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L’arte di fra-intendere e la svolta cromatica in

antropologia
(pubblicato in La intraducibilità del Mondo, ed. S. Rota, Ombre Corte 2020)

Fabrice Olivier Dubosc

Cosa accomuna il vulcanico decano dell’antropologia anarchico-


simbolica Roy Wagner scomparso recentemente a ottant’anni, e
l’eclettico “profeta rivolto all’indietro”, lo schivo filosofo della storia,
militante e teorico culturale Walter Benjamin, che si suicidò a Port Bou
a cinquantadue anni dopo aver tentato inutilmente di varcare un
confine piuttosto che rischiare di cadere in mano ai nazisti?
Roy Wagner è stato un geniale provocatore, che ha amplificato con
rigore antropologico la dialettica tra nagual e tonal (e tra figura e
sfondo) di cui aveva parlato Carlos Castaneda, e che non riusciva a
non far sfoggio della sua acutissima intelligenza. E’ stato autore di
pietre miliari (conosciute purtroppo solo dagli addetti ai lavori) come
‘L’invenzione della cultura’ (1975) e lo splendido Coyote Anthropology
(2010) in cui le sue notazioni etno-epistemologiche su come nascono i
‘simboli che si reggono da sé’ vengono illuminate da autoironici
sonetti sulla propria vita affettiva.

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Di Walter Benjamin che dire? - uno dei pensatori più profondi,
visionari e ‘precari’ del Novecento che – tra mille altre cose -
immaginò una “dialettica immobile”, frutto di fulminea
rammemorazione, come fulcro di un appuntamento improrogabile con
i rimossi emergenti nella storia.
Proverò a dimostrare che le loro considerazioni sulla traduzione
aprono un fertile campo di incontro transdisciplinare.
L’intuizione filosofica di Benjamin sulla natura delle lingue viene
supportata dalle notazioni sul malinteso e sull’interpretazione di
Wagner e alludono sincronicamente a una prospettiva completamente
diversa su come considerare l’oggetto in divenire del conoscere. Non
più il pensare come matrice della coscienza e del dubbio, ma l’essere
come matrice di una pluralità possibile di forme del pensiero-sentire
(da “penso dunque dubito di essere” a “sono dunque posso pensare”).
E’ ciò che oggi molti antropologi (e non solo) definiscono ontological
turn: i mondi diversi che abitiamo non sono solo fragili, immaginarie
costruzioni‘culturali’ ma forme di resistenza nel loro diverso
significare.
La tesi che si sostiene è che l’incontro con un testo originario, con una
‘cultura’ altra, come con altre forme di ‘differenza’ - proprio a partire
dalla loro opacità o intraducibilità – finisce per generare una
rifrazione cromatica nella quale l’idea stessa di ciò che è originale, o
universale o ‘proprio’ si modifica.
Come non iniziare allora dal cruciale saggio di Benjamin sul compito
del traduttore (1920/2007)? Scrigno di quella dialettica che ci

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permette di intuire la ricchezza dinamica del confronto con ciò che
non si piega ad alcuna riduzione.
Inizierei da questa notazione: “chi traduce deve spingersi indietro fino
agli elementi ultimi della lingua, dove parola, immagine e suono si
fondono. Attraverso la lingua straniera deve allargare e approfondire
la propria.” (Benjamin 2007, p.19)
Ritrovo la medesima tensione quando sento Chandra Livia Candriani
parlare dei suoi seminari di poesia nelle scuole disastrate
dell’hinterland milanese o con i bimbi Rom (Candiani, Cirolla 2015).
Chandra racconta che non offre facili scorciatoie, legge per esempio ai
bambini ‘io sono il miele dell’invisibile’ di Rilke senza nessun
commento in classi dove la maggior parte non riesce a scrivere e poco
a star fermo. I risultati – dice – non contano molto ma spesso sono
splendenti.
Benjamin lo diceva molto bene quando sottolineava che la poesia non
è comunicazione1, chi poeta non ha in mente il fruitore ma il proprio
rapporto essenziale con ciò che è umano.
Anche la traduzione, se ridotta a facilitazione comunicativa ridurrebbe
il testo al girotondo dei significanti e perderebbe l’essenziale: la
tensione verso l’intraducibilità del modo di sentire. Perché “la fedeltà
di traduzione della singola parola non restituisce quasi mai
interamente il senso che essa ha nell’originale.” (Benjamin ibid. p.19)
1
Deleuze e Guattari, in Che cos’ è la filosofia (1991), parlando della vergogna che provavano
di fronte alla volgarità della comunicazione come di una sorta di fascismo interno alla
democrazia scrissero: “non ci manca certo la comunicazione anzi ne abbiamo troppa ci manca
la creazione, ci manca la resistenza al presente” Quali strumenti ci servono per resistere al
presente nel presente?

