodotto, corrispondenti ad altrettante soluzioni strutturali e gestionali di
sviluppo dei nuovi prodotti/processi:
1. strategia progettuale funzionale: si correla con una struttura organizzativa fondata su
aree specialistiche di attività. Le fasi di sviluppo procedono in ordine sequenziale. Non c’è
alcun intervento di organizzazioni esterne;
2. strategia progettuale single project o lean. Si correla con una struttura a matrice o
organizzazioni single project, in entrambi i casi i progetti sono gestiti da manager con
45
ampio potere decisionale. Si ricorda che tale soluzione è efficiente solo quando le imprese
gestiscono un numero basso di progetti e prodotti;
3. strategia multi-progetto & 4. strategia multi-impresa. Nasce per fronteggiare la
proliferazione dei prodotti e la segmentazione del mercato, che hanno portato alla crescita
del numero dei team, con conseguente aumento dei costi. DA RIVEDERE!!!!!!!

4.3 Per accrescere rapidamente ed efficientemente il numero di prodotti sul mercato, le imprese
stanno adottando sempre più la strategia multi- progetto, che prevede la condivisione della
piattaforma tra più progetti di prodotto. La piattaforma, quindi, è un’architettura multi-
progetto consistente in un pianale di base condiviso da vari modelli. Questi ultimi si
differenzieranno per i loro componenti proprietari, cioè le funzioni dei singoli moduli da
montare sulla piattaforma comune. Con l’approccio multi-progetto è evidente il beneficio
in termini di costo, velocità e varietà, che si rifà ad un orientamento alla mass
customization. Il multi-project management è uno dei due core processes delle imprese
modulari, l’altro è la modular supply and production, che abbiamo visto nei paragrafi
precedenti. Ricapitolando: la modularità prevede sviluppo e produzione di moduli
indipendenti ed interdipendenti, consente varietà produttiva e velocità d’innovazione,
contenendo i costi. A tale scopo, l’impresa sviluppa e produce piattaforme standardizzate,
affidando la gestione della varietà ai project team e/o ai modular developer esterni, e quella
operativa all’assemblaggio, con i proprietary components montati sul pianale di base.

4.4 Le strutture organizzative relative a strategie multi-progetto sono del tipo “centro di
sviluppo”. Ogni centro di sviluppo raggruppa progetti con una piattaforma comune ed è
coordinato da un capo centro. L’innovazione radicale delle imprese multi-progetto risiede
molto nei centri di sviluppo e si concretizza nella progettazione di una nuova piattaforma.
L‘organizzazione di un singolo progetto è affidata ad un project manager. L’innovazione
incrementale, invece, ha sede nei product team e si materealizza nei nuovi prodotti. [vedi
schema pag.203] I centri di sviluppo riducono il numero di posizioni manageriali,
riducendo anche i costi.

4.5 Le strategie organizzative di attribuzione ai fornitori di primo livello delle responsabilità


progettuali di sistemi/moduli sono:
- la progettazione congiunta di moduli ed interfacce (joint-design): il produttore
esternalizza una porzione di competenze di sviluppo ai fornitori di primo livello,
riservandosi di intervenire nella progettazione del modulo. Questo presuppone
un’ambiguità tra produttore e fornitori per quanto riguarda la proprietà intellettuale del
progetto, tanto da definirla co-design;
- la progettazione entro i confini dei mobili (interfacce), tracciati dal produttore (design
and within-module specialization): presuppone il coinvolgimento dedl fornitore entro i
limiti delle interfacce definite dal produttore. In pratica, al fornitore viene affidata tutta la
fase di sviluppo e di successiva innovazione incrementale del modulo, sempre nel rispetto
delle compatibilità prestabilite dal produttore;
- la progettazione completa di moduli ed interfacce (complete module&interface
innovation): presuppone un fornitore in grado di standardizzare le interfacce tra i moduli
ed imporli a diversi produttori tramite cataloghi.
I processi d’innovazione modulare uniscono le capacità del produttore di generare nuove
piattaforme , e quelle dei fornitori d’innovare moduli da montare sui pianali di base,
indipendentemente dall’attività innovativa del produttore. [vedi schema pag. 206]
46
4.6 Il multi-project management può portare al coinvolgimento di molti produttori che
cooperano per sviluppare piattaforme comuni, da cui generare prodotti separati. Le attività
di progettazione/produzione sono sempre meno realizzate in-house, essendo attività diffuse
tra imprese che collaborano. Stiamo parlando del fenomeno della condivisione di progetti
base (piattaforme) tra organizzazioni che cooperano con relazioni altamente flessibili.

4.7 Esistono quattro tipologie di strategie multi-progetto che dipendono da come i progetti
usano la tecnologia della piattaforma e dalla velocità con cui trasferiscono una piattaforma
da un progetto all’altro [vedi schema pag. 208] :
- new design: prevede la generazione di una nuova piattaforma che incorpora i più recenti
avanzamenti tecnologici. Essa fa proprio l’orientamento all’innovazione radicale di
prodotto;
- concurrent technology transfer: prevede che alcune fasi del nuovo progetto di base e le
attività di sviluppo dei progetti derivati si sovrappongano generando miglioramenti della
piattaforma in tempi brevi;
- sequential technology transfer: presuppone progetti che assumono nel tempo la
piattaforma solo dopo che quest’ultima ha completato le sue fasi di sviluppo;
- design modification: si riferisce a progetti che riusano una vecchia piattaforma,
apportando marginali cambiamenti.
Secondo Cusumano e Nobeoka la strategia multi-progetto più efficiente è quella del
trasferimento tecnologico simultaneo tra la piattaforma e i progetti derivati.

