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Gli ebrei e il nation-building in Europa tra il XVIII e il XX secolo.

[da Storia religiosa degli Ebrei di Europa a cura di L. Vaccaro, Milano, Centro Ambrosiano, 2013, pp 391-422]
A partire dal XVIII secolo in Europa gli stati dinastici sono progressivamente sostituiti da stati che
trovano la loro legittimità nel popolo, che in questo modo si fa nazione: in alcuni casi l’antico stato
dinastico in modo più o meno traumatico si trasforma in stato-nazione (l’Inghilterra a partire dalla
Glorious Revolution, la Francia con la rivoluzione del 1789), in altri esso perde parti di sé o si
disintegra a vantaggio degli stati-nazione che da lui sorgono (la scomparsa degli antichi stati italiani
a vantaggio del Regno d’Italia, la progressiva dissoluzione dell’Impero asburgico ecc.). La
legittimazione del nuovo stato teoricamente riposava sulla nazione intesa come comunità di
cittadini a prescindere dalla lingua, dalla religione, dalle tradizioni e dalle memorie coltivate nel suo
seno. In pratica prevalse sempre più spesso il concetto di nazione come comunità culturale fondata
di volta in volta (o contemporaneamente) sulla lingua (spesso codificata appositamente), sulle
memorie condivise (più o meno costruite), sui costumi, sull’appartenenza religiosa: la cittadinanza
divenne quindi in maggiore o minore misura in più occasioni subalterna all’appartenenza o meno
alla comunità culturale di maggioranza e all’interno dello stato-nazione si ebbero cittadini di serie A
e di serie B.

Obbiettivo di questo contributo è quello di analizzare l’atteggiamento degli ebrei nei confronti del
natio-building europeo sulla base della letteratura storica corrente: quale e quanta fu la
partecipazione degli ebrei ai moti nazionali o, più in generale alla costruzione degli stati-nazione
europei? Si realizzò ovunque o in alcuni casi sì e in altri no?

La Haśkalah
Per dare risposta a queste domande occorre in primo luogo avere presente il dibattito che si apre
nelle comunità ebraiche a partire dal Settecento sulle relazioni che si dovevano tenere tra il mondo
ebraico e i processi di trasformazione che investivano la circostante società e, quindi, tra gli ebrei e
il mondo dei non credenti. Secondo Jonathan Frankel il mondo ebraico nel XVIII secolo aveva un
modo di vita medievale: si trattava di comunità giuridicamente separate (talora anche
linguisticamente), autosufficienti, altamente conservatrici: ma l’età dell’Illuminismo si manifestò
anche in questo mondo con la Haśkalah1, ovvero un movimento che guardava con simpatia alla
filosofia dei Lumi. La haśkallah, il movimento illuminista ebraico, si pose al centro del dibattito
interno alla cultura ebraica per oltre un secolo (1750-1880), prefiggendosi la diffusione della
moderna cultura europea tra gli ebrei.
Gli appartenenti al movimento sono i maśkilim (sing. maśkìl), ai quali si contrappongono i
chasidìm (sing.chasìd), (letteralmente i “pii”), cioè gli appartenenti al movimento religioso
1
Chasidùt, fondato da Israel Baal Shemtov (1699-1761) in Volinia e Podolia, difensori della
tradizione. I maśkilìm “propugnavano un nuovo sistema educativo non più basato…sullo studio
della Bibbia, del Talmud e dei commentari sacri, ma insistevano affinché allo studente ebreo si
desse la possibilità di apprendere , prima di tutto e perfettamente, la lingua del paese in cui viveva, e
poi le nuove materia scientifiche…”2: i maśkilìm erano per l’apertura al mondo non ebraico,
partigiani dell’integrazione e dell’idea di separazione tra Chiesa e Stato, ostili all’autonomia delle
“strutture comunitarie ebraiche, considerata un baluardo di conservatorismo”, cercavano di
“accreditare una nuova immagine dei loro [scil. delle comunità] membri: non più ebrei che
vivevano in Germania, Francia e Polonia, ma cittadini tedeschi, francesi, polacchi, di religione
mosaica”3-

È in Germania che si manifesta inizialmente la haśkallah, e ne esponente di primo piano Moses


Mendelssohn 1729-1786. Moses Mendelsohn “In bilico tra ebraismo e illuminismo, nel tentativo di
dare espressione e coerenza alla sua identità ebraica e alla sua fede nella ragione…fu costretto a
impegnarsi in lotte ideologiche su più fronti:contro gli ebrei ortodossi che lo consideravano troppo
tiepido in materia di fede, e contro quei gruppi di cristiani che lo invitavano a portare i suoi
ragionamenti a radicali conseguenze, prima fra tutte la conversione al cristianesimo” 4. Autore di
numerose opere filosofiche e controversistiche fu in amicizia con il mistico svizzero Johann Caspar
Lavater, con lo scrittore Gotthold Ephraim Lessing, con il controversista Christian Wilhelm von
Dohm, in corrispondenza con il filosofo Friedrich Heinrich Jacobi, stimato da Emmanuel Kant,
ammirato da Mirabeau. Morì nel 1786 e i suoi allievi si divisero tra una schiera di conservatori
“favorevoli all’insegnamento laico, ma rigorosi nell’osservanza delle tradizioni ebraiche” ed una di
radicali; i suoi stessi discendenti seguirono strade contrapposte, alcuni rimanendo ebrei, altri
convertendosi al protestantesimo e al cattolicesimo o assumendo atteggiamenti agnostici 5: il celebre
musicista Felix Mendelssohn Bartholdy, suo nipote, fu appunto battezzato. Quella della conversione
religiosa fu appunto una dei modi più decisi da parte degli ebrei di assimilarsi alla società cristiana
circostante e frequenti ne furono i casi nel corso dell’Ottocento nell’Europa occidentale, quando
però il prevalere del “disincanto religioso” di cui scrive Max Weber rese possibile per molti ebrei
l’assimilazione alla società circostante senza dovere passare attraverso le forche caudine della
conversione.
Moses Mendelssohn diventò un modello per tutti quegli ebrei che miravano a rompere l’isolamento
a cui erano costrette le comunità ebraiche, che volevano l’emancipazione degli ebrei, che ritenevano
conciliabile il rispetto della tradizione con l’apertura verso le nuove conquiste del pensiero
scientifico e filosofico e i nuovi programmi politici che ne scaturivano. La fama raggiunta da
Mendelssohn per il contributo culturale fornito al mondo ebraico è testimoniata dal fatto che diversi
2
decenni più tardi, Isaac Bar Levinsohn (1788-1860), che, in Russia invitava i correligionari ad
aprirsi alla cultura generale non trovando contraddizione tra i valori dell’ebraismo e il pensiero
contemporaneo fu definito il Mosè Mendelssohn russo6. Ancora più tardi Yuda Néhama (1825-
1899) di Salonicco, che propugnava analogo programma tra gli ebrei sefarditi dell’Impero
Ottomano, venne considerato il Mosé Mendelssohn turco7.

La cultura politica illuminista, rivoluzionaria e liberale


I fermenti innovatori che percorrevano il mondo ebraico trovarono una sponda nella cultura politica
prima del dispotismo illuminato, poi nei grandi processi rivoluzionari della fine del secolo XVIII e
infine nei movimenti liberali e democratici del secolo XIX. Di questo avviso è appunto Jonathan
Frankel che ritiene l’apertura verso l’esterno del mondo ebraico illuminato favorita dalle misure di
emancipazione promosse nel periodo prerivoluzionario e rivoluzionario dai governi europei8.
Nell’ottobre 1781 Giuseppe II emanò l’Editto di tolleranza. Per la parte concernente gli ebrei esso
fu influenzato dalla recente pubblicazione di Christian Wilhelm Dohm (1751-1820) Über die
bürgerliche Verbesserung der Juden, sollecitata da Moses Mendelssohn9: “…il documento
imperiale autorizzò per la prima volta gli ebrei ad apprendere mestieri manuali e a occuparsi di arti,
di scienze , di agricoltura, e favori il loro accesso all’istruzione, sia nell’università che nelle
accademie, e nelle scuole elementari e superiori, in cui erano però obbligati ad apprendere la lingua
nazionale. Giuseppe II decretò l’eguaglianza religiosa, abolì la tassa sulla persona nota come
Leibzoll, ma mantenne l’interdizione al soggiorno degli ebrei in alcune zone del paese: per esempio,
a Vienna potevano sostare solo eccezionalmente pagando una tassa speciale…” 10 L’editto di
tolleranza fu esteso nel 1783 all’Ungheria, dove tra gli ebrei numerosi erano quelli influenzati dalle
idee illuminate di Moses Mendelssohn e quindi favorevoli a intraprendere le attività protoindustriali
sollecitate da Giuseppe II11.
Negli stessi anni la questione ebraica fu posta all’ordine del giorno per volontà del re Luigi XVI,
che formò una commissione d’inchiesta di notabili ebrei per esaminare i diversi aspetti della
condizione ebraica- La commissione era giunta alla conclusione che agli ebrei doveva essere aperto
l’accesso alle professioni manuali, alle carriere onorevoli, all’acquisto di beni immobili. Luigi XVI
concesse con le Lettres patentes du Roi portant règlements concernants les Juifs d’Alsace, del 10
luglio 1784 che gli ebrei potessero uscire dalla clandestinità formale (n.b. gli ebrei erano tollerati di
fatto, ma formalmente espulsi dal 1394), affittare terre e comperare case per abitarvi, avessero degli
accessi alle professioni manuali. Si trattava di mezze misure che scontentavano sia gli ambienti
conservatori che il mondo intellettuale francese più aperto (ad esempio Montesquieu o Mirabeau,
ma non Voltaire o Rousseau) e gli ebrei, divisi tra la comunità sefardita del sud-ovest della Francia,

