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Verso la fine degli anni ’50 del secolo scorso esce un romanzo visionario: Guerra al Grande Nulla di James

Blish. L’opera diventa subito un cult, parte di quel complesso mosaico di suggestioni lisergiche che, insieme
ad altri classici della science fiction come Straniero in terra straniera di Robert A. Heinlein del ’61 - basti
pensare che ispirò l’omonima canzone dei Doors - darà vita alla cultura Beat. Le trame dei due romanzi sono
l’una il riflesso dell’altra, intrecciandosi nelle immagini di un’unica, psichedelica, profezia.

Il Grande Nulla

Nel primo libro troviamo il gesuita-scienziato Ramon Ruiz-Sanchez in missione sul pianeta Alpha Arietis,
abitato da una specie intelligente di tipo rettiliano. Questi lucertoloni, alti e possenti, vivono in piena armonia
all’interno di un’organizzazione sociale priva di ogni attrito o conflitto, pur non credendo in nessuna divinità
e non avendo comandamenti o leggi. La condotta morale è ispirata al loro stesso ciclo di vita: si sentono
infatti parte integrante del pianeta e lo rispettano. Il sacerdote giudica tutto questo opera demoniaca: una
enorme trappola che il Maligno ha messo di fronte all’umanità per indurla in tentazione. Decide dunque di
lasciare il pianeta al suo destino, escludendolo dalle rotte terrestri. Un rettiliano, però, gli dona un vaso
contenente l’embrione del proprio figlio: Egtverchi. Questi viene dunque portato sulla Terra dove ottiene i
diritti di cittadinanza globale da parte dell’ONU. Cresciuto in mezzo ai terrestri, ma con la sua ecologica
struttura mentale, Egtverchi diviene in breve il leader mondiale degli emarginati e dei derelitti, la voce e lo
specchio dove si riflette un’umanità costretta ad un’esistenza miserabile a causa delle minacce nucleari che
tutti attribuiscono a tutti. Il precario equilibrio su cui si regge l’intera società viene contestato duramente dal
rettiliano, che con le sue parole ed il suo stile di vita decisamente anticonformista svela le ipocrisie della
morale terrestre, sollevando milioni persone ad esprimere finalmente la propria gioia di vivere. Egtverchi
diviene così l’Anticristo; il sistema che amministra e lucra sulle paure decide di fermarlo: il suo pianeta viene
atomizzato insieme a lui. Ma il processo innescato dalla grandiosa operazione di autocoscienza collettiva
finirà per travolgere un potere oramai logoro, che attendeva solo il catalizzatore per una reazione
palingenetica. Parimenti, nell’altro romanzo, ma a parti invertite, il protagonista Valentine Michael Smith è
un terrestre allevato dai marziani, che torna sulla Terra e comincia a porre le stesse domande scomode: finirà
anch’egli ucciso, ma trasfigurato in un novello Prometeo.

Ciò che accomuna i due romanzi è decisamente il tema dell’alieno, del totaliter aliter che però sembra il solo
in grado di porre all’umano le questioni fondamentali per la sua esistenza. Ma qui non sono tanto le domande
in sé a suscitare le risposte, quanto le visioni che Egtverchi e Valentine evocano: sono immagini del nostro
stesso mondo, riflesse però nello sguardo eterotopizzante di una vita aliena, in parte simile in parte diversa
dalla nostra. A questo punto, come suggeriscono i protagonisti delle due storie parallele, c’è da chiedersi
perché sia necessario un evento ingovernabile con i consueti dispositivi per arrivare a quella che, in senso
stretto, è una rivelazione apocalittica, sia sul piano personale sia su quello collettivo.

Apocalisse ed eterotopia

Abbiamo parlato di apocalisse, qual è il suo vero significato? Nei racconti, non a caso, viene spesso evocata;
si continua a dire, ad esempio, che Egtverchi è il suo agente, che il messaggio del rettiliano, oramai seguito
da miliardi di persone, porterà alla «fine del mondo». E questa “profezia” usata per spaventarne i seguaci che
tornano sulla superfice dopo gli anni segregati nei bunker antiatomici, si rivelerà assolutamente vera, ma in
un senso del tutto positivo. E allora vale la pena soffermarsi sul senso profondo, prospettico, di una parola
erroneamente collegata, specie in questi tempi pandemici, a un’idea disperata, se non nichilista, di
sconvolgimento, di collasso irreversibile del modello-mondo.

