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QUADERNI

DELLA

RASSEGNA
D E L L’ O R D I N E D E G L I AV V O C A T I DI NAPOLI

PASQUALE AMELIO

LA PERSONALITÀ CRIMINALE
Argomenti di teoria generale in criminologia
2
INDICE

CAPITOLO I

PROSPETTIVE DI UNA DOTTRINA


DELLA PERSONALITÀ CRIMINALE

Par. 1 – Introduzione allo studio della personalità criminale 11


Par. 2 – L’approccio interdisciplinare 21
Par. 3 – L’evoluzione della teoria generale della personalità 28
Par. 4 – Difficoltà nel definire la personalità 33
Par. 5 – La teoria del Guadagno come premessa per
l’orientamento attuale nello studio della personalità
criminale – Personalità e delitto 35

CAPITOLO II

LE TEORIE ‘TRADIZIONALI’ DELLA PERSONALITÀ

Par. 1 – L’indirizzo costituzionalista della Scuola di Tubinga. 40


a) – La tipologia di Kretschmer 40
b) – La tipologia di Jaensch 41

3
Par. 2 – L’indirizzo morfologico della Scuola italiana. 43
Par. 3 – L’indirizzo integrale di Pende 44
Par. 4 – La teoria psico-analitica di Freud 46
Par. 5 – La psicologia individuale di Adler 48
Par. 6 – La concezione psicologica del Gemelli 51
Par. 7 – Altre teorie 54
a) – La teoria analitica di Jung 54
b) – La teoria di Lewin in reazione al “behaviorismo” 55
c) – La teoria di Allport 57
d) – La teoria bisociale di Murphy 58

CAPITOLO III

FORMAZIONE E SVILUPPO
DELLA PERSONALITÀ CRIMINALE

Par. 1 – Disposizione ed ambiente 59


Par. 2 – Le disposizioni criminali 62
Par. 3 – Studi sull’ereditarietà 65
a) – Studio concreto delle famiglie criminali 65
b) – Studio statistico delle famiglie criminali 67
c) – Studio dei gemelli 70
d) – Conclusioni tratte dagli studi sull’ereditarietà 73
Par. 4 – Le malattie mentali 74

4
CAPITOLO IV

SVILUPPO DELLA PERSONALITÀ CRIMINALE


NEL MINORE DELINQUENTE

Par. 1 – Incidenza dei fattori socio-culturali su formazione


e sviluppo della personalità criminale 79
Par. 2 – Famiglia - scuola - lavoro 83
Par. 3 – Tempo libero e comunicazioni di massa 86

CAPITOLO V

PERSONALITÀ E DELINQUENZA

Par. 1 – La personalità deviata – asocialità, antisocialità, criminalità 90


Par. 2 – La personalità criminale ed il problema della criminalità 95

5
6
PRESENTAZIONE

Mancava in dottrina un lavoro che, con scrupoloso rigore scienti-


fico, affrontasse l’“annoso” problema dello studio della personalità cri-
minale.
Il vuoto è stato ora colmato da Pasquale Amelio che, con la sua
ultratrentennale esperienza di avvocato di questo prestigioso Ordine
Forense, col supporto del notevole bagaglio culturale legato alle sue
docenze universitarie (dall’Università di Napoli Federico II all’Ateneo
di Cassino, ove è attualmente professore di ruolo di “Diritto penale
dell’economia” e, quindi, “esperto” dei problemi della criminalità in
genere e di quella economica in particolare) ha voluto offrire un con-
tributo destinato ad essere poi inserito in un prossimo manuale di cri-
minologia.
Il tema trattato offre anche un notevole apporto alla comprensione
– alla luce di una moderna criminologia strutturata come “scienza
ausiliaria” del diritto penale – di taluni preoccupanti fenomeni crimi-
nosi che, dall’attacco alle “Due torri” all’eccidio del teatro di Mosca,
lasciano vieppiù sbigottita la pubblica opinione, la quale invoca prov-
vedimenti legislativi urgenti come mezzi di contrasto alla delinquenza
organizzata e terroristica.
Il lavoro, quindi, si presenta di indiscussa attualità ed utilità: sia
per i lineamenti di teoria generale, sia per l’impegno quotidiano di
quanti – giuristi, avvocati, giudici – si occupano dei problemi della
personalità criminale, normativamente considerata, anche implicita-
mente, nell’art.133 del codice penale, ai fini di una giusta valutazione