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E’ il non dicibile di un altra lingua che rimanda poi – nell’impossibilità
di traduzione che essa comporta – a quel paradossale ideale
benjaminiano di traduzione che nasce dall’interlinearità , dagli spazi
vuoti, dai silenzi tra le parole.
Intendere è importante (se non capisco più che ‘pane’ significa pane
sono nei guai) ma lo è ancor di più lo spazio del ‘fra’, l’idea di un
inevitabile, vitale fra-intendimento, che però non cancella il senso ma
lo nutre sottraendosi alla normatività circolare dei significanti e
aprendo diversamente alla comprensione.
Benjamin distingue molto chiaramente ciò che si intende dire
(registro dell’intenzionalità ) dal modo di intendere (registro della
sensibilità linguistica): “in brot e pain si intende la medesima cosa ma
il modo di intenderlo è diverso...non intercambiabile, non traducibile,
parte del mistero della qualità espressiva di una lingua/cultura.”
(Benjamin ibid, p.11)
La tonalità affettiva che è parte del senso si perde quando si fa della
fedeltà l’architrave della traduzione. Come se già avessimo le ‘parole
per dirlo’ – il processo di generazione del senso è invece assai più
graduale e arduo, richiede dal traduttore quella tensione che per
Benjamin è comunque e sempre, nelle varie fasi del suo pensare, una
sorta di tiqqun, di redenzione del frammento nel rispetto della sua
stessa frammentazione.
Riconoscendo la propria parzialissima monocompetenza linguistica,
riconoscendo a quali modi del sentire essa consente l’accesso, si può
però coltivare l’attenzione ad altri modi di intendere che - senza

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nessun amalgama o sovrapposizione - permettano nel contatto una
possibile ricomposizione dei diversi frammenti (delle diverse lingue).
E’ insomma una questione innanzi tutto di sensibilità .

Il pensiero dominante di integrare le molte lingue in una sola, quella vera, colma,
il lavoro del traduttore. (...) Come per ricomporre i frammenti di un vaso questi
devono combaciare nei minimi particolari, pur senza assomigliarsi, così, invece
di conformarsi al senso dell’originale, la traduzione deve amorevolmente
ricostruirsi all’interno dei dettagli dei modi di significare della propria lingua al
fine di rendere riconoscibile – come frammenti di uno stesso vaso – un
frammento di una lingua più ampia (Benjamin, ibid. p. 13,14)

La traduzione è dunque un atto di creazione di una sensibilità inedita


nel dire, un accesso parziale e intuitivo al sentire di parole altre e non
mera comunicazione. Essa rispetta la forma di qualcosa che non
essendo traducibile non può essere simmetrico. La traduzione è una
forma letteraria propria, un atto di riparazione dell’infranto
(dell’indicibile?), ma riparazione non signfica riduzione, assimilazione.
Per questo Benjamin parla della traduzione come di un “rapporto di
vita”.
Da questo punto di vista la traduzione segnala una durata trans-
generazionale che estende la durata di un’opera. Il senso di un’opera si
rivela sempre après coup, dopo, nella testimonianza vitale che la
tensione a tradurre conferisce all’aspirazione essenziale di
testimoniare l’umano che la genera.

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La qualità di ciò che nell’opera perdura non può rivelarsi se non a
partire dal suo divenire, di traduzione in traduzione, nel mutare dei
tempi, delle categorie, delle lingue. Se l’essenza di un’opera ha a che
fare con l’umano, nell’opera esiste una tensione verso ciò che essa può
esprimere qualcosa di sé solo nel tempo, nella storia delle sue
traduzioni.
A questo punto Benjamin aggiunge una riflessione esoterica dicendo
che «la traduzione tende a esprimere il rapporto più intimo tra le
lingue, che resta tuttavia segreto». (Benjamin, ibid, p.9) Nella diversità
delle lingue, nella loro pluralità esiste una tensione all’universale del
poter dire. Ma la parentela non sta nella somiglianza ma
nell’aspirazione a cogliere in quell’ altro poter dire, insieme
all’intenzione di dire, il gusto dell’altro e la generatività che deriva
dalla mancanza di parole corrispondenti a quella sfumatura del
sentire..
Qui Benjamin opera un capovolgimento perché sposta la questione
dell’originale al divenire: nella sopravvivenza di un testo grazie alle
sue traduzioni l’originale si arricchisce, diventa, si esprime e dispiega
nel divenire. L’Alfa non ha senso se non procede verso una sua più
ampia inclusiva ricapitolazione nell’Omega di tutte le lingue.
“Si può dimostrare che non sarebbe possibile alcuna traduzione che
mirasse alla somiglianza all’originale come sua essenza ultima. Infatti,
nella sopravvivenza, che non si chiamerebbe così se non fosse
mutamento e rinnovamento del vivente, muta anche l’originale”.
(Benjamin cit., p.10)