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maggiormente integrata, e quella askenazita in Alsazia, oggetto di forti discriminazioni e angherie:
rimaneva aperta la questione se la questione ebraica potesse essere risolta attraverso la concessione
o il rafforzamento di un’autonomia comunitaria, permettendo così agli ebrei di Francia di costituire
una sorta di stato nello stato. Per affrontare il problema, che non era solo quello delle comunità
ebraiche, ma anche di quelle protestanti, Luigi XVI istituì un’apposita commissione alla vigilia
della Rivoluzione12.
Sempre negli stessi anni qualcosa sembrò muoversi anche in Prussia. La comunità ebraica inviò una
supplica a Federico Guglielmo appena asceso al trono, perché fosse abolita la tassa Leibzoll, così
come era avvenuto in Austria con l’Editto di tolleranza del 1781. questo avrebbe significato un
primo passo verso la libertà. Il re accettò di Istituire una commissione con a capo un allievo di
Moses Mendelssohn, David Fiedlaender. Lunghe discussioni, risultati pochi, quali, ad esempio, che
gli ebrei potevano fare il servizio militare, ma solo come soldati semplici: il nodo centrale rimaneva
quello dell’esistenza di una autonoma comunità ebraica di cui si chiedeva lo scioglimento in cambio
delle riforme, che avrebbero garantito l’emancipazione: La commissione venne sciolta nel 1798 e
l’assenza di risultati tangibili fu giustificato sostenendo che in questo modo si forniva un incentivo
alla conversione, premessa ineludibile per un’autoriforma degli ebrei che li avrebbe portati ad “una
completa uguaglianza di diritto rispetto agli altri cittadini dello Stato”13.
La svolta radicale però era già avvenuta negli Stati Uniti d’America, dove gli ebrei erano stati
equiparati agli altri cittadini e venivano a fare parte della nazione americana priva di steccati
religiosi14. Fu la stessa strada imboccata dalla Francia rivoluzionaria: qui gli ebrei sefarditi del Sud-
ovest scelsero fin dall’inizio di sostenere la rivoluzione e accorsero nella Guardia Nazionale a
difesa di quella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo che sanciva l’eguaglianza di tutti i cittadini di
fronte alla legge e tra le libertà quella di culto- A differenza degli ebrei sefarditi la maggioranza
degli ashkenazi dell’Alsazia rivendicavano invece accanto ai diritti civili l’autonomia
amministrativa e giuridica goduta fino a quel momento, attraverso il riconoscimento delle loro
comunità con sinagoghe, rabbini e capi laici15. Le divergenze di comportamento tra sefarditi e
ashkenazi di Francia furono risolte una volta per tutte con il varo della costituzione del settembre
del 1791, che garantiva a tutti gli ebrei, qualunque fosse la loro origine, la piena cittadinanza
francese, ma disconosceva loro qualsivoglia privilegio comunitario16 analogamente a quanto era
avvenuto negli Stati Uniti d’America. Con l’emancipazione iniziava quel processo di assimilazione
degli ebrei alla società francese, che 150 anni più tardi poteva rimanere ancora incomprensibile agli
occhi di un ebreo ashkenazi giunto come profugo dalla Polonia: “Li ho visti durante la guerra, ebrei
e cristiani, sono speciali: sono più francesi dei francesi. Gli ebrei alsaziani sono esattamente come
gli Yekes, gli ebrei tedeschi”17.

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L’espansione della Rivoluzione francese fuori della Francia portò all’emancipazione degli ebrei
anche in Belgio (annesso alla Francia), in Olanda e negli stati germanici confinanti. Anche in questo
caso l’emancipazione favorì a lungo termine non solo l’integrazione, ma spesso l’assimilazione,
analogamente a quanto avvenne nella liberale Inghilterra. Il ruolo dell’haśkallah in questo risultò
fondamentale: l’impegno dei suoi partigiani nella battaglia contro le istituzioni comunitarie che
regolavano la vita degli ebrei (riti, legislazione autonoma interna, imposizione fiscale,
rappresentanza verso l’esterno), accusate di gretta chiusura e conservatorismo, coincideva con la
volontà centralizzatrice dello stato rivoluzionario e postrivoluzionario e la sua spinta alla
modernizzazione. Gli ebrei nell’Europa occidentale divennero sempre più frequentemente nei
rispettivi stati in cui risiedevano cittadini di fede mosaica, quando addirittura non battezzavano i
loro figli o autonomamente preferivano la conversione, come molti degli eredi di Mendelssohn,
Heinrich Heine, Benjamin Disraeli (poi lord Beaconsfield), Karl Marx. Molto più spesso,
comunque, al di qua e al di là dell’Atlantico rimanevano più o meno formalmente legati alla loro
tradizione religiosa, ma sinceramente partecipi attivi delle fortune economiche e politiche dello
stato-nazione di cui erano cittadini, dalla famiglia Rotschild a Moses Montefiore, nominato
baronetto dalla regina Vittoria, ad Adolphe Crémieux, ministro della Repubblica francese del 1848,
e al contempo attenti alla sorte dei loro correligionari laddove si manifestasse una recrudescenza
dell’antisemitismo: fu questo l’humus su cui nacque a Parigi l’Alleanza Israelitica Universale
(1860) con lo scopo di difendere gli ebrei dalle minacce della società circostante, nonché di
diffondere la modernizzazione occidentale di cui erano protagonisti attraverso l’organizzazione di
scuole ed altre istituzioni culturali18.

L’integrazione e, soprattutto, l’assimilazione furono combattute nell’Europa occidentale con poco


successo dagli ambienti ebraici più decisi a difendere la tradizione, mentre trovarono nel corso del
XIX secolo, a partire dall’epoca della Restaurazione, seri ostacoli nei ricorrenti rigurgiti di
antisemitismo coltivati negli ambienti più retrivi dell’ancien régime o di esso nostalgici o, più tardi,
dominati da una visione della comunità nazionale angusta che escludeva coloro che non
rispondessero agli standard immaginati e fissati una volta per tutte del “carattere nazionale”: la
maggior parte degli ebrei che pure si erano integrati nella comunità nazionale dello stato di cui
erano cittadini, ma che avevano mantenuto una propria identità nell’esercizio della propria fede o,
per lo meno, nell’osservanza di tradizioni che a quella fede facevano riferimento, poterono così di
nuovo essere oggetto di discriminazioni. L’affare Dreyfus nella Francia della Terza Repubblica alla
fine del XIX secolo ha in questo la sua spiegazione.
Ma come scrive George Mosse, in origine “La religione civica del nazionalismo, con i suoi riti e le
sue cerimonie liturgiche, sembrava un fattore importante attraverso il quale i popoli si sarebbero
5
potuti integrare con la nazione. Durante la maggior parte del XIX secolo questa religione civica
servì a integrare gli ebrei nella nazione insieme con alti gruppi di popolazioni. Essi prendevano
parte alle ricorrenze nazionali ed ammiravano i monumenti nazionali… Il nazionalismo non era
unidimensionale, poteva stringere alleanze con il liberalismo e perfino con il socialismo, non era
ancora prettamente conservatore o sciovinistico”19.
La scelta liberale in buona parte dell’Europa centro-occidentale divenne quindi una scelta naturale
per gran parte degli ebrei, così come la scelta della piena emancipazione degli ebrei costituì un
aspetto intrinseco del liberalismo. Il rapporto degli ebrei con lo stato-nazione si presenta in parte
come uno dei momenti del rapporto complessivo degli ebrei con i processi di modernizzazione:
negli stati-nazione già consolidati dall’Inghilterra all’Olanda, dalla Francia agli Stati Uniti laddove
il movimento liberale e nazionale ha ormai abbattuto le barriere nei confronti della comunità
israelita, gli ebrei “illuminati” tendono non solo ad abbracciare la causa nazionale, ma ad una
progressiva assimilazione alla maggioranza della popolazione. Ma nell’Europa centrale il
liberalismo si faceva carico al tempo stesso della libertà del cittadino nei confronti dell’ancien
régime così come della collettività nazionale che si doveva affrancare dai vincoli interni ed esterni
che ne impedivano l’affermazione: era questa l’origine dei moti nazionali.