7
– da parte del giudice – per l’individuazione della pena secondo il cri-
terio di proporzionalità.
Interessante è anche lo spazio che l’autore, nello studio della per-
sonalità intesa come tema centrale della criminologia, dedica alla per-
sonalità criminale del minore divenuta, a sua volta, ‘punto’ centrale
nel processo minorile, per avviare il recupero del deviante, quale per-
sonalità in fieri che può essere recuperata alla società civile.
I numerosi riferimenti, nello scritto, alla teoria di Gennaro Guada-
gno, compianto illustre studioso, che fu titolare della cattedra di
“sociologia criminale” nell’Università di Napoli, nonché eminente
Magistrato che ricordiamo aver diretto con molta saggezza ed innate
doti di equilibrio, la Procura Generale presso la Corte di Appello di
Napoli, testimoniano di una continuità culturale indirizzata a far risco-
prire agli studiosi l’utilità della “nuova sociologia criminale” che ha
contribuito, notevolmente, a permeare dello spirito sociologico la
“nuova criminologia”, finalmente uscita dagli angusti limiti “antropo-
logici” in cui una superata dottrina l’aveva relegata.
In quest’ottica, appare assolutamente suggestivo ed originale questo
lavoro scientifico offerto da Pasquale Amelio che, con sicura padro-
nanza del tema trattato, evidenzia il ruolo della personalità nel feno-
meno delinquenziale.

FRANCESCO LANDOLFO
Presidente del Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Napoli

8
Avv. Prof. PASQUALE AMELIO
Associato di Diritto penale nell’Università di Cassino

LA PERSONALITÀ CRIMINALE
Argomenti di teoria generale in criminologia(*)

(*)
Anticipazione dal volume di AMELIO P., Manuale di criminologia moderna.

9
10
CAPITOLO I

PROSPETTIVE DI UNA DOTTRINA


DELLA PERSONALITÀ CRIMINALE

Par. 1 – Introduzione allo studio della personalità criminale

Uno dei risultati di maggior rilievo cui è pervenuta la dottrina,


penalistica prima e criminalistica poi, è costituito – già dalla seconda
metà del secolo scorso – dall’accentuarsi di un indirizzo subiettivi-
stico per cui viene spostato l’accento dal reato al reo: e il delitto –
inteso come particolare comportamento umano, già considerato da
Franz Exner «punto d’origine della criminologia»1 – viene legato alla
personalità dell’agente, assumendo un particolare valore sintomatico,
come indice di una personalità criminale e sintomo di un disadatta-
mento sociale2. Di conseguenza, lo studio della personalità, conside-

1
Si cfr. EXNER F., Criminologia, Milano, 1953, pag.1.
2
A differenza dal diritto penale, ove i reati si distinguono in delitti e contrav-
venzioni, nelle scienze sociologiche e criminologiche si usa impiegare i termini
“reato”, “delitto” e “crimine” generalmente come sinonimi. Invece, secondo qualche
autore, si deve distinguere tra «criminale» e «delinquente»: meglio essendo il primo
termine, nella sua più comune accezione, riferibile ai delinquenti primari ed il
secondo termine – indicativo piuttosto di uno status – ai delinquenti recidivi. Sul
punto, si cfr. per tutti: GUADAGNO G., Principi di sociologia criminale, 1970, ove tra
l’altro viene illustrata la nozione sociologica del reato, poi approfondita nel successivo
scritto – dello stesso autore – La nuova sociologia criminale, 1973, pag. 48 e segg.. Lo

