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Pietropaolo Cannistraci

GADULIYA LOHARS
ovvero
LA CONCEZIONE DELL'ARTIGIANATO NELLE CULTURE
NOMADI ED IN QUELLE SEDENTARIE

PARTE I

<< I Gaduliya Lohars provengono dal Rajastan e si vantano di appartenere all'illustre gruppo Rajput. Su
questo punto concordano molte testimonianze, trasmesse oralmente.
Lehar significa fabbro e Gaduliya è il nome del carro tirato da buoi caratteristico di questo gruppo;
l'espressione Gaduliya Lohar si può tradurre con "fabbro girovago", per distinguerlo dai fabbri indù che sono
sedentari, appartengono alle caste "marù" e "malvija" ed abitano nella stessa regione.
Questa ambivalenza, l'essere fabbri e nomadi al tempo stesso, determina la loro collocazione nel complesso
sistema sociale dell'India.>>(1)
E. Cobas Puente ci introduce così alla conoscenza di una singolare e quasi ignota realtà zigana.
I Gaduliya Lohars del nostro tempo sono i discendenti dei gruppi che, al servizio dei principi Rajput,
curavano la fabbricazione e la manutenzione delle armi dei loro eserciti, ottenendo per questo una
considerazione ed un apprezzamento particolari. Questa privilegiata condizione si protrasse a lungo nel tempo
sino al 1567, quando l'imperatore Akbar dopo ripetute offensive riuscì a sconfiggere gli strenui difensori del
forte di Chittogarh, segnando in tal modo la fine della dinastia Rajput.
Ciò determinò un forte senso di umiliazione nei Lohars in quanto erano stati proprio loro a fabbricare le
armi che avevano determinato la sconfitta: giurarono così di interrompere il loro tradizionale lavoro, preferendo
da quel momento la pacifica fabbricazione di utensili domestici o, soprattutto, di strumenti ed attrezzature utili
per l'agricoltura.
Furono così costretti a riprendere le vie del mondo per evitare possibili conflitti con i fabbri di altre caste già
insediati in importanti collettività; i Lohars iniziarono così a servire coloro che abitavano distanti dalle grandi vie
di comunicazione.
Per coprire queste nuove distanze, evidentemente notevoli per il tempo, modificarono il carro tradizionale
della regione creandone uno in grado di soddisfare le nuove esigenze, e ne scaturì un tipo talmente diverso che
ricevette un nuovo nome, quello appunto di Gaduliya, rendendolo così immediatamente segno di riconoscimento
del loro gruppo, tanto da entrare a far parte del loro appellativo.
Questo modello fu delineato nel XVI secolo ma da allora è rimasto immutato al punto da poterlo vedere
ancora oggi percorrere le strade dell'India settentrionale.
Da allora sono rimaste inalterate le dimensioni sia esterne che interne permettendo di conservare la classica
disposizione dello spazio necessario per riporre gli strumenti di lavoro, viveri e quanto altro necessario agli
spostamenti dei proprietari; il carro non è utilizzato quale abitazione, come avviene invece per gli altri gruppi
nomadi.
Il carro è costruito con legno di "kikar" (la acacia arabica) ed è più solido e pesante degli altri: le sue
caratteristiche peculiari consistono nella "thalia" e nella "phechla".
La thalia è un cassone triangolare abbastanza ampio che costituisce la parte anteriore del carro; la parte
centrale e quella posteriore, che al contrario della prima non sono coperte costituiscono la phechla, perimetrata
invece da fiancate laterali.
Questi carri sono costruiti soltanto da un piccolo numero di artigiani che dimorano in due zone della
regione: Gangwa, nel nord, e Barner, nel sud e nell'est.
Le assi laterali di legno, "pankhalas", le pareti esterne del cassone e delle ruote sono le uniche superfici che
il proprietario può decorare per dare alla gaduliya un segno distintivo. Le decorazioni consistono in piastre di
bronzo applicate al legno. Quelle che coprono le pareti laterali sono divise invariabilmente in quattro sezioni,
con sedici settori ciascuna; ed è col motivo inventato per decorare ciascuno di questi che la famiglia imprime il