Il termine, com’è noto, deriva dal greco e significa invece, letteralmente, «scoperta» o «svelamento». Questo
rende ragione del suo utilizzo originario come disvelamento di verità altrimenti nascoste o che vanno oltre la
normale portata dell’umana conoscenza. L’idea di apocalisse è dunque di considerevole importanza nella
storia della tradizione giudaico-cristiana ed islamica, dal momento che questioni come la natura del male, lo
scopo dell’esistenza, il perché della sua origine, trovano qui un’esplicita risposta. E dunque, vediamo bene
come nel concetto di apocalisse sia contenuta una tensione positiva verso il disvelamento delle verità ultime,
del fine stesso della vita e non certo l’immagine della sua fine. L’involuzione semantica deriva
evidentemente da un’ellisse del sintagma giovanneo apōkalypsis eschaton, cioè «rivelazione degli eventi
della fine dei tempi». Per ciò il titolo dell’ultimo libro del canone della Bibbia, il Libro della Rivelazione o
Apocalisse di san Giovanni apostolo, viene comunemente, ma molto riduttivamente, interpretato come
profezia della fine dei tempi e del tempo della fine.

Ed invece, pienamente in accordo col significato originario del termine, forse è vero che noi viviamo un
tempo apocalittico, solo che le rivelazioni sul senso della nostra esistenza non vengono da profeti umani
bensì, come nei romanzi di Blish e Heinlein, suggerite direttamente un organismo che trattiamo di fatto come
un alieno, ma così intimo da potersi servire del nostro stesso corpo per passarcele: il covid-19. Anche il suo è
un messaggio che, per molti, potrebbe sembrare simile a quello del Maligno, ma non è esattamente così.
Senza di lui, infatti, la folle corsa che ci ha portato pericolosamente sul baratro dell’estinzione non sarebbe
perlomeno rallentata, la forzata riflessione sul senso dell’unità del vivente sarebbe rimasta nelle sole mani
degli attivisti dei green friday. Dunque siamo in piena apocalisse, nel senso più pieno, globale, ed autentico
del termine: un «apocalisse eterotopico». La definizione di eterotopia, infatti, come concepita da Foucault, è
tratta non a caso dal vocabolario medico. Sono quei fenomeni che si originano in sede diversa dalla normale:
ad esempio stimoli elettrici nati al di fuori del cuore, ma che provocano extrasistoli. Il termine compare nella
prefazione di Les mots et les choses prima di assumere la sua forma compiuta in Eterotopia, e in particolare
nel primo scritto, Spazi altri; una lettura incredibilmente interessante in questi giorni di confinamento
forzato.

Il filosofo amplia dunque l’orizzonte degli spazi eterotopici sino a definire tali «quei luoghi reali,
riscontrabili in ogni cultura ed in ogni tempo, strutturati come spazi definiti e che hanno la particolare
caratteristica di essere connessi a tutti gli altri, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire
l’insieme di questi rapporti». Foucault porta ad esempio il cimitero e l’ospedale; e sin qui il rovesciamento
della relazione è evidente: l’ospedale è il luogo dove la morte organizza la vita, il cimitero è addirittura la
città dei morti. È esperienza comune il senso di rovesciamento quando entriamo. Ma quando percepiamo
l’eterotopia che irradia dalla condizione del presente, dalle città vuote, dalle scuole chiuse, in pratica da tutti i
luoghi che oggi simboleggiano la nostra condizione pandemica, ebbene allora sentiamo che dappertutto si
costruisce, si costituisce e si costudisce la consapevolezza dell’apocalisse.

Ora, se gli spazi eterotopici sono una specie di contesto al contempo onirico e reale, il loro tratto distintivo
sembra essere quello di avvolgere, per così dire, chi li frequenta in una sorta di aura fantastica. Come un
Aleph borgesiano essi la coagulano intorno, ed al tempo stesso la trasmettono al soggetto. Le eterotopie sono
dunque luoghi «ai confini della realtà», territori il cui statuto ontologico viene sospeso, rovesciato. Ogni
civiltà e ogni epoca ha prodotto le proprie eterotopie, ma sono sempre state delimitate spazialmente,
temporalmente e culturalmente. Al tempo del covid-19, invece, forse per la prima volta nella storia
dell’umanità, il dominio dell’eterotopia si estende a tutto il mondo. Si svuotano le autostrade, le stazioni e gli
aeroporti: quelli che una volta erano i non-luoghi descritti da Marc Augé come i templi secolarizzati della
modernità, oggi ci sono preclusi, chiusi. La loro aura nevrastenica è svanita, annichilita dalla nostra stessa
assenza. Gli occhi di Medusa delle enormi vetrine che sino ad un recentissimo, quanto fantasmatico passato,
ci pietrificavano, ora sono spenti; scomparso è lo spleen convulso delle megalopoli globali. Come un tessuto
fragile ed esposto, oramai troppo vecchio e logoro per tenere, la trama della realtà si sta lacerando
irreversibilmente, e noi lo sentiamo nel nostro stesso corpo. L’esperienza della pandemia ci dice già che non
torneremo allo status quo ante, che ognuna delle guarigioni non sarà una semplice restitutio ad integrum ma
una trasformazione; e queste lo saranno all’ennesima potenza poiché sono al tempo stesso individuali e
collettive, personali e globali. Basterebbe questa consapevolezza a restituirci la potenza simbolica necessaria
per ripensarci.