11
rata come il fulcro genetico del reato, nei suoi molteplici aspetti,
finisce col rappresentare, nell’eziologia del crimine, il punto di par-
tenza di ogni indagine sistematica3.
È indiscusso che la “permeazione soggettiva” costituisca storica-
mente, già dal secolo scorso un ‘dato di fatto’ riscontrabile nella
maggioranza degli ordinamenti giuridici: favorito, soprattutto nella
dottrina penalistica, da un orientamento – pressoché uniforme e,
anzi, in alcuni aspetti progressivo – che, dai tempi dell’ideazione
della teoria dello scopo, da parte di Franz von Liszt, ai seguaci della
teoria finalistica dell’azione, da Welzel in poi, ha tenuto banco per
molti decenni fino forse ai nostri giorni.
Oggetto di questo lavoro è la costruzione – con puntuale rigore
scientifico – di una teoria generale della personalità criminale, ed il
suo inquadramento dommatico nel contesto delle scienze giuridiche
e sociali4.

stesso codice penale italiano del 1930 (codice Rocco) risentì di questo indirizzo
‘subiettivistico’, subendo l’influsso dei moderni orientamenti criminalistici. Al
riguardo, si cfr. ANTOLISEI F., Man.dir.pen, Parte gen., 1975, passim.
3 Invero, l’indirizzo ‘subiettivistico’ si è poi vieppiù accentuato nei vari progetti di

riforma del codice penale: si pensi ai lavori della c.d. Commissione Pagliaro (dal nome
del suo presidente), sostanzialmente proseguiti dalla Commissione Grosso, cui è suc-
ceduta la Commissione Nordio (attualmente impegnata nei lavori di riforma). Il dato
di maggior rilievo è costituito – sempre nell’alveo dell’indirizzo subiettivistico – da
una notevole ‘semplificazione’ della fattispecie penale, soprattutto nell’aspetto dell’e-
lemento soggettivo del reato. Si auspica che resti fermo il proposito: a) – di eliminare
i “residui” di responsabilità obiettiva e pseudo-obiettiva; b) – di eliminare la prete-
rintenzione, che verrebbe condotta al paradigma della colpa aggravata dalla previ-
sione dell’evento; c) – di ridurre, conseguentemente, a due – dolo e colpa – i para-
metri normativi della colpevolezza. In quest’ottica, assumerebbe maggior rilievo
anche lo studio della personalità del reo secondo – ci si augura – un novellato art.133
del riformando codice penale.
4 Ogni tentativo di costruire una teoria non è, invero, immune da difficoltà: se è

vero che – come afferma P.S. Cohen – la stessa «parola “teoria” è come un assegno

12
A tal fine, per la comprensione dei tanti problemi relativi alla per-
sonalità criminale, sarà opportuno considerare anzitutto la persona-
lità deviata, avendo riguardo ai suoi elementi caratterizzanti, nonché
alla genesi, allo sviluppo ed alle sue molteplici manifestazioni che,
dalla ‘asocialità’ ed ‘antisocialità’ giungono, attraverso un particolare
procedimento di deviazione sociale cui non è estranea l’anomia –
intesa dal Guadagno come «disorganizzazione della condotta indivi-
duale» e «l’indebolirsi del senso di coesione sociale» – nello stadio
ultimo, alle conseguenze tipiche della personalità criminale: i com-
portamenti delinquenziali5.
Per unanime riconoscimento in dottrina, lo studio della persona-
lità è di tale portata da non dover stupire il tentativo, da parte di