suo marchio caratteristico, servendosi di quadrati, rombi, stelle, fiori stilizzati etc.
Tutto ciò che appartiene alla famiglia è collocato all'interno della gaduliya con una disposizione immutabile
nei secoli e la thalia è la cassaforte del carro e della famiglia.
Nella restante parte non coperta del carro, sempre secondo schemi immutabili, trovano tradizionale posto i
sacchi del riso, delle lenticchie e della farina mentre al centro vengono disposti da una parte gli utensili
domestici e dall'altra quelli del mestiere.
Il vestiario familiare trova posto fra i sacchi e la thalia. Quando la famiglia ha scelto il posto dove
accamparsi, svolge la sua vita attorno e sotto il carro; un sistema di stuoie protegge dal sole e dalla pioggia.
Dall'inizio della loro peregrinazione l'attività dei Lohars dovette adattarsi ai nuovi ambienti presso i quali
veniva esercitata; il gruppo dovette riadottare un equilibrato sistema economico che rispondesse al rapporto
uomo- natura, fra artificiale e naturale, <<in una regione come il Rajastan, nella quale le caratteristiche
dell'ambiente possono essere enormemente diverse da una zona all'altra>>.
Quando viene la stagione delle piogge, infatti, i nomadi tendono a fermarsi in luoghi prefissati per
l'occasione. In questi posti, chiamati "thiya" i Lohars ancora oggi sostano nel periodo compreso fra la metà di
maggio e la metà di settembre. Nei primi due mesi tendono a dedicarsi al riposo, alle visite, alle nozze ed alle
riunioni del Consiglio che dirige il gruppo.
Nei restanti mesi si recano a tutte le fiere di bestiame della zona alla ricerca dei migliori esemplari di animali
da tiro da acquistare.
Alla scadenza del periodo delle piogge riprendono il lungo viaggio che li porterà per otto mesi in quelle
tappe fissate sin dal XVI secolo per ogni singolo gruppo nelle rispettive zone della regione.
Ciò al fine di preservare quel bagaglio di rapporti di fiducia con contadini o abitanti che ogni gruppo ha
costruito e stabilito pazientemente nel tempo e che si trasmette di generazione in generazione.
La vita dei Gaduliya Lohars si svolge essenzialmente all'interno del proprio gruppo; anche le relazioni con i
contadini di cui abbiamo parlato sopra sono comunque veloci ed essenziali data la necessità di occupare il tempo
per gli spostamenti.
È per questo che sono state conservate immutate usanze ed abitudini di tipo rituale familiare dai più radicali
(nascite, matrimoni, funerali) alla foggia degli abiti o stile dei gioielli e agli ornamenti personali, acconciature
dei capelli - perfino maschili - incluse.
<< In quel mosaico di culture che è l'India i Gaduliya Lohars avevano il loro posto nel Rajastan ed erano
accettati come elemento indispensabile della struttura economico-sociale della regione stessa. La loro attività
professionale non entrava in conflitto con quella dei fabbri sedentari, perché ciascuno aveva una propria
clientela. Questa situazione si mantenne per più di tre secoli sino a quando nel XX secolo fece la sua irruzione
nel panorama economico dell'India la grande industria.>>(2)
Molti gruppi di Gaduliya Lohars non riuscirono a superare l'impatto nella impari sfida e furono costretti ad
abbandonare i percorsi tradizionali tentando l'avventura di crearsi nuovi clienti in nuove zone.
Dalla regione di partenza non potendo spostarsi verso ovest, ove le desertiche regioni del Sind erano poco
propizie all'agricoltura, rimase solo la strada dell'est, verso cui si avventurarono numerosi gruppi; si rivelò una
scelta di sopravvivenza dato che quanti rimasero legati "ostinatamente" ai vecchi circuiti, soffrirono duramente
per le conseguenze del cambiamento dell'economia regionale che vedeva il mercato invaso dai prodotti
industriali.
Per quanti, invece, avevano deciso di affrontare il cambiamento e di ampliare progressivamente i propri
itinerari si è verificato un miglioramento qualitativo e quantitativo della produzione artigianale dovuto al
