Testo Sulle Distanze

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Gaia Giacomucci 4M

Lungo il corso della mia adolescenza, non mi ero mai davvero interrogata su cosa
fosse la distanza. Ho sempre avuto quella che, ora, considero la “fortuna” di avere
amici e parenti raggiungibili in non più di un paio d’ore d’auto. Pensavo, ero
convinta, che la distanza fosse solamente una questione fisica. Che si trattasse
appunto di spazi e di numeri. Solo ora mi rendo conto che, quella visione
materialistica e cinica, non rispecchia ciò di cui davvero si tratta. Ho, a mio
malgrado, imparato che ci si può sentire distanti anche in una stanza piena di persone.
Che possiamo essere soli in un locale, ad un concerto o fuori con gli amici. Non avrei
sicuramente immaginato che, di lì a poco, avrei dovuto prepararmi a passare mesi da
sola con i miei pensieri. Non immaginavo neanche quanto potesse essere pericoloso,
disarmante e spaventoso. Non lo immaginavo, e questo perchè non mi ero mai data la
possibilità di farlo. In un giorno normale, di vita normale, siamo impegnati, colmi di
cose da fare e persone da vedere. Questi sentimenti vengono trattenuti, messi in
secondo piano, infilati in un cassetto e lasciati lì finché non sentiamo l’esigenza di
“dare una pulita”. Finché non troviamo la persona con cui svuotiamo quello
scomparto, con cui ci lasciamo andare per fare spazio a qualcosa di nuovo, brutto o
bello che sia. Ma questo non l’avevo ancora capito. Non l’avevo ancora capito nelle
notti insonne a pensare, immaginare e sognare come sarebbe stato tornare fuori nel
mondo. Uscire dal mio guscio fatto di coperte, risalire nella giostra che è il mondo
vero. Ho iniziato a capirlo quando sentivo le mani sudare nel parlare con un
cameriere al ristorante. Quando il mio cuore batteva intensamente mentre mi veniva
fatta una domanda da un professore. Quando ho impiegato ore a decidere cosa
indossare. Non che prima non fossi indecisa, figuriamoci. Tuttavia era cambiato
qualcosa e non riuscivo a capire cosa fosse. Non capivo, infatti, perchè fossi diventata
più impacciata e timida. Perchè mi sembrasse tutto così spaventoso e più grande di
me. Mi sentivo come se fossi costretta ad uscire dalla mia bolla, con l’unico desiderio
di sparire per sempre. Stavo iniziando a realizzare che fosse il mondo vero, con vere
responsabilità. No scorciatoie, no imbrogli; qui non posso semplicemente spegnere la
telecamera o non rispondere. “L’ho sempre fatto, perchè ora sembra così mostruoso?”
Continuavo a chiedermi, senza ancora la risposta tra le mani. La verità è che la
risposta è diversa per ognuno di noi. Ciascuno ha il suo rapporto col mondo e con sé
stesso, di conseguenza non sarò mai in grado di dire cosa abbia cambiato tutti noi con
precisione. Posso solamente dire che, i miei 16, 17 anni, non me li immaginavo di
certo in questo modo. Da piccola guardavo film adolescenziali con occhi sognanti,
creandomi scenari pazzeschi che non vedevo l’ora di vivere. Invece ho imparato
tutt’altro. Invece di imparare come marinare la scuola, copiare o andare ad una festa,
ho imparato come indossare correttamente una mascherina, come lavarmi in modo
efficace le mani e come avviare una stramaledetta lezione online. Ma ho imparato
anche a vedere le cose da un’altra prospettiva. Di come tutti noi in realtà ci possiamo
sentire sopraffatti e distanti dal resto del mondo, e anche da noi stessi. Ero inebriata
da questa sensazione di alienazione da tutto ciò che era alla base del rapporto umano.
Lo stare da sola, ha avuto un impatto notevole su ciò che amavo fare. Ho passato
mesi a fantasticare, a parlare con le pareti e a ballare con i fantasmi delle persone che
più mi mancavano. A stringere il cuscino, sognando di volare, viaggiare.
Domandandomi se sarò pronta, se le persone saranno le stesse, se mi vedranno
Gaia Giacomucci 4M
diversa. A quel punto fu come urlare con la testa sott’acqua. Avevo bisogno di farmi
sentire ma allo stesso tempo non volevo che nessuno percepisse la mia insicurezza.