in bianco», dipendendo «il suo valore potenziale» «dall’uso che se ne fa», e che «le
teorie non vanno intese come riferite a eventi particolari, ma a intere categorie di
eventi»: onde esse «non avrebbero certamente alcun valore se non andassero oltre i
fatti»: cioè, oltre quelle «affermazioni, ritenute vere, a proposito di particolari eventi
accaduti» (si cfr. COHEN P.S., La teoria sociologica contemporanea, Bologna, 1968,
pag.9). D’altro canto – prosegue il Cohen – «se non fosse per le teorie, non avremmo
alcuna esperienza della realtà che meriti di essere o possa essere registrata» (si cfr.
COHEN P.S., Op.loc.cit., pag.10). Esse poi vanno sistematicamente suddivise in quattro
classi e precisamente: a) – teorie analitiche; b) – teorie normative; c) – teorie scientifi-
che; d) – teorie metafisiche o programmatiche (COHEN P.S., Op. loc. cit., pagg.10-11).
L’opinione del Choen è, rispetto alla tematica delle c.d. «teorie sistemiche», di fon-
damentale importanza per gli studiosi della criminogenesi, se si considera che l’au-
tore, come egli stesso avverte, si è «sforzato di elaborare una tesi sulla natura dell’a-
zione sociale, dei sistemi sociali e del mutamento sociale, e delle loro relazioni»
(Op.loc.cit., pag.312). In tema di teoria generale della devianza, si cfr. dello stesso
autore: Controllo sociale e comportamento deviante, Bologna, 1966, ove testualmente
si afferma che «per quanto le teorie generali sulla deviazione e sul controllo abbiano
implicazioni importanti per la progettazione e la risoluzione di programmi di con-
trollo, esse non forniscono di per se stesse soluzioni finali o soluzioni intermedie»
(così COHEN P.S., Op.ult.cit., pag.206).
5 Si cfr.: GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, Napoli, 1966, passim; IDEM,

La nuova sociologia criminale, cit., pag. 33 e segg., pag. 128 e segg.

13
numerosi ed autorevoli studiosi, di volerlo reputare oggetto di una
disciplina piuttosto che di un’altra, sia pure in una dimensione di
“approccio interdisciplinare”. Così si spiega come insigni cultori di
psicologia, teologia, psichiatria, psicanalisi, antropologia, sociologia
generale, sociologia giuridico-penale, sociologia criminale, sociologia
della devianza, ecc. sino alla “nuova” sociologia criminale ed alla
moderna criminologia, si siano tutti occupati degli innumerevoli
problemi relativi alla personalità umana: nei suoi vari aspetti e
soprattutto in quelli relativi ai comportamenti devianti6.

6
Circa «il ruolo delle scienze sociali fra le discipline intellettuali moderne», si cfr.
PARSONS T., Teoria sociologica e società moderna (trad. it. di MARANINI P.), Milano,
1979, pag. 152 e segg.. L’autore, occupandosi delle «discipline intellettuali in quanto
costituiscono uno degli aspetti principali della cultura contemporanea», allo scopo di
«comprendere l’unità e la diversità che si manifestano in queste discipline», enuncia
la sua teoria della «struttura tripartita delle discipline intellettuali nell’ambito della
moderna organizzazione degli studi» (Op. loc. cit., pagg.152 e segg., 174 e segg.). Il
Parsons effettua, invero, un’approfondita analisi della concezione durkheimiana del
«problema dell’integrazione del sistema sociale», reputando l’opera di Durkheim
«poco meno che l’inizio di una nuova epoca», anche se «la profondità del suo pen-
siero non ha ancora permesso una complessa assimilazione di tutte le implicazioni
della sua opera da parte dei vari gruppi di studiosi interessati» e, dopo un’accurata
analisi del pensiero weberiano, riconoscendo in Weber «uno dei principali fondatori
della moderna scienza sociale, e in particolare della sociologia moderna», a proposito
di «quel movimento il cui centro è rappresentato dalla convergenza
Weber–Durkheim», cioè, di quel «movimento» che «ha reso possibile una sintesi di
due grandi gruppi di categorie intermedie» quali «i bisogni o interessi da una parte
e l’organizzazione e i modelli relazionali dall’altra», reputa che «né l’implicita strut-
tura monistica empiristico-utilitaristica, dove tutte queste discipline venivano conce-
pite monoliticamente, né il dualismo idealistico rappresentano posizioni tenibili come
schemi di riferimento adatti al livello di raffinamento raggiunto in questo campo»,
onde le scienze sociali devono essere considerate come «categoria del tutto auto-
noma»: siccome «esse non sono scienze naturali dal momento che non escludono le
categorie del significato soggettivo», «né sono culturali-umanistiche nel senso che l’in-
dividualità dei significati particolari debba avere la precedenza sulla generalizzazione
analitica e su categorie come quella della causalità» (Op. loc. cit., pag.174).