Moti nazionali ed ebrei nell’Europa centrale: il caso della Germania


L’atteggiamento degli ebrei nei confronti dei moti nazionali e dei nuovi stati che essi dettero luogo
è direttamente connesso al modo in cui i moti nazionali si andarono realizzando.
Nel mondo germanico, dove era nata l’haśkallah e la parte più aperta del mondo ebraico era ben
disponibile all’integrazione nella società tedesca, l’emancipazione raggiunta dagli ebrei durante il
periodo rivoluzionario e napoleonico fu messa in discussione in gran parte degli stati tedeschi da
una serie di provvedimenti assunti nell’epoca della Restaurazione. Il sentimento nazionale tedesco
si era temprato nella lotta contro Napoleone e una parte del mondo culturale germanico era
propenso a identificare i principi liberali con l’oppressione napoleonica, a condannare
l’emancipazione ebraica come frutto del dominio napoleonico sull’Europa e sulla Germania e ad
esaltare la comunità culturale di lingua tedesca e d tradizione cristiana.
A questo clima gli ebrei reagirono in modi differenti: ci fu chi scelse di abbandonare le terre
tedesche emigrando verso la Francia e soprattutto verso i paesi anglosassoni, chi pensò che la strada
dell’emancipazione passasse attraverso la conversione al cristianesimo (cattolico o protestante), ma
molti optarono per una stretta collaborazione con il nazionalismo liberale, abbracciando la causa
dell’unità tedesca che avrebbe dovuto assicurare l’uguaglianza dei diritti civili.

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La scelta della causa liberale e nazionale coincise con quella di perseguire l’assimilazione alla
società e alla cultura della maggioranza della popolazione: nel corso degli anni Quaranta
dell’Ottocento una parte del mondo ebraico germanico ritenne che ciò fosse meglio realizzabile
attraverso una riforma religiosa modernizzante dell’ebraismo (o come usavano chiamarlo
«mosaismo»); era un modo di cercare l’assimilazione senza giungere alla conversione al
cristianesimo, ma eliminando una serie di elementi, soprattutto rituali (sostituzione della festività
del sabato con quella della domenica, utilizzo del tedesco in luogo dell’ebraico nelle cerimonie
ecc.), che fino ad allora avevano fortemente caratterizzato la comunità ebraica. Il movimento della
Riforma provocò una spaccatura nella comunità ebraica germanica (e non solo) 20 ed è sintomatico
della volontà di parte degli ebrei tedeschi di attenuare progressivamente le differenze con il resto
della popolazione tedesca in nome della comune patria.
Nella rivoluzione del 1848 in Germania molti furono gli ebrei protagonisti e proprio un liberale
ebreo, Gabriel Riesser divenne vicepresidente dell’assemblea dei rappresentanti dei popoli tedeschi
riunita a Francoforte. I moti liberali tedeschi ed europei del 1848 furono sconfitti, la piena
emancipazione ebraica fu così rimandata, ma l’unificazione germanica con Guglielmo I
Hohenzollern e Bismarck la realizzò, premiando così la costanza di quegli ebrei che avevano
fermamente creduto nell’unificazione della comune patria tedesca, nonostante la presenza di una
forte componente antisemita nel seno del nazionalismo germanico 21. Come ha scritto George Mosse
“… La religione civica del nazionalismo corrispondeva ad una laicizzazione della religione rivelata:
eppure la cristianità rimaneva presente, altra indicazione di una facile estromissione degli ebrei”. 22
Bismarck e gli Hohenzollern si erano giovati della collaborazione dei liberali nel processo di
unificazione nazionale, ma trovavano sostegno nella loro volontà di rafforzare l’autorità di uno stato
centralizzato soprattutto negli ambienti del nazionalismo illiberale, xenofobo e antisemita al quale
fornivano un contributo illustri intellettuali. Di questo ambiente nazionalista si giovarono i
governanti tedeschi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento ogni volta che lo ritennero
opportuno per rafforzare l’autorità della dinastia e dello stato che per loro coincidevano: in questa
situazione l’antisemitismo continuò a serpeggiare nella società tedesca, pur senza dare luogo ad una
esplicita legislazione antiebraica. La maggioranza degli ebrei rimasero quindi convinti della
giustezza della loro scelta per una patria tedesca. Come scriveva un loro illustre intellettuale,
Berthold Auerbach “ … io sono un ebreo tedesco … e, credo, un buon tedesco … Non posso
rimanere indifferente quando si parla di una Patria e di una lingua madre” 23: secondo questa
concezione liberale della nazione in quella patria in cui essi trovavano posto come cittadini tedeschi
di religione mosaica accanto ad altri cittadini tedeschi di religione cristiana protestante o cattolica.

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Moti nazionali ed ebrei nell’Europa centrale: il caso dell’impero asburgico.
Nell’Impero asburgico l’emancipazione della comunità ebraica non registrò alcun progresso durante
le guerre napoleoniche e tanto meno nell’età della Restaurazione. Comprensibile quindi
l’orientamento degli ambienti ebraici più aperti, più influenzati dalla haśkallah per il movimento
liberale. Questo orientamento per i liberali assume connotati alquanto complessi nel contesto
multietnico dell’Impero, dove la battaglia per i diritti civili e politici si andava a intrecciare con
quella per l’emancipazione nazionale delle popolazioni all’interno delle quali la comunità ebraica si
trovava inserita. Essere liberale a Vienna comportava per un ebreo cercare l’assimilazione
all’elemento tedesco né più né meno di quanto accadeva a Berlino o a Francoforte. Ma questo non
significava partecipare del nazionalismo grande-tedesco, che nell’Impero asburgico sul finire del
secolo XIX assunse con il partito nazionale tedesco di Georg von Schönerer caratteri fortemente
antisemiti24: stretti tra i nazionalisti grande-tedeschi di Schönerer e i cristiano-sociali di Karl
Lueger, egualmente antisemiti, gli ebrei che avevano ottenuto la piena emancipazione nel 1867
scelsero coscientemente un patriottismo dinastico, che si manifestò, per certi versi, anche tra quelli
di loro che militarono nelle fila del socialismo democratico. Diverso però fu il percorso degli ebrei
nelle terre ceche o in quelle ungheresi.
In Boemia, Moravia e Slesia un movimento liberale tedesco era affiancato da un movimento
liberale ceco: se il primo chiedeva garanzie costituzionali per i diritti civili e politici, il secondo
rivendicava anche l’autonomia delle terre dell’antico regno di Boemia e il pieno riconoscimento
della lingua e della cultura ceca. Catherine Horel scrive che la comunità ebraica in Boemia,
Moravia e Slesia si andò assimilando all’elemento germanico, che però diveniva sempre più nel
corso del XIX secolo una minoranza, mentre si andava affermando con forza un’identità ceca. Solo
sul finire del secolo XIX gli ebrei cominciarono a manifestare una simpatia sempre maggiore per la
lotta nazionale dei cechi e si avvicinarono alla loro causa, mentre la comunità tedesca cominciava a
chiudersi in se stessa, perdeva il suo dinamismo: l’equivalenza ebreo-tedesco cominciò quindi a
perdere parte del suo valore, ma non al punto tale che gli ebrei nel nuovo stato cecoslovacco nato
nel 1918 non si trovassero nella scomoda situazione di essere considerati doppiamente stranieri 25. Si
deve ricordare che per quanto, come detto, gli ebrei alla fine del XIX secolo si stessero sempre più
assimilando ai cechi e avessero iniziato a condividere le idee del nazionalismo ceco, pure una larga
parte di loro, pari al 47,6%, ancora nel 1910 erano assimilati alla cultura tedesca e condividevano le
scelte del governo di Vienna26. Kafka appare come un simbolo del rapporto complesso tra il mondo
ebraico, la cultura tedesca e il nazionalismo ceco: scrive in tedesco, partecipa alla vita intellettuale
ceca e mantiene l’appartenenza al mondo ebraico.