contatto con altri gruppi e culture il che ha anche favorito un miglioramento della situazione economica.
<< Non saranno soltanto loro a trarne vantaggio, poiché, quando un gruppo sociale si arricchisce e vive
attivamente, è tutta la società che ne beneficia e mantiene la sua vitalità>>.(3)
I Gaduliya Lohars sono un caso particolare nel vasto e complesso mondo dei gruppi gitani. La abilità nella
lavorazione dei metalli è da sempre riconosciuta a questo popolo ed è questo il motivo per cui questo specifico
gruppo aveva trovato ospitalità presso la dinastia Rajput pur conservando caratteri non sedentari.
Le valenze sottese da questo carattere e da questa condizione richiedono ora una precisazione sui caratteri
generali della cultura gitana.
<<Tenace e resistente, il popolo zigano ha saputo conservare, in tutte le sue peregrinazioni la sua personalità
ed autenticità.
Il suo nomadismo lo ha posto in contatto con le nazioni più diverse, ma, nonostante ciò, non si è mai perduto,
e nemmeno integrato, in nessun paese. E ciò deriva certamente dal fatto che le sue non sono radici materiali, che
affondano in una terra particolare, ma rappresentano qualcosa che va più in profondità, che si radica nella
coscienza, nei valori sociali ed umani.
La tradizione orale che è il fulcro della cultura zigana, ha certamente sottratto questo popolo alle insidie
della storia. Religiosamente tramandata da una generazione all'altra, seguendo vie che ricordano i metodi di
iniziazione comuni a tutte le culture tradizionali, essa ha in larga misura consentito agli zigani di rimanere sé
stessi.>> (4)
Nella storia europea tracce epigrafiche della presenza di nomadi organizzati in gruppi e dai tratti culturali
comuni, possono essere rilevate sin dai trattatisti greci: Erodoto menziona i "Siginni" che abitavano il basso
Danubio ma anche presenti nell'Europa occidentale.... <<vanno in giro su carri. I confini di questo popolo si
stendono fin presso gli Eneti che abitano sull'Adriatico. I Liguri che abitano su a nord di Marsilia chiamano
"Siginni"i merciai e i Ciprioti chiamano così le loro lance>>... e Strabone cita i "Dattili", lavoratori di metalli
insediatisi nel Caucaso in Tracia e in Frigia.
Omero stesso parla dei "Sinti" un popolo dal 'barbaro' linguaggio conosciuto a Lemnos e caro a Vulcano, cioè
dedito al lavoro dei metalli.
<<Su queste basi Bataillard scrive: "se gli zingari possono essere identificati con gli antichi Siginni e con gli
antichi Sinti allora necessariamente si riattaccano ai Cabiri ed altri nuclei che ebbero il loro centro nelle isole del
Mediterraneo occidentale e probabilmente in Egitto.... Gli zingari, razza di lavoratori dei metalli, di indovini e di
musici, il che è proprio anche dei Cabiri e dei Telchini ..." E quelle strane profetesse, le Sibille e le sacerdotesse
di Dodona che si servivano per i loro oracoli del rimbombo di caldaie di rame, come non riconoscere in esse le
indovine zingare?... "Quanto alla lacuna che sembrava incolmabile fra i Siginni dell'antichità ed i nostri zingari,
essa è colmata in gran parte da quegli eretici del medioevo bizantino, Athingani o Azingani">>. (5)
Secondo Miklos Tomka, economista e sociologo ungherese, gli zingari hanno in Europa la reputazione di
vagabondi fannulloni che solo occasionalmente praticano i loro piccoli mestieri tradizionali di fabbri, intagliatori
di legno o di mercanti di tappeti e cavalli, e che nei seicento anni trascorsi nel continente si sono sempre
mantenuti ai margini della società.
<<Noi invece affermiamo esattamente il contrario, e cioè che per secoli sono stati artigiani molto apprezzati
e rispettati in quei paesi dell'Europa centrale ed orientale, che hanno costituito la loro prima patria, sino a quando
la rivoluzione industriale, e solo questa, li ha emarginati. Siamo per di più convinti che le idee che circolano in
Europa occidentale sugli zigani, che sono sempre state contraddittorie, derivano dallo scontro fra due sistemi