5) Oltre il network modulare delle produzioni “centralizzate”

5.1 L’evoluzione del manufacturing verso la modularità è stata determinata dal mondo che è
cambiato. A sua volta la modularità ha portanto a cambiamenti come:
a) la crescente disintegrazione verticale dei produttori, a favore della cooperazione e del
networking inter-organizzativo;
b) il potenziamento di produttori e fornitori attraverso investimenti diretti esteri;
c) la crescente specializzazione di imprese e nazioni su competenze e tecnologie specifiche.
I moduli sono diventati sempre più importanti e complessi, ma a costi sempre più bassi. Il
produttore ha trasferito sempre più costi e rischi ai fornitori, ri-focalizzandosi su attività
come l’assemblaggio finale e i servizi di vendita, più redditizie. Le organizzazioni
modulari della produzione sono costruite su alleanze strategiche caratterizzate dalle
competenze e le conoscenze, messe in condivisione per sviluppare prodotti sempre più
complessi. Tutto questo per incrementare la propria conoscenza. Questo modello ha avuto
successo e ad oggi, nei mercati turbolenti e globali, le supply chain cognitive e modulari
hanno preso il posto delle singole imprese.

5.2 Nelle supply chain di tipo modulare, il decoupling point è in posizione intermedia tra
l’assemblatore e i fornitori di primo livello, i quali, essendo i produttori dei moduli,
subiscono maggiormente le conseguenze delle turbolenze dell’ambiente competitivo. La
riduzione delle scorte dell’assembler può essere positiva qualora i fornitori si trovino nelle
immediate vicinanze dell’impianto di assemblaggio, ma negative nel caso di un network
globalizzato con imprese dislocate sul territorio, per via della crescita dei costi di trasporto
e dei lead time. Ne consegue che nella produzione modulare, che realizza la divisione del
lavoro, spesso viene favorita l’efficienza delle singole imprese a discapito della
produttività di sistema. Le conseguenze concrete di questo fenomeno, per i consumatori,
47
sono un allungamento dei tempi di consegna e un aumento dei costi unitari. Un altro difetto
del network modulare globalizzato riguarda l’interazione con il cliente finale, che diventa
assai difficoltosa laddove questo si trovi molto lontano. Occorre, dunque, ricorrere a
soluzioni inter-organizzative che combinano efficienza e flessibilità e siano fisicamente
vicine ai luoghi di consumo ed utilizzo della produzione, al fine di contenere i costi della
flessibilità e della logistica. Ora affrontiamo il tema della progettazione organizzativa
dell’agile interprice. Le mini-fabbriche sono la soluzione strutturale, gestionale e
tecnologica al problema della crescita dei costi e dei tempi generata dalla distanza tra
mercati e clienti e dalla specificità della domanda. Le mini-fabbriche formano un real time
network decentrato, che svolgono gran parte delle attività generatrici del valore, ma solo
dopo l’ordine del cliente (posposizione). A differenza del network modulare della
produzione centralizzata, il real time network delle mini-fabbriche consente di attuare la
posposizione anche nelle fasi a monte del processo di creazione del valore
(es.progettazione), mentre il primo riserva solo alla fase di assemblaggio il vantaggio della
posposizione. Questa profonda interazione impresa-cliente si coniuga con processi di mass
customization del tipo design-to-order o engineering-to-order. In sostanza, si produce
quello che il cliente vuole e quando lo vuole (just in time). Il network decentrato delle
mini-fabbriche è pertanto una soluzione agile. La prossimità al cliente delle strutture
produttive non è fondamentale per la loro flessibilità poiché esistono soluzioni come il
virtual manufacturing. Questa tecnologia presuppone la dispersione geografica delle
attività di impresa e un cliente in grado di progettare il proprio prodotto che poi invierà
digitalmente all’impresa stessa. In pratica, la vicinanza è utile alle imprese che vogliono
lasciarsi permeare maggiormente dai propri consumatori e dalla loro conoscenza. Il
vantaggio principale di un network fatto di mini-fabbriche è rappresentato dallo scambio di
conoscenze tra quest’ultime, anche se territorialmente lontane. Per non trascurare l’aspetto
della produttività di sistema, ogni network di mini-fabbriche prevede un’unità centrale che
rifornisce tutte le altre di componenti standard e prodotti base. La posposizione delle
attività di progettazione genera una serie di risparmi di costi quali: minori costi di
magazzino, minore complessità della pianificazione dell’impresa territorialmente
distribuita, minori costi per adattamenti di prodotti o per vendita di scorte invendute o per
errori di progettazione, minori costi di sovradimensionamento produttivo dovuto a una
errata previsione della domanda.

5.3 Le Virtual Engineered Composite (VEC) cells sono fabbriche “in scatola”, cioè
trasportabili, in grado di realizzare parti stampate just in time (dove servono, quando
servono e secondo le specifiche richieste del cliente). Una VEC cell è un sistema
autosufficiente di stampaggio di parti componenti, dotato di sistema operativo, cioè un
insieme di programmi (software) che controllano le funzioni della macchina (hardware). I
processi svolti dalle VEC cells sono programmi applicativi adattabili da una postazione
centrale in base alle esigenze e non richiedono particolari competenze poiché l’operatore
riceve istruzioni audio/video. I costi di riconversione della produzione con tecnologia VEC
sono bassi perché gestiti attraverso semplici modifiche di software.

48
CAPITOLO 5: I saperi degli end users

1) Le customer centric enterprises

1.1 Le imprese della mass customization fondano il loro business sulla conoscenza relativa ai
clienti, che acquisiscono dalle interazioni con essi. Le interazioni abilitano all’integrazione
dei clienti nei processi di creazione del valore, in particolare nelle fasi di sviluppo e
progettazione. L’integrazione del cliente lo trasforma in un co-designer. Per questi motivi
le imprese di mass customization sono definite customer centric enterprises perché
mettono al centro del processo di creazione del valore la conoscenza circa le richieste, i
desideri e le potenzialità economiche di ogni singolo cliente. L’abilità di queste imprese sta
nell’assegnare al cliente un ruolo attivo.