Ma un luogo eterotopico è anche il giardino: almeno nell’immaginario rinascimentale, ma ancor prima nel
mondo arabo medioevale, era inteso come un microcosmo in cui tutte le forme dell’esistenza potevano
trovarsi in armoniosa relazione, il Giardino per eccellenza essendo il Paradiso terrestre. Troviamo in questa
eterotopia forse l’immagine più ispiratrice: se, infatti, oramai è chiaro che il covid-19 è, tra le altre cose,
figlio delle nostre aggressioni all’ambiente, della produzione industriale di carne, della riduzione degli spazi
biologici che si devono ad ogni forma vivente per la sua giusta sopravvivenza, ebbene ecco che il Giardino
terrestre diventa il luogo da ricostruire dopo la rovinosa Caduta nel «Regno della Quantità», come René
Guénon, l’iniziato Muratore, definiva il nostro mondo senza Spirito. Ed anche questo suggerimento lo
dobbiamo al nostro sgradito ospite alieno.
Il Dibbuk: la figure del perturbante

Max Ernst nel suo libro di fotomontaggi, tutti rigorosamente eseguiti a mano solo con forbici e colla, Una
settimana di bontà, introduce la figura di Perturbazione, sorella del grande uccello Lop Lop. Le sue
apparizioni sono sempre coerenti col nome: ci invita, con i suoi gesti pieni di grazia, ad entrare dentro una
serie di immagini vertiginose: familiari ma con qualcosa che si insinua indicandoci una prospettiva nuova,
perturbante appunto. L’idea del «perturbante» (Unheimliche), come dice Freud nel suo omonimo saggio del
1919, è allora speculare al «familiare» (Heimliche), è il suo Doppio: da ciò che sembra conosciuto,
improvvisamente emerge, o scompare, qualcosa che snatura quello che pure sentiamo appartenerci
profondamente; insomma il perturbante è l’eterotopia della nostra percezione sentimentale del mondo. E
cosa c’è di più familiare, e dunque estremamente perturbante, della morte? Seppellire i defunti, o essere
vicino ai propri cari nel momento del trapasso, sono i gesti della familiarità con la morte; ma lasciarli
confinati dietro un vetro e non vederli morire, o non poterli neanche accompagnare nell’ultimo viaggio
terreno, non è forse perturbante? Ecco che il nostro alieno virale aggiunge alla pandemia anche questa nuova
tonalità. E allora cerchiamo, tra le immagini di antiche credenze, qualcosa che possa aiutarci a immaginare
un diverso rapporto con questa entità che dà la morte ma sottrae i morti al nostro sguardo: il dybbuk.

Nella tradizione popolare ebraica polacca e tedesca, è lo spirito al quale è stato vietato l’ingresso in Paradiso
per aver commesso peccati mortali ma un po’ speciali, come il suicidio per amore. Ad alcuni di questi viene
data la possibilità di emendarsi condividendo l’anima di un altro corpo, ed avere così una seconda possibilità.
Nelle vecchie sinagoghe si narra che i dybbuk vengono dalla gehennaa, un termine ebraico traducibile
liberamente con «luogo dei miasmi», un po’ come l’ambiente che genera i virus. Ma ciò che ci restituisce il
senso simbolico del dybbuk è l’etimologia, che deriva dall’ebraico davok, «attaccarsi»: il dybbuk dunque è un
qualcosa che si attacca ad un vivente per coabitare in esso, in altre parole lo “contagia”: questa simbiosi
forma un dibbukim. Ma l’arcano del dybbuk è che una grande responsabilità viene data al corpo ospitante: è
lui che deve farsi carico della natura di ciò che lo contagia, non solo per salvarsi ma anche per salvarlo. In
altre parole deve trovare per il male una giusta collocazione, un luogo in cui tornerà a se stesso, compirà il
proprio destino abbandonando l’ospite. Ecco che la metafora del dybbuk ci narra la nostra storia: non
dobbiamo solo combattere il virus ma anche fare la pace con esso, dargli cioè gli spazi che sono a lui propri:
i serbatoi animali e naturali dai quali viene e con i quali è in equilibrio. Se vogliamo uscirne rafforzati è bene
comprendere, sin da ora, come dicono gli studi epidemiologici più completi, che ricreare queste condizioni è
l’unica maniera per mantenerne la morbilità nella soglia del fisiologico.

Raffaele K. Salinari

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