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L’originale è ciò che risulta dalla sua creatio e rigenerazione continua
– un processo analogo a ciò che che Roy Wagner chiamava
l’invenzione della cultura e che non è questione di ‘soggettività
mutanti’ ma della natura della lingua, della parola e del pensiero.
Maurice Blanchot in un articolo pubblicato nella N.R.F. nel 1969
commenta il saggio di Benjamin riprendendo la bozza di riflessione
compiuta in un memorandum di preparazione della Revue
Internationale, che faceva appunto della traduzione il perno attorno al
quale ruotava il contributo di autori provenienti da diversi Paesi.

Il traduttore è il maestro segreto della differenza linguistica, ma non per abolire


la differenza tra le lingue, piuttosto per utilizzarla al fine di risvegliare, nella sua,
con i cambiamenti che vi reca, la presenza di ciò che si presenta nel modo della
differenza nell’opera originale. Il traduttore, uomo (sic) nostalgico, intuisce nella
mancanza della propria lingua, tutto ciò che lo scritto originario promette sotto
forma di possibili affermazioni: la competenza privativa [primatif ha duplice
accezione di privata e limitativa NdT] per esempio del francese, si arricchisce
tuttavia di questa privazione. (citato da Simona Crippa in Diakritik 2019)

Benjamin preannuncia anche la paradossale riabilitazione della


possibilità di accedere ad altri mondi senza interpretarli
etnocentricamente , una possibilità rivendicata dall’antropologia
contemporanea contro la scorciatoia del relativismo culturale.
Rispetto alla relatività di ciò che si può esprimere e intendere a partire
da un singolo momento storico, la traduzione avrebbe un orizzonte
più vasto, il seme nascosto di una lingua più alta, universale,

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inesistente, perché “ogni traduzione rappresenta le traduzioni di
un’opera in tutte le restanti lingue.” (Benjamin, ibid, p.12)

Ecco allora come Roy Wagner pone la questione dal punto di vista
dell’esperienza etnografica.
La ‘cultura’ è stata per certi versi la grande metafora dell’Occidente –
la hubris della sua volontà di potere e conquista. Anche lo studio e la
catalogazione delle culture hanno fatto parte di questa metafora e
hanno prodotto – nella prima antropologia – tentativi di traduzione –
inizialmente goffi e poi più raffinati –che già presupponevano i termini
della traduzione stessa, la lingua da usare, il senso da spiegare, i
contenuti da esporre, le coordinate della cornice esplicativa da
inventare per rimediare allo shock dell’alterità .
Qui la ‘comunicazione’ non può che appoggiarsi alla convenzione, al
modo con cui le parole vengono adoperate e riconosciute nel contesto
chi si pone come interprete dell’altro. Con il rischio molto concreto di
escludere, appunto. l’essenziale. Roy Wagner sottoscrive in sostanza
quanto dice Benjamin quando, citando le considerazioni di Rudolf
Pannwitz, scrive che “L’errore fondamentale del traducente è di
attenersi allo stato contingente della propria lingua invece di lasciarsi
potentemente commuovere dalla lingua straniera.” (Benjamin, ibid. p.
18)

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Il deposito linguistico e quello dei saperi hanno una storia e di questa
storia fa parte l’idea di cultura come coltura/produzione e come
accumulo di beni e conoscenze. Come modalità – in ultima analisi – di
difesa dal lutto, la cultura accumula saperi.
Per la prima antropologia si trattava innanzi tutto di interpretare con
le proprie categorie e poi di ‘comunicare’ ciò che veniva detto
dall’altro per arricchire il proprio deposito di saperi.
Si trattava però di una cattiva traduzione, una traduzione coloniale,
concepita nell’assimmetria del rapporto con un subalterno, una
relazione che tendeva a resistere al fra-intendimento, che invece tutto
pretendeva di intendere lasciando da parte quello scarto vitale che
amplia più autenticamente i saperi. (Troppo spesso la cosiddetta
mediazione culturale si riduce ancora a questo).
Perché un paradossale bias iniziale era secondo Roy Wagner questo:
fare dell’idea di cultura il fulcro interpretativo per gruppi umani per
cui questo concetto era del tutto estraneo. In Melanesia, per esempio,
l’equivalente omeomorfo più vicino a ‘cultura’ col suo carico di saperi
colonizzanti è stato – significativamente – il culto messianico del cargo
occidentale, carico di mitici beni.
L’economia, la bio-politica, è sempre cosmopolitica.
Tanto che ‘funzioni’ ‘coordinate sociali’ ‘strutture logiche’ sono
sovente sovrapposizioni arbitrarie rispetto al mondo di esperienza e
significazione degli ‘altri’ che ci impediscono inoltre di vedere come lo
sguardo dell’altro ci restituirebbe – mancanti – a noi stessi.