1.2 Il Customer Knowledge Management (CKM) è il sistema di gestione della conoscenza


posseduta dal cliente e acquisita attraverso l’interazione diretta con esso. L’obbiettivo del
CKM è utilizzare la conoscenza posseduta dal cliente per il potenziamento delle capacità
dell’impresa. I flussi della conoscenza legata al cliente appartengono a tre tipologie:
1. un flusso che va dall’impresa ai clienti e che include info su prodotti e mercati;
2. un flusso di conoscenza contribuita dal cliente che viene incorporata dall’impresa per
migliorarsi;
3. un flusso di conoscenza riguardante il cliente che matura con l’analisi dlle transazioni
passate e riguarda i bisogni attuali, i desideri futuri e le capacità finanziarie dei clienti.
I processi di CKM riguardano la seconda tipologia. Le imprese della mass customization
adottano un altro strumento per l’acquisizione e l’impiego della conoscenza dei clienti: il
customer profiling, ovvero un software che raccoglie i dati dei clienti al fine di trarne i
profili e soddisfarli con i prodotti coerenti alle loro esigenze. In questo caso si parla di
personalizzazione, non di customizzazione, cioè il processo di suggerimento del prodotto
confacente al cliente, sulla base di un’intensa comunicazione impresa-cliente. Nelle
imprese della mass customization, customizzazione e personalizzazione convivono, anzi
quest’ultima riduce gli sforzi della prima poiché la configurazione del prodotto
customizzato potrebbe avvenire sulla base di un prodotto standard suggerito dal cliente. La
personalizzazione, pertanto, riduce i costi dovuti alla varietà e specificità elevate della
domanda .

2) La customer co-creation of value

2.1 I prodotti mass customized rispecchiano le offerte a specifici clienti che si collocano
all’interno di un range di opzioni produttive, ovvero di possibili configurazioni. Tale range
è detto solution space di un sistema di mass customization. La solution space è funzione
dell’archittettura modulare di prodotto e delle capacità organizzative dell’impresa e della
catena del valore, ed esclude l’illimitata flessibilità produttiva senza perdite di efficienza. La
definizione di tale solution space è la prima fase del processo di sviluppo del prodotto, la
seconda fase è la configurazione di quest’ultimo, che richiede l’interazione impresa-cliente
attraverso toolkits cioè piattaforme d’interfaccia. Nella fase di configurazione avviene la
conversione dei bisogni individuali in specifiche di prodotto. Quest’ultime veicolano
informazioni che le imprese convertono in: conoscenza dei trend di mercato, previsioni
accurate dei bisogni dei consumatori e customer profiler. Tutto ciò genera costi informativi
per l’impresa che svolge interazione con i clienti, ma tali costi vanno a ridurne altri.
49
2.2 L’integrazione dei clienti nel processo di creazione del valore, dilata il processo innovativo
dell’impresa, che va ad aprirsi a tutte le possibili fonti esterne. I toolkits consentono al
cliente di progettare un nuovo prodotto con una sperimentazione del tipo prova-ed-errori, e
di acquisire un feedback immediato sul potenziale prodotto, frutto delle proprie idee. In
questo modo i clienti possono sviluppare da sé i prodotti che non trovano sul mercato, a
patto che questi siamo reddituali per l’impresa. In altri casi, il cliente può avere le
competenze necessarie a creare completamente da sé un nuovo prodotto, anticipando i
trend di mercato. In definitiva, in una prospettiva di open innovation, i clienti sono da
considerare come la principale parte attiva del processo di creazione del valore a livello di
filiera cognitiva. Con la realizzazione del prodotto, l’impresa acquisisce il progetto e lo
considera un’innovazione, capitalizzando conoscenza customer-related.Il progetto si
converte in architettura di prodotto e solution space.

2.3 Riferendosi alla user center innovation, si può parlare di outsourcing della progettazione e
dell’innovazione. Esiste quindi un continuum di tipologie di processi di value co-creation
dove ad un estremo l’esternalizzazione riguarda solo la configurazione del prodotto sulla
base della combinazione di moduli standard, all’altro estremo l’esternalizzazione è più
estesa: l’azienda accoglie dal cliente un individual design per realizzare materialmente il
progetto. Nell’intermedio del suddetto continuum ci sono tutti i casi che genrano la
modifica e l’adattamento dell’architettura di prodotto in base al cliente. In sostanza, il
grado d’integrazione del cliente definisce la profondità organizzativa della fase del
processo in cui il cliente si coinvolge. In ogni caso si tratta pur sempre di un co-design
poiché prevede sempre l’impiego dei toolkits predisposti dall’impresa, e in funzione di
quest’ultimi il prodotto può essere customizzato o unn’innovazione.

2.4 L’impresa capitalizza la conoscenza che matura a valle della catena del valore e la integra
con altra conoscenza, esogena ed endogena. L’internalizzazione del cliente nel processo di
creazione del valore amplia la knowledge base dell’impresa che va oltre la sola conoscenza
proveniente dai fornitori. Ciò che caratterizza un’impresa customer centric è la gestione di
un network ampio di conoscenze/competenze su cui può far leva per acquisire vantaggio
competitivo. I prodotti mass customized e personalizzati rappresentano un guadagno certo
per l’impresa poiché creati su ordinazione. Inoltre è facile che il cliente soddisfatto si affidi
nuovamente all’impresa in futuro, instaurando un rapporto di fedeltà. A fronte di questi
vantaggi e di ricavi maggiori, l’impresa sostiene anche dei costi maggiori che
approfondiamo meglio di seguito.