opposti di organizzazione economica e sociale, l'uno nettamente pre-feudale e l'altro neo-feudale e poi
borghese>>. (6)
Tomka prosegue sostenendo che i paesi dell'Europa centrale e orientale erano luoghi di passaggio
probabilmente per tutti gli zigani d'Europa, eccetto forse per i gitani di Spagna, e più di tre quarti di essi vi si
trovano ancora oggi. Tra il XIV ed il XVII secolo, queste regioni erano relativamente poco popolate, poco
urbanizzate e continuamente devastate da guerre e da conflitti di frontiera. L'organizzazione politica era
decentrata e spesso carente. Le società feudali si distinguevano per la pluralità delle etnie e per la molteplicità
degli scambi con i popoli e le civiltà situate ad est della linea formata dal Bug - un fiume dell'Europa orientale -
e dai Carpazi, e talvolta con quelli dell'Asia e dell'Europa occidentale.
In una società siffatta, i movimenti di popolazioni ed il passaggio di gruppi di individui dall'aspetto poco
familiare, che vestivano abiti esotici e parlavano lingue straniere, non aveva nulla di eccezionale. In mezzo a
commercianti, messaggeri, religiosi, al variopinto seguito di principi e nobili, ad artigiani ambulanti e a truppe
mercenarie, gli zigani passavano praticamente inosservati. Dicevano di essere pellegrini e penitenti, e gli si
credeva loro volentieri. Non suscitavano nemmeno antagonismo culturale, poiché era ancora recente la memoria
delle ultime ondate migratorie e dell'arrivo di colonie straniere. A quell'epoca si faceva poco caso alla identità
culturale e nazionale, che non costituivano perciò un ostacolo all'integrazione sociale e culturale. Patenti di
nobiltà furono concesse a famiglie che portavano il nome di Cigany o Czigany, il che permette di stabilire anche
l'ingresso di alcuni di essi nell'aristocrazia.
Ma in Europa, il ritorno ad una certa stabilità politica fu ben presto accompagnato dal frazionamento e dalla
colonizzazione delle terre, che divenne quindi assai difficile occupare liberamente. Inoltre gli zigani non erano
avvezzi al mestiere delle armi, e sebbene alcuni di essi lo avessero praticato, non avrebbe permesso di assicurare
di che vivere a gruppi familiari consistenti.
Chiodi di ferro, secchielli, tinozze di legno, piatti e cucchiai, panieri di vimini, carri, stuoie e scope erano
tutti strumenti indispensabili nelle fattorie, ma molti piccoli villaggi non avevano la possibilità di mantenere
fabbri ed ancora meno intagliatori di legno o fabbricanti di ceste. Inoltre, i servi ed i poveri potevano pagare solo
mediante scambi di prodotti naturali, il che non presentava grande interesse per gli artigiani delle città.
Per secoli questo tipo di articoli ma anche mattoni per l'edilizia, carbone di legna per le fucine o persino i
campanacci delle mucche furono prodotti sostanzialmente dalle famiglie di artigiani zigani che si insediavano
nei villaggi, man mano che aumentava la prosperità e quindi i bisogni.
Diventavano i fabbri del villaggio o dei signori del posto, e come abbiamo visto persino gli armaioli del
castello. Alla lavorazione dei metalli e del legno, le donne si dedicavano insieme agli uomini, come pure nella
fabbricazione dei cesti a cui venivano fatti partecipare i ragazzi, mentre attività peculiari delle donne risultava la
consegna della merce e la fabbricazione dei mattoni.
Coloro che producevano articoli rari e duraturi tendevano a non fermarsi a lungo e continuavano la vita
girovaga, probabilmente perché - in termini contemporanei - saturavano rapidamente il mercato con i loro
prodotti.
Anche loro come gli altri, però, avevano un compito importante: sino al XIX secolo gli artigiani zigani
furono considerati nell'Europa occidentale ed orientale insostituibili nel loro mestiere.
F.d.V.de Foletier ci fornisce una ricchissima documentazione storica.
<<La tradizione dell'arte del metallo è antichissima fra gli Zingari. Lo zinganologo Paul Bataillard ha