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In Ungheria le tradizionali tendenze autonomistiche nei confronti di Vienna, fatte proprie dal
nazionalismo liberale ungherese, comportarono una politica di magiarizzazione linguistica che
suscitò la reazione di molti gruppi etnici presenti all’interno dei confini del regno (serbi, croati,
romeni, slovacchi ecc.): non così degli ebrei. Negli anni che precedono i moti del 1848 gli ebrei in
Ungheria adottarono progressivamente la causa nazionale ungherese a cominciare dall’adottare la
lingua (passando quindi dal tedesco all’ungherese) e dall’impegno nella modernizzazione sociale ed
economica del paese L’impegno degli ebrei nella trasformazione economica e sociale del paese e la
loro adozione della lingua ungherese nel periodo precedente i moti del 1848 fa sì che i sostenitori
del liberalismo ungherese li vedessero come alleati e si impegnassero a far progredire la
legislazione a loro favore: nel 1840 la Dieta vota la soppressione del divieto di residenza nelle città
agli ebrei (risultato sarà una forte crescita della popolazione ebraica a Budapest, che nel 1910
raggiungerà il 23,1% del totale dei cittadini) e nel 1846 abolisce la tassa di tolleranza 27. L’alleanza
tra liberali ed ebrei si conferma nel 1848, che vede la completa emancipazione degli ebrei e la piena
partecipazione degli ebrei alla causa nazionale ungherese. La comunità di Pest è alla testa di questo
movimento e i suoi membri entrano nella Guardia Nazionale prima e nell’esercito poi che si batte
contro l’Austria. Alcuni rabbini vanno a reclutare i volontari ebrei e persino gli ortodossi offrono il
loro sostegno sia in denaro che in natura per le necessità dell’esercito e del governo 28. Nonostante
ciò non mancarono manifestazioni di antisemitismo: nell’estate del 1848 il governo ungherese
dovette fronteggiare una serie di scioperi e dimostrazioni di operai e, soprattutto, artigiani, contro
gli ebrei, ai quali si associarono di buon grado i cittadini della minoranza tedesca. La Guardia
nazionale dovette intervenire in difesa degli ebrei29. Sconfitta la rivoluzione nel 1849, gli ebrei
persero i risultati conseguiti con essa e solo nel 1867, quando l’impero asburgico si trasformò con
l’Ausgleich in Impero d’Austria-Ungheria riottennero la piena emancipazione proprio grazie
all’impegno dei liberali: si consolidò in questo modo l’alleanza tra ebrei e nazionalismo liberale
ungherese che con Eötvös e Deák scoraggiò fin dall’inizio qualsiasi forma di antisemitismo,
intrinsecamente contraria al loro modo di pensare. L’antisemitismo in Ungheria per lungo tempo
non trovò una stabile forma politica come avvenne invece in Austria: benché nel 1884 un
movimento dichiaratamente antisemita, guidato da Gustav Istóczy, riuscisse a ottenere 17 deputati
sull’onda di un famoso processo intentato contro ebrei con la solita accusa inventata di “omicidio
rituale”, poco tempo dopo il movimento si dissolse. In seguito sfumature di antisemitismo
comparvero soltanto nel programma del partito popolare cattolico 30. Gli ebrei ungheresi dal canto
loro si mantennero assolutamente fedeli al partito liberale: ne sostennero i governi fino alla vigilia
della I guerra mondiale, impegnandosi attivamente nel progresso economico del paese di cui si

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sentivano totalmente parte, ritenendo l’antisemitismo latente pur presente nel paese un fenomeno
circoscritto e ben controllato.
La controprova di questa identificazione degli ebrei nella nazione ungherese è data dal
comportamento degli ebrei nella regione slovacca, fino al 1918 parte integrante dei territori
transleitanici. In assenza di un vigoroso movimento nazionale slovacco gli ebrei rimasero legati alla
comunità ungherese, e così fu anche dopo che gli ungheresi divennero una numerosa minoranza
nella Slovacchia entrata a fare parte dopo il 1918 della repubblica di Cecoslovacchia31.
Nella Galizia che faceva altresì parte dei territori cisleitanici esisteva una forte comunità ebraica
(circa l’11% dell’intera popolazione agli inizi del secolo XX: 872.000 ebrei a fronte di 4.672.500
polacchi, 3.208.000 ucraini, 80.000 tedeschi). Essa era connotata oltre che religiosamente anche
dall’uso dell’yddish e doveva confrontarsi con due nazionalismi concorrenti, quello polacco e
quello ucraino, che si distinguevano entrambi per una carica antisemita. Risultava difficile quindi
per gli ebrei identificarsi sia con la nazione polacca che con quella ucraina, anche se generalmente,
a detta di François Fejtő, essi cercarono di diventare polacchi “perché i polacchi erano
economicamente e culturalmente più sviluppati, e, anche se trattavano gli ebrei con un paternalismo
sprezzante”32. Fu dunque una polacchizzazione di superficie e limitata, che non comportò un
impegno per la causa nazionale polacca: la loro emancipazione, avvenuta nel 1867 come per tutti gli
ebrei dell’Impero, non fu di preludio ad un inserimento reale in contesti nazionali compattamente
ostili. Era la situazione degli ebrei in Galizia per molti versi affine, seppure migliore, a quella degli
ebrei delle terre ucraine, bielorusse e lituane soggette alla Russia: non a caso in entrambi i casi
prima tra gli intellettuali e poi anche tra il popolo si andarono diffondendo a partire dalla fine del
secolo XIX le idee del nazionalismo ebraico, il “sionismo”33.

Il Risorgimento nazionale italiano e gli ebrei


La piena emancipazione raggiunta dagli ebrei in Italia durante il periodo napoleonico, quando le
porte dei ghetti erano state abbattute, fu rimessa radicalmente in discussione in tutti gli stati della
penisola con la Restaurazione.
Non meraviglia quindi che dopo il 1815 numerosi ebrei abbiano scelto di unirsi a coloro che mal
sopportavano il ritorno all’ancien régime e si battevano per l’introduzione di costituzioni liberali
che garantissero pari diritti civili e politici ai cittadini tutti. Da qui la naturale presenza di ebrei nelle
fila della Carboneria e, quindi, la partecipazione di ebrei ai moti piemontesi del 1820-1821 e a
quelli di Modena del 1831.
Roberto Salvadori ha ricostruito con attenzione la partecipazione degli ebrei toscani nell’epoca della
Restaurazione alle logge massoniche e quindi alla Carboneria e alla Giovine Italia, così come a

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circoli culturali moderati liberaleggianti quali quello dell’Antologia. L’università di Pisa,
frequentata anche dall’ebreo Isacco Artom, sarà poi crogiolo di esperienze liberali e nazionali per
molti studenti ebrei anche non toscani e quindi punto di collegamento del liberalismo nazionale
ebreo toscano con quello di altre regioni 34. Ha scritto in proposito: “… la via più valida per
raggiungere la pienezza dell’emancipazione fu, per gli ebrei, quella della loro partecipazione al
Risorgimento. Due motivi almeno li spingevano a muoversi in quella direzione: la realizzazione
dell’unità d’Italia, attraverso moti liberali e democratici, non poteva che essere di giovamento alla
loro causa, mentre la naturale collocazione di molti di loro nei ceti medi li portava a collaborare con
la borghesia animatrice di quei moti. Nel momento in cui gli ebrei cessavano di essere sudditi-ospiti
di questo o quello stato della penisola, divenivano ebrei italiani e, più oltre, italiani ebrei, dove il
sostantivo era, per l’appunto, l’italianità che li accomunava negli stessi diritti con tutti gli altri e
l’apposizione era il carattere ebraico, il quale era nulla più che una specificazione culturale, anche
se inconfondibile…”35.
Ecco quindi l’attenzione per il programma e l’azione mazziniana che spinse banchieri ebrei a
finanziare l’infausta spedizione del 1834 nella Savoia. L’impegno liberale si saldava a quello per la
causa nazionale italiana e in questo modo iniziava un processo di assimilazione degli ebrei alla
comunità nazionale in cui si trovavano inseriti. Lo comprova il fatto che in alcune scuole ebraiche
più aperte si cominciò a leggere opere letterarie italiane36.
L’impegno degli ebrei nella causa nazionale italiana fu senza dubbio favorito dalla penetrazione
delle idee liberali e democratiche negli ambienti borghesi e anche in parte della nobiltà italiane, che
nell’età della Restaurazione si ribellarono alla reintroduzione di una legislazione antisemita e si
impegnarono per l’emancipazione della comunità ebraica, tanto che Franca Tagliacozzo ha potuto
scrivere che “In nessun’altra regione d’Europa l’alleanza tra i liberali e gli ebrei fu più solida e
duratura”37
Anello di collegamento tra l’epoca napoleonica e quella risorgimentale in merito alla questione
della emancipazione ebraica può ben essere considerato Gabriele Pepe che sulla liberaleggiante
Antologia scrisse nel 1830 un articolo in difesa degli ebrei. I ricorrenti casi complessi e dolorosi che
interessavano la condizione ebraica, dalle discriminazioni nell’acquisto di proprietà immobiliari alle
accuse reiterate di omicidi rituali a danno di cristiani ai battesimi forzati, erano occasione di
confronti di opinione in Europa, cui non mancavano di partecipare gli intellettuali liberali e
democratici italiani. A metà degli anni Trenta fu Mazzini che in due articoli di giornale intervenne a
sostegno dell’emancipazione degli ebrei38. Per la stessa causa si batté in modo più esaustivo e
articolato Carlo Cattaneo nel saggio Le interdizioni israelitiche (1837): partendo da fatti di cronaca
contemporanea ripercorreva le origini e gli sviluppi dei divieti che colpivano la comunità ebraica,