3) Verso la produzione distribuita

3.1 Secondo numerosi studi, i produttori della mass customization, per divenire tali, devono
transitare per esperienze di mass manufacturing. La modularità risulta essere l’approccio
progettuale e produttivo più efficiente per la customizzazione di massa dei prodotti.
L’efficienza dei sistemi modulari implica la serializzazione produttiva dei moduli; in
breve, così come le imprese della produzione di massa, l’impresa modulare continua ad
affidare l’economicità della produzione alla standardizzazione dei prodotti e dei processi.
La standardizzazione permette la coesistenza di mass production e mass customization
nello stesso sistema di business. Questa combinazione permette di integrare i vantaggi di
entrambe le soluzioni. Il riconoscimento di un ruolo centrico del cliente si coniuga
efficacemente con la modularità quando la varietà delle richieste può essere soddisfatta con
50
la combinazione dei moduli standard. Quando la varietà e la specificità delle richieste
aumentano, la flessibilità deve essere gestita consentendo al cliente di partecipare più
profondamente al processo di sviluppo e realizzazione del prodotto.

3.2 La modularità della mass customization presenta dei limiti non solo nella gestione della
flessibilità in contesti ad elevata specificità della domanda, ma anche perché essa genera
una serie di problemi di potere e di scambio delle informazioni tra gli attori della value
chain, che ne minacciano l’efficacia alla base. [La parte centrale del paragrafo ripercorre
quanto già detto sulla mass customization in vista delle considerazioni finali che seguono
questo inciso] I network modulari sono soluzioni efficienti in situazioni di moderate
variabilità e specificità della domanda, cioè quelle gestibili con la combinazione di moduli
standard. Se è vero che i network modulari, realizzando la divisione del lavoro tra unità di
impresa specializzate, consentono l’efficienza delle sue parti, è altrettanto vero che gli
stessi network possono non garantire la produttività di sistema quando si allungano i lead
time, a causa delle numerose interfacce presenti al suo interno. Inoltre, il network modulare
non si dimostra efficiente quando crescono le esigenze d’interazione con il cliente per la
creazione del prodotto altamente specifico, e ciò a causa dell’abbondanza delle
informazioni da scambiare con il cliente stesso. Tale situazione fa lievitare i costi
informativi dell’impresa diffusa di tipo modulare, ancor più nelle imprese globalizzate.

3.3 Dobbiamo quindi stabilire quella strutta di network che renda possibile la riduzione dei
lead time ed agevoli la gestione dei flussi di customer-related knowledge. Tale potrebbe
essere il modello di real-time enterprise, cioè il network real-time delle mini-fabbriche, in
grado di sincronizzare domanda e offerta tramite il postponing di tutte le attività di
creazione del valore. Analizziamo questo modello, già visto nel capitolo precedente, per
approfondire la tematica della partecipazione del cliente alla filiera cognitiva e alla
creazione della conoscenza sociale, ed introdurre all’analisi della produzione distribuita.
L’obbiettivo delle imprese della real-time economy è dar risposta immediata ai desideri dei
propri clienti. In situazioni ambientali complesse e turbolente, occorre che le attività
generatici del valore abbiano luogo non tra, ma entro le singole unità del network (mini-
fabbriche), ciascuna delle quali è vicina ai propri clienti. Quest’ultimo aspetto agevola
l’accesso alla customer knowledge, ed è fondamentale per una customer-centric enterprise.
Il network real time ha bisogno di una knowledge base più ampia dell’impresa diffusa
modulare: per creare il prodotto mass customized altamente specifico, occorre acquisire la
conoscenza proveniente dal cliente in quantità maggiore di quella sufficiente per la
semplice combinazione di moduli fissi. Questo significa internalizzare più profondamente
il cliente nel processo di sviluppo del prodotto. Ciò porta vantaggi anche alla conoscenza
della clientela stessa, migliorando le capacità di previsione dei trend di mercato e di
innovazione. In sintesi, la real time enterprise integra le capacità delle mini fabbriche, dei
fornitori e dei clienti.

3.4 Le attività svolte da una mini fabbrica:


- registrazione delle specifiche del cliente usando i toolkits;
- traduzione di tali specifiche in lineamenti di prodotto customizzato;
- produzione customizzata di lotti unitari di prodotto;
- consegna del prodotto e fornitura di servizi al cliente.
Tutto ciò permette la sincronizzazione delle attività di creazione dei prodotti con
l’esplicitazione delle richieste del cliente, ampliando potenzialità e flessibilità.
51
3.5 Rivediamo le nozioni di conoscenza ed informazione, due nozioni distinte ma
connesse. La conoscenza è il risultato di un processo di apprendimento che genera il
cambiamento nel comportamento di una persona o di un organizzazione. La conoscenza di
un organizzazione si materializza nelle migliori pratiche di gestione dei processi; queste
sono soggette a costante evoluzione per via dell’interiorizzazione di nuove informazioni.
L’informazione è conoscenza codificata, da trasferire e codificare. La produzione delle
informazioni costituisce la base della generazione della conoscenza. La sticky information
è quell’informazione che contiene conoscenza difficile da codificare, trasferire e
decodificare. La stickiness è la spesa incrementale richiesta per trasferire un’unità
d’informazione da un luogo all’altro. Le causa di stickiness possono essere legate alla
numerosità delle info da trasferire e ai mezzi a disposizione. La conoscenza veicolata dalle
sticky information è più agevolmente acquisita, decodificata, interiorizzata dal produttore
real time grazie all’ausilio dei toolkits, ed è spesso convertita in altra conoscenza esplicita
che viene messa a disposizione di tutte le mini-fabbriche del network. Le informazioni
sticky sui clienti servono anche a costruire customer profiles che supportano le attività di
personalizzazione dell’impresa, limitando al contempo il coinvolgimento diretto del cliente
nella progettazione del prodotto. Com’è ovvio, a ridurre la stickiness dell’informazione
contribuisce anche la prossimità dell’impresa al consumatore. Infine, le informazioni sticky
concorrono a promuovere le capacità innovative dell’impresa real time, risparmiando i
costi di ricerca isplicita di mercato e di raccolta delle informazioni sulla base delle
transazioni.