persino formulato l'ipotesi che i primi a introdurre il bronzo in Occidente, appartenessero alla stessa razza degli
Zingari. Nel XIV e XV secolo gli Zingari erano fabbri e calderai nell'isola di Corfù; a Modone eccellevano nel
fare chiodi; nello stesso periodo fra i "Cingarije" della Serbia, quelli che erano maniscalchi pagavano un tributo
in natura.
Nel suo 'Tresor politique' Ventura nota che in Grecia e in Dalmazia quasi tutti gli Zingari lavoravano il
ferro. A metà del XVI secolo il viaggiatore francese Pietre Belon scrive, parlando degli Zingari: <<Questa gente
si dedica in Grecia, in Turchia e in Egitto a lavorare il ferro e si trovano ottimi operai in quel mestiere>>.7)
Accampati ai piedi dei bastioni di Istambul, soprattutto dalla parte della porta di Adrianopoli, gli Zingari
fabbricavano ogni sorta di utensili di ferro, in particolare pinze da fuoco per i bracieri. Nel XVII secolo erano
impiegati nell'arsenale della marina a Kasim Pascià.
Il più antico riferimento letterario agli Zingari rumeni, un'opera di Cristiano Chessaeus, 'Rovine della
Pannonia', fa allusione agli Zingari discepoli di Vulcano. Nel XVII secolo un viaggiatore osserva che nei paesi
rumeni solo i "Cygani" sono maniscalchi.
In Transilvania e in Ungheria, la lavorazione dei metalli fatta dagli Zingari era particolarmente apprezzata.
Sotto il regno di Mattia Corvino alcuni Zingari ottennero il brevetto di armaioli.
In alcune città le corporazioni si preoccupavano di questa concorrenza e la corporazione dei fabbri ferrai di
Miskolc riuscì a far interdire agli Zingari di lavorare fuori dalle loro tende; non potevano nemmeno andare al
mercato a ferrare gli stivali dei contadini. Ancora alla metà del XIX secolo una forte proporzione delle fucine dei
villaggi erano nelle mani degli Zingari. Un proverbio ungherese dice: <<Tanti Zingari, tanti fabbri>>.
Non conoscendo la fonte del minerale di ferro, i fabbri zingari si procuravano rottami di ferro; la loro
attrezzatura era abbastanza semplice e facilmente trasportabile; una incudine (a volte una semplice pietra), due
soffietti di solito in pelle di capra, un paio di pinze, un martello, una morsa, una lima. Il fabbro si procurava il
legname: di preferenza fascine di erica; in un piccolo fornello o in una mola conica, preparava il suo carbone;
secondo la stagione all'aperto o sotto la tenda, seduto << alla maniera dei sarti>>; sua moglie o uno dei suoi figli
manovrava il mantice. Questa la tecnica dei fabbri delle regioni danubiane, simile a quella descritta con più o
meno dettagli dai viaggiatori occidentali a Modone, nel Peloponneso e a Zante, una delle isole joniche. Questi
procedimenti comparati con quelli dei fabbri dell'India offrono una grande analogia.
Gli stessi procedimenti li ritroviamo fra gli Zingari dell'Italia meridionale, che li hanno conservati fino al
giorno d'oggi, riproducendo ora in miniatura quegli spiedi, palette, tripodi, che un tempo offrivano largamente
sui mercati. La loro abilità era riconosciuta dovunque, al punto che il nome di Zingaro veniva attribuito a
chiunque lavorasse il ferro.
Gli zingari erano anche bravi calderai, lavorando il rame e lo stagno, oppure magnani e maniscalchi. Abili
e veloci potevano forgiare un ferro di cavallo in pochi minuti. Sapevano anche eseguire stemmi in ferro battuto.
Fabbricavano ogni sorta di minuscoli oggetti in ferro in rame o stagno. Riparavano caldaie. Gioiellieri, facevano
orecchini, collane e anelli, a volte in semplice stagno o rame argentato.
I fabbri Zingari lavoravano non solo con procedimenti analoghi in ogni regione europea che ce ne abbia
tramandato memoria, scritta o orale, ma anche conservando le medesime abitudini e così sappiamo ad esempio,
come da testimonianze raccolte in villaggi greci, che, la domenica o durante altre feste, il fabbro locale lasciava
gli strumenti di lavoro per impugnare quelli musicali e rallegrare i paesani con la sua musica.

