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Luisa Valente

Il desiderio di filosofia nel pensiero filosofico


e teologico di Pietro Abelardo1

Oggetto del presente contributo è il ruolo del desiderio, e del desiderio


di filosofia in particolare, nel pensiero di Pietro Abelardo. Intendo i ter-
mini ‘desiderio’ e ‘desiderare’ nella loro accezione moralmente positiva o
al massimo neutra, ed essi nei testi corrispondono per lo più a desiderium
e desidero, ma anche ad anhelitus, amor, voluntas, zelus, fervor, aemulatio,
cupiditas e verbi corrispondenti, mentre concupiscientia e concupisco hanno
prevalentemente un’accezione negativa. L’ipotesi di lavoro qui soggiacente
è che il concetto di desiderio come moto o affezione dell’animo giochi un
ruolo strutturale nella costruzione teorica abelardiana. Un corollario di tale
ipotesi è che il pensiero di Abelardo possa essere meglio compreso se si tiene
presente la sua matrice contemplativa, ascetica e monastica, che accompa-
gna, integra e bilancia quella aristotelica, scolastica e cittadina2. La tesi prin-

1
  Desidero ringraziare di cuore Carla Casagrande e Silvana Vecchio per aver letto una
precedente versione di questo articolo e per i loro preziosi consigli. Sono ovviamente da sola
responsabile di quanto qui scritto.
2
  Per gli Stoici il desiderio (epithumia) è una delle quattro passioni o movimenti fonda-
mentali dell’animo, insieme a timore, piacere e dolore. I medievali latini potevano conoscere
questa classificazione almeno da Cicerone, che nelle Tusculanae Disputationes (IV, 11-22)
elenca, quali perturbationes o affectiones animi, libido e laetitia, metus e aegritudo. Cfr. A.
Garcea, Le passioni presso gli antichi: un percorso attraverso le Tusculanae Disputationes
di Cicerone, in Passioni, emozioni, affetti, a cura di C. Bazzanella – P. Kobau, Milano, Mc
Graw-Hill, 2002, pp. 1-18. Sulle emozioni in Abelardo vd. S. Knuuttila, Emotions in Ancient
and Medieval World, Oxford, Clarendon Press, 2006, pp. 180sgg. e 206-209. Sulla funzione
centrale dell’amore nel suo pensiero e in quello di Eloisa vd. almeno É. Gilson, Héloïse
et Abélard, Paris, Vrin, 19381, 19482 (tr. it. Torino, Einaudi, 1950); M. Perkams, Liebe als
Zentralbegriff der Ethik nach Peter Abaelard, Münster, Aschendorff, 2001 (BGPTMA NF,
LVIII); cfr. anche S. Vecchio, Il piacere da Abelardo a Tommaso, in Piacere e dolore. Materiali
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cipale che vorrei dimostrare è che quando Abelardo parla di desiderio di


filosofia, anche in senso tecnico, e quando parla di desiderio del cielo o della
visione di Dio, non intende parlare di cose sostanzialmente diverse: si tratta
piuttosto di una diversità dipendente dal succedersi delle fasi della storia e
dalla varietà delle tipologie umane. Le opere di Abelardo cui farò riferimen-
to appartengono per la maggior parte al periodo centrale della produzione
del Maestro Palatino, ossia alla seconda metà degli anni ’20 e alla prima degli
anni ’30 del XII secolo.
Il tema del desiderio è, oserei dire, pervasivo nella produzione di Abe-
lardo, comparendo con un ruolo significativo in tutte e tre le branche del
sistema del sapere tardoantico che il maestro fa proprio: logica, fisica ed eti-
ca3. Tralascerò in questa sede l’ambito della logica, accennando solo al fatto
che Abelardo si distingue dai contemporanei nell’interpretare in termini di

per una storia delle passioni nel medioevo, a cura di S. Vecchio – C. Casagrande, Firenze,
SISMEL, Edizioni del Galluzzo, 2009, pp. 66-86: 67-71. Sul desiderio e sull’amore nella
tradizione monastica ancora fondamentali gli studi di Jean Leclercq, tra cui J. Leclercq,
L’Amour des lettres et le désir de Dieu. Initiation aux auteurs monastiques du Moyen Âge,
Paris, Cerf, 2008 4a ed. corr. (Paris, Cerf, 19571; tr. it. Firenze, Sansoni, 1965); Id., L’amour
vu par les moines au XIIe siècle, Paris, Cerf, 1983. Sulla teoria delle passioni in generale nella
tradizione monastica e nel medioevo cfr. I. Sciuto, Le passioni e la tradizione monastica,
«Doctor seraficus», XLV (1998), pp. 5-39; C. Casagrande – S. Vecchio, Les théories des pas-
sions dans la culture médiévale, in Le sujet des émotions au Moyen Âge, éd. par. P. Nagy – D.
Boquet, Paris, Beauchensne, 2008, pp. 107-122; D. Boquet, L’ordre des affects au Moyen-Âge.
Autour de l’anthropologie affective d’Aelred de Rievaulx, Caen, Publications du CRAHM,
2005. Sull’elemento ascetico e monastico nella vita e nella produzione di Abelardo si vedano
soprattutto J. Leclercq, Ad ipsam sophiam Christum. Le temoignage monastique d’Abélard,
«Revue d’ascetique et de mystique», XLVI (1970), pp. 161-181; J. Miethke, Abaelards Stellung
zur Kirchenreform. Eine biographische Studie, «Francia», I (1973), pp. 158-192; D. Luscombe,
Pierre Abélard et le monachisme, in Pierre Abélard Pierre le Vénérable. Les courants philoso-
phiques, littéraires et artistiques en Occident au milieu du XIIe siècle, Abbaye de Cluny 2 au 9
juillet 1972, Paris, CNRS, 1975, pp. 271-278. Cfr. anche, con ulteriori indicazioni bibliogra-
fiche, L. Valente, Exhortatio e recta vivendi ratio. Filosofi antichi e filosofia come forma di
vita in Pietro Abelardo, in L’antichità classica nel pensiero medievale. Atti del convegno della
SISPM (Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale), Trento 27-29 settembre 2010,
a cura di A. Palazzo, Turnhout, Brepols, 2011, pp. 39-78; Ead., Philosophers and other Kinds
of Human Beings according to Peter Abelard and John of Salisbury, in Logic and Language in
the Middle Ages. A Volume in Honour of Sten Ebbesen, ed. by J.L. Fink – H. Hansen – A.M.
Mora-Márquez, Leiden –Boston – Brill, 2013, pp. 105-124; Ead., Happiness, contemplative
life, and the tria genera hominum in twelfth-century philosophy: Peter Abelard and John of
Salisbury, in The Pleasure of Knowledge, Atti del congresso SIEPM Freising agosto 2012, ed.
P. Porro, in stampa («Quaestio», XIV [2014]).
3
  Cfr. ad es. Abaelardus, Theologia Christiana, ed. E.M. Buytaert, Turnhout, Brepols,
1969 (CCCM, XII), II, 31-34, pp. 144-146.
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desiderio e attesa di ulteriore informazione quella suspensio presente, già


secondo Boezio, nell’animo di chi ascolta una espressione linguistica incom-
pleta (oratio imperfecta: ad es. homo currens), e che è propria di Abelardo
una spiccata attenzione, tra i vari tipi di orationes non enunciative, per l’ora-
tio desiderativa4. Tralascerò anche l’ambito della ‘fisica’, non senza ricordare
che per Abelardo le forme «desiderano aderire» (adherere desiderant) alle
sostanze, senza le quali non potrebbero esistere, tanto che le stesse forme si
muovono o mutano solo quando è il sostrato stesso a muoversi o mutare5. Mi
concentrerò invece sull’‘etica’, indagando l’uso abelardiano della nozione
del desiderio di conoscenza e di filosofia in contesti metafilosofici ed etico-
antropologici.

1. Di padre in figlio. Amore delle lettere, affetti familiari e scelte di vita nella
Historia calamitatum e nel Sermo XXIX.