3.6 Nell’impresa real time, i costi informativi generati dall’interazione con il cliente, si
bilanciano con la riduzione di altri costi informativi (tra cui quelli di unsticking). Da
valutare in trade off con i suddetti benefici reddituali è l’incremento dei costi strutturali
generati dal moltiplicarsi degli investimenti in mini-fabbriche, per realizzare la vicinanza ai
clienti. L’integrazione del cliente consente, inoltre, di contenere i costi di marketing per
l’acquisizione di nuovi clienti e di far aumentare la willingess to pay, generando ricavi più
elevati, ma soprattutto fidelizzazione del cliente che diventa garanzia di redditività futura.

4) La commons-based peer production

4.1 Nei paragrafi seguenti approfondiremo l’analisi relativa all’estensione del ruolo dell’end
user nelle catene del valore. Nel corso del tempo il suo ruolo si è espanso sempre più, oggi
con le nuove tecnologie digitali fa registrare un marcato processo di democratizzazione
della progettazione, innovazione e produzione. La produzione, attività un tempo
proprietaria dell’impresa, diventa produzione distribuita. La produzione distribuita si fonda
sulla Commons-Based Peer Production (CBPP), cioè il sistema socio-economico di
produzione della conoscenza è emerso nell’ambiente digitale in rete, che si declina in una
varietà di livelli di produzione collaborativa basati su beni comuni (commons). Alla base
dell’economia dei commons c’è il nuovo modo di produrre le informazioni e la
conoscenza, basato sulla cooperazione spesso gratuita e disinteressata delle moltitudini
largamente alfabetizzata. Tutto ciò diventa possibile soprattutto grazie al cambiamento
tecnologico che ha generato la crescita della produzione non commerciale e non
proprietaria delle informazioni e della conoscenza. Quest’ultima diviene sempre meno
personale e sempre più sociale, in quanto generata e utilizzata in condivisione, e con scopi
che vanno dalla creatività all’hobby.

52
4.2 In questo contesto le persone assumono un ruolo centrale nello scenario socio-economico,
diventando la principale parte attiva nella produzione del sapere. Internet è l’infrastruttura
tecnologica che permette liberi accesso e partecipazione delle persone, mentre i computer
formano una sorte di “capitale fisso distribuito”. Ne consegue che le reti sociali con
accesso ad internet sono network distribuiti. Questi ultimi sono reti sociali in cui i
partecipanti sono liberi di stabilire relazioni con altri pari, senza alcuna intermediazione. Il
web è un’altra infrastruttura che permette a ciascuno di diventare editore, pubblicando
contenuti a disposizione delle comunità. È il web che consente la condivisione del sapere
attraverso internet.

4.3 La caratteristica fondante del sistema socio-economico della peer production è la


collaborazione tra le persone che apportano nei network sociali le conoscenze,
coordinandosi senza affidarsi al mercato o alla gerarchia, ma spontaneamente e senza il
fattore motivazionale della remunerazione, attraverso l’infrastruttura tecnica di internet. Ne
deriva un regime di proprietà diverso da quello privato e quello pubblico: la proprietà
comune. La produzione paritaria necessita di un nuovo regime di proprietà intellettuale
regolato da licenze che regolano i diritti d’autore e il loro utilizzo. Tali licenze consentono
la libera riproduzione sociale del prodotto generato in regime di produzione paritaria,
proteggendolo dall’appropriazione privata, perché il suo utilizzo obbliga a rendere pubblici
i progetti in cui è stato utilizzato. Ciò che si intende generare nelle reti non è il profitto, ma
la creazione di un valore d’uso a vantaggio della comunità. Lo scopo del CBPP è ottenere
il risultato migliore possibile per la comunità, e non alimentare la competizione e il
profitto. Inoltre, la conoscenza sociale creata in regime di peer production non è un bene
rivale, poiché la condivisione e il riuso ne accrescono il valore. L’economia dei commons
stimola la volontà e il desiderio delle persone di prendere parte ai processi decisionali che
riguardano la “cosa pubblica”. La produzione sociale, quindi, è anche un sistema in cui
tutte le persone possono esprimere liberamente le proprie idee ed opinioni, generando a
livello socio-politico una versione partecipativa della democrazia.

5) La produzione additiva

5.1 Con il termine Additive Manufacturing (AM) s’intende la produzione di un oggetto fisico
attraverso la fusione, sintetizzazione o polimerizzazione strato-su-strato di un materiale
direttamente da un progetto mantenuto in un file 3D. La produzione additiva, quindi,
avviene senza l’impiego di strumenti convenzionali di produzione, inviando ad un sistema
di AM un file di progetto in 3D, generato usando il sistema di progettazione CAD in 3D o
scannerizzando un oggetto già esistente. Non c’è più l’esigenza di una pianificazione
dettagliata della produzione, che richiede un’analisi degli strumenti e delle attrezzature da
impiegare per la produzione. La produzione additiva non viene usata solo per la
produzione di componenti, ma anche per la produzione di strumenti di fabbricazione ed
assemblaggio (convenzionali e non). Inizialmente tale produzione era riservata
esclusivamente ai prototipi, oggi ha raggiunto un livello tale di sviluppo da essere
impiegata anche in produzioni vere e proprie, in particolare quelle in cui sono richieste
leggerezza e precisione abbinate ad un’alta resistenza. La recente diffusione delle macchine
AM è dovuta alla loro maggiore velocità ed economicità, che le ha portate ad essere
utilizzate anche in contesti in cui era già presente una produzione sottrattiva: per
produzioni a grandi volumi si ricorre a quest’ultima (le macchine CNC risultano ancora

53
quelle più convenienti), per produzioni a piccoli lotti con geometrie complesse si ricorre
alla produzione additiva.

5.2 Tra i vantaggi principali derivanti dall’impiego di tecnologie additive ci sono le grandi
libertà progettuali e realizzative. Questo si traduce in un’elevata flessibilità che consente di
produrre prodotti altamente personalizzati senza gravare sui costi. In sintesi, le tecnologie
additive eliminano gran parte dei vincoli strutturali e dei costi di personalizzazione. A
questi vantaggi si aggiunge la riduzione dei costi derivante dalla riduzione dei materiali
impiegati, poiché essi vengono aggiunti e non sottratti; e l’eliminazione di costi di
magazzino poiché le macchine producono just in time.