PARTE II

Dopo aver presentato un sintetico profilo etno-antropologico del popolo gitano ne vorremmo desumere
alcune considerazioni comparative in vario modo relazionate alla struttura del pensiero sedentario, propria,
invece, della nostra cultura.
Gli zingari sembrano dunque essere diversi dal luogo comune con cui siamo abituati a classificarli.
L'atteggiamento decadente cui alcuni gruppi sono dediti è stato accentuato dal rapido mutamento della cultura
sedentaria, in particolare dalla trasformazione industriale, che però sconta nel suo seno lo stesso tasso di
degenerazione. Voler generalizzare la cultura zigana livellandola verso i suoi esempi più bassi equivale al dover
giudicare la nostra civiltà generalizzandola al livello dei suoi aspetti più negativi e preoccupanti (droga,
criminalità, violenza, inquinamento ecc.), fra l'altro prevalentemente concentrati nelle subculture degli
agglomerati metropolitani.
Il popolo zigano sembra invece conservare inalterata la fierezza e la dignità della propria coscienza
esistenziale, individuale ed etnica. Abbiamo già visto, nelle pagine precedenti, che si può parlare di "identità" del
popolo zingaro conservata con "tenacia e resistenza", anche nella difficile condizione di una millenaria
peregrinazione che ne avrebbe facilmente potuto minare i tratti fondanti e caratterizzanti.
Fra i vari fattori sottesi a questa continuità, vorremmo isolarne alcuni -che costituiranno le nostre
conclusioni- in quanto possono fornire preziosi contributi alle nostre scienze umane, permettendo una più
agevole comprensione di passaggi formativi o critici del nostro percorso storico-sociale.
È proprio sul senso di identità che possiamo imperniare questa ricerca: essa infatti non è motivabile
semplicemente attraverso i caratteri genetico/somatici; questi sono più
che altro i portatori di uno spirito legato a valori di libertà, di veloce intelligenza intuitiva, di perspicacia, di
propensione a forti ed intense enucleazioni artistiche - per lo più non figurative ma in cui è trascinantemente
coinvolta la sensualità corporea (F.d.V. de Foletier ricorda che <<comunque stiano le cose, notiamo, in gruppi
dell'India come negli Zingari d'Europa, l'importanza di certe attività artistiche ed artigianali, come la musica o la
danza o l'arte dei metalli>>).
Come per ogni cultura, però, uno dei più radicali elementi di identificazione è il linguaggio, e la cultura
gitana è riuscita a conservare la struttura della propria lingua nonostante i numerosi apporti mutuati dalle diverse
aree linguistiche con cui sia entrata in contatto prolungato.
Scrive infatti il linguista Giulio Soravia: <<Se è vero che la lingua costituisce un elemento chiave
nell'identificazione di un popolo, ciò sembra particolarmente valido nel caso dei Rom.
Questo popolo disperso in tutto il mondo da una diaspora plurisecolare è unito, infatti, solo da una comune
origine, di cui la lingua è testimonianza determinante. Suddivisa in numerosissimi dialetti, tanti quante sono le
famiglie Rom sparse nei cinque continenti, essa chiaramente è una traccia delle loro peregrinazioni nei secoli ed
allo stesso tempo un'àncora che li riallaccia alla loro terra d'origine: l'India.
Ciò che colpisce è infatti il tenace persistere di una grammatica per molti versi simile a quella delle
moderne lingue indoeuropee dell'India e di un lessico di base in cui si ritrovano senza difficoltà, tranne che per
qualche cambiamento fonetico, voci comuni allo Hindi, al Panjabi, alle lingue dardi che in generale.
Né ciò stupisce: quando un migliaio o più di anni fa i gruppi nomadi che dovevano diventare gli attuali
Rom cominciarono il loro lungo viaggio verso occidente, essi si fermarono volta a volta, e spesso a lungo, in
terre abitate da genti di diversa lingua e diversi costumi, ed essi stessi cambiarono, assimilando tratti di tali
diverse eredità culturali e linguistiche. Tuttavia non si fermarono mai abbastanza per essere totalmente assimilati
-almeno nella maggior parte dei casi- né si integrarono socialmente tanto da perdere la loro originaria identità, un
senso di diversità e, in qualche modo, di unicità.
Ve ne furono tuttavia che si fermarono lungo il cammino, restando nomadi ma su una base locale. Nel
Medio Oriente troviamo gruppi che, variamente chiamati dai loro vicini (Nawar in Palestina, ad esempio),
denominano sé stessi Dom. In Armenia tali gruppi mutarono il loro nome in Lom. In Grecia, invece, decenni più
tardi, e di lì in Europa e nel mondo, essi divennero i Rom, perdendo la nozione della loro origine.
Il cambiamento fonetico di questo etnonimo è tuttavia una guida sicura nel ricostruire la storia delle loro
origini. Così come molte parole nella moderna lingua dei Rom europei presentano una 'r', troviamo parole assai
simili nelle lingue dell'India con una 'd' cerebrale corrispondente, ed è proprio in India che ancora troviamo
nomadi che si autodefiniscono Dom>>.(8)
Il caso della preservazione linguistica è particolarmente importante in una cultura che non faccia uso di
scrittura ed in più sia anche nomade: permette di conservare in particolari strutture simbolico-fonetiche
quell'intero bagaglio esperienziale ed esistenziale che invece le culture sedentarie possono redigere in forma
estesa, affidare ad un supporto materiale (carta, papiro, tavolette d'argilla) e conservare in luoghi duraturi.
Le culture che si affidano alla tradizione orale, invece, devono necessariamente basarsi sulle capacità
mnestiche della mente e del corpo - salvo il fatto di riuscire a conservarne anche il codice di compilazione - e ciò
è necessità per quelle nomadi, risultando di notevole intralcio, al movimento, il trasporto di una cospicua
documentazione scritta.
Intendiamo dunque dire che è proprio nello studio di caratteri linguistici ma anche dei contenuti, come pure
nelle abitudini prossemiche, cinesiche, nei rituali, nell'insieme dei sistemi segnici e grafici, che sono
rintracciabili interi bagagli di cognizioni e strutturazioni di vita con cui generazioni e generazioni di uomini
hanno trasmesso semanticamente ai loro successori ciò che erano stati in grado di elaborare come conoscenza del
mondo e dei modi per esserci.
Pur avendo maturato da anni questo metodo di ricerca, fu nel corso di una fortuita esperienza personale che
ebbi modo di cogliere alcuni sorprendenti ed inaspettati elementi della cultura zigana, conservati a livello
istintuale ma estremamente preziosi per il loro valore umano.