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E’ anche la pretesa di una conformità linguistica con il risultato che si
pretende che significati indigeni siano interpretabili con le nostre
categorie e parole sovente utilizzati come bisturi cognitiri per
vivisezionare ciò che in realtà fatichiamo assai a comprendere.
Il riduzionismo è in agguato ma sovente nascosto dalla hybris
interpretativa. Wagner coglie nel segno quando paragona questo
genere di riduzione interpretativa ad alcune categorie a priori alla
cornice unica che interpreta l’emergere dei logion evangelici di Joshua
di Nazareth a partire dalle differenze socio-economiche tra dominatori
romani e sudditi ebrei in Palestina.
Con queste ‘interpretazioni’ con questi significati difendiamo le
coordinate e la costellazione della nostra cultura senza un vero
confronto con i saperi degli altri.
La via d’uscita da questa impasse sarebbe secondo Wagner quella di
considerare i fenomeni linguistici come manifestazione di operazioni
semiotiche più ampie ed inclusive. Un tema che è stato ripreso da
diversi antropologi contemporanei. Per Edouardo Kohn come per
Wagner il vero simbolo si regge da sé, è iconico, costella sé stesso,
connette con il reale, non necessita di un altro significante per
significare.

Vi sono anche altri modi di pensare l’articolazione di questa tensione


verso una dimensione universale che si riflette in ogni frammento di

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realtà a patto che nel frammento stesso si concepisca il possibile, la
pluralità di fasi della sua storia, che lo si accolga – come la lingua – nel
suo divenire.
Per Simondon (1964), per esempio l’idea che l’essere preceda la
differenziazione individuale implica l’impossibilità di pensare una
‘unità ’ originaria poiché l’unità che definisce una identità è solo una
delle fasi dell’essere, una fase che fa seguito a un’operazione di
individuazione/trasformazione. Operazione del resto continua,
perché in ognuna delle sue fasi, secondo Simondon, l’essere dispiega
tutta la sua complessità sistemica, con una riserva di divenire.
Ed è questo eccesso a fare da deposito permanente alla possibilità di
trasformazione. Il passare da una fase all’altra è allora possibile grazie
un processo di trasduzione che non sarebbe possibile se l’essere
consistesse in uno stabile stato identitario/unitario. Ciò renderebbe
ogni trasformazione impossibile.
Mi piacerebbe avvicinare qui il concetto di trasduzione a quello di
traduzione in Benjamin. La sua teoria della traduzione come
restituzione di movimento al frammento originario consisterebbe in
questo: la terra promessa di ciò che è originale si declina a partire
dalla sua intraducibilità dinamica. Detto in modo più semplice: è a
partire dalla consapevolezza che non si intende allo stesso modo che
emerge la possibilità di un’ armonia dei modi di intendere.
L’idea che nell’ origine tutte le modulazioni siano potenzialmente
incluse si può allora intuire/ritrovare solo all’interno di un interazione
tra il (supposto) originale e il suo divenire.

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Ciò mi sembra si avvicini all’idea di Simondon che ogni forma
interagisca con altre forme in un processo di interdipendenza attiva o
conoscenza relazionale di tipo analogico.

*
Un filosofo contemporaneo che ripende questi temi dialogando con
l’antropologia è Patrice Maniglier, molto interessato alla svolta verso
un’antropologia ‘cromatica’ e trasformativa. L’interesse di Maniglier
(2005) deriva da una passione filosofica per il pensiero della
variabilità e della trasformazione. Un suo aforisma dice che “compito
dell’epistemologia è fare della variazione una procedura di verità ”.
L’antropologia come sistema intrinsecamente comparativo
permetterebbe allora l’accesso a un’idea inedita di trasformazione.
Come abbiamo visto l’antropologia stessa si è costituita come
dispositivo di “traduzione” – con tutti i possibili malintesi ed equivoci
che da ciò può derivare – un dispositivo che tuttavia modifica lo
statuto stesso dell’operazione antropologica e ne rivela gradualmente
i limiti interpretativi, ponendo le premesse per una traduzione
“sufficientemente buona” almeno in parte decolonizzata e
decolonizzante.
Da questo processo emerge gradualmente l’idea è che i popoli indigeni
conoscano l’arte di costruire concetti quanto noi. Si tratterebbe di ri-
concepire il ‘pensiero selvaggio’ come costruzione concettuale e come
una semiotica immaginativa e non come mero riflesso di significanti