14
Per questi motivi, il Gemelli, che studia la personalità dal punto
di vista psicologico, rileva l’opportunità «di porre un poco di ordine
in tutti questi problemi sollevati nello studio della individualità
umana e delle sue caratteristiche» ed a tal fine distingue i tre scopi
fondamentali e ‘diversi’ cui tendono la biologia, la psicologia e la
psichiatria: e cioè, rispettivamente: a) – studio della personalità; b) –
studio del carattere; c) – studio del temperamento7.
Al riguardo, il Gemelli reputa necessarie tali precisazioni, proprio
a causa della ‘gran confusione’ esistente tra questi concetti, special-
mente riguardo alla nozione di “temperamento” troppo spesso con-
fusa con quella di “carattere”.
Ed invero, se da un lato va riconosciuta l’indubbia reciproca
influenza delle tre scienze che affrontano – tutte e tre – i problemi
della individualità, interagendo fra di loro, d’altro lato rileva però la

Ciò esposto, il Parsons giunge alla conclusione che «è diventato finalmente chiaro
che le componenti analitiche e storiche della conoscenza sono appunto componenti,
non classi concrete»: onde da un lato «i metodi analitici generalizzanti sono vitali non
soltanto per l’economia e la psicologia comportamentistica, ma anche per le discipline
sociali che penetrano molto più a fondo nel campo “umanistico”, come la sociologia,
l’antropologia, il diritto, la scienza politica, e certi aspetti della storia stessa», e dal-
l’altro «la prospettiva storica è penetrata ampiamente nel normale dominio della
scienza naturale»; riconoscendosi quindi che «tutti e tre i gruppi di discipline hanno
infine il loro aspetto pratico come conoscenza applicata all’attuazione dei valori e
interessi umani, e non solo come campi di conoscenza fine a se stessa» e che «il con-
cetto di “ragione pratica” non è limitato a nessun ramo di conoscenza ma è rilevante
per tutti quanti» (Op.cit.,pag.175).
Si cfr: PARSONS T., Social Structure and Personalità, New York, 1964; IDEM, La
struttura dell’azione sociale (trad.it. dall’originale The Structure of Social Action), Bolo-
gna, 1968; IDEM, Il sistema sociale (trad.it. dall’originale The Social System), Milano,
1965. Per una panoramica dello sviluppo del pensiero sociologico nella storia, si cfr.
ARON R., Le tappe del pensiero sociologico, Milano, 1989.
7
Si cfr. GEMELLI A., Sulla natura e sulla genesi del carattere, in Contributi del
Laboratorio di psicologia, Pubblicazioni della Università Cattolica del Sacro Cuore,
1931.