PARTE III

Impegnato da tempo in una ricerca sulle culture neolitiche dell'area mediterranea, poco più di un anno fa,
rispetto al momento della redazione del presente testo, ho effettuato un sopralluogo a nord della costa dalmata
ove sono presenti insediamenti abitativi in roccia dalle caratteristiche analoghe a quelli di una cultura insulare
notevolmente distante.
Per quanto venga dato come carattere peculiare del neolitico il costante migrare di popoli (e quindi il
nomadismo venga considerato il modello di vita prevalente per le genti del tempo), analogie del genere risultano
ancora un rebus per l'indagine scientifica corrente.
Durante il periodo del campo, fui accompagnato dai colleghi slavi ospitanti in visita ad una importante fiera di
cavalli nell'interno del paese.
Gli Zingari hanno una autentica, viscerale, passione per i cavalli, di cui sono esperti intenditori, ed ovviamente
costituivano la presenza più folta dei convenuti nella radura di una valle boscosa e soleggiata.
Molti di loro appartenevano a comunità residenti da tempo presso villaggi della regione, altri non volevano
mancare all'occasione pur provenendo da lontano.
In tutti notai un senso di conviviale euforia che si trasformava in seria e rispettosa eccitazione nell'accostarsi,
con i cavalli da scegliere, a provvisorie tettoie da cui si levava un ritmico ed acuto rumore di percussioni
metalliche (a volte interrotto per sonore risate, ma in grado di sovrastare gli altri innumerevoli suoni, umani ed
equini). Non mi fu difficile comprendere l'eccezionalità del momento, potendo osservare all'opera fabbri e
maniscalchi zigani mentre producevano, nell'ambiente a loro più congeniale, oggetti necessari a quanti
acquistavano od allevavano i cavalli, ferrature per gli zoccoli compresi. Rimasi impressionato da tre particolari:
la postura, necessaria alla battitura del metallo (fuso in crogiuoli che noi definiremmo 'di fortuna'), che conferiva
loro un'immagine di forza e di imponenza; la loro assoluta padronanza dei movimenti, al punto da avere pochi
momenti di intensa attenzione al lavoro e molti momenti per l'osservazione (anch'essa attenta ma mai distaccata
dalla loro azione) di quanto avveniva nell'intorno; il sottile e malizioso estro (ed il gusto cosciente) con cui
intervenivano creativamente per rendere comunque diverso quello che secoli di esperienze avevano collaudato e
canonizzato in precise forme ed esatti modelli rigorosamente funzionali.
Era la verifica pratica dei leggendari valori di questi artigiani; non che le leggende debbano essere tutte vere,
ma è vero il fondo che le motiva:
<<Il ferro indiano era rinomato nell'antichità greca (ai tempi di Alessandro) e nell'antichità romana: per Plinio
era il ferro migliore. La gente del paese era abilissima nel lavorarlo. Non mancano le testimonianze: a Delhi un
pilastro di più di sette metri di altezza fatto di dischi di ferro mirabilmente saldati, datato del IV o V secolo della
nostra era; a Dhar, nell'India centrale, un pilastro dello stesso genere, alto diciassette metri. Il ferro indiano
serviva a fabbricare le belle armi di Damasco....
Così Paul Bataillard, dopo aver raccolto da medievalista una documentazione precisa e rigorosa sulle prime
migrazioni zingare in Europa, colpito dall'importanza del lavoro del metallo fra gli Zingari, li considera come i
più abili metallurgisti e intitola una delle sue opere "Les Tsiganes de l'age du bronze" (gli Zingari dell'età del
bronzo). In questo è d'accordo con Mortillet, per il quale il bronzo, giunto nel territorio della Gallia senza
transizione da un'età del cuoio, non era stato importato da mercanti, ma fabbricato sul posto da metallurgisti
nomadi "analoghi agli Zingari del nostro tempo" >> (9)
Il contatto diretto con una cultura spesso così distante da noi, eppure fisicamente vicina, mi ha permesso di
integrare alla complessa gravitazione sull'area mediterranea alcuni elementi di successiva elaborazione.
Indubbiamente, però, ha confermato che è possibile il recupero di una dimensione demiurgica a scala umana,
non proiettivamente esaltata come quella della scala industriale.

Gli Zingari sono il residuo storico di un'esperienza comune alle varie culture e quando molte di queste ultime
hanno radicalmente mutato il proprio stile di vita, essi sembrano aver preferito l'integrazione di singole novità
nel proprio modello.

A partire dal nomadismo dell'età della pietra, hanno acquistato il concetto di trasformarsi in "produttori di
cibo" rispetto al precedente ruolo di "raccoglitori" (secondo la definizione di R. Bianchi Bandinelli circa l'uomo
del neolitico), acquisendo di conseguenza la padronanza del fuoco, la lavorazione dei metalli,
l'addomesticamento degli animali, etc. riconducendo queste padronanze in ambito nomade anziché sedentario.