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strutturali inconsapevolmente volti all’ omeostasi delle ‘società
fredde.’
Levi-Strauss tutto sommato o almeno inizialmente pensava che pur
risultando in una sorta di conservazione dell’equilibrio il rapporto con
l’ambiente delle società indigene era il risultato di una “struttura”
inconscia di significazione di un funzionamento più che di un ritmo del
pensiero.
Accedere invece al “pensiero selvaggio” come un diverso modo
dell’essere pensante muta non solo i nostri concetti ma lo stesso
nostro concetto di concetto. E questa nuova ecologia delle idee ha
ripercussioni importanti anche per la coscienza ecologica del nostro
triste occidente.
La dimensione mitica del pensiero indigeno porta infatti viva in sé la
possibilità dell’equilibrio ma a partire da un’idea della metamorfosi,
della trasformazione e del conflitto, in cui la diversità delle forme e
delle nature sottende una medesima “tensione a essere” che include
un essere vivi (e un doversi nutrire alle spese di altri che pure, proprio
come noi, si devono nutrire). Questo comune “esser vivi” implica la
capacità rappresentativa sufficiente per farlo e una comune finitudine.
In altre parole la possibilità dell’equilibrio deriva dal riconoscimento
delle diverse prospettive e soggettività significanti in tutto ciò che è
vivente. Forse gli altri hanno sempre significatoe solo ora invece di
negar loro parola e sentire cominciamo ad accedere a quanto voglion
dire.

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Il pluralismo è tuttavia questione complessa: vi sono più modi di
connettere cose eterogenee nella loro stessa eterogeneità .
Se l’Altro è una forma costitutiva del Sé, dice Maniglier, allora essere
significa potersi “situare in un insieme di alternative a sé stessi”.
Tale ecologia delle idee e delle relazioni presuppone che il Reale pre-
individuale, che include tutte le forme viventi, non sia sottrazione ma,
come sosteneva Simondon, eccesso, una dimensione metastabile
suscettibile di trasformazioni e individuazione, un continuum umano
comune da cui si differenziano forme naturali molto diverse in cui è
però vivo l’eco del comune.
Anche nella tradizione Qabbalistica a cui fa implicitamente riferimento
Benjamin la ‘rottura originale’ dei vasi che conteneva l’energia divina e
la conseguente operazione a partire dai frammenti originava da un
eccesso originale.
Secondo Maniglier, anche l’intrusione di Gaia di cui parlano Stengers
(2015) e Latour (2017) – Gaia non come madre buona ma come deriva
problematica – ci spinge a esplorare la crisi della modernità a partire
dalla prospettiva dell’antropologia comparativa e permette di meglio
pensare come tale intrusione, lo scontento di Gaia, faccia da ostacolo
alla narrazione evolutiva e universalista che si trova così frenata nella
sua stessa immaginazione lineare e storicista.
Gaia è inoltre un ibrido negativo – non una sorta di mitica rivolta di
una Madre Terra integra ed indignata, perché la Gaia che si ribella è
già una natura umanizzata, “trasformata”, ibridata dall’agire umano.

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Un esempio classico è come gli antibiotici abbiano contribuito a
sviluppare super-batteri resistenti contro i quali non esiste cura.
Per Latour la chiave dell’intrusione è che Gaia interrompe la
descrizione che i moderni fanno di sé, la logica che sottende a una
certa versione della ‘storia’. Non è più possibile credere a una versione
meccanicamente evolutiva della storia; anzi, saltano molte delle
partizioni con cui consideriamo uomo/mondo, cultura/natura,
economia politica/geologia. Gaia esprimerebbe dunque una sorta di
ibrido negativo – non è la natura in sé che si ribella alla tecnica, ma la
natura ‘umanizzata,’ modificata dalla tecnica che in molti casi fa
problema. Anche l’attuale enfasi sulle differenze escludenti
(identitarie, “razziali”, “culturali”) è probabilmente sintomo della sfida
e difficoltà contemporanea a pensare l’ecologia delle idee e dei mondi
e la negoziazione tra cosmopolitiche. Nelle “ecologie degli altri” il
cosmo è sempre presente, mentre nella nostra dimensione
immaginativa è prevalentemente un oggetto di speculazione
scientifica, appassionante per gli specialisti, ma prevalentemente
freddo, distante, disanimato o minaccioso per la maggior parte delle
persone.
Maniglier preferisce Gaia (con i suoi mille nomi) al termine
Antropocene – che come è noto indicherebbe il fattore cruciale
dell’impatto umano nella presente era geo-climatologica. La nozione di
Antropocene presuppone che esista qualcosa come un “Anthropos”
cioè un’umanità collettivamente responsabile – mentre solo una
piccola parte dell’umanità ha generato l’attuale impatto critico