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indicava come alcuni di questi divieti fossero stati premessa per le fortune ebraiche nel settore
imprenditoriale e finanziario e come questo avesse incentivato a sua volta l’antisemitismo popolare,
concludeva infine con la necessità che i divieti fossero tolti e fosse così assicurata agli ebrei una vita
normale per il bene loro e di tutta la comunità 39. A difesa degli ebrei e in polemica con la linea
seguita dalla Chiesa di Roma e sostenuta soprattutto dai gesuiti fu Vincenzo Gioberti nel Primato
morale e civile degli italiani (1844): Pio IX, eletto al soglio pontificio nel 1846, apparve sensibile ai
richiami giobertiani e avviò delle timide riforme a favore della comunità ebraica romana. Il clima
andava mutando rapidamente e in Piemonte apparvero nel corso del 1847 gli scritti di Massimo
D’Azeglio Sull’emancipazione civile degli israeliti, del giurista G.L Maffoni Origini delle
interdizioni civili israelitiche e dannosi effetti delle medesime derivanti, dell’abate Giuseppe Gatti
di Casale La rigenerazione politica degli israeliti in Italia: da diversi punti di vista si perorava la
causa dell’emancipazione degli ebrei, che in Piemonte si intrecciava con quella della comunità
protestante valdese. E proprio grazie all’impegno del mondo liberale e dei cattolici-liberali la piena
emancipazione nel Regno di Sardegna fu raggiunta nel marzo 1848 40 in concomitanza con l’inizio
delle operazioni militari sabaude contro l’Austria.
Non fa dunque meraviglia se la partecipazione degli ebrei alle rivoluzioni del 1848 e alla prima guerra di
indipendenza sia stata alta in rapporto alla loro consistenza numerica . A Venezia fu riconosciuto il loro
ruolo nell’insurrezione facendo entrare il 23 marzo nel governo provvisorio un loro rappresentante,
Leone Pincherle41. La presenza ebraica a Milano nel 1848 era ancora esigua, ma larga fu la
partecipazione ebraica nelle Cinque giornate e il contributo ebraico venne riconosciuto con
l’ingresso nel governo provvisorio di un membro della allora piccola comunità. Quando Carlo
Alberto entrò in guerra con l’Austria accorsero volontari nelle fila dell’esercito sabaudo dalle
comunità ebraiche di Acqui, Nizza, Casale Monferrato e Saluzzo42. Nella seconda fase della
rivoluzione nazionale dal 1848-1849 a Venezia e Roma, dove era stata proclamata la completa
emancipazione degli ebrei, questi intervennero attivamente nella difesa delle repubbliche
democratiche: a Roma sostennero finanziariamente i democratici, richiamarono il sostegno di ebrei
dalle altre parti di Italia, entrarono nella Guardia civica e combatterono sotto Garibaldi 43, a Venezia,
nell’ultima fase della repubblica Manin chiamò a fare parte del governo provvisorio l’ebreo Isacco
Pesaro Maurogonato44.
Gli ebrei pagarono pesantemente la loro partecipazione al movimento nazionale italiano nel biennnio 1848-
1849, sia nei domini austriaci che in quelli pontifici o dei ducati padani, dove, oltre a subire una serie di
processi al pari di tanti altri liberali e democratici e ad essere spesso costretti all’esilio, videro ancora una
volta ripristinata la segregazione nel ghetto, negato il libero spostamento sul territorio, introdotte imposizioni
fiscali discriminatorie45. Testimonianza letteraria di questo spirito al tempo stesso antiliberale,
antirisorgimentale e antisemita fu il romanzo del gesuita padre Antonio Bresciani L’ebreo di Verona,
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pubblicato nel 1850, in cui si ripercorrevano gli avvenimenti politici degli anni tra il 1847 e il 1849, al centro
dei quali veniva collocato l’ebreo Aser, ardente mazziniano all’inizio, ma poi convertitosi al cristianesimo
per l’orrore dei crimini dei suoi compagni e, quindi, da questi ucciso.
Soltanto nel Regno di Sardegna l’emancipazione raggiunta non fu messa in discussione, rafforzando così non
solo l’alleanza tra comunità ebraica e liberali, ma anche l’impegno degli ebrei per la causa nazionale italiana
nella quale la maggioranza di loro si andava riconoscendo, militando tanto nelle fila dei moderati che in
quelle dei mazziniani e, particolarmente, in quelle garibaldine. Se Isacco Artom divenne stretto collaboratore
di Camillo Benso di Cavour, aperto difensore fin dall’inizio dell’emancipazione ebraica, numerosi furono gli
ebrei che scelsero di battersi per la causa nazionale italiana sotto le bandiere garibaldine, prima nella difesa
della Repubblica Romana, come Giacom Venezian o Ciro Finzi che vi morì 46, poi nei Cacciatori delle Alpi
durante la guerre del 1859, come Giovanni Coen 47, Saul Prato, Raffaele Teglio, Enrico Guastalla e altri
ancora, infine e soprattutto nell’impresa dei Mille, dove accanto ad ebrei italiani accorsero anche ebrei
tedeschi, come Adolph Moses48.
La nascita del Regno d’Italia nel 1861 e la sua successiva espansione al Veneto (1866) e a Roma (1870)
segnò la completa emancipazione degli ebrei su tutto il territorio della penisola e, in assenza di una moderna
cultura antisemita, non più legata al fattore religioso, quale quella che si andava diffondendo in Germania e
in Francia, avrebbe dovuto significare una naturale confluenza degli ebrei nel seno della nazione italiana. In
realtà qualche resistenza ci fu: il regime pienamente liberale riconosceva pienamente il diritto dei cittadini di
riunirsi in libere associazioni, ma non garantiva alle comunità ebraiche la compattezza e l’impermeabilità
all’esterno come l’ancien régime. Essere ebrei o non ebrei diventava una scelta individuale. Coloro che erano
più vincolati al passato si trovarono a disagio; negli ambienti popolari si poteva rimpiangere la solidarietà del
ghetto, in certi ambienti borghesi si temeva una perdita di identità laddove non fosse garantito dallo stato un
sostegno alle comunità, tra i rabbini si lamentava la scomparsa del sentimento religioso 49.
L’assimilazione alla comunità nazionale italiana non si interruppe, favorita dal solido rapporto tra l’elemento
colto ed economicamente ben inserito nella società italiana e l’ambiente politico liberale, democratico e
socialista, estranei tutti a pulsioni antisemite. Ultimo baluardo di un antisemitismo di vecchia maniera
rimaneva il cattolicesimo più retrivo, ma esso poco poteva nuocere agli ebrei in tempi di conflitto più o meno
aperto tra lo Stato nato dal Risorgimento e la Chiesa. Solo a ridosso della I guerra mondiale nelle fila del
nazionalismo più estremo la xenofobia si colorò di un confuso antisemitismo, che rimase estraneo alla
società e alla cultura italiana. Nel periodo che va dalla proclamazione del Regno d’Italia all’avvento del
fascismo gli ebrei italiani, o meglio sarebbe dire gli italiani ebrei, non solo svolsero un ruolo nel campo
dell’economia e della finanza così come in quello della cultura e della scienza, ma si inserirono pienamente
nei gangli dello stato, sia come alti funzionari che come membri di governo. Non sorprende quindi che il
richiamo del nazionalismo ebraico così come veniva proposto dal sionismo rimanesse inascoltato tra gli ebrei
in Italia o, tutto al più, venisse valutato come un semplice fenomeno culturale.

Gli ebrei e il nation-buiding nell’Europa sud-orientale

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Ci sono notevoli coincidenze nel comportamento dei liberali e, in genere del ceto dirigente
risorgimentale ungherese con quello del ceto dirigente risorgimentale italiano. E così pure
nell’atteggiamento degli ebrei di Ungheria con quelli d’Italia verso la causa nazionale e liberale. La
differenza sta nella presenza, seppur combattuta dai governi ungheresi e, in genere, dai grandi
movimenti politici ungheresi, di movimenti antisemiti, che invece non compaiono in Italia. Bisogna
però anche tenere conto che mentre in Italia gli ebrei erano complessivamente poche decine di
migliaia di persone su oltre 25 milioni, in Ungheria alla fine del secolo XIX su di una popolazione
di 17,5 milioni (1890) erano circa 700.000, vale a dire circa il 4,5%, una percentuale che saliva
vertiginosamente tra la popolazione dei centri urbani, se si considera che a Budapest nel 1890 era
del 20% e che sarebbe ulteriormente salita successivamente, tanto che la città veniva chiamata
ridosso della Guerra mondiale Judapest: a questo contribuiva ampiamente anche il livello culturale
della popolazione ebraica ungherese, visto che gli studenti ebrei a Budapest costituivano il 50%
degli studenti della città. E l’impegno negli studi degli ebrei ungheresi costituiva altresì un segno
del process0 di assimilazione della comunità ebraica alla maggioranza della popolazione, visto che
non si trattava di studenti di scuole rabbiniche, bensì di istituzioni statali laiche ungheresi. Un
fenomeno ben riscontrabile anche in Italia.
Ma i casi italiano e ungherese non furono la norma soprattutto nell’Europa orientale dove la marcia
verso lo stato-nazione avvenne attraverso una difficile costruzione dell’identità nazionale e, spesso,
con un’esclusione dell’altro da sé.
Un caso emblematico è quello dei principati danubiani, soggetti piuttosto formalmente nel XIX
secolo al Sultano, divenuti successivamente principato di Romania, che nel 1878 raggiunse la piena
indipendenza e la denominazione di “regno”. Secondo recenti studi il numero degli ebrei nelle terre
dei principati era fortemente aumentato tra la fine del secolo XVIII e la prima metà del XIX: la
politica dei principi aveva inizialmente favorito l’immigrazione per incrementare le entrate fiscali,
ma successivamente si era aggiunta anche l’immigrazione clandestina di ebrei che fuggivano le
misure discriminatorie assunte nella Russia. Si trattava di ebrei askenaziti che di norma parlavano
yiddish. In Moldavia nel giro di tre decenni, tra il 1831 e il 1860, la percentuale degli ebrei sul
totale della popolazione passò dal 3% all’8,53% (124.867 ebrei su 1.463.927 abitanti); si deve
aggiungere che la percentuale di ebrei sulla popolazione urbana saliva al 20,45% e che il numero
dei mercanti e degli artigiani ebrei eguagliava quello dei cristiani 50. Era dunque piuttosto difficile
che questa alquanto recente immigrazione si facesse carico dei sentimenti nazionali allora presenti
in una ristretta élite romena e d’altra parte era altrettanto difficile che i sostenitori dell’idea
nazionale romena, già impegnati nella definizione di sé nei confronti di altri gruppi etnici presenti