15
necessità di distinguere le tre diverse direzioni in cui le tre scienze
operano: e, soprattutto, i tre diversi contributi da esse offerte al con-
teso campo di studio.
Hubert Rohracher, a sua volta, partendo dal presupposto che «le
ricerche in tema di personalità costituiscono una scienza molto gio-
vane», osserva che lo studio della personalità non è derivato dalla
psicologia generale, bensì ha avuto genesi e vita “autonome” ed è
stato addirittura, in determinati momenti storici, “ripudiato“ dalla
psicologia scientifica8. Per questo autore, gli studi sulla personalità
sono di competenza della caratterologia, considerata come una
branca particolare della psicologia.
H.J.Eysenck fa assurgere il concetto di personalità alla massima
accezione di termine descrittivo di un determinato ‘campo’ di stu-
dio e, principalmente, a concetto ‘capace’ di riunire psicologia fisio-
logica e psicologia sociale9.
Infatti, nel noto “diagramma” di Eysenck, viene rappresentata al
centro la psicologia – in posizione di «scienza madre» – come una
sfera divisa in due semisfere: psicologia fisiologica e psicologia sociale;
comprendenti: a) – la prima, le scienze biologiche (fisiologia, neuro-
logia, anatomia, morfologia, genetica, ecc.); b) – la seconda, gli studi
sociali (sociologia, economia, storia, sociologia criminale, antropolo-
gia, ecc.).
Tra le due forme di psicologia, lo studio della personalità agi-
rebbe, per Eysenck, come un vero e proprio ‘ponte’ di riunifica-
zione10.

8Si cfr. ROHRACHER H., Elementi di caratterologia, Firenze, 1961, passim.


9EYSENCK H.J., Senso e controsenso in psicologia, Firenze, 1961, passim.
10 Lo stesso Eysenck però avverte come «questa nozione della psicologia come di

un soggetto omogeneo a metà strada tra le scienze biologiche e gli studi sociali» non
sia da intendersi come «completamente esatta», siccome «la stessa psicologia, come

16
Anche Jean Stoetzel rivendica, come campo precipuo della psico-
logia, lo studio della personalità, affermando: «La personalità è pro-
babilmente il tema più centrale di tutta la psicologia. Le diverse
branche di questa scienza lo trattano: la psicologia fisiologica con la
costituzione ed il temperamento; la psicologia genetica con lo svi-
luppo dell’io; la psicologia generale con il carattere; la psicologia dif-
ferenziale con le differenze tra le persone; la psicologia filosofica con
le condizioni trascendentali della coscienza e del senso di se
stesso»11.
Per questo autore è fondamentale, ai fini dello studio della per-
sonalità umana, negli aspetti anche devianti, la psicologia sociale,
osservando come i progressi di questa scienza siano stati «a lungo
impacciati dalla lentezza con la quale le discipline affini si sono esse
stesse costituite come scienze: in particolare la psicologia, la socio-
logia e l’etnologia»12.
Jean Stoetzel è dell’opinione che, se in un modo o nell’altro tutte
le scienze umane sono in collaborazione fra di loro, ciò è partico-
larmente vero per psicologia, sociologia ed etnologia, in quanto inte-
ragenti per essere ‘legate’ da particolari relazioni che ne consentono
una utilissima e, forse, indispensabile collaborazione.
Con riferimento, in particolare, a psicologia sociale e sociologia,
egli difende poi il primato assunto dalla prima; ma è costretto ad

indica il diagramma, è divisa in due parti; da un lato, la psicologia fisiologica, che ha


le sue principali affinità con le scienze biologiche; dall’altro, la psicologia sociale, che
ha le sue affinità principali con gli studi sociali»; onde occorre «un concetto che riu-
nisca le due parti»: e questo «ruolo centrale» – secondo l’autore – «spetta al concetto
di personalità, il quale assume in tal modo la sua importanza singolare nella psicolo-
gia riunendo due settori di ricercatori altrimenti isolati l’uno dall’altro» (si cfr.
EYSENCK H.J., Op. loc. cit., pag. 155 e seg.).
11 Così testualmente STOETZEL J., Psicologia sociale, Roma, 1964, pag. 165.
12
Si cfr. STOETZEL J., Op. loc. cit., pagg. 35-36.