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sull’ambiente – Alcuni dei termini coniati in alternativa a Antropocene
sono infatti Eurocene, Anglocene, Capitalocene.
Effettivamente il termine Antropocene ha un’aura coloniale perché
dire che l’Anthropos, la summa collettiva dell’umano, la specie
insomma, sia responsabile della catastrofe socio-ambientale significa
sostenere che un segmento tutto sommato esiguo della specie ne
costituisca l’essenza, in modo analogo a come nel colonialismo l’uomo
bianco e la sua ‘cultura’ si consideravano rappresentazioni per
eccellenza dell’umano. Forse l’Anthropos o la specie - come sostiene
Chakrabarty – non esiste ancora, può emergere solo da
un’antropologia comparata (e dalle negoziazioni cosmopolitiche che lo
scarto tra diverse narrazioni fondanti impone).
La domanda allora sarebbe: Chi può rispondere a Gaia? Chi è
l’Anthropos? Se è vero che non esiste una umanità indifferenziata che
avrebbe inscritto il suo effetto globale sulla superficie della terra, non
c’è forse un problema rispetto all’umanità da costruire che sarebbe in
grado di tener conto del carattere globale del problema?
Ciò che effettivamente caratterizza l’antropologia (come disciplina
comparativa) è che si sviluppa a partire dallo scacco dell’estensione di
una categoria etnocentrica (per esempio: economia, religione, scienza,
uomo, terra) alle categorie altrui. L’antropologia è stata costretta a
ridefinire i termini a un tempo riduttivi e universalizzanti con cui
interpretava queste categorie nel suo percorso e ad accogliere
gradualmente nelle sue “traduzioni” i nomi e le semiotiche altrui.
Questo lavoro di miglior traduzione ha trasformato la stessa

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antropologia. Maniglier sostiene, seguendo forse i contributi di Roy
Wagner (“l’invenzione della cultura”) e di Marylin Strathern (“il
genere del dono”) che l’antropologia comparata è costretta a utilizzare
gli equivoci della traduzione per ridefinire i termini in gioco a partire
dalla loro posizione nel malinteso stesso.
Ciò che accade nel disvelamento parziale dell’equivoco iniziale (che è
la croce dell’indagine etnografica) modifica i concetti con cui ci si
accosta all’alterità . Il malinteso è infatti tale nella misura in cui nello
scambio diventa possibile capire che non intendiamo bene. Il
malinteso opera allora come una sorta di denso prisma che permette
di riconoscere quantomeno nella diffrazione le diverse lunghezza
d’onda dello spettro di colori. Oggi i mille nomi di Gaia sono la nuova
frontiera di questo processo2.
L’alterità sarebbe sia l’origine che il punto di convergenza di tutte le
prospettive. La possibilità della trasformazione piuttosto che la
‘cultura’ diventa il fulcro di una ricerca che ci interpella in ogni piccolo
ampliamento del nostro grado di apertura alle differenze.
Il luogo opaco dell’intraducibilità è l’eccesso che permane nel
frammento e permette di rideclinarlo (ri-tradurlo) nel girotondo delle
prospettive.
Lo dice molto chiaramente Peter Skafish nella sua introduzione
all’edizione inglese di Metafisiche Cannibali (2014): “la quantità da
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Nel 2014 si è tenuto a Rio un ciclo di conferenze dal titolo “Os mil nomes de Gá ia – Do
antropoceno á Idade da Terra” (I mille nomi di Gaia – Dall’Antropocene all’età della Terra),
organizzato da Eduardo Viveiro de Castro. con contributi di Patrice Maniglier, Deborah
Danowski, Donna Haraway, Bruno, Latour, Isabelle Stengers, Viveiros de Castro, Dipash
Charabarty, Elisabth Povinelli e altri. (filmati disponibili al link
https://www.youtube.com/channel/UC1JupPNldYNtUAm4hO3ZDsw - in rete nel febbraio
2019)
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capogiro di prospettive sul sé comporta che l’altro abbia
effettivamente priorità ontologica e la soggettivazione richiede che ci
si faccia carico – come insegnano lo sciamanesimo e altre forme di
traslazione/traduzione – della sua prospettiva.” (in Viveiros de Castro
2014, p.12)
Si tratta dunque di esigere che l’Anthropos – l’umano – si ridefinisca a
partire dal modo con cui possiamo pensarlo, cioè a partire dai
molteplici fra-intendimenti e malintesi di traduzione che ne
introducono le varianti. Non esiste una storia dell’Antropocene senza
una antropologia che “rimetta i moderni al loro posto” dice Latour. In
altre parole la prospettiva della modernità torna ad essere una tra le
tante prospettive provinciali. Siamo anche “noi” altri tra gli altri.
E questi altri non sono solo gli umani. Edouardo Kohn, l’antropologo
che ha scritto “How forests think” (2013) rilegge così il mito greco in
cui la Sfinge, un entità transumana che sembra intersecare più
dimensioni inclusa quella animale, interroga Edipo con il famoso
indovinello su quale sia la creatura che ha quattro, due e poi tre
zampe.
La domanda della Sfinge è sempre stata interpretata come
un’interrogazione sullo statuto dell’umano. (Infanzia a gattoni, età
adulta eretta, vecchiaia col bastone). Accogliendo le suggestioni
amerindiane, questo ‘umano’ che la Sfinge interroga può essere
pensato come ulteriormente inclusivo dell’animale e della sua
prospettiva, quella a quattro zampe, così come dei ‘dispositivi’ – gli
strumenti, i ‘bastoni’ cioè la terza gamba, le invenzioni, i dispositivi, le