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nei confini dei principati (greci, rom, turco-tatari ecc.)51 fosse particolarmente ben disposta verso la
minoranza ebraica.
Quando il principato di Romania ottenne dunque una piena autonomia da Istanbul si pose il
problema di come trattare questo corpo “estraneo” alla nazione romena: è sintomatico che nel 1864
si concedesse agli ebrei di partecipare alle elezioni locali “laddove facessero mostra di sentimenti e
costumi romeni”52. Chi doveva valutare questa conformità?
La presenza egemone ebraica nel settore del commercio e dell’artigianato venne vista come una
minaccia dai giovani ceti imprenditoriali romeni: ne risultò che proprio il partito liberale di Jon C.
Brătianu, rappresentante di quegli interessi, si opponesse alla concessione della piena cittadinanza
agli ebrei della Romania, con il plauso di molti intellettuali, preda di un nazionalismo xenofobo, ma
non di un conservatore come Petru Carp53: una situazione per certi versi paradossale vista con gli
occhi dei liberali italiani, ungheresi o dell’Europa occidentale. La cultura e buona parte della società
in Romania avvertì ancor più l’estraneità alla nazione romena degli ebrei, che pure contribuivano
con la loro attività allo sviluppo del paese, quando le grandi potenze, sotto la spinta dell’Alleanza
Israelita Universale, cercarono di imporre al regno di Romania nel Congresso di Berlino la piena
cittadinanza degli ebrei.
La legislazione contro l’equiparazione degli ebrei fu rimossa lentamente e solo dopo la I guerra
mondiale gli ebrei ebbero pieni diritti e l’accesso libero a tutte le facoltà universitarie con la
costituzione del 1923. Il perdurare di questo clima ostile da parte delle forze politiche e di larga
parte della cultura romena di origine cristiana favorì tra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX da
un lato una forte emigrazione ebraica verso l’Europa occidentale e gli Stati Uniti d’America (tra la
fine del XIX secolo e lo scoppio della I guerra mondiale circa 90.000 individui e cioè circa un terzo
della comunità ebraica romena lasciò il paese)54, dall’altro la scelta sionista di parte della comunità
ebraica romena. Si aggiunga poi che tra le due guerre mondiali la costituzione liberale del 1923 fu
vista molto negativamente da una larga parte della cultura romena: intellettuali come Nae Ionescu,
Mircea Eliade ed Emil Cioran guardarono con simpatia al movimento legionario antisemita di
Codreanu55 e non deve quindi sorprendere che il minuscolo partito comunista romeno inizialmente
fosse costituito in larga parte da membri appartenenti alla minoranza ebraica.
Il parziale e tardo inserimento degli ebrei nella realtà nazionale romena (pagato tra l’altro
duramente nella Shoah) non è affatto isolato nella realtà del sud-est europeo ottomano e post-
ottomano, anche se non ha assunto toni così evidenti e continuati quanto quelli registrati in Romania
dalla fondazione dello stato nazionale fino agli anni della dittatura comunista di Ceasescu.
Il ruolo che la Chiesa ortodossa giocò nella formazione delle identità nazionali del sud-est europeo
emergenti dalla dissoluzione dell’Impero ottomano contribuì a caratterizzare queste ultime con il

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suo antisemitismo: gli ebrei, in maggioranza sefarditi, trovarono quindi difficile identificarsi con le
aspirazioni e le realizzazioni dei nuovi stati-nazione. Ai primi passi del principato autonomo di
Serbia il governo di Alessandro Karageorgević a metà del secolo introduceva una serie di
provvedimenti antisemiti: la proprietà immobiliare fu vietata agli ebrei in tutta la Serbia, tranne che
a Belgrado, gli ebrei furono cacciati dalle campagne, a loro vennero limitati i diritti civili e questa
limitazione venne mantenuta nella costituzione che gli Obrenović concessero nel 1869. La completa
parità di diritti civili fu raggiunta dagli ebrei solo dopo la I guerra mondiale con la nascita del
Regno dei Serbi Croati e Sloveni, ma ad essi non fu di fatto aperta la porta né dell’alta
amministrazione dello stato, né della politica 56. Non può dunque meravigliare il fatto che proprio
nei dintorni di Belgrado, dove esisteva un’importante comunità ebraica sefardita, abbia operato uno
dei precursori del movimento nazionale ebraico, il rabbino Yedudah Alkalai (1798-1878)
sostenitore del ritorno degli ebrei alla terra di origine, Erez Yisrael57.
In Bulgaria la comunità ebraica non era numerosa, rappresentando meno dell’1% del totale della
popolazione del principato (poi regno dopo il 1908), ed era prevalentemente urbana58. Durante il
periodo risorgimentale solo alcuni esponenti democratici, come Vasil Levski, che pensavano alla
lotta nazionale in termine di libertà per tutti, riuscirono a trovare una limitata udienza presso
qualche famiglia ebraica. La norma però apparve essere quella di una polemica verso gli ebrei
improntata al disprezzo quale quella condotta da altri esponenti del Risorgimento bulgaro, quali
Ljuben Karavelov59. Di lingua ladina (= ebraico-spagnolo) gli ebrei della Bulgaria furono
lentamente bulgarizzati linguisticamente: ancora nel 1926 però quasi il 90% degli ebrei bulgari
dichiarava quale lingua madre l’ebraico-spagnolo. Questo non significava che non conoscessero il
bulgaro, grazie alla frequenza nelle scuole statali, ma anche in Bulgaria, come nel vicino regno
jugoslavo, l’accesso ai vertici dell’amministrazione, dell’esercito e della politica rimase di fatto
precluso agli ebrei, né gli ebrei ebbero un peso rilevante tra gli imprenditori o nel settore
finanziario60. Anche in questo caso dunque non deve meravigliare che la piccola comunità ebraica si
sia “caratterizzata da un formidabile sviluppo del sionismo”61.
Se gli ebrei della Bulgaria non manifestarono particolare impegno per la causa nazionale bulgara,
oggetto com’erano di diffidenza da parte dell’élite risorgimentale locale, non diverso fu il
comportamento della comunità ebraica sefardita di Salonicco verso la causa nazionale greca: la
città, che costituiva uno dei centri portuali e commerciali più importanti del Mediterraneo orientale
e uno dei centri politici e culturali dell’Impero ottomano più vivaci, aveva una popolazione mista di
greci, turchi, bulgari ed ebrei, costituendo questi ultimi la maggioranza relativa (61.439 su 157.889
abitanti)62. Gli ebrei erano stati oggetto costantemente dell’antisemitismo greco di impronta
religiosa (molte le accuse greche di assassini rituali), avevano come concorrenti commerciali nel

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Mediterraneo i greci, temevano che Salonicco da porto balcanico dell’Impero ottomano scadesse a
uno dei porti della Grecia, avevano una naturale formazione cosmopolita: da qui l’ostilità al
nazionalismo greco che accomunava la grande borghesia ebraica, il movimento sionista e i socialisti
ebrei di Salonicco. A questa ostilità lo stato greco cercò di ovviare con una legislazione che
garantiva la piena emancipazione degli ebrei e al tempo stesso il mantenimento dei costumi della
comunità, ma questo non toglie che in seguito eventi naturali (il grande incendio del 1917) e
decisioni politiche portassero ad una forte ellenizzazione della città, paventata fin dall’inizio dalla
comunità ebraica63.
L’Haśkalah comparve relativamente tardi nei territori dell’Impero ottomano e ne furono esponenti
di spicco Yuda Néhama (1825-1899) di Salonicco, Baruk ben Izhak Mitrani di Adrianopoli (Edirne)
(1847-1919) sefarditi o Yosef Halevy di Salonicco (1827-1917) askenazita per non parlare di tanti
altri. Anche nel sud-est europeo gi esponenti dell’Haśkalah si fecero promotori di un’educazione
moderna, di un impegno per la vita attiva e produttiva, incontrando le resistenze degli ambienti
religiosi più conservatori. A differenza però che nell’Europa centro-occidentale qui i maśkilìm non
pinsero all’assimilazione né verso la realtà ottomana, né verso i nuovi movimenti nazionali: fu
favorito, ad esempio, lo studio dell’ebraico inteso come strumento per rafforzare l’identità delle
comunità64. Se si tiene conto del contesto culturale e politico in cui gli ebrei vivevano ciò appare
comprensibile.
Dal canto suo l’Alleanza Israelita Universale, impegnata a proteggere i diritti delle comunità
ebraiche, a partire dalla metà del secolo XIX svolse un’attiva opera di educazione nelle terre
dell’Impero ottomano, favorendo la diffusione della lingua e della cultura francese, abbinata ad una
difesa dei diritti delle comunità ebraiche: questo contribuì a sua volta da un lato alla
modernizzazione delle comunità israelite, dall’altro al cosmopolitismo delle stesse. In entrambi i
casi non venne sostenuta l’identificazione degli ebrei con le maggioranze linguistiche e culturali
presenti nei diversi stati-nazione.