5.3 La produzione additiva risulta, però, ancora inefficiente per grandi volumi di produzione a
causa dei costi e dei tempi, pertanto è adatta soprattutto a produzioni su piccola scala.
L’impresa della mass customization è proiettata verso l’annullamento dei sacrifici cui i
clienti vanno incontro con la produzione di massa. Qui di seguito riportiamo la soluzione ai
quattro principali sacrifici che si verificano quando il cliente:
- è costretto a scegliere sulla base di offerte di massa. Si risolve con la personalizzazione
collaborativa, cioè l’interazione impresa cliente per determinare i bisogni reali di
quest’ultimo e produrre solo ciò che desidera;
- è costretto a scegliere attraverso la selezione di un moltitudine di prodotti. Si risolve con
la personalizzazione adattiva, cioè il cliente personalizza il bene standard utilizzando la
funzionalità presente nell’offerta;
- è costretto a scegliere un prodotto in una forma non desiderata sebbene le sue funzionalità
siano soddisfacenti. Si risolve con la personalizzazione cosmetica, il prodotto non è
personalizzato né personalizzabile, ma è un prodotto che viene “confezionato” in modo
personalizzato;
- è costretto a scegliere un prodotto fornendo nuovamente le stesse informazioni. Si risolve
con la personalizzazione trasparente, cioè offrendo un offerta su misura per clienti
individuati senza far sapere a loro che è stata personalizzata sulla base delle informazioni
acquisite.
Ora, ciò che si può ipotizzare è che l’impresa che adotta una tecnologia additiva per
realizzare i prodotti customizzati sia in grado di eliminare tutti i sacrifici dei clienti, ma non
di contenere i costi unitari e i tempi di produzione necessari ad operare nel mass market.

5.4 Sulla base di quanto detto prima, le tecnologie additive possono fare drasticamente
diminuire i lead time e tutti i costi di gestione del prodotto richiesto in versione altamente
personalizzata, nonché i time to market dei nuovi prodotti. Inoltre, stimolano la creatività e
l’innovatività dei progettisti di beni. Il consolidamento delle tecnologie additive potrà
avere conseguenze simili a quelle della condivisione in rete dei file musicali: copiare un
prodotto fisico e convertirlo in dati di progettazione 3D condivisibili in rete potrebbe
diventare molto facile, grazie all’open source che rende difficile per i produttori la tutela
della proprietà intellettuale. Le tecnologie additive consentono la localizzazione della
produzione vicino al luogo del consumo, con tutti i benefici del caso. Inoltre, grazie alle
tecnologie digitali, i consumatori potranno comprare progetti online e personalizzarli e
produrli anche in casa. In breve, la produzione additiva sta ridisegnando gli scenari
competitivi attraverso il ripensamento della value chain e un orientamento alla produzione
locale: la logistica subirà una drammatica rivisitazione, ma tutti i protagonisti dovranno
rivedere le proprie condotte.
54
6) Processi e tecnologie di produzione additiva

6.1 Esiste una grande varietà di processi di produzione additiva che differiscono in funzione
dei materiali impiegati (polimeri, polveri, metalli), delle fonti di energia impiegati (laser,
fascio di elettroni, raggi UV), e delle tecnologie adottate. Nonostante queste differenze,
ogni processo di AM si articola sempre nelle seguenti fasi:
1. un software di modellazione solida CAD in 3D viene impiegato al fine di ottenere un file
di rappresentazione del solido in 3D;
2. il file CAD viene convertito in un file STL che usa un’algoritmo per descrivere le
superfici da costruire strato-su-strato;
3. il file STL è trasferito al sistema AM per la fabbricazione. Ciò che si ottiene è una
geometria di prodotto generata dalla sovrapposizione di slices orizzontali di materiale.
Esistono diversi metodi per classificare i processi di produzione additiva, qui riportiamo la
classificazione dell’American Society for Testing and Materials (7 categorie):
Photopolymer Vat Technologies. Questi processi comportano l’indurimento selettivo dei
fotopolimeri depositati, utilizzando diversi tipi di fonte di luce. Le più utilizzate sono i raggi
laser o i raggi UV, che induriscono il materiale (inizialmente liquido) strato dopo strato;
Material Jetting Technologies. Queste tecnologie usano la tecnica della stampa a getto
d’inchiostro per depositare selettivamente, attraverso un ugello, goccioline di materiale, per
realizzare attraverso un processo strato dopo strato strutture complesse 3D. Il materiale
inizialmente è liquido e si solidifica per raffreddamento, per trasformazione chimica o per
evaporazione del solvente;
Binder-Jetting Technologies. Anche in questo caso si utilizzano ugelli per stampare, ma
invece di stampare il materiale di costruzione, il materiale stampato è il collante che
consente di tenere insieme la polvere del materiale di costruzione nella forma desiderata;
Power Bed Fusion Technologies. Funzionano in modo simile ai processi binder jetting, ma
invece di stampare un collante su uno strato di polvere, viene utilizzata energia termica per
fondere la polvere di un materiale secondo un modello desiderato. Spesso si utilizza il laser
per fondere il materiale, ma in altri casi si ricorre anche a fasci di elettroni, raggi infrarossi o
raggi UV;
Extrusion-based Technologies. Tali processi prevedono flussi continui di deposizione del
materiale, strato su strato, per realizzare oggetti attraverso l’estrusione, cioè agendo per
compressione sul materiale e forzandolo a passare attraverso un foro di un’apertura
determinata. I processi estrusivi si dividono in quelli basati sulla fusione e quelli senza
fusione;
Direct Energy Deposition Technologies. Si utilizzano raggi laser per fondere le particelle
del materiale in polvere depositate su un asse X-Y dalla testina di deposizione del materiale
stesso. L’asse X-Y viene spostato per modellare la sezione trasversale di ciascuno strato;
Sheet Lamination Technologies. Questi processi funzionano tagliando e incollando fogli di
materiale per formare un oggetto.