Quasi all’inizio dell’epistola consolatoria autobiografica nota col titolo


Historia calamitatum (ca. 1132)6, dopo aver esordito indicando il suo luogo
natale (Palatium, l’odierno Le Pallet), Abelardo prosegue narrando di come
nella casa paterna fosse disposto che tutti i figli – maschi – venissero istruiti
nelle lettere prima di esserlo nelle armi:

4
  Cfr. Abaelardus, Dialectica, ed. L. M. de Rijk, Assen, Van Gorcum, 1956, pp. 148sg.
e 151; Id., Glossae super Perihermeneias, edd. K. Jacobi – K. Strub, Turnhout, Brepols, 2010
(CCCM, CCVI), p. 148,22-149,56. In proposito cfr. I. Rosier-Catach, Les discussions sur le
signifié des propositions chez Abélard et ses contemporains, in Medieval Theories on Assertive
and non-Assertive Language. Acts of the 14th European Symposium on Medieval Logic and
Semantics, Rome, June 11-15, 2002, ed. by A. Maierù – L. Valente, Firenze, Olschki, 2004,
pp. 1-24; M. Lenz, Peculiar Perfection: Peter Abelard on Propositional Attitudes, «Journal of
the History of Philosophy», XLIII (2005), pp. 377-386; M. Lenz, Are Toughts and Sentences
Compositional? A Controversy between Abelard and a Pupil of Alberic on the Reconciliation of
Ancient Teses on Mind and Language, «Vivarium», XLV (2007), pp. 169-188; L. Valente, “Ali-
quid amplius audire desiderat”: desire in Abelard’s theory of non-complete and non-assertive
sentences, in preparazione per un volume dedicato ad Angel d’Ors («Vivarium»).
5
  Abaelardus, Dialectica, p. 55,2-4: «Formae autem earum, quas, ut per substantias
subsistant, ipsis adhaerere desiderant, numquam circa substantias ex se, sed ex mobilitate
substantiarum mouentur”.
6
  Per le datazioni degli scritti di Abelardo, quando non diversamente indicato, faccio
riferimento ad Abelardo ed Eloisa, Epistolario, a cura di I. Pagani, Torino, UTET, 2004, pp.
66-74 e a The Cambridge Companion to Abelard, ed. by G.E. Brower – K. Guifoy, Cambrid-
ge, Cambridge University Press, 2004.
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Patrem autem habebam litteris aliquantulum imbutum antequam militari cingulo


insigniretur; unde postmodum tanto litteras amore complexus est, ut quoscumque
filios haberet, litteris antequam armis instrui disponeret. Sicque profecto actum est.
Me itaque primogenitum suum quanto cariorem habebat tanto diligentius erudiri
curavit. Ego vero quanto amplius et facilius in studio litterarum profeci tanto arden-
tius eis inhesi, et in tanto earum amore illectus sum ut militaris gloriae pompam
cum hereditate et prerogativa primogenitorum meorum fratribus derelinquens,
Martis curie penitus abdicarem ut Minerve gremio educarer; et quoniam dialec-
ticarum rationum armaturam omnibus philosophie documentis pretuli, his armis
alia commutavi et tropheis bellorum conflictus pretuli disputationum. Proinde
diversas disputando preambulans provincias, ubicunque hujus artis vigere studium
audieram, peripateticorum emulator factus sum7.
Il passo è noto e vorrei soffermarmi soltanto su qualche dettaglio. Innanzi-
tutto vorrei richiamare l’attenzione sulla terminologia usata: infatti, per quan-
to il termine desiderium o il verbo desiderare qui non compaiano, i sostantivi
amor, studium ed aemulatio e i verbi complector (abbracciare), curo, praefero
(preferire), illicior (essere attratto), e inhaereo (essere attaccato), riferiti alle
litterae e allo studium (litterae –, philosophiae –, o dialecticae studium), già ci
segnalano un modo di rapportarsi con gli studi letterari e filosofici nel quale
affetti ed emozioni in generale, e il piacere e il desiderio in particolare, trovano
uno spazio ampio e positivamente connotato. Se poi poniamo attenzione ai
nessi logici tra le varie proposizioni – unde … tanto … ut …; quanto … tanto
…; in tanto … ut …; quoniam … – osserviamo come nella descrizione data da
Abelardo del comportamento di suo padre con lui e i suoi fratelli e dell’avvio
della propria vita di studi c’è qualcosa di più del mero dato biografico o anche
dell’espressione di gratitudine per il genitore. Tutto il passaggio della Historia
calamitatum è costituito infatti da una serie di nessi causali che nell’insieme de-
scrivono un unico movimento di progressione negli studi e insieme di ascesa
personale. Questo movimento coinvolge prima il padre e poi, di conseguenza,
il figlio, ed è chiaramente fondato sul circolo virtuoso esistente tra l’esercizio
delle lettere da una parte e il desiderio e il piacere che lo precedono e accom-
pagnano dall’altra. Del padre si dice innanzitutto che da giovane aveva potuto
godere di un assaggio di studi letterari; quindi che questa frequentazione con

7
  Abaelardus, Historia Calamitatum, ed. J. Monfrin, Vrin, Paris, 1962, p. 63,13-64,30 (i
corsivi nei passi citati, qui come nel seguito, sono miei a meno che non si tratti di citazioni
interne al testo). Sulla vita di Abelardo cfr. M. Clanchy, Abelard. A Medieval Life, Oxford,
Blackwell, 1997. Sull’auto-interpretazione della propria vicenda biografica da parte di Abe-
lardo nella Historia calamitatum ancora molto utile D. De Robertis, Il senso della propria
storia ritrovato attraverso i classici nella “Historia calamitatum” di Abelardo, «Maia», XVI
(1964), pp. 6-54; su questa pagina in part. pp. 16sgg.
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le lettere, seppur limitata, aveva fatto sì che egli da adulto le abbracciasse con
amore; infine che questo amore divenne tanto grande da spingerlo a prendere
la decisione (disponeret) di far studiare tutti i figli maschi, per quanto destinati
alla vita militare. Tra i figli per altro il padre avrebbe curato in modo partico-
lare l’istruzione proprio di Abelardo, il primogenito, che gli era il più caro –
per quanto, come primogenito, fosse prevedibile per lui una carriera secolare.
Passando poi a parlare di sé, Abelardo racconta come da ragazzo quanto più
ampiamente e facilmente progrediva nello studio delle lettere tanto più arden-
temente si attaccava ad esse e come infine fosse attratto verso di loro con un
‘amore’ talmente forte («in tanto amore illarum illectus sum»; illicio vuol dire
anche adescare) da spingerlo a preferire alla vita da cavaliere proprio le lettere
e, tra le discipline filosofiche, in particolare la logica (dialectica, all’epoca, è
sinonimo di logica): per questo Abelardo si presenta, al termine della vicenda,
come ‘emulo’ dei Peripatetici, logici per eccellenza («Peripateticorum aemu-
lator factus sum»).
Come si vede Abelardo descrive sia per il padre che per sé una esperienza
di intensificazione graduale dell’attaccamento agli studi che culmina in una
scelta di vita inattesa e gratuita, vale a dire non dettata da altro interesse se
non quello per gli studi stessi: per il padre, il quale per altro a un certo pun-
to entrò in monastero8, la decisione di fare istruire tutti i figli e di curare in
particolare l’educazione di quello non a caso più amato, Abelardo appunto;
per il figlio la scelta di abbandonare primogenitura, carriera e residenza fa-
miliare per mettersi in viaggio alla ricerca solo dei migliori maestri9.
Un parallelo della narrazione della Historia calamitatum circa gli inizi
della vita di studio di Abelardo, relativo stavolta agli studi delle lettere sa-

8
  Cfr. Abaelardus, Historia calamitatum, p. 67,155-157.
9
  All’occasione possiamo osservare come questa descrizione dell’avvio degli studi di
Abelardo ricordi sotto alcuni aspetti la vicenda di Agostino d’Ippona: Agostino infatti
racconta più di una volta di come, instradato verso una brillante carriera di professore di
retorica, la lettura dell’Hortensius di Cicerone abbia risvegliato in lui l’interesse per la filo-
sofia, e di come tale interesse, inizialmente contenuto, si sia trasformato cammin facendo
in un amore per questa disciplina talmente intenso da indurlo alla rinuncia al matrimonio
imminente e alla carriera. Agostino, per illustrare questo intensificarsi del suo amore per
la filosofia, usa l’immagine della fiammella gradualmente trasformatasi in fiamma viva e
infine in un incendio vero e proprio, tale da spingerlo a modificare l’intero progetto di vita.
Cfr. Agostino, De beata vita, ed. W. M. Green, Turnhout, Brepols, 1970 (CCSL, XXIX), I,
4, pp. 66,75-66,104; Contra academicos II, ii, 5, ed. W. M. Green, ivi, pp. 20,45-21,67; cfr.
Confessionum libri XIII, III, iv, ed. L. Verheijen, Turnhout, Brepols, 1981 (CCSL, XXVII),
pp. 29,29-30,32. Sull’Agostino giovane classico lo studio di J.J. O’Meara, The young Augusti-
ne. The growth of St. Augustine’s mind up to his conversion, London – New York – Toronto,
Longmans – Green, 19541.
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cre, si rinviene nel sermone 29 De sancta Susanna, uno dei sermoni dedicati
da Abelardo a Eloisa e alle sue monache e databile all’incirca nel periodo
1133-113710. Abelardo loda innanzitutto la costante applicazione (zelus) de-
gli Ebrei nelle lettere sacre, per osservare poi come l’entusiasmo (ardor) col
quale essi abbracciano (amplectuntur) la Legge sia tale da indurli (tanto […]
ut) a fare istruire in essa, per quanto privi di mezzi possano essere, tutti i
loro figli. Ancora, Abelardo osserva il magnus fervor in Deum degli Ebrei
nonché il loro ‘desiderio di conoscere’ e rispettare i precetti ricevuti – pur
persistendo essi, scrive, nell’errore di considerare questo sufficiente alla sal-
vezza. Quindi il maestro si sofferma sul concetto di aemulatio (emulazione,
ma anche ambizione, desiderio di primeggiare). Si chiama aemulatio o zelus,
afferma Abelardo, un qualsiasi irruente fervore o desiderio dell’animo volto
a mettere in atto qualche azione unicamente come soddisfazione del deside-
rio stesso e non per altri fini. Peccato, si lamenta l’Abelardo predicatore a
questo punto, che presso i cristiani siano così pochi i genitori animati dalla
dedizione alla ‘perfezione della dottrina evangelica’ al punto da far istruire
i propri figli per il semplice desiderio di essa e non per fini prettamente uti-
litaristici:
Hoc adhuc sacrarum litterarum zelo judaicus populus in ipsis etiam tenebris
caecitatis suae plurimum fervens, non mediocriter nostram, id est christianorum
negligentiam accusat. Tanto quippe ardore legem amplectuntur, ut quislibet eorum
quantumcumque pauper, quotquot habeat filios, neminem diuinas litteras ignorare
permittat. Quorum tanto zelo Apostolus maxime compatiens, ait: “Fratres, volun-
tas quidem cordis mei et obsecratio ad Deum fit pro illis in salutem. Testimonium
enim perhibeo illis quod aemulationem Dei habent, sed non secundum scientiam,”
hoc est magnum fervorem in Deum, ac desiderium in mandatis eius, quae in lege
acceperant, cognoscendis atque implendis, licet in magno persistentes errore, quum
haec ad salutem sufficere credant. Aemulatio quippe seu zelus quislibet animi
fervor uehemens ad desiderium cuiuslibet nuncupatur. Unde et tam bonus quam
malus zelus dicitur uehemens scilicet commotio animi ac sollicitudo ad aliquid
agendum. Nulli uero, uel pauci christianorum sunt, qui euangelicae doctrinae per-
fectionem tanto studio uel causa amplectuntur, ut ejus desiderio filios suos sacris
imbuere litteris curent, sed temporalis tantummodo commodi causa, ut hujus vitae
necessaria sibi ipsis vel illis inde provideant aut de officiis clericorum aut de habitu
monachorum11.

  Cfr. P. De Santis, I sermoni di Abelardo per le monache del Paracleto, Leuven, Leuven
10

University Press, 2002, pp. 98 e 141.


11
  Abaelardus, Sermones, edd. V. Cousin – C. Jourdain – E. Despois, Paris, Durand,
1849 (Opera Omnia, t. I), Sermo XXIX, p. 539; cfr. Id., Commentarius in Pauli Epistolam ad
Il desiderio di filosofia nel pensiero di Pietro Abelardo 191

Quello che Abelardo rappresenta nei due passaggi della Historia calami-
tatum e del Sermo XXIX è l’ideale – descritto come comunemente realizzato
presso gli Ebrei e rarissimo presso i cristiani – di una famiglia nella quale i
genitori sono in grado di suscitare nelle nuove generazioni un amore per la
conoscenza intenso, assolutamente disinteressato e capace di divenire stile
di vita. Per quanto il testo della Historia calamitatum si riferisca alle lettere
in generale e alla filosofia in particolare, e quello del Sermo XXIX alle lettere
sacre e allo studio della Legge presso gli Ebrei, tuttavia le dinamiche e i com-
portamenti descritti nei due testi sono praticamente gli stessi.

2. Desiderio di insegnare, desiderio di apprendere. Dubbio, ragioni e tolleranza.

La passione anche dell’Abelardo maturo per l’attività di apprendimento,


e parallelamente per l’insegnamento, ampiamente documentata nella Histo-
ria calamitatum e nell’epistolario con Eloisa, emerge anche nel commento
all’epistola ai Romani di san Paolo (1132-33). Nel commento al versetto
1.11, ad esempio, dunque in una posizione abbastanza evidente all’inizio
del testo, Abelardo interpreta le parole «Desidero enim videre vos, ut ali-
quid impertiar gratiae vobis spiritalis ad confirmandos vos», rivolte da Paolo
ai destinatari dell’epistola, sostenendo che esse esprimerebbero il piacere
di insegnare che accompagna sempre il piacere di apprendere: l’attività di
istruire ed edificare spiritualmente altre persone produrrebbe in effetti come
minimo altrettanta consolazione e sollievo (consolatio, solatium) nel docen-
te quanto nei discenti. Secondo Abelardo Paolo qui dichiara di desiderare
l’incontro con i destinatari dell’epistola perché, come loro saranno consolati
attraverso la sua predicazione, così anche lui troverà consolazione nell’inse-
gnamento che impartirà loro: i destinatari infatti, se mai avessero qualche
dubbio o tentennamento, saranno rassicurati dai suoi ragionamenti; lui stes-
so, sapendoli rassicurati, sarà più certo della loro perseveranza (nella fede).
Si tratterebbe, scrive infine Abelardo, dello stesso conforto condiviso (com-
mune sollatium) di cui parla Boezio nel suo Trattato sui sillogismi ipotetici:
Desidero enim. Causa est cur oret uenire ad eos, ut uidelicet sua praedicatione
aliquid spirituale donum eis impendat, confirmando eos suis adhortationibus in
ipsa doctrina quam acceperant, quod uidelicet confirmare eos dicit esse, se ipsum
simul consolari in eis sicut et ipsi consolarentur in eo; hoc est, dicit hoc commune
fore solatium tam sibi qui instrueret quam illis qui instruerentur, illis quidem quia

Romanos, ed. M. Buytaert, Turnhout, Brepols, 1969 (CCCM, XI), X, 2, p. 249,26-28, dove
lo zelus viene definito in modo simile.
192 luisa valente

confirmarentur per eius rationes si in aliquibus dubitarent ac titubarent, ei uero


qui illis confirmatis securior esset de perseuerantia eorum. Hoc est illud commune
solatium quod in ipso Hypotheticorum syllogismorum exordio inter docentes et discen-
tes Boethius commemorat dicens: ‘Cum in omnibus philosophiae disciplinis ediscendis
atque tractandis summum in uita solatium positum esse existimem (…) etc.’12.
San Paolo e Boezio, in un esito per certi versi paradossale, sono qui acco-
munati agli occhi di Abelardo dal fatto di testimoniare ambedue come nella
comunicazione spirituale ci siano desiderio, piacere e apprendimento tanto
dalla parte del ‘docente’ quanto da quella dei ‘discenti’. La predicazione
di san Paolo viene qui messa in parallelo con la conversazione filosofica tra
maestro e allievi o tra amici istruiti. In effetti, tutto il ‘prologo’ del trattatello
boeziano dedicato ai sillogismi ipotetici esprime una concezione del sape-
re desiderante, amicale e comunicativa, che Abelardo sembra condividere
pienamente e trasporre senza modifiche di rilievo anche all’ambito della
predicazione del messaggio evangelico. Scrive infatti Boezio che il più gran
sollievo della vita sta nell’apprendere e trattare le discipline filosofiche e che
la speculazione intorno alla verità, pur da perseguire per se stessa, è tanto
più amabile quanto più la si condivide con altri. Qualsiasi verità se sottaciuta
rischia di perire mentre fiorisce e sfugge all’oblio se è oggetto di conversa-
zione tra persone istruite. Lo studio è più divertente se condotto con altri e
accompagnato dal dolcissimo condimento dell’amicizia e della carità. Non a
caso i nostri pensieri solitari li confidiamo prima di tutto agli amici:
Cum in omnibus philosophiae disciplinis ediscendis atque tractandis summum in uita
positum solamen existimem, tum iocundius, et ueluti cum quodam fructu etiam
laboris arripio quae tecum communicanda compono. Nam et si ipsa speculatio
ueritatis sua quadam specie sectanda est, fit tamen amabilior cum in commune dedu-
citur. Nullum enim bonum est quod non pulchrius elucescat, si plurimorum notitia
comprobetur; namque alias taciturnitate compressum et iam iamque silentio peri-
turum, latius efflorescit et ab obliuionis interitu scientium participatione defenditur.
Fit quoque iocundior disciplina, cum inter eiusdem sapientiae conscios iubet esse
sapientem: quod si accedat, ut tecum mihi nunc res est, ea quae sponte iocunda
sunt in amicitiae participationem deduci, necesse est studii suauitatem quodam ueluti
dulcissimo caritatis sapore condiri. Nam cum id in se optineat amicitia proprium
munus, ut nolit habere solitarias cogitationes, tunc quod honeste quisque cogitat,
nulli promptius, nisi quem diligit, confitetur. Quo factum est ut, etiam si immensus

  Abaelardus, Comm. in epistolam Pauli ad Romanos I, 11, pp. 62,538-63,551.


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Il desiderio di filosofia nel pensiero di Pietro Abelardo 193

labor coepto operi uiam negabat, animus tamen ad efficiendum quod aggressus
fuerat tui contemplatione sufficeret13.
La concezione appassionata e ‘desiderante’ che Abelardo ha dell’atti-
vità intellettuale, fermo restando il principio della natura disinteressata di
quest’ultima, non esclude ricadute positive relativamente a suoi esiti secon-
dari quali il valutare o il rispondere a interrogativi. Si veda ad esempio nelle
Collationes o Dialogo tra un Filosofo, un Ebreo e un Cristiano (ca. 1127-1132),
al termine della prima collatio, tra il Filosofo e l’Ebreo, e prima dell’avvio
della seconda, tra il Filosofo e il Cristiano, il passo in cui prende la parola il
Giudice, ossia Abelardo stesso nella finzione dialogica. L’Abelardo-Giudice
innanzitutto si autopresenta come ‘bramoso’ (cupidus) più di apprendere
che di giudicare, quindi afferma di «voler ascoltare le ragioni di tutti prima
di dare la sua valutazione» perché solo grazie alla sapienza acquisita tramite
l’ascolto di tutte le voci il giudizio potrà essere non avventato. L’intenzione
dell’Abelardo-Giudice di dare libero corso alla propria bramosia di cono-
scere e di ascoltare, più che all’urgenza di giungere a una sententia, è anche
descritta come contagiosa, proprio come è descritto come contagioso, nel-
la Historia calamitatum, l’amore per le lettere trasmesso dal padre al figlio.
Così si dice che gli interlocutori del dialogo (l’Ebreo, il Filosofo e il Cri-
stiano) assentirono concordi alle intenzioni appena dichiarate dal giudice,
«infiammati tutti dallo stesso desiderio di apprendere»:
Asserunt ambo nostri iudicii sententiam excipere. Ego uero cupidus discendi magis
quam iudicandi, omnium prius rationes me uelle audire respondeo, ut tanto essem
discretior in iudicando, quanto sapientior fierem audiendo, iuxta illud quod supra
memini, scilicet summi sapientis prouerbium: ‘Audiens sapiens sapientior erit,
et i<ntelligens> g<ubernacula> p<ossidebit>’. In quo omnes pariter assenserunt,
eodem accensi desiderio discendi14.
In altre parole: il condiviso desiderio di apprendere (cupiditas o deside-
rium discendi) fonda qui un atteggiamento di disponibilità alla conversazio-
ne e alla messa in discussione razionale degli argomenti di tutti che inizial-
mente prescinde dall’obiettivo di trovare una risposta all’interrogativo di
partenza, ma che alla fine è funzionale al perseguimento di tale obiettivo. Le
risposte e le valutazioni saranno tanto migliori, sembra dire Abelardo, quan-
to più l’atteggiamento di chi indaga è rivolto in primis non al reperimento

13
  Boethius, De hypotheticis syllogismis, ed. L. Obertello, Brescia, Paideia, 1969, pp.
205-206.
14
  Abaelardus, Collationes, ed. J. Marenbon – G. Orlandi, Oxford, Clarendon Press,
2001, p. 76.
194 luisa valente

di esse ma all’ascolto e all’indagine a tutto campo. Il meccanismo è simile a


quello che nel prologo del Sic et non (1121) conduce Abelardo a sostenere
l’utilità del dubbio generalizzato come passo preliminare per la soluzione
delle contraddizioni apparenti e per il rinvenimento della verità. Se la ‘chia-
ve della sapienza’ nel passaggio del Dialogo è l’ascolto, in questo del Sic et
non è l’abitudine all’interrogare ripetuto, e anche qui all’esempio dell’auto-
rità religiosa – i padri – è accostato quello di un insigne filosofo. Già l’intel-
ligentissimo Aristotele, afferma infatti Abelardo, «completamente ricolmo
del desiderio di afferrare la sapienza», invitava i suoi allievi ad esercitare la
‘non inutile’ arte del mettere in dubbio le conoscenze intorno alle singole
cose. Dal dubbio nasce la ricerca e attraverso questa si raggiunge la verità,
secondo il detto evangelico «Chiedete e troverete, bussate e vi sarà aperto»
(Lc. 11, 9-10). Come nel racconto autobiografico della Historia Calamitatum
è il padre che fa nascere nel figlio l’amore per le lettere e la passione per la
dialettica, e come l’Abelardo giudice delle Collationes accende di desiderio
di conoscere i suoi interlocutori che lo avevano inizialmente interpellato solo
come giudice, in questo passo è Aristotele che trasmette ai suoi discepoli, in-
sieme al desiderio di sapienza, l’amore per il dubbio e per il porre domande:
His autem praelibatis placet, ut instituimus, diversa sanctorum patrum dicta colli-
gere (…) aliquam ex dissonantia quam habere videntur quaestionem contrahentia,
quae teneros lectores ad maximum inquirendae veritatis exercitium provocent et
acutiores ex inquisitione reddant. Haec quippe prima sapientiae clavis definitur assi-
dua scilicet frequens interrogatio; ad quam quidem toto desiderio arripiendam philoso-
phus ille omnium perspicacissimus Aristoteles in praedicamento Ad Aliquid studiosus
adhortatur dicens, ‘Fortasse autem difficile est de huiusmodi rebus confidenter
declarare nisi saepe pertractata sint. Dubitare autem de singulis non erit inutile’.
Dubitando quippe ad inquisitionem venimus; inquirendo veritatem percipimus.
Iuxta quod et Veritas ipsa Quaerite inquit et invenietis, pulsate et aperietur vobis15.
Come nel racconto autobiografico della Historia Calamitatum è il padre
che fa nascere nel figlio l’amore per le lettere e la passione per la dialettica, e
come l’Abelardo giudice delle Collationes accende di desiderio di conoscere
i suoi interlocutori che lo avevano inizialmente interpellato solo come giu-
dice, in questo passo è Aristotele che trasmette ai suoi discepoli, insieme al
desiderio di sapienza, l’amore per il dubbio e per il porre domande. Come si

  Abaelardus, Sic et non, edd. B. Boyer – R. McKeon, Chicago – London, University


15

of Chicago Press, 1976-1977, prol., p. 103sg. La citazione aristotelica è tratta da Categ., 8,


b21-24. Sul tema cfr. A. Maierù – L. Valente, Scetticismo e criticismo nel medioevo, in: Scet-
ticismo. Una vicenda flosofica, ed. M. De Caro – E. Spinelli, Roma, Carocci, 2007, pp. 39-65
e 236-239 (note): 45-47.
Il desiderio di filosofia nel pensiero di Pietro Abelardo 195

vede, desiderio e amore per la conoscenza e la discussione razionale, eserci-


zio del dubbio e della tolleranza, disponibilità all’interrogazione e all’ascolto
si accompagnano nel costituire in Abelardo una concezione del sapere, tan-
to filosofico quanto teologico, partecipata, relativamente antidogmatica16, e
affettivamente connotatata. Negli scritti del maestro Palatino il desiderio di
filosofia non è infatti un sentimento privato bensì è inserito all’interno di una
rete di relazioni: tra genitori e figli, fra maestri e allievi o discepoli, fra amici.
Non stupisce dunque che il desiderio di filosofia giochi un ruolo importante
anche nella rappresentazione abelardiana della vita del Monaco.

3. Il desiderio dell’unica filosofia: monaci e filosofi antichi nella Historia ca-


lamitatum.

Una lettura in chiave anche monastica della conceziona abelardiana della


filosofia, e del desiderio di essa, risulta particolarmente opportuna soprattut-
to in altri due luoghi della Historia calamitatum: la descrizione della dehor-
tatio a nuptiis di Eloisa e la narrazione della costruzione dell’oratorio del
Paracleto e degli anni lì trascorsi da Abelardo con alcuni compagni.
Nel vano tentativo di dissuadere Abelardo dal progetto del matrimonio,
Eloisa, così almeno narra Abelardo nella Historia calamitatum, gli ricorda gli
esempi non tanto dei santi quanto dei filosofi antichi. Abelardo attribuisce
ad Eloisa un parallelismo che è praticamente una identificazione fra tradizio-
ne filosofica e tradizione monastica, tra desiderio di filosofia e amore di Dio:
Quod nunc igitur apud nos amore Dei sustinent qui vere monachi dicuntur, hoc
desiderio philosophie qui nobiles in gentibus extiterunt philosophi. In omni namque
populo, tam gentili scilicet quam iudaico sive christiano, aliqui semper extiterunt
fide seu morum honestate ceteris preminentes, et se a populo aliqua continentie
vel abstinentie singularitate segregantes. Apud Judeos quidem antiquitus Nazarei,
qui se Domino secundum legem consecrabant, sive filii prophetarum Helye vel
Helysei sectatores, quos beato attestante Jheronimo monachos legimus in veteri
Testamento; novissime autem tres ille philosophie secte, quas Josephus in libro
Antiquitatum distinguens, alios Phariseos, alios Saduceos, alios nominat Esseos.

16
  Pensiamo alla tesi della ricerca non della verità bensì del verisimile su alcune que-
stioni teologiche (cfr. ad esempio Abaelardus, Theologia summi boni, edd. M. Buytaert – C.
Mews, Turnhout, Brepols, 1987 [CCCM, XIII], II, 26-27, p. 123,232-246. Sul metodo teo-
logico di Abelardo vedi G. Allegro, Teologia e metodo in Pietro Abelardo, Palermo, OSM,
2010, con ampia bibliografia sugli studi precedenti. Sul carattere antidogmatico del pensiero
pedagogico di Abelardo si veda in italiano lo studio di G. Ballanti, Pietro Abelardo. La rina-
scita scolastica nel XII secolo, Scandicci, La Nuova Italia, 1995.
196 luisa valente

Apud nos vero monachi, qui videlicet aut communem apostolorum vitam, aut priorem
illam et solitariam Johannis imittantur. Apud gentiles autem, ut dictum est, philosophi;
non enim sapientie vel philosophie nomen tam ad scientie perceptionem quam ad
vite religionem referebant, sicut ab ipso etiam huius nominis ortu didicimus, ipso-
rum quoque testimonio sanctorum17.
Del lungo discorso messo da Abelardo sulle labbra di Eloisa in questa
sede ci interessano tre tesi:
1) L’amore per Dio dei monaci autentici («qui vere monachi dicuntur»)
e il desiderio di filosofia dei filosofi antichi migliori («qui nobiles in gentibus
extiterunt philosophi») sono in definitiva la stessa cosa in due diversi periodi
della storia.
2) I filosofi hanno rispetto ai pagani lo stesso ruolo che hanno alcuni
gruppi di profeti rispetto agli Ebrei e gli apostoli e i monaci autentici rispet-
to ai cristiani: vivendo segregati, sono per il proprio popolo figure eminenti
e modelli di virtù – soprattutto di continenza o astinenza.
3) Come presso i Padri e i monaci, i nomi philosophia e sapientia erano
usati presso i filosofi antichi per intendere non la mera acquisizione di cono-
scenze ma il senso religioso della vita (vitae religio)18.

Praticando una vita ‘massimamente ascetica’, e dunque anche rifiutando


il matrimonio, gli antichi filosofi – sempre secondo la perorazione antimatri-
moniale di Eloisa riferita da Abelardo nella Historia – non avrebbero fatto
in realtà una scelta di rinuncia al piacere bensì una scelta a favore del piacere
più alto. La contrapposizione proposta è tra molteplicità e unità: tra la mol-
teplicità dei piaceri terreni e l’abbraccio dell’una philosophia. Secondo Eloisa
infatti (e Abelardo non pare dissentire), disprezzando il mondo e fuggendo-

17
  Abaelardus, Historia calamitatum, p. 77,493-509. Abelardo evidentemente non può
esimersi, nel seguito di questo testo (ll. 513-528), dal menzionare la famosa definizione di
Pitagora del filosofo come di colui che si dedica con amore alla ricerca della sapienza – «stu-
diosus uel amator sapientiae» – e dal sottolineare, ricorrendo ampiamente all’VIII libro del
De civitate Dei di Agostino, la sobrietà e la morigeratezza della vita degli antichi filosofi. Sul
tema del ruolo dei filosofi antichi nel pensiero di Abelardo cfr. soprattutto J. Jolivet, Doc-
trines et figures de philosophes chez Abélard, in Petrus Abaelardus (1079-1142). Person, Werk
und Wirkung, hrg. v. R. Thomas, Trier, Paulinus Verlag, 1980 (Trierer Theologische Studien,
XXXVIII), pp. 103-120, rist. in Id., Aspects de la pensée médiévale: Abélard, Doctrines du
langage [Reprise], Paris, Vrin, 1987; cfr. anche L. Valente, Exhortatio e recta vivendi ratio,
con bibliografia su altri studi precedenti.
18
  Su Abelardo come uno dei più significativi rappresentanti dell’idea della filosofia
come una forma di vita cfr. in particolare J. Domański, La philosophie, théorie ou manière de
vivre? Les controverses de l’Antiquité à la Renaissance, Fribourg, Cerf, 1996, passim.
Il desiderio di filosofia nel pensiero di Pietro Abelardo 197

lo i filosofi si interdissero tutti i piaceri mondani per «riposare negli amplessi


dell’unica filosofia»: «Unde et insignes olim philosophi mundum maxime
contempnentes, nec tam relinquentes seculum quam fugientes, omnes sibi
voluptates interdixerunt ut in unius philosophie requiescerent amplexibus»19.
E qui credo che il ricorso alla formula una philosophia per indicare quella
abbracciata dai filosofi antichi, o almeno dai migliori tra essi, sia in intima
consonanza con l’uso monastico del termine philosophia per indicare la vita
del monaco cristiano, su cui ha scritto molto tempo fa pagine magistrali
Jean Leclercq20: non nel senso che gli ideali di vita del filosofo pagano e del
monaco cristiano siano agli occhi di Abelardo esattamente la stessa cosa, ma
nel senso che abbiano la stessa dignità e la stessa funzione nell’esistenza del
singolo e della società.
Similmente, la molteplicità dei desideri terreni (concupiscientiae) è con-
trapposta all’unicità del desiderio delle cose celesti in un passo del Exposi-
tio in Hexaemeron (1132-1137). Nel quadro dell’interpretazione morale o
tropologica dei versetti riguardanti la creazione della luce e la separazione
delle acque, si dice che la creazione della luce significa l’illuminazione della
fede, mentre la sospensione delle acque superiori rappresenta la speranza:
la speranza, si dice, solleva l’uomo, atterrato da desideri vani, dalle cose ter-
rene a quelle celesti, e rende stabile il suo animo inizialmente disperso nel
molteplice. La speranza, scrive ancora Abelardo, tiene in piedi l’uomo come
un’ancora tiene salda la nave contro qualsiasi tempesta, e lo rafforza tramite
il desiderio delle cose celesti:
Creatio itaque lucis illuminatio est fidei quam spiritus sanctus, his quibus uult
inspirans, edificium anime spiritale ab hoc inchoat fundamento, sine quo, ut ait
Apostolus, impossibile est placere deo. Vnde et bene post creationem illam celi

19
  Abaelardus, Historia calamitatum, p. 77,483-486. La contrapposizione tra la moltepli-
cità dei beni terreni e l’unicità della felicità filosofica ricorda molto da vicino la Consolazione
della filosofia di Boezio, nella quale per altro il desiderio nelle sue diverse forme gioca un
ruolo di primissimo piano. Nel Libro III, prosa 11, ad esempio, la felicità è definita come
quello stato verso il quale tutti tendono e che consiste in quel bene posseduto il quale non
se ne desidera alcun altro. Anche qui il desiderio dell’unica beatitudine come sommo bene
è contrapposto alla molteplicità inesauribile dei falsi beni mondani e si afferma chiaramente
che tutti gli uomini naturalmente bramano (cupiditas) l’unico vero bene ma ne sono distolti
dall’errore e si rivolgono così ai molteplici beni apparenti. Ed. C. Moreschini, Monachi et
Lipsiae, K.G. Saur, 2000 (Bibliotheca Teubneriana), p. 87,8-27. Nello stesso senso vanno
alcuni passi delle Scritture, ad esempio Ps. 27, 4: «Unam petii a domino, hanc requiram, ut
inhabitem in domo Domini, et visitem templum eius».
20
  J. Leclercq, Etudes sur le vocabulaire monastique du moyen age, Roma, Herder, 1961;
cfr. anche Id., L’amour des lettres et le désir de Dieu.
198 luisa valente

et terre, lucem factam esse Propheta statim commemorat. Post fidem autem spes
sequitur, que hominem prius per concupiscentiam ad terrena defluentem, dum
uariis ducitur desideriis, iam quasi a terrenis ad celestia sustollit, et in eis eius
animum ad multa primitus discurrentem firmat ac stabilit, et contra quaslibet
aduersitatum procellas quasi anchora nauem conseruat, et ad quelibet toleranda
uel aggredienda desiderio celestium corroborat. Quod bene superiorum aquarum
suspensio facta secundo die figurat, que per interpositionem celi sursum firmiter
est stabilita 21.
D’altronde, l’esaltazione da parte di Abelardo della nozione già agosti-
nana e altomedievale di vera philosophia per intendere la vita religiosa non
implica l’esclusione e l’abbandono delle discipline profane, le quali accom-
pagnano verso di essa. Così, sempre nella Historia calamitatum, laddove de-
scrive il cambiamento messo in atto nella propria vita di maestro una vol-
ta divenuto monaco, Abelardo dichiara di non aver smesso di insegnare le
arti liberali ma di aver continuato a farlo, usandole come esche per attrarre
philosophico amore gli allievi e indirizzarli verso la vera philosophia: «(…)
quod professioni mee convenientius erat, sacre plurimum lectioni studium
intendens, secularium artium disciplinam quibus amplius assuetus fueram
et quas a me plurimum requirebant non penitus abjeci, sed de his quasi
hamum quendam fabricavi, quo illos philosophico sapore inescatos ad vere
philosophie lectionem attraherem (…)»22.
La stessa convergenza di fervore ascetico di stampo monastico ed entu-
siasmo per lo studio e l’apprendimento della filosofia la troviamo, ancora
nella Historia calamitatum, nella descrizione della vita condotta all’oratorio
del Paracleto negli anni ’2023. Non a caso, infatti, Abelardo menziona an-

  Abaelardus, Expositio in Hexaemeron, ed. M. Romig, Turnhout, Brepols, 2004


21

(CCCM, XV), pp. 78,2073-79,2087.


22
  Abaelardus, Historia calamitatum, p. 82,668-674.
23
  J. Verger, Abélard et les milieux sociaux de son temps, in Abélard en son temps. Actes
du Colloque International organisé à l’occasion du 9e centenaire de la naissance de Pierre
Abélard, éd. par J. Jolivet, Paris, Belles Lettres, 1981, pp. 107-131, mostra in modo con-
vincente come Abelardo non sia uomo di città e piuttosto trasporti nella sua utopia rurale
alcuni aspetti della scuola cittadina, per concludere, a p. 123: «En dernière analyse, on peut
se demander si l’idéal social d’Abélard – si tant est qu’il se le soit jamais clairement formulé
à lui même – n’a pas pris la forme non de la ville, telle qu’elle se développait sous ses yeux,
mais d’un projet utopique dont il essayé de donner une image à travers l’école-ermitage
puis le monastère double du Paraclet». Sul Paracleto come tentativo di realizzare un ideale
utopico ad un tempo filosofico e monastico cfr. anche McLauglin, Abelard as Autobio-
grapher: The Motives and Meaning of His «Story of Calamities», «Speculum», XLII (1967),
pp. 463-488: 480. Diversamente J. Le Goff, Quelle conscience l’université médiévale a-t-elle
eu d’elle-même?, in Beiträge zum Berufsbewusstsein des mittelalterlichen Menschen, éd. par
Il desiderio di filosofia nel pensiero di Pietro Abelardo 199

che in questo contesto il Contra Iovinianum di Girolamo cui aveva già fatto
ricorso Eloisa nella dehortatio a nuptiis riferita da Abelardo24. Abelardo, in
particolare, cita un passo in cui Girolamo narra che Platone avrebbe situato
la sua scuola in un luogo arido e malsano affinché lì i suoi allievi, non solle-
citati dai piaceri terreni, potessero non sentire «alcun altro piacere se non
quello solo delle cose che apprendevano»: «(…) Sed et ipse Plato, cum dives
esset et thorum ejus Diogenes lutatis pedibus conculcaret, ut posset vacare
philosophie elegit Academiam villam, ab urbe procul, non solum desertam,
sed et pestilentem: ut cura et assiduitate morborum libidinis impetus fran-
gerentur, discipulique sui nullam aliam sentirent voluptatem nisi earum rerum
quas discerent»25.
Dove troviamo ancora una volta la contrapposizione tra la molteplicità e
la dispersione dei piaceri terreni da una parte e l’unicità del vero piacere o
della unica filosofia, origine della vera felicità, dall’altra26.

P. Wipert, Berlin, de Gruyter, 1964 (Miscellanea mediaevalia, III), pp. 15-29, rist. in Id.,
Pour un autre Moyen Âge, Culture en Occident. Dix-huit essais, Paris, Gallimard, 1977, pp.
181-197: 184-185, sottolineando gli aspetti di dinamismo cittadino e critica della tradizione
certamente presenti nella storia e nel pensiero di Abelardo, riteneva che questi appartenesse
proprio all’ambiene urbano e fosse invece in contrasto sia col mondo monastico tradizionale
che col monachesimo riformato.
24
  Sul ricorso agli scritti di Girolamo da parte di Abelardo cfr. C. Mews, Un lectuer de
Jérôme au XIIe siècle, Pierre Abélard, in Jérôme entre l’Occident et l’Orient. XVIe centenaire
du départ de saint Jérôme de Rome et de son installation à Bethléem (Chantilly, septembre
1986), éd. par Y.M. Duval, Paris, Études augustiniennes, 1988, pp. 492-444 (rist. in Id.,
Abelard and his Legacy, Aldershot, Ashgate, 2001); Ph. Delhaye, Le dossier anti-matrimonial
de l’Adversus Jovinianum et son influence sur quelques écrits latins du XIIe siècle, «Medieval
Studies», XIII (1951), pp. 65-86.
25
  Abaelardus, Historia calamitatum, p. 93,1077-1083.
26
  Tale contrapposizione ricorda molto da vicino la Consolazione della filosofia di Boe-
zio, nella quale per altro il desiderio nelle sue diverse forme gioca un ruolo di primissimo
piano. Nel Libro III, prosa 11, ad esempio, la felicità è definita come quello stato verso il
quale tutti tendono e che consiste in quel bene posseduto il quale non se ne desidera alcun
altro. Anche qui il desiderio dell’unica beatitudine come sommo bene è contrapposto alla
molteplicità inesauribile dei falsi beni mondani e si afferma chiaramente come tutti gli
uomini naturalmente bramino (cupiditas) l’unico vero bene ma ne siano distolti dall’errore e
si rivolgano così ai molteplici beni apparenti. Ed. C. Moreschini, Monachi et Lipsiae, K.G.
Saur, 2000 (Bibliotheca Teubneriana), p. 87,8-27. Nello stesso senso vanno alcuni passi delle
Scritture, ad esempio Ps. 27, 4: «Unam petii a domino, hanc requiram, ut inhabitem in domo
Domini, et visitem templum eius».
200 luisa valente

4. Desiderio di filosofia e filosofi nella Theologia Christiana. L’influenza di


Macrobio.

La sovrapposizione da parte di Abelardo della figura del filosofo con quel-


la del monaco è testimoniata anche dalla Theologia Christiana (prima versione
ca. 1126), ad esempio là dove il maestro riferisce delle cosidette ‘città dei
filosofi’: comunità a suo parere affettivamente esistite al tempo dei pagani e
istituite dai filosofi antichi sulla base di principi razionali del tutto concordi
con quelli evangelici. Sebbene Abelardo abbia come riferimento esplicito la
città ideale della Repubblica di Platone (di cui poteva leggere nel Timeo), tut-
tavia la triade delle classi di cittadini di cui parla è invece quella, derivante da
Agostino e comune nella tradizione patristica e altomedievale, dei tre gruppi
di membri della chiesa coniugati, rectores e continentes - dove come conti-
nenti Abelardo intende esplicitamente ad un tempo i monaci e i filosofi. È
evidente nel testo abelardiano l’intento di fornire un modello di città ideale
prossimo molto più al monastero che alle città vere e proprie. Scrive infatti
Abelardo: «i filosofi antichi istituirono la vita dei coniugati, dei reggitori e dei
continenti proprio secondo la predicazione evangelica, quando stabilirono il
modo di vivere nelle città come se queste fossero delle comunità (conventus)
di coniugati, definirono che caratteristiche dovessero avere i governanti della
cosa pubblica, e scelsero per sé la vita dei continenti o degli astinenti - quella
che oggi praticano i chierici e i monaci». In queste città i cittadini avrebbero
condiviso ogni cosa, proprio come nella chiesa apostolica primitiva, e i go-
vernanti, sempre ispirati dal principio della carità evangelica, sarebbero stati
nient’altro che dei ‘dispensatori del bene comune’:
Nunc autem, praeter diligentem uirtutum descriptionem a philosophis datam,
iuuat et eorum de actiuae uitae rectitudine doctrinam inspicere, cum rectis ratio-
nibus uiuendi ciuitatum et eorum rectorum instituerent uitam; (…) Instituerunt
autem, iuxta euangelicam praedicationem, tam coniugatorum quam rectorum quam
continentium uitam, cum et ciuitatibus quasi coniugatorum conuentibus modum uitae
assignauerunt, et quales ipsi rei publicae rectores esse oporteret definierunt, et in se
ipsis continentium atque abstinentium uitam expresserunt, quam nunc clerici siue
monachi profitentur. Ciuitatum autem conuentus tanta proximi caritate iunxerunt,
ut, omnibus in commune redactis, nihil ciuitas nisi fraternitas uideretur, et nihil
aliud rectores ciuitatis quam rei publicae dispensatores dicerentur, ut iam tunc
illam primitiuae ecclesiae apostolicam praesignarent uitam (…)27.

27
  Abaelardus, Theologia Christiana ed. E. M. Buytaert, Turnhout, Brepols, 1969
[CCCM, XII], II, 45, p. 150,623-641.
Il desiderio di filosofia nel pensiero di Pietro Abelardo 201

La diversità tra il tipo di desiderio proprio dei coniugati e quello proprio


dei continenti – due delle tre classi di cittadini qui elencate – è bene espres-
sa in un passo dei Problemata Heloissae (1137-1138), nel quale Abelardo
risponde alla domanda perché solo gli animali provvisti di zampe (bestiae) e
gli uccelli furono condotti ad Adamo affinché desse loro il rispettivo nome, e
non anche i rettili e i pesci. Abelardo fornisce un’interpretazione tropologica
dei differenti animali nella quale il desiderio – del cielo o della terra – gioca
un ruolo centrale anche in relazione alla loro conformazione fisica e al loro
habitat. Gli uccelli, risponde Abelardo, sono tra gli animali di cui si dice che
vennero condotti ad Adamo perché essi misticamente rappresentano i con-
tinenti. Filosofi e monaci dunque sono paragonati agli uccelli perché come
gli uccelli nel cielo essi si elevano il più possibile verso le cose celesti ‘col loro
desiderio’. I coniugati buoni sono invece paragonati a quegli animali che con
una parte, i piedi, toccano la terra e con l’altra se ne separano, e tuttavia non
sono in grado di volare – dove i legami terreni che impediscono di spiccare
il volo sono esplicitati in particolare con il legame coniugale. Infine i rettili e
i pesci che non sono nemmeno in grado di sollevarsi da terra rappresentano i
malvagi dediti ai desideri terreni (terrenis desideriis vacantes) e abitanti nella
profondità del vizio:
Quid est quod solae bestiae, vel aves commemorantur adductae esse in paradisum
ad Adam, ut videret, quid vocaret ea: et non etiam reptilia terrae, ut serpentes, vel
reptilia aquae, ut pisces? Solutio Abaelardi. Bene quidem, quantum ad mystenium,
hoc credimus actum. In Ecclesia namque praesenti, continentes qui se maxime per
desiderium ad coelestia sublevant, et quasi volucres in altum volant, avibus comparan-
tur; boni vero conjugati bestiis, quae terram ex parte contingunt, pedibus videlicet,
et ex parte ab ea separantur, cum corpore in ea non volutentur. Qui enim matri-
monio conjunctus est, diuisus est; partim Deo serviens, partim saeculo intentus,
propter instantes conjugii necessitates. Quasi ergo pedibus, hoc est, inferiori parte
sui terram contingit; quia terrenis curis, propter occupationem matrimonii, quod
lapsioris vitae est, deservit. Reptilia vero, quae toto corpore in imo jacent, nec se ulla-
tenus erigere possunt, reprobi sunt terrenis desideriis penitus vacantes, et in profundo
vitiorum commorantes28.

28
  Abaelardus, Problemata Heloissae, ed. V. Cousin, Paris, Durand, 1849 (Opera
Omnia, I), XL, pp. 237-294: 286sgg. Cfr. Sermo VI, ed. Cousin (Opera Omnia, I), p. 400sgg.,
dove i giumenti che trasportano Gesù calpestando le vesti stese per terra sono paragonati ai
cristiani che non toccano terra con i piedi in quanto «eorum desiderium conversatur in cae-
lis, eorum affectus non adhaerent terrenis». Sugli animali nel pensiero filosofico e teologico
medievale cfr. Il mondo animale, Firenze, Certosa del Galluzzo, 2000 (Micrologus, VIII) e
P.-O. Dittmar, Le seigneur des animaux entre pecus et bestia. Les animalités paradisiaques des
années 1300, in Adam, le premier homme, éd. par A. Paravicini-Bagliani, Firenze, SISMEL,
202 luisa valente

Tornando alla Theologia Christiana, il carattere amoroso e desiderante


della vita dei filosofi-monaci è qui espresso anche in relazione alla distinzio-
ne tra vita attiva e vita contemplativa. La città rappresenta la vita attiva, la
solitudine quella contemplativa, che agli occhi di Abelardo ha sulla prima
una netta preminenza. Nella solitaria vita di contemplazione «il fervore per
l’amore divino ci tiene sollevati nella contemplazione della visione divina,
lasciate dietro le spalle tutte le preoccupazioni mondane». Lo stesso Ma-
crobio, sostiene Abelardo ancora una volta inserendo la voce di un filosofo,
lo avrebbe rimarcato nel distinguere la vita attiva dei governanti delle città
dalla contemplatio philosophorum. I reggitori conducono una vita mirante
alla soddisfazione delle necessità del prossimo e mossa dall’amore per esso.
Questa vita è certamente encomiabile, ma, scrive Abelardo, ancor più lo è
quella solitaria del contemplativo, mossa dal fervore per l’amore di Dio e
dalla contemplazione della visione divina. È stato pensando a questo, scrive
Abelardo, che Macrobio ha distinto la vita attiva dei reggitori dalla contem-
plazione dei filosofi:
Ad hoc et illa pertinet exhortatio quam rectoribus rei publicae Tullius scribit,
inducens scilicet auum Scipionis cum eo per somnium ita loquentem: ‘Sed quo
sis, Africane, alacrior ad tutandam rem publicam sic habeto: omnibus qui patriam
conseruauerint certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aeuo sempiterno
fruantur. Nihil est enim illi principi, Deo, qui omnem mundum regit, quod qui-
dem in terris fiat acceptius quam concilia coetusque hominum, iure sociati quae
ciuitates appellantur’. Bene autem subdidit ‘ex his quae in terris fiant’, hoc est in
communi hominum habitatione, quod ad actiuam referendum est uitam quae in
necessitatibus proximi, cum quo inhabitat, amore quoque ipsius laborat in terrenis, ut
habeat unde tribuat necessitatem patienti (Eph. 4, 28) et ei fructum sui communicet
laboris. Maioris quippe meriti solitaria uita est contemplationis qua nos nimius diuini
amoris feruor ad contemplationem diuinae uisionis suspendit omni iam mundanarum
necessitatum sollicitudine postposita, et quasi in caelestibus nostram tenet conuer-
sationem. Quod nec ipsa Macrobii expositio notare praetermisit, actiuam rectorum
uitam per hoc a contemplatione philosophorum distinguens29.
La caratterizzazione dei filosofi come esseri desideranti, già insita nell’e-
timologia del termine philosophia, nella Theologia Christiana conduce alla
divisione di essi in due classi sulla scorta proprio dell’associazione macrobia-
na tra vita contemplativa, ma ancora parzialmente attiva, e virtù purificatrici
da una parte, e vita interamente contemplativa e virtù dell’animo purificato

Edizioni del Galluzzo, 2012, pp. 219-254 (con indicazioni sugli studi precedenti); S. Perfetti,
Gli animali pensati tra medioevo e prima età moderna, Pisa, ETS, 2012.
29
  Abaelardus, Theologia Christiana, II, 66, p. 159,919-939.
Il desiderio di filosofia nel pensiero di Pietro Abelardo 203

dall’altra30. La prima classe di filosofi per Abelardo è quella di quanti, ac-


canto alla speculazione filosofica, vivono anche una certa misura di vita atti-
va in contatto con altre persone e, pur essendo sulla via della purificazione
attraverso l’astinenza e l’assiduità nello studio, abitano in comune come i
monaci cenobitici. Costoro, che sembrano corrispondere all’homo qui divini
capax est di Macrobio I 8,8, secondo Abelardo sarebbe meglio se venissero
chiamati philosophantes e non philosophi, non avendo essi raggiunto ancora
il grado più alto della preparazione. I filosofi veri e propri invece, corrispon-
denti all’animus purgatus defecatusque di Macrobio I 8,9, sarebbero quanti
hanno abbandonato completamente il mondo e vivono in solitudine com-
pleta, liberi da ogni tentazione e perfettamente istruiti in ogni conoscenza
necessaria. Nell’epoca attuale essi corrisponderebbero ai monaci anacoreti.
Con la mente libera e purificata costoro ‘anelano con tutti se stessi’, e senza
mai essere distolti da tale contemplazione, a vedere Dio:
Duos itaque continentium ordines in philosophis concluserunt, cum alios adhuc pur-
gari per abstinentiae ac studii assiduitatem dicunt, – qui fortasse philosophantes
rectius quam philosophi dicendi sunt, – et communi habitatione studiorum, formam
coenobitarum tenent monachorum, qualem et Iosephus in XVIII Antiquitatis libro
uitam Essenorum describit, cum Hebraeos quoque tria genera philosophorum
et eorum sectas distingueret, quorum alios Pharisaeos, alios Sadducaeos, alios
Essenos appellat, quos quidem nouissimos miris effert laudibus – alios iam purgati
ac defecati animi esse in quorum carne iam per diutinam abstinentiam mortificata
nullus iam irrepere uel dominari concupiscentiae motus ualet; qui iam solitaria
habitatione uiuentes, suo ipsi sufficiant praesidio. Qualium perfectam anachoreta-
rum uitam dicimus. Quos quidem iuxta Hieronymum Ad Rusticum monachum scri-
bentem de conuentu monasteriorum egredi oportet, quasi de schola philosophantium,
ut illic sub regula disciplinae instruantur atque tam exemplo aliorum quam uerbo
ad perfectionem erudiantur, et a recenti consuetudine uoluptatum abducti pur-
gentur. Hic purgati iam et in omnibus instructi cunctisque tentationum motibus
repulsis, quasi sui ipsorum uictores, sui regimen securi suscipiant et ad uidendum
Deum purgatis iam mentibus toti anhelent, ut iam nulla hominum frequentia uel
aspectu ab illa contemplationis celsitudine reuocentur31.
È da notare che qui ad essere caratterizzati come desideranti non sono
tanto i philosophantes, i filosofi in via di purificazione (che anzi hanno piutto-
sto una doppia vita, da un lato di studio, dall’altro attiva nell’istruzione degli
altri uomini), quando i più perfetti, i filosofi compiutamente contemplativi:

30
  Cfr. Macrobius, Commentarii in Somnium Scipionis, ed. J. Willis, Leipzig, Teubner,
1970, I, 8, 5, p. 37,22-28.
31
  Abaelardus, Theologia Christiana, II, 66-67, pp. 159,919-160,964.
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quelli che hanno raggiunto il grado massimo di istruzione e di elevazione e


vivono separati e segregati la loro vita completamente teoretica, nella quale
esclusivamente «anelano a vedere Dio»32.

Conclusione. Desiderio, visione e felicità.

Il desiderio di filosofia che abbiamo visto nel prologo al Sic et non descrit-
to come amore per l’interrogazione, il dubbio e la pratica delle rationes ha
nella Theologia Christiana una forma diversa che è di fatto quella del deside-
rio della visione di Dio – visione che è il sommo bene e la felicità dell’uomo
secondo il Cristiano delle Collationes33. Che per Abelardo la felicità possibile
sulla terra abbia la forma del desiderio e della speranza è testimoniato da
molti testi. Nel Sermone VI In septuagesima ad esempio, che si rivolge a dei
fratres molto probabilmente da intendersi come monaci e forse identificabili
con i suoi compagni al Paracleto34, è presentato come per desiderium il rag-
giungimento da parte dei fedeli dalla patria celeste una volta abbandonati i
vizi e i piaceri illeciti:

  Una strada in parte diversa mi pare scelga Giovanni di Salisbury, che pure è stato allievo
32

di Abelardo, su questo punto. Giovanni di Salisbury infatti inserirà nell’orbita della filosofia
come disideranti anche quanti vivono esclusivamente una vita attiva non potendo permettersi di
dedicarsi alla contemplazione, e tuttavia desidererebbero ardentemente poter diventare filosofi.
Laddove Abelardo caratterizza come massimamente desideranti il grado più alto dei filosofi,
praticamente identificando la più alta forma di contemplazione con il desiderio (anhelitus),
inversamente, e più intuitivamente, Giovanni di Salisbury identifica il gruppo più eminente
degli uomini con i sapienti, che non hanno più da desiderare la sapienza in quanto la posseggono
già, e il grado intermedio con i filosofi, che amano e desiderano la sapienza (corrispondenti ai
philosophantes di Abelardo). A questi, poi, Giovanni aggiunge un terzo gruppo, quello di quanti
vivono la vita attiva e non se ne possono allontanare, e tuttavia desidererebbero potersi dedicare
allo studio della sapienza. Insomma quanti desiderano essere filosofi e così ‘desiderano deside-
rare’ la sapienza. Cfr. Iohannes Sarisberiensis, Policraticus, ed. C. C. J. Webb, Oxford, Clarendon
Press, 1909, VII 8, p. 119,18-25. Cfr. L. Valente, Philosophers and other Kinds of Human Beings e
Ead., Happiness, contemplative life, and the tria genera hominum.
33
  Abaelardus, Collationes, pp. 158-160: «Christianus. (…) quicumque illa Dei uisione
fruuntur de qua dicit psalmista – ‘Satiabor cum apparuerit gloria tua’ (…) – tanto tunc
meliores efficiuntur, quanto amplius eum diligunt quem in semet ipso uerius intuentur, ut
uidelicet summa illa dilectio in illa summi boni fruitione, que uera est beatitudo nostra,
summum hominis bonum recte sit dicenda. Tanta quippe est illa diuine maiestatis gloria, ut
nemo eam conspicere queat qui non in ipsa eius uisione statim beatus fiat».
34
  Cfr. De Santis, I sermoni di Abelardo, pp. 113sg., 131. Il sermone non presenta ele-
menti per una datazione più precisa all’interno dello spazio temporale più ampio indicato
per l’insieme della raccolta, ossia 1121-1137 (De Santis, pp. 125-167)
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Sion mons est, in quo ciuitas Jerusalem sita est. Per hunc ergo montem celsitudo
supernae patriae, in qua est Jerusalem, id est continua visio verae pacis, exprimitur.
Cujus desiderio fideles accensi ad illam jugiter quasi flentes suspirant, et de hac ualle
lacrymarum tanquam de captivitate babylonica, quo amplius conscendere cupiunt,
differri ab illa grauius gemunt. Ordo congruus prius sedere super flumina, et post-
modum fletus referuntur lamenta, quia nemo dum vitiis subiicitur, et voluptatibus
subjugatur, erigere se per desiderium ad supernam valet civitatem: nec nisi prius a
malo declinemus, bonis faciendis operam damus35.
Nelle Collationes il Cristiano dice chiaramente che il messaggio evangeli-
co circa la beatitudine evangelica dei poveri di spirito consiste nell’invito al
disprezzo del mondo da una parte e al desiderio di felicità dall’altra, fornen-
do una interpretazione delle beatitudini ad un tempo in termini di religiosità
cristiana e di filosofia stoica:
Christianus. (…) Dominus autem Iesus, cum nouum traderet testamentum, in ipso
statim exordio tale sue doctrine fundamentum collocauit, quo et ad contemptum
mundi et ad huius beatitudinis desiderium pariter incitaret, dicens: ‘Beati pauperes
spiritu, quoniam ipsorum est regnum caelorum’; et post aliqua: ‘Beati, qui persecu-
tionem patiuntur propter iustitiam, quoniam ipsorum est regnum caelorum.’ Et si
diligenter attendamus, ad hoc uniuersa eius precepta uel exhortationes adhibentur,
ut spe illius superne et eterne uite omnia contempnantur prospera siue tolerentur
aduersa36.
E più avanti è lo stesso Filosofo a dichiarare che secondo tutti quelli che
fanno filosofia rettamente (omnes recte philosophantes) il sommo bene in sé
è Dio e il sommo bene per l’uomo è la «quiete eterna o letizia perpetua gua-
dagnata come premio di una vita giusta, sia che sia identica con la visione e
la conoscenza di Dio sia che la si ottenga in qualche altro modo»:
Philosophus. Summum utique bonum aput omnes recte philosophantes non aliud
quam Deum dici constat et credi; cuius scilicet incomparabilis et ineffabilis beati-
tudo, tam principii quam finis ignara, nec augeri potest nec minui. (…) summum
autem hominis bonum illa est perpetua quies siue letitia quam quisque pro meritis
post hanc uitam recipit siue in ipsa uisione uel cognitione Dei, ut dicitis, siue quoquo
modo aliter contingat37.
Che relazione c’è, dunque, nel pensiero di Abelardo, tra la concezione
del desiderio di filosofia come passione per l’indagine razionale condotta in
forma dialogica e dubitante da una parte, e la nozione di desiderio amoroso

35
  Abaelardus, Sermones, Sermo VI, p. 401.
36
  Abaelardus, Collationes, p. 110.
37
  Abaelardus, Collationes, p. 150.
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di beatitudine in quanto visione di Dio e premio per una vita giusta dall’al-
tra? Tra le due sembrerebbe a prima vista esserci una differenza di rilievo.
Tuttavia, il continuo intrecciarsi delle due dimensioni nei testi abelardiani
fa pensare che, agli occhi del maestro Palatino, tale differenza non fosse
così importante. Non si trattava per lui, mi pare, di una effettiva duplicità
di oggetti o di concezioni del desiderio. Piuttosto, possiamo pensare a una
stessa idea della filosofia come vita improntata all’amore per la conoscenza,
la contemplazione e la giustizia: un tipo di vita degno di essere desiderato
per se stesso da ogni uomo e donna ma che può assumere forme diverse a
seconda delle diverse persone che lo esperiscono e della loro appartenenza a
diversi popoli o a diverse fasi della storia.

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