Gli ebrei di fronte al Risorgimento polacco e al nazionalismo grande-russo


Con le spartizioni della Polonia alla fine del XVIII secolo l’Impero russo aveva ereditato metà della
popolazione ebraica europea. Si trattava di una popolazione ebraica askenazita affatto integrata
nello stato precedente, chiusa nelle sue comunità, residente in miseri borghi separati dalle città
cristiane, gli shtetl, guidata da rabbini fedeli interpreti del Talmud, pervasa in larga parte da correnti
mistiche quali quelle del chassidismo, che proprio in Ucraina e Podolia era nato e si era sviluppato.
La lingua di questi ebrei era l’ebraico-tedesco, lo yiddish, e questo accentuava la loro estraneità alle
popolazioni tra le quali vivevano, polacchi, ucraini, lituani, così come alle nuove autorità russe.

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Oggetto di persecuzioni popolari, diversamente motivate, nel passato polacco non avevano di che
godere della nuova amministrazione: forse per questo alcuni di loro accettarono anche di sostenere
l’insurrezione nazionale polacca di Kosciuszko nel 179565.
Gli ebrei russi in genere rimanevano estranei ai movimenti politici contemporanei, timorosi dei
tentativi di integrazione perseguiti agli inizi dell’Ottocento da Paolo I e, successivamente, da
Alessandro I, che prevedeva una redistribuzione forzata degli ebrei su tutto il territorio
dell’Impero66: la scelta successiva di Alessandro I di appellarsi ai suoi sudditi tutti, prescindendo dal
credo religioso, per difendere la Russia dall’invasione napoleonica spinse la maggioranza degli
ebrei russi a fianco dello zar67. Il sostegno alla difesa della Russia non portò vantaggi agli ebrei, che,
dopo un iniziale riconoscimento da parte dello zar, furono oggetto di una politica di russificazione
che consisteva in primo luogo nella loro cristianizzazione forzata e nell’imposizione dello studio del
russo. Questa politica, intrapresa già negli ultimi anni del regno di Alessandro I, fu perseguita con
particolare accanimento dal suo successore Nicola I.
Per i primi sostenitori russi dell’Haśkalah, tra i quali spicca Isaac Bar Levinsohn (1788-1860), che
fu definito il Mosè Mendelssohn russo, una delle ragioni della miseria e delle sofferenze della
popolazione ebraica era dovuta alla sua chiusura alla modernità: non c’era contraddizione tra il
pensiero contemporaneo e i valori della tradizione ebraica, la cultura russa non doveva essere
respinta nella sua totalità. Era un invito ad assimilarsi alla maggioranza russa, difendendo il
patrimonio più autentico della tradizione ebraica e una scelta del genere ottenne un certo ascolto,
quando sul trono salì Alessandro II con la sua politica liberaleggiante.
A metà dell’Ottocento dunque una parte consistente della borghesia ebraica della Russia e degli
antichi territori della Polonia si dimostrò pronta ad accogliere le sollecitazioni dei maśkilim alla
modernizzazione e all’assimilazione alla società russa: in questo atteggiamento non c’era molto
spazio per l’ascolto delle sirene del nazionalismo polacco, che continuava a contraddistinguersi per
il suo antisemitismo.
La diffusione delle idee dell’Haśkalah a livello popolare fu però duramente ostacolata dai
sostenitori della tradizione: talmudisti e chassidim non solo diffidavano delle aperture alla cultura
contemporanea, ma anche della reale buona volontà dei gruppi dirigenti russi di accogliere
pienamente nel suo seno gli ebrei. Per superare questa opposizione alcuni maśkilim rinunciarono a
combattere la differenza linguistica tra ebrei e russi e si adattarono a sostenere lo yiddish, pur di
diffondere le loro idee tra la popolazione: questa scelta ebbe una felice conseguenza, poiché favorì
lo sviluppo di una cultura originale, quella della yiddishkeit68, che contribuì ulteriormente ad una
definizione di una comunità nazionale, a prescindere dall’appartenenza religiosa. La cultura della
yiddishkeit sarebbe stata troncata tragicamente dalla Shoah.

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L’assassinio di Alessandro II nel 1881 pose fine alle illusioni che fosse possibile l’emancipazione in
Russia degli ebrei e che valesse la pena di perseguire l’assimilazione alla società russa: un’ondata di
pogrom si abbatté sugli ebrei, da Odessa a Kiev, da Bialystok a Vilna. Con Alessandro III venne
inaugurata una pesante politica antisemita che cercò un demagogico sostegno a livello popolare.
Gli ebrei non potevano riporre le loro speranze nelle debolissime forze liberali russe, né avere
fiducia nello xenofobo nazionalismo polacco (o, peggio ancora, ucraino). La prima strada che si
aprì loro di fronte fu quella dell’emigrazione: si calcola che tra il 1881 e il 1914 furono circa due
milioni gli ebrei che lasciarono la Russia per l’Occidente, soprattutto verso i paesi anglosassoni 69.
La seconda strada fu quella dell’impegno per cambiare radicalmente una società che produceva
emarginazione non solo degli ebrei e di tante altre minoranze etniche, ma anche di operai e
contadini: nacque così l’organizzazione socialista ebraica del Bund70, e, seppure in minor numero,
altri ebrei scelsero di militare nel partito socialdemocratico.
Prepotentemente si fece strada una terza opzione: visto che così difficile era essere accettati nella
società russa come, in genere, in quelle di tutta l’Europa orientale e visto che anche in alcune
società dell’Europa centrale e occidentale, dove si era raggiunta la piena emancipazione, non
mancavano rigurgiti di antisemitismo, perché non impegnarsi a sviluppare una distinta coscienza
nazionale ebraica e puntare ad un proprio stato-nazione così come avevano fatto italiani, tedeschi,
greci, bulgari o romeni e così come stavano tentando di fare polacchi, cechi o armeni? Era la scelta
sionista. I suoi precorritori più illustri inizialmente provenivano in genere dall’Europa centrale,
come Moses Hess (1812-1875) di Bonn, che dal successo del Risorgimento italiano trasse spunto
per auspicare con l’opera Roma e Gerusalemme (1862) la nascita di uno stato nazionale ebraico;
altri coltivarono in modi diversi le idee di Hess e sempre più frequentemente erano intellettuali
ebrei che abitavano o erano originari delle regioni orientali dell’Europa, da Zvi Hirsch Kalischer
(1795-1874), originario della Polonia, a Eliezer Ben Yehudah (1858-1922), nato in Lituania, da
Moses Lev Lilienblum (1843-1910) di Odessa a Perez Smolenskin (1840-1885), originario dell’Est
europeo, ma che operò a Vienna71.
Il confuso sentimento dell’impossibilità di perseguire una piena emancipazione in Europa orientale
unito alla delusione per lo sviluppo di nuove forme di antisemitismo spinse una parte degli
intellettuali ebrei a rifiutare come utopistica l’assimilazione alle nazioni all’interno delle quali gli
ebrei vivevano: la nazione si andava rivelando sempre più non come una comunità di cittadini, a
prescindere dal loro culto, dalla loro lingua, dalle loro tradizioni, ma come una comunità culturale
che non tollerava il diverso da sé. Su questa base doveva fondarsi anche la nazione ebraica; su
questa base doveva nascere anche uno stato-nazione ebraico. I suoi profeti furono Theodor Herzl
(1860-1904)72 e Max Nordau (1849-1923), entrambi originari di Budapest, ma che operarono tra

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Vienna, Parigi e Berlino. Con loro nacque il movimento politico sionista che partì con il congresso
di Basilea (1897) e che ebbe fin dall’inizio successo soprattutto in Russia e nell’Europa orientale.
Là non sembrava esserci spazio per un contributo degli ebrei al nation-building che non fosse quello
di perseguire una propria distinta nazione con un proprio distinto stato. Gli avvenimenti del XX
secolo erano destinati a dimostrare che quella triste verità doveva trovare tragiche conferme anche
nel resto dell’Europa continentale.