6.2 I pregi della AM sono minati da alcuni limiti produttivi che pongono restrizioni alla
realizzabilità di alcuni prodotti:
1. poiché alcuni prodotti sono ottenuti con strati di polveri fuse, se l’oggetto ha una parte
cava, la polvere in esso contenuta deve essere espulsa forando l’oggetto, con conseguenze
sulla sua funzionalità;
2. le parti curve presentano l’aspetto “a gradini” per via della costruzione strato su strato, e
necessitano di essere limate;
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3. costi dei materiali e delle macchine ancora troppo elevati, anche se in riduzione.
Ai vantaggi in termini di costi, velocità e complessità geometrica della AM, si
contrappongono i difetti della qualità e delle prestazioni, ancora inferiori rispetto a quelle
della produzione convenzionale. Tali difetti possono essere migliorati con le tecnologie
Multi-Material Additive Manufacturing (MMAM) che risultano addirittura migliori dei
processi convenzionali, unendo funzionalità e performance alla complessità geometrica. La
MMAM rappresenta la più recente frontiera della produzione additiva che amplia la libertà
di progettazione e produzione abbattendo i vincoli esistenti e stimola l’innovazione.

7) Il distributed manufacturing e i modelli di business della produzione additiva

7.1 La produzione non commerciale di saperi, fatta di contenuti di conoscenza prodotto in rete,
abbinata alle possibilità date dalla produzione additiva, cioè quelle di ottenimento di
prodotti direttamente da file 3D, vicino al luogo del consumo dei prodotti stessi, si
addiviene al sistema del distributed manufacturing. L’economia della conoscenza in rete
porta con sè la distribuzione del capitale fisico di produzione sia di beni immateriali
(conoscenza) che di beni materiali (che incorporano conoscenza). In breve,
dall’integrazione tra le pratiche di peer production e le tecnologie della produzione additiva
si genera il sistema della produzione manifatturiera distribuita. Il concetto di base è la
creazione condivisa della conoscenza a livello globale, collegato alla produzione locale.
Ciò significa che attraverso internet è possibile mescolare competenze che danno vita a dei
progetti che, grazie alla manifattura digitale possono essere tradotti in prodotti ovunque,
localmente. Con il termine hardware open source design s’intende la progettazione
condivisa di un prodotto entro una comunità. Tutto ciò non significa che nessuno ci debba
guadagnare, come vedremo più avanti.

7.2 Ciò che risulta dall’unione tra peer production e produzione additiva viene chiamato
Ecosistema di Manifattura Additiva [vedi schema pag. 260], un reticolo di network sociali
composti da makers, nonché da organismi non-profit, e organizzazioni for-profit. I makers
sono piccoli e globali, utilizzano strumenti digitali, sono connessi attraverso la rete e usano
file standard di progetto che consentono loro di mandare i progetti alla produzione in modo
semplice. L’ecosistema AM è una sorta di grande value chain, dove coesistono attività di
value chain convenzionali con attività di value chain digitali. [Quasi tutte le righe che
seguono si focalizzano su esempi di comunità di makers e sul loro funzionamento. Unendo
le definizioni di mass customization e di produzione distribuita, viene esposto il concetto di
modello produttivo condiviso, con l’ausilio di esempi come Wikispeed, Global Village
Construction Set e Open Source Vehicle] Traiamo le prime conclusioni: le tecnologie della
produzione additiva ridisegnano la mass customization in un contesto di produzione
distribuita. In altri termini, la convergenza tra la peer production e il dekstop
manufacturing configura approcci alla configurazione di massa che fanno leva sull’uso ed
adattamento ad esigenze specifiche di progetti open source realizzati entro le communities.
In pratica, i progetti hardware open source possono essere adoperati in ogni parte del
mondo e adattati ad esigenze locali e personali, per produrre prodotti specifici e a basso
costo. Prima s’è detto che la produzione additiva abilita l’impresa alla personalizzazione
della produzione, ma non alla mass customization. Questo è vero se si ragiona ancora con
il parametro della fabbrica delle produzioni centralizzate orientate ai mercati di massa.
Pertanto non è possibile interpretare i modelli di produzione distribuita con chiavi di lettura
convenzionali, ma essi richiedono classificazioni nuove e differenti da quelle del passato.
56
7.3 [Il paragrafo esordisce enunciando altri modelli produttivi e di business presenti
nell’ecosistema AM, citando una serie di esempi reali] Lo sviluppo dell’innovazione
nell’ecosistema di AM è prevalentemente guidato da una mentalità open-source e la tutela
del diritto d’autore si esprime attraverso licenze del tipo “Creative Commons” (a metà tra il
full-copyright e il public domain). Presumibilmente, con l’avvento delle macchine di
produzione adattiva a basso costo, il mercato di commercializzazione degli strumenti di
dekstop manufacturing virerà verso un mercato di massa, laddove gli oggetti di consumo
saranno fabbricati in proprio. Siamo dunque passati da impresa integrata del capitalismo
industriale a network distribuiti senza relazioni paritarie (lean production e manufacturing
modulare) fino ad arrivare ad un modello di produzione collaborativa e distribuita tra pari.

