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Alla stessa dinastia zarista è invece legata la vicenda, anche questa in bilico tra storia e
leggenda, dell’Alessandrite. Qui si tratta della scoperta di una pietra singolare che
prende il nome dal futuro zar Alessandro II, figlio di Nicola I. La pietra venne, infatti,
cavata per la prima volta il giorno della sua nascita, nel 1818. Questo è lo zar
dell’epoca in cui si svolge il romanzo Anna Karenina di Tolstoj, un periodo burrascoso
e denso di avvenimenti storici rilevanti. Ecco che allora la caratteristica peculiare di
questa pietra diviene una sorta di profezia sulla vita e la morte dell’omonimo sovrano.
Essa, infatti, è verde alla luce del sole e rossa a quella artificiale. Il fenomeno è dovuto
alle inclusioni di cromo, presenti anche nel corindone e nello smeraldo. Ora, nel
racconto di Leskov, la casuale scoperta della pietra nel giorno natale del futuro zar, e le
sue caratteristiche cromatiche, fanno intessere al narratore la profezia che la vuole
metafora della vita di Alessandro II. Verde alla luce del mattino, dunque nella
giovinezza e nella maturità dell’imperatore di tutte le Russie, essa diviene color sangue
al calar delle tenebre, simboleggiando così la tragica fine che, effettivamente, subì il
sovrano.
V.I.T.R.I.O.L.
Per Benjamin allora la pietra filosofale, cioè l’incanto salvifico della narrazione, la sua
funzione come strumento di una vera e propria apocatastasi, nasce nel crogiolo della
storia naturale formandosi da un compost affatto speciale. Ecco l’atmosfera nella
quale ci vengono presentati i due grandi protagonisti del racconto di Hebel Insperato
incontro: il tempo che dissolve i corpi, ed il suo comprimario che qui,
paradossalmente, li coagula, il vetriolo.
La parola vetriolo, dal latino vetriolum, compare per la prima volta intorno al VII-VIII
secolo d.C., e deriva dal classico vitreolus. Con questa radice etimologica possiamo
pensare che il nome trovi origine dall’aspetto vetroso assunto dai solfati di rame e di
ferro cristallizzati. Per quelli di rame è di colore azzurro intenso (per questo detto
anche vetriolo azzurro o di Cipro o di Venere, la dea portata verso l’isola dalle azzurre
onde del mare, ma anche il pianeta di riferimento del rame) mentre nel solfato di ferro
è di colore verde azzurro (vetriolo verde o marziale, perché Marte è il pianeta di
riferimento del ferro). Sarà quest’ultimo, lo vedremo tra poco, il vetriolo protagonista
del racconto.
Sia il vetriolo di rame che il vetriolo di ferro erano conosciuti ed utilizzati dagli Egizi e
dai Greci, anche se non sotto questo nome. Forse il famoso natron, che serviva ad
imbalsamare i corpi, ne conteneva una certa quantità. L’immancabile Plinio il
Vecchio, nella sua Historia Naturalis, menziona una sostanza che chiama «vetriolo« e
ne descrive l’estrazione «dalle acque ramifere». Questo nome comprende, e confonde,
in realtà, una vera e propria famiglia di composti. Ecco allora che bisogna chiamare in
causa anche l’alchimia poiché esso, chiamato vetriolo filosofico, indica nulla di meno
che il Solvente Universale, e cioè tutti quei composti chimici che consentono di
avviare la procedura condensata nella nota formula «solve et coagula». Per questo le
sue origini si perdono nella notte dei tempi, essendo indicato come tale, ma anche con
tantissimi altri nomi, in tutti i trattati di Arte Regia. La prima sintesi del vetriolo come
Solvente Universale, cioè come acido solforico, la si deve all’alchimista islamico Ibn
Zakariya al-Razi che lo ottenne per distillazione a secco di minerali contenenti ferro e
rame.
Raffaele K. Salinari