17
ammettere , in linea con una corrente di pensiero che si è andata
vieppiù affermando, che, se da un lato si è avuto un «contributo
apportato dalla psicologia sociale alla sociologia scientifica contem-
poranea», d’altro canto «la psicologia sociale tende sempre più a
impregnarsi di spirito sociologico». Ancora questo autore riferisce di
stretta collaborazione tra psicologia sociale e sociologia, spingendosi
perfino ad ammettere che «molto spesso non si sa più se si fa della
sociologia o della psicologia sociale», pur trattandosi di due scienze
distinte; ed ancora: «il fossato che separava psicologia e sociologia è
ora riempito»13.
Va però rilevato che Jean Stoetzel arriva faticosamente a questa
conclusione, dopo aver ammesso che la sociologia fino ad epoca
recente non ha avuto neanche dei metodi propri, costretta invece a
prendere «a prestito i suoi oggetti dalle discipline vicine»: e, cioè,
dal diritto, dalla storia, dall’etnologia e finanche dalla statistica.
Da questa impostazione deriva che lo Stoetzel fu difensore ad
oltranza – come Eysenck – dei metodi e dei sistemi della psicologia
sociale, reputata: sia come scienza pienamente idonea ad affrontare
con successo i problemi della personalità umana, anche deviante; sia
anche come scienza posta in una situazione di “preminenza” nei
confronti della sociologia che, agli inizi del suo lungo cammino,
veniva da essa “assorbita”, soltanto di recente essendosene separata,
rivendicando la propria autonomia; per poi – aggiungiamo noi –
venire a sua volta fagocitata da una neonata “nuova criminologia” o
“criminologia moderna”.
Ond’è che la teoria generale della personalità criminale – consi-
derata, quest’ultima, come il ‘fulcro genetico’ del comportamento

13
Si cfr. STOETZEL J., Op. loc. cit., pagg. 43-45.

18
deviante – ineluttabilmente interferisce con l’altra teoria, stretta-
mente connessa, della costruzione dommatica di una scienza – giu-
ridica o sociale – che, pur in una visione interdisciplinare, abbia
piena attitudine ad affrontare le molteplici tematiche relative allo
studio della cosiddetta personalità deviata: nei suoi molteplici
aspetti, ma soprattutto in quello di ‘fonte’ di comportamenti
devianti, anche criminali14.
Il ragionamento è di lapalissiana semplicità: se alla sociologia
generale – e, in particolare, alle sue branche: sociologia giuridica,
sociologia giuridico-penale, nonché ‘vecchia’ e ‘nuova’ sociologia cri-
minale – viene riconosciuta l’attitudine ad occuparsi dei fenomeni
sociali, è ovvio che non poteva, storicamente, la sociologia – durante
le varie tappe del pensiero sociologico – non occuparsi anche di
quel fenomeno sociale costituito dal comportamento deviante, che
oggi è divenuto oggetto precipuo della criminologia moderna.
Questa poi è stata, a sua volta, talmente permeata dallo ‘spirito’
sociologico che – come si vedrà in seguito, nel corso di questo
scritto – è davvero difficile per gli studiosi contemporanei stabilire
in modo preciso i ‘confini’ o ‘limiti concettuali’ di queste due
scienze15.

14
Sul punto si cfr. AMELIO P., Una nuova criminologia per un nuovo diritto penale.
Alla ricerca dei confini della criminologia moderna, in Giust. pen., 2002, II, col. 254 e
segg.; IDEM, Emergenza crimine: nuova criminologia o nuova sociologia criminale?
Alla ricerca dei confini concettuali della sociologia criminale, tra diritto e sociologia, in
Giust. pen., 2002 (in corso di stampa), dove viene espressamente affermato che «il
punto di partenza di ogni indagine sistematica – idonea allo studio di fenomeni da
esaminare – non può prescindere dalla individuazione dommatica della identità onