Secondo uno studio recente di Frey e Osborne, entrambi dell'Università di Oxford, negli Stati Uniti il 47% dei lavori è a rischio automazione. I due studiosi britannici esprimono questa previsione assumendo che siano le occupazioni piuttosto che le singole mansioni esplicate nell’adempimento di una prestazione a essere a rischio e questo induce a pensare che il 47% sia una sovrastima, in quanto anche molti lavori considerati a rischio inglobano una quota di mansioni difficilmente sostituibili dalle macchine. Seguendo l’approccio delle singole mansioni, Arntz, Gregory e Zierahn forniscono la stima, forse più realistica, che in media il rischo automazione per 21 paesi OECD sia invece del 9%. Anche se nessuno è in grado di prevederne esattamente dimensioni e tempi, l’automazione sta già cambiando la natura del lavoro. In pratica essa elimina alcune mansioni, rende alcuni lavoratori più produttivi ed altri obsoleti. Questo processo cambia anche i lavori che non andranno persi, eliminando la necessità di alcune competenze e rendendone essenziali altre. Il peso dell’aggiustamento ricadrà soprattutto sui lavoratori poco qualificati, sia perché i loro lavori sono spesso facilmente automatizzabili sia perché avranno maggiore difficoltà ad acquisire nuove competenze. Molto probabilmente la disoccupazione sarà un problema ancora più serio in futuro non tanto per la mancanza di lavoro, ma perché le competenze necessarie per le nuove occupazioni evolveranno molto rapidamente e il sistema educativo attuale faticherà a tenere il passo. Già oggi alla domanda posta dalla XIX Indagine AlmaLaurea sull’uso che i laureati fanno delle competenze acquisite durante gli studi e sulla necessità formale o sostanziale del titolo ai fini dell’assunzione, il 22,4% dei laureati occupati risponde “poco o per nulla efficace”. La ricetta per rispondere alle sfide del futuro non può consistere però nel rinunciare all’innovazione: essa porterà anche innumerevoli benefici alla società e le economie dei paesi che resteranno indietro nello sviluppo delle industrie del futuro – robotica, genetica, big data, cibersicurezza – saranno destinate all’irrilevanza.
Cosa fare dunque dei lavoratori le cui competenze siano rese obsolete dalle nuove tecnologie? Come possiamo fronteggiare le crescenti ineguaglianze sociali e facilitare l’acquisizione di nuove competenze?
L’intervento che viene più spesso suggerito consiste nel diminuire in modo consistente il costo del lavoro. Temo che si tratti solo di una soluzione di breve periodo che rallentando l’adozione delle macchine potrebbe però darci il tempo di mettere in atto altre misure. Un secondo intervento consiste nel fornire ai futuri lavoratori le competenze necessarie. Brynjolfsson e McAfee, entrambi ricercatori al MIT di Boston, propongono una riforma del sistema educativo che (tra le altre cose) aumenti i salari degli insegnanti al fine di attrarre e trattenere nel mondo dell’istruzione persone qualificate. Riformare il sistema educativo darà a un numero maggiore di persone le competenze che servono alla nostra economia per sfruttare al meglio le nuove tecnologie. Senza la diffusione di queste competenze lo sforzo, d’altra parte lodevole, di incentivare gli investimenti funzionali alla trasformazione tecnologica (Impresa 4.0) avrà un effetto modesto. Nuove tecnologie e lavoratori competenti sono complementari. Ma come fa il sistema educativo a sapere quali sono le competenze di cui il mercato ha bisogno? Kaplan, ricercatore a Stanford, suggerisce di collegare le richieste degli imprenditori con le istituzioni (ad esempio istituti professionali) che dovranno fornirle. Mentre affronta la difficile sfida di adottare le soluzioni immaginate da Brynjolfsson, McAfee e Kaplan, l’Italia dovrebbe immediatamente imitare quei paesi europei che, riconoscendo nella conoscenza delle basi della programmazione (“coding”) una vera e propria forma di alfabetizzazione, hanno integrato tale conoscenza nel curriculum scolastico fin dalla scuola primaria.
Intervenire sul costo del lavoro e investire in educazione può certamente alleviare e rimandare il problema ma potrebbe non bastare se 1) la nostra capacità di rendere attraente il lavoro per gli imprenditori non terrà il passo con l’avvento di nuove macchine, sempre meno costose ed efficienti e se 2) i lavori del futuro evolveranno troppo velocemente perché i lavoratori possano acquisire le nuove competenze.
La soluzione sembrerebbe l’istituzione di un reddito minimo garantito che funga da assicurazione nelle avversità di una transizione verso una società molto più mobile e aperta dove molti individui non potranno più contare sui più tradizionali sistemi di supporto. La proposta di un reddito minimo garantito non è però priva di aspetti negativi. I due più importanti sono l’enorme costo e i disincentivi al lavoro che creerebbe. La soluzione migliore è probabilmente l’imposta negativa sul reddito proposta dal premio Nobel Milton Friedman, un reddito minimo garantito che per non comportare un disincentivo al lavoro non sia un sussidio permanente, ma un sussidio che varia con il reddito. Se ad esempio la soglia di esenzione dalle tasse sui redditi personali fosse 10.000 euro e si scegliesse una percentuale di integrazione del reddito mancante alla soglia del 50 per cento, una persona senza reddito riceverebbe 5.000 euro (il 50% di 10.000). Se poi lo stesso individuo l’anno successivo trovasse un lavoro ed il suo reddito fosse di 5.000 euro il sussidio si ridurrebbe a 2.500 euro (il 50% di 10000 meno 5.000). Sotto la soglia dei 10.000, ogni euro guadagnato lavorando farebbe aumentare il reddito totale di 1.50.
Anche se in altri paesi il dibattito su questi temi è certamente ad uno stadio più avanzato, nessuna nazione ha ancora predisposto le politiche necessarie per fare fronte alla sfida della “nuova età delle macchine”. Mancando punti di riferimento a cui ispirarsi diventa ancora più urgente iniziare subito un dibattito pubblico.
Giovanni Immordino è professore di Politica Economica presso l’Università di Napoli Federico II e associate editor per la International Review of Law and Economics. Ha conseguito il Ph.D. in Economia presso l’università di Tolosa. Ha trascorso periodi di ricerca presso la London School of Economics. Nella sua ricerca si occupa principalmente di temi microeconomici, di economia pubblica, di analisi economica del diritto e di economia comportamentale.
Bibliografia Arntz, M., T. Gregory e U. Zierahn (2016), The Risk of Automation for Jobs in OECD Countries: A Comparative Analysis, OECD Social, Employment and Migration Working Papers, No. 189, OECD Publishing, Paris. http://dx.doi.org/10.1787/5jlz9h56dvq7-en
Brynjolfsson, Erik e Andrew McAfee (2015), La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante, Feltrinelli.
Frey, Carl Benedikt, e Michael A. Osborne (2017), The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation? Technological Forecasting and Social Change 114, 254-280.