8) Da lead user a user entrepreneur. Il capitalismo distribuito

8.1 Tra gli studiosi c’è chi dice che il CBPP minaccia di distruggere il capitalismo e chi dice
che è in grado di riformare il capitalismo. Obbiettivamente si può affermare che la CBPP
può essere interpretata come un sistema di produzione della conoscenza che è emerso nella
fase matura dell’economia totalmente cognitiva, a fianco del capitalismo cognitivo. [vedi
schema pag. 267] Ciascun macro-modello è scomponibile in due scenari. Il capitalismo
cognitivo si divide in:
Capitalismo Netarchico (net+gerarchico), come Facebook e Google, è quello caratterizzato
dalla presenza delle piattaforme proprietarie, che controllano reti e dati e guidano il
comportamento delle persone, che sono i veri creatori della conoscenza e del valore, il
quale viene loro espropriato a vantaggio di pochi detentori del capitale;
Capitalismo Distribuito, nello scenario for profit ma con controllo distribuito, è l’insieme
di tutte le espressioni imprenditoriali che rappresentano possibili realizzazioni di una
visione anarco-capitalista dell’economia, dove ognuno è imprenditore ed orientato al
profitto. Questo tipo di capitalismo è incentivato da bassi costi di entrata nei network,
grazie alla condivisione della conoscenza su piattaforme comuni e alla manifattura
additiva. Tutto ciò porta migliaia di piccoli produttori a entrare nel mondo imprenditoriale.
La CBPP, invece, include i modelli basati sui beni comuni: i global commons, già
ampliamente descritti, e le resilient communities, che in uno scenario non profit e con
controllo centralizzato, sono i gruppi locali che utilizzano piattaforme peer to peer per
creare monete comunitarie, per scambio di cibo locale, ecc. lo scenario local resilience è,
in sostanza, quello in cui le tecnologie paritarie sono al servizio di comunità locali.
Comunque ribadiamo che, se nell’ottica del capitalismo cognitivo protagonista resta
l’impresa, nella peer production protagonista è la comunità, supportata dalla rete e
orientata alla cooperazione/condivisione. Nonostante le differenze sistenti, tra capitalismo
cognitivo e peer production esistono forti interconnessioni. La produzione paritaria dipende
dal mercato, poiché i partecipanti traggono guadagni dalle produzioni destinate al mercato
e non dalle produzioni paritarie. Ecco perché la produzione paritaria non potrebbe esistere
senza le produzioni per il mercato, operate dalle imprese capitaliste. Ma quest’ultime
dipendono dalla produzione paritaria, perché vendono hardware e software su cui le
comunità si sviluppano. Queste ultime sono dunque “finanziatrici” delle imprese del
capitalismo cognitivo. Capitalismo cognitivo e peer production si intersecano anche
quando le imprese stesse partecipano ai network distribuiti di produzione sociale,
appropriandosi temporaneamente del sapere per la valorizzazione del capitale, ma
contribuendo, al contempo, alla creazione di nuova conoscenza.

57
8.2 Lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione in rete e della produzione additiva sono
state le determinanti del cambiamento del sistema economico, che hanno portato
gradualmente alla piena esternalizzazione dei processi innovativi e produttivi. Le comunità
di makers -in cui molte persone collaborano senza scopo desiderando che il progetto del
prodotto rimanga aperto e condiviso, permettendo ad altri di migliorarlo ed ampliarne gli
usi- non implicano che in un contesto di peer to peer non nasca l’impresa capitalista. La
produzione additiva stimola, infatti, la trasformazione delle idee innovative in progetti di
prodotti, e la trasformazione degli utilizzatori in produttori, ed anche in imprenditori. La
produzione additiva depotenzia i benefici delle convenzionali economie di scala e, quindi,
stimola l’imprenditorialità di minori dimensioni che compete cercando i vantaggi da
focalizzazione. Le prerogative di una produzione additiva sono quelle di abilitare l’impresa
all’estrema personalizzazione dei prodotti, contenendo i costi di produzione rispetto alle
produzioni artigianali convenzionali (i job shop).

8.3 Con il termine lead user si definisce il consumatore innovativo che è in grado di
sviluppare, in piena autonomia, soluzioni innovative per le imprese. Egli è colui che ha
bisogni sconosciuti al pubblico, e che beneficerà molto dalla soluzione che vorrà dare
l’impresa a tali bisogni. Tramite il lead user, l’impresa scopre i bisogni di mercato e
definisce soluzioni per quest’ultimi. Egli identifica possibilità progettuali che sottopone
all’impresa, che risponde con soluzioni in cui intravede potenziali ricavi dalla
commercializzazione di quest’ultime sul vasto mercato. Insomma, il lead user anticipa e
dirige il mercato su cui opera l’impresa. Ne risulta che i lead user sono una delle maggiori
fonti di innovazioni per le imprese, ancor di più con i recenti sviluppi delle tecnologie
digitali, che hanno esternalizzato sempre più il processo di sviluppo di nuovi prodotti. Il
vantaggio dell’innovazione per gli users sta nell’uso stesso del prodotto.

8.4 User entrepreneur è colui che commercializza un’innovazione di prodotto/servizio che ha


sviluppato per soddisfare un proprio bisogno, senza aver trovato o cercao un’impresa che
potesse farlo al suo posto, dando vita così ad una start-up. Egli, quindi, è stimolato non
solo dal profitto, ma anche dall’esigenza di un personale bisogno insoddisfatto, non
soddisfabile da beni presenti sul mercato. Per questi motivi gli user entrepreneurs
rappresentano una categoria imprenditoriale a parte. Insomma, si tratta di un maker, ancor
meglio di un prosumer, che ha varcato la soglia del non profit e che mantiene la visione da
innovative user (cioè colui che svolge l’attività di innovatore nel tempo libero in modo non
professionale).

8.5 La democratizzazione degli strumenti di progettazione e produzione offerta dall’AM


favorisce la trasformazione di user in imprenditore, colmando il gap esistente nel
capitalismo industriale tra le idee innovative esterne e l’economica disponibilità di
strumenti di produzione. È da chiedersi se lo scenario di superamento della grande impresa
è inarrestabile, o se modelli di business digitali continueranno ad affiancare modelli di
business convenzionali. [Quest’ultimo paragrafo conclude ripercorrendo tutto il
ragionamento portato avanti nel capitolo 5, senza nessuna aggiunta, al fine di rispondere
razionalmente al quesito che precede questo inciso].

Fine.
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