Nella loro mitologia delle origini, ciò sembra essere il frutto di una scelta, successiva ad un evento traumatico
che li ha indotti a preferire la continuità piuttosto che il cambiamento del modello di vita. <<In quel paese in cui
il sole sorge dietro una montagna scura, c'è una città grande e meravigliosa, ricca di cavalli. Tanti secoli fa tutte
le nazioni della terra viaggiavano verso quella città, a cavallo, a dorso di cammello, a piedi... Tutti vi trovavano
rifugio e accoglienza... C'erano pure alcune nostre bande. Il sovrano di quella città li accoglieva con favore...
Vedeva che i loro cavalli erano ben curati e propose loro di stabilirsi nel suo impero. I nostri padri accettarono e
piantarono le loro tende nelle verdi praterie. Là vissero a lungo, contemplando con riconoscenza l'azzurra tenda
dei cieli... Ma il Destino e gli spiriti del male vedevano con dispiacere la felicità del popolo dei Rom. Allora
mandarono in quelle contrade serene i malvagi cavalieri Khutsi, che appiccarono il fuoco alle tende del popolo
felice e, dopo aver passato gli uomini a fil di spada, ridussero in schiavitù le donne e i bambini. Tuttavia molti
riuscirono a fuggire e da allora non osano più sostare a lungo nello stesso posto>> (10)
Da allora gli Zingari si sentono comunque diversi: <<Per lo Zingaro ogni persona che non sia della sua razza è
un gagio (femminile gagi, plurale gagè). Ai suoi occhi il gagio è lo straniero, l'uomo attaccato alla terra, il servo,
il contadino, il sedentario>> (11)
Il gagio è tale perché ha "qualcosa" nella testa che lo rende schiavo, che lo priva della libertà.
Un secondo mito delle origini racconta infatti che prima o poi gli zingari si riuniranno nella "loro" antica terra,
che risorgerà dopo la scomparsa avvenuta per punire gli uomini che avevano voluto costruire le città perché
ormai privi della capacità di vivere in armonia con la natura e senza più la curiosità di conoscere altri luoghi.
L'arco storico dell'esperienza zigana lascia trapelare la conferma all'intuizione di M. Carotenuto che ha
sapientemente approfondito una traccia individuata da M. Detienne e J.P. Vernant circa una fase storica di
variazione del pensiero, in cui l'intelligenza fattiva dell'uomo ha privilegiato un tratto settoriale non in modo
integrativo, bensì a discapito, di quella olistico-intuitiva.
È la progressiva riduzione, in ambito mitologico ellenico, di una divinità generativa a carattere olistico, la dea
METIS, offuscata progressivamente dall'emergere della nuova divinità preposta all'intelligenza ed alla
conoscenza, quella dea Athena che è il simbolo per antonomasia della cultura occidentale (12).
La cultura degli zingari sembra non aver capitolato del tutto, conservando ancora l'attaccamento a quei fattori,
in particolare l'operatività manuale, che richiedono la presenza della Metis.

CONCLUSIONI

L'esperienza diretta di un artigianato vissuto non passivamente (e non relegato ad un ruolo produttivo
secondario, stereotipato) osservato anche al di fuori del mio ambiente di cultura superiore in cui ne ho esperito le
estreme potenzialità, mi permette di confermare la sua funzione vivacizzante in chiave antropica.
L'affinamento della sensibilità tattile, dell'estetica finalizzata alla funzione, la gratificazione della ripetitività
di riuscita nell'applicazione della creatività anche nel minimo particolare, permettono la definizione - qui
espressa in chiave simbolica - del recupero del mito, della rivitalizzazione della Metis.
La verifica ultima è la presenza della traccia semantica che l'uomo esercita, proporzionalmente a quanto è,
nella materia da lui lavorata, che nessun prodotto industriale può avere.
Riferimenti bibliografici

1-2-3-4-6-8: "Il Corriere Unesco", anno XXXVII n°12, ediz. italiana, Dic.1984, Editalia, Roma.
Numero monografico "Gli Zingari"

5-7-9-10-11: Francois de Vaux de Foletier, Mille anni di storia degli Zingari, Jaca Book, Milano,
1978

12: Si vedano al riguardo:


M.Detienne, Il mito. Guida storica e critica, Laterza, Bari, 1976.
M.Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Bari, 1983.
M.Carotenuto, Alle radici del mito, in Nuova Ontopsicologia, n°3, Psicologica Editrice,
Roma, settembre 1990.

Note al testo

1-2-3) Esteban Cobas Puente "I Gaduliya Lohars, fabbri girovaghi d'India" in op. cit,
pagg.8/10
4) Amadou-Mahtar M'Bow "Un popolo fedele a sé stesso" in op. cit, pag. 4
5-7-9-10-11) F. de V. de Foletier: op.cit. pag.30 e segg.
10) Miklos Tomka:"Gli zigani, artigiani d'Europa", in op.cit., pag.15
11) Giulio Soravia, "La lingua dei Rom", in op.cit., pagg. 21/23

Parole chiave e motivazione


Gaduliya Lohars. Articolo su zingari-artigiani e artigianato come modello sociale, finalizzato ad un volume di
AA.VV. sull'artigianato quale elemento di economia alternativa, coordinato nel 1991 dalla Dr.ssa Loretta
Lorenzini.

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