Poi ci hanno liberati. Ci hanno fatti uscire, camminando sotto la pioggia ma senza
ombrello, come se fossi stata smascherata. “Che faccio? Posso salutarla con un
abbraccio?”. “Come glielo dico?”. “Tra quanto torno a casa?”. Queste domande mi
rimbalzavano in testa senza sosta, perdendo tutta la naturalezza dei gesti più semplici.
In quel momento sentivo freddo senza il mio guscio, mi sentivo catapultata in un
mondo che non riconoscevo più. Volti, mani e cuori coperti dalla ferita di questa
pandemia. Fu come uscire di casa dopo la tempesta, con un silenzio assordante, e le
persone che di soppiatto si inseriscono nel paesaggio. Sentivo sempre dire dalla mia
professoressa di filosofia “l’uomo è un animale sociale, da branco”, ma non avevo
mai davvero pensato a cosa volesse dire. Ora più che mai capisco che, quello che è
cambiato, è stata la nostra natura. Ci è stato tolto quello che ci caratterizza come
essere umani e, anche se per poco rispetto al nostro periodo di vita, ci ha condizionati
notevolmente. Specialmente noi, ragazzi. Noi non sappiamo ancora chi siamo, né chi
vogliamo essere, e l’impossibilità di non poter vedere tutte le opzioni, assaporarle e
scoprirle ci ha sviliti. Non ci siamo mai lamentati, siamo sempre stati silenziosamente
accondiscendenti davanti alle decisioni degli adulti, sperando che, prima o poi,
qualcuno si sarebbe accorto anche di noi. Mi manca piangere sulla spalla di un’amica,
avere le farfalle nello stomaco davanti al ragazzo che mi piace. Convincere mamma a
farmi stare fuori fino a tardi il sabato sera. Mi manca sentire l’aria fresca che
abbraccia il mio viso, mi mancano le file al cinema e arrivare in ritardo ad un
appuntamento. Mi manca l’autobus affollato al ritorno da scuola. Mi manca avere un
vicino di banco e venire rimproverati perchè si chiacchiera troppo. Mi manca persino
prendere un brutto voto a scuola perchè sapevo che, dopo, le mie compagne si
sarebbero prese cura di me, tirandomi su di morale. Dopo tutto questo tempo,
percepisco la differenza tra quel “mi manca” e “mi è mancato”. E l’unica cosa che
accomuna tutto ciò, è che non ero sola, neanche un attimo. Nonostante a volte volessi
esserlo, non mi rendevo conto dell’impatto che avessero le altre persone su di me.
L’uomo ha bisogno del suo branco, senza di esso diventa debole e la sua condizione
si trova in bilico. Non dico che ora ho imparato a “stare” con gli altri, sono convinta
che non si finisca mai di imparare. Bensì posso affermare di aver imparato il valore di
ciò. É vero, questo periodo mi ha resa diversa, mi ha fatto perdere le mie sicurezze e
ho dovuto affrontare il mio peggior nemico: me stessa. Forse alcuni di noi non
torneranno più come prima, forse nemmeno io. Ma una cosa l’ho imparata:
apprezziamo il valore di una cosa solo quando non la possediamo più, quando la
sentiamo distante. Solo quando ci manca così tanto, che non la ricordiamo più nella
sua interezza, ma ci teniamo stretti i dettagli. Rimarrà per sempre la cicatrice di
questo isolamento, passerà inosservata nei momenti felici e si riaprirà nei momenti
tristi. Tuttavia, spero che mi abbia fatto aprire gli occhi su ciò che veramente conta.
Che un giorno guardandomi indietro, il guardarmi dentro, non sia stato solamente
malvagio, anzi un mezzo per capire chi sono davvero. Perché, alla fine, è questo ciò
che ci rende vivi, uomini. Patire, stare male e riflettere ci rendono ciò che siamo. In
conclusione, all’inizio non avevo capito nulla, ero amareggiata e disarmata di fronte a
questo isolamento. Ero sola, con in testa un balletto di insicurezze, paure e delusioni.
Gaia Giacomucci 4M
Poi, sono diventata più consapevole. Arrivando a comprendere che siamo fatti di
distanze, sta noi capire chi o cosa tenere più vicino o più lontano. Oggi sono più forte,
mi tremano ancora le ginocchia e a volte mi sudano le mani, ma passerà col tempo,
ne sono certa. Intanto torno a ridere, a ballare e a sognare ad occhi aperti, nonostante
mi farà sempre un po’ paura.

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