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semiosi a cui gli umani (e a quanto pare sovente anche gli animali) han
modo di appoggiarsi.
Ci basterebbe riconoscere, conclude Maniglier nel suo intervento di
Rio, che la crisi riguarda più esseri di quelli che siamo soliti includere
nel “noi” Il soggetto globale che allora ci interessa è un “noi “che è più
del “noi” che conosciamo già ! In questo senso la specie umana – o
l’Anthropos – non è la causa dell’Antropocene ma potrebbe esserne il
risultato. A patto di decolonizzarne gli a priori.
Se Gaia si presta a essere male intesa Gaia non consente che il
malinteso resti tale: anche il cielo e l’aria (e non solo concetti come
democrazia, economia, cultura) hanno bisogno di tornare a noi
trasformati dopo i malintesi generati dalla loro traduzione. Basta
leggere La caduta del Cielo (2013) dello sciamano Yanomami Davi
Kopenawa per capire quanto abbiamo in realtà da guadagnare nel
tradurre la sensibilità indigena di chi si sente guardiano della foresta-
mondo in una relazione con l’ambiente che per noi è diventata nel
migliore dei casi prevalentemente concettuale.
Provo a dare un esempio di questo processo riprendendo ancora
quanto Scrive Kopenawa:

Omama è al centro di ciò che i bianchi chiamano ecologia. E’ vero! Molto prima
che queste parole esistessero e che i bianchi cominciassero a parlarne tanto,
erano già nostre anche se non le nominavamo allo stesso modo [...] Nella foresta,
noi esseri umani siamo l’”ecologia”. Ma anche gli xapiri (spiriti), la selvaggina, gli
alberi, i fiumi, i pesci, il cielo, la pioggia, il vento e il sole... I bianchi che un tempo

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ignoravano tutte queste cose iniziano ad ascoltarle [e] ora chiamano se stessi
“popolo dell’ecologia. (Kopenawa, Albert 2013, p.393)

Questo il commento di Peter Skafish:

Considerare il pensiero Amerindiano in termini di concetti non solo cambia i


nostri concetti, ma lo stesso concetto di concetto; il concetto entra nell’orbita del
mito e della sua capacità di effettuare la trasformazione non solo di altri miti ma
di altro materiale discorsivo [...] per questo motivo abbiamo iniziato a vedere
attraverso occhi come quelli di Kopenawa che “i tapiri, i pecari, i macachi che
cacciamo nella foresta un tempo erano umani” e “che è per questo che oggi
apparteniamo tuttora a una medesima specie.” E’ anche il motivo per cui,
capendo che questo mito trasforma per forza i nostri concetti, noi che siamo
diventati recentemente “popolo dell’ecologia” faremmo bene a elaborare un
altra comprensione metamorfica della prospettiva ‘umana’ (Skafish, in Viveiros
de Castro 2014, p. 25, 33)

Tornando a quanto dice Maniglier, l’ invito non è di decostruire


proiezioni concettuali; l’invito alla traducibilità è qualcosa di più , e sta
nella nostra possibilità di fare di noi stessi un cammino di variabilità e
trasformazione, un cammino che ci permetta di accedere a nuovi
contesti senza esserne annichiliti.
E’ così che forse iniziamo a immaginare a una diversa forma di
relazionalità tra le idee e gli ambienti. Bisognerebbe infatti pensare a
un ambiente, a un contesto, a un ecosistema come a una lingua, per poi
andare oltre la mera comparazione/assimilazione. La traduzione deve
diventare altro.