20
1
Frankel, Jonathan, Gli ebrei russi. Tra socialismo e nazionalismo (1862-1917), Einaudi, Torino, pp. 3-4
2
Calimani, Riccardo, Storia dell’ebreo errante. Dalla distruzione del tempio di Gerusalemme al Novecento, Mondadori,
Milano, 2002, p. 338
3
Ibidem, p. 339
4
Ibidem, p. 340
5
Ibidem, pp. 346-348
6
Tagliacozzo, Franca – Migliau, Bice, Gli ebrei nella storia e nella società contemporanea. La Nuova Italia, Firenze,
1993, pp. 74-75
7
Benbassa, Esther e Rodrigue, Aron, Storia degli ebrei sefarditi. Da Toledo a Salonicco, Einaudi, Torino, 2004 [originale
Histoire des Juifs sépharades. De Tolède à Salonique, Benbassa E. et Rodrigue A., Paris, 2002], p. 149
8
Frankel, Gli ebrei russi, p.4
9
Calimani, Storia dell’ebreo errante, p. 342
10
Ibidem, p. 343
11
Horel Catherine, Les Juifs de Hongrie (1783-1919) [Manoscritto utilizzato per gentile concessione dell’autrice]
12
Tagliacozzo–Migliau, Gli ebrei nella storia, pp. 22-23; Calimani, Storia dell’ebreo errante, pp. 357-360
13
Tagliacozzo–Migliau, Gli ebrei nella storia, p. 23; Calimani, Storia dell’ebreo errante, pp. 349-350
14
Tagliacozzo–Migliau, Gli ebrei nella storia, p. 23
15
Calimani, Storia dell’ebreo errante, p. 361
16
Ibidem, pp. 362-364
17
Valensi Lucette e Wachtel Nathan, Memorie ebraiche, Torino, Einaudi, 1996, p. 275
18
Tagliacozzo–Migliau, Gli ebrei nella storia, pp. 42-43
19
Mosse George, Gli ebrei e il nazionalismo, “Nuova Antologia”, gennaio-marzo 1992, Fasc. 2181, p. 63
20
Calimani, Storia dell’ebreo errante, pp. 382-386; sulle ripercussioni in Ungheria delle riforme religiose in seno alla
comunità ebraica si veda Horel Catherine, Orthodoxes et Néologues : le Congrès des Juifs de Hongrie et la scission de la
communauté, 1868-1869,"Etudes Danubiennes", X/1, Strasbourg 1994 pp.25-42

21
Tagliacozzo –Migliau, Gli ebrei nella storia, pp. 46-47
22
Mosse, Gli ebrei e il nazionalismo, p. 65
23
Frankel, Gli ebrei russi, p. 45
24
Macartney C.A., L’impero degli Asburgo ((1790-1918), Garzanti, Milano, 1976, pp. 720 e 741
25
Horel Catherine, La communauté juive en République Tchèque, ”Transitions et société”, Magna Europa 2003, pp.63-75
26
Fejtő François, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano, 1990, p. 155
27
Per un quadro generale del rapporto intercorrente tra ebrei e società ungherese, tra ebrei e liberali e sul processo di
assimilazione degli ebrei alla nazione ungherese si veda Horel Catherine, - Juifs de Hongrie 1825-1849, problèmes
d'assimilation et d'émancipation, Revue d'Europe Centrale, Strasbourg, Centre d'Etudes Germaniques, 1995 pp. 263
28
Horel Catherine, Les Juifs dans l'armée hongroise pendant la guerre d'indépendance de 1848-1849, "Etudes
Danubiennes", VIII/2, Strasbourg 1992, pp.117-132
29
Macartney C.A., L’impero degli Asburgo ((1790-1918), p. 425
30
Ibidem, pp. 819-820
31
Horel Catherine, La communauté juive de Slovaquie, “Transitions et sociétés”, Magna Europa 5, 2003, pp.49-62
32
Fejtő, Requiem per un impero defunto, p. 155
33
Gieysztor Aleksander, Storia della Polonia, Bompiani, Milano, 1983, p. 471
34
Salvadori Roberto, Gli ebrei toscani nell’età della Restaurazione (1814-1848), Centro Editoriale Toscano, Firenze,
1993, pp. 153-163
35
Ibidem, p. 153
36
Tagliacozzo –Migliau, Gli ebrei nella storia, p. 53
37
Ibidem, p. 57
38
Calimani, Storia dell’ebreo errante, p. 397
39
Ibidem, pp. 397-401
40
Tagliacozzo –Migliau, Gli ebrei nella storia, pp. 58-59
41
Candeloro Giorgio, Storia dell’Italia moderna. III. La rivoluzione nazionale, Feltrinelli, Milano, 1960, p. 163
42
Tagliacozzo –Migliau, Gli ebrei nella storia, p. 60
43
Ibidem
44
Candeloro, Storia dell’Italia moderna. III., p. 468
45
Tagliacozzo –Migliau, Gli ebrei nella storia, p. 61
46
Tamborra Angelo, Garibaldi e l’Europa, Jovane, Salerno, 1961, p. 20
47
Ibidem, p. 9
48
Ibidem, p. 21
49
Carocci, Giampiero, Storia degli ebrei in Italia. Dall’emancipazione a oggi, Newton & Compton editori, Roma, 2005,
pp. 24-25
50
Ivănescu Dumitru, Evreii din oraşele şi tȃrgurile moldovei ȋn prima jumătate a secolului al XIX-lea, in Achim Venera
– Achim Viorel (a cura di), Minoritătile etnice ȋn Romȃnia ȋn secolului al XIX-lea, Editura Academiei Romȃne, Bucureşti,
2010, p. 52
51
Vedi i diversi saggi raccolti in Achim Venera – Achim Viorel (a cura di), Minoritătile etnice ȋn Romȃnia ȋn secolului al
XIX-lea, Editura Academiei Romȃne, Bucureşti, 2010
52
Vitcu Dumitru, “Chestiunea evreiască” – instrument de presiune diplomatică asupra Romȃniei la sfărşitul secolului al
XIX-lea, in Achim V. – Achim V., Minoritătile etnice ȋn Romȃnia, p. 230
53
Müller Dietmar, Cetățenie şi națiune 1878-1882. Evreii ca alteritate ȋn dezbaterea cu privire la articolul 7 din
constituție, in in Achim V. – Achim V., Minoritătile etnice ȋn Romȃnia, p. 209
54
Vele Ana-Maria, Perspectiva emigrării evreilor după congresul de la Berlin (1878), in Achim V. – Achim V.,
Minoritătile etnice ȋn Romȃnia, p.275
55
Cfr. Pitassio Armando, Ortodossia e identità romena nel nazionalismo interbellico e L’irrazionalismo filosofico e il
nazionalismo rumeno: il caso di Nae Ionescu, in Pitassio Armando ( a cura di), L’intreccio perverso. Costruzione di
identità nazionali e nazionalismi xenofobi nell’Europa Sud-orientale, Perugia, Morlacchi, 2001, pp. 71-113 e 115-143
56
Benbassa, Esther e Rodrigue, Aron, Storia degli ebrei sefarditi. Da Toledo a Salonicco, Einaudi, Torino, 2004
[originale Histoire des Juifs sépharades. De Tolède à Salonique, Esther Benbassa et Aron Rodrigue, Paris, 2002], pp. 169-
170
Greilsammer, Ilan, Il sionismo, il Mulino, Bologna, 2007 [originale Le sionisme, Paris, Presses Universitaires de France,
2005], pp. 15-16
57

58
Benbassa- Rodrigue, Storia degli ebrei sefarditi, p. 174
59
Paunovski Vladimir, The World Zionist Organization and the Zionists in Bulgaria Accordling to Newly-Discovered
Documents, in “Études balkaniques – Balkan Studies”, 1997, 1-2, pp. 58-83
60
Benbassa- Rodrigue, Storia degli ebrei sefarditi, p. 175-176

61
Benbassa- Rodrigue, Storia degli ebrei sefarditi, p. 173
62
Ibidem, p. 177
63
Ibidem, pp. 177-181
64
Ibidem, pp. 195-196
65
Weiner Rebecca, The VirtualJewish History Tour. Poland, http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/vjw/Poland.html
66
Calimani, Storia dell’ebreo errante, p. 423
67
Ivi
68
Valensi Lucette e Wachtel Nathan, Memorie ebraiche, Torino, Einaudi, 1996, p. 127
69
Calimani, Storia dell’ebreo errante, p. 428
70
Tagliacozzo –Migliau, Gli ebrei nella storia, pp.102-106
71
Due brevi ed efficaci sintesi recenti su origini, nascita e sviluppo del sionismo sono il citato Greilsammer, Il sionismo e
Brenner Michael, Breve storia del sionismo, Laterza, Bari, 2003
72
Ampia è la letteratura sul padre del sionismo politico: mi limito a ricordare due opere uscite recentemente in Italia, quella
di Hagani Baruch, Vita di Teodoro Herzl, Talete, Roma, 2008 e Compagna Luigi, Theodor Herzl. Il Mazzini d’Israele,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010

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