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La variabilità è dunque effettivamente condizione di qualcosa che non
sappiamo ancora definire ma che ci avvicina a una diversa
comprensione dei fenomeni sociali quanto di quelli naturali.
Concludo con questo invito dell’antropologo brasiliano Vivieros de
Castro a coltivare un umanesimo interminabile – la cerca di un
anthropos mondato da ogni prematura pretesa di universalismo, un
nome dell’umano non più greco ma che tenda a includere tutti i nomi, i
generi e le forme dell’umano nel confronto ma senza che alcuna
prevalga a priori a partire dai suoi supposti sapero: Ciò di cui abbiamo
disperatamente bisogno è un ampliamento dei nomi e delle categorie
verso quella dimensione innominabile e omninominabile che
caratterizza l’aspirazione umana.

Contro le grandi dicotomie, un’antropologia minore farebbe proliferare le


piccole molteplicità , - non il narcisismo delle piccole differenze ma l’anti-
narcisismo delle variazioni continue; contro gli umanesimi fatti-e-finiti, un
umanesimo interminabile che costantemente sfidi la costituzione dell’umanità in
un ordine separato. Lo sottolineo ancora: una tale antropologia farebbe
proliferare le molteplicità . Perché la questione, come ha colto Derrida (2008),
non è di predicare l’abolizione delle frontiere che uniscono/separano segno e
mondo, persone e cose, “noi” e “loro”, “umani“ e “non-umani” . Riduzionismi
facili e monismi assimilativi sono fuori luogo quanto le fantasie fusionali – la
questione è piuttosto come rifiutare sia la tentazione riduttiva quanto quella di
fissare le definizioni (Latour) piegando invece ogni linea di divisione sino a farne
una curva infinitamente complessa. Non si tratta di cancellare i contorni ma di
piegarli e addensarli, esercitando una sorta di diffrazione sino a renderli
iridescenti. Come scrissero Deleuze e Guattari “miriamo a un cromatismo

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generalizzato” (D. G. 2010, p.216). Il cromatismo sarà il vocabolario
strutturalista con cui verrà scritta la nostra agenda per i posteri. (Viveiros De
Castro, 2014, p.45)

Se questa nuova epistemologia mira a fare della variazione una


“procedura di verità ”, una “clinica della crisi” ci invita a rendere
ancora più urgente il compito di immaginare l’altro e di tradurne la
prospettiva, e per certi versi, o per un tempo, contemplare persino la
possibilità dell’impossibile: trasformarsi nell’altro (se la possibilità
della trasformazione è principio intrinseco della vita stessa).
Ma l’idea di trasformarsi nell’altro (con tutti i fantasmi di divorazione
che comporta) può introdurre la più semplice sfida di essere accanto
all’altro rispettandone l’opacità e pure accedendo per un istante e in
parte al suo mistero.
E’ in questa visione frattalica e cromatica che rideclina in modo fertile
indicibilità , fra-intendimeno e conoscenza che credo si collochi la
possibilità di accettare la vastità delle sfide politiche al pensiero, alle
pratiche e alle eredità che continueranno a interpellarci nei prossimi
decenni di transizione. Anche se i “traduttori” dovessero per un tempo
coltivare la loro aspirazione tra le rovine.

Riferimenti bibliografici
22
Benjamin W. Il compito del traduttore (1920) traduzione di Antonello
Sciacchitano pubblicato in “aut aut”, 334, 2007, pp. 7-20
Candiani C.L. Cirolla A. Ma dove sono le parole? Pavia, Effigie, 2015
Crippa S. “Tchekhov contre Tchekhov: la tâ che du traducteur selon
Duras” in Diakritik, numero invernale 2019
Deleuze e Guattari, Qu ’est-ce que la philosophie? Paris, Les éditions de
Minuit, 1991
Deleuze e Guattari, Millepiani (1987), Castelvecchio, 2010
Kopenawa D., Albert B. The Falling Sky Words of a Yanomami Shaman,
Harward, Harvard Univeristy Press, 2013
Kohn E. How forests think – toward an anthropology beyond the
human – Berkeley, University of California Press, 2013
Latour B. Facing Gaia. Eight Lectures on the New Climatic Regime,
Polity Press, 2017
Maniglier P. "La parenté des autres.’ in Critique 70 1 , octobre 2005:75
Simondon G. - L’Individu et sa genèse physico-biologique, Paris, PUF,
Coll. É piméthée, 1964
Stengers I. – In catastrophic times, resisting the Coming Barbarism,
London, Open Humanities Press, 2015
Viveiros de Castro – Cannibal Metaphisics – for a post-structuralist
anthropology, tr. ed. Peter Skafish, Minneapolis, Univocal Publishing
2014
Wagner R. - The invention of culture, (1975), Chicago, The University of
Chicago Press, 1981

23
Wagner R. – Coyote Anthropology, Lincoln, University of Nebraska
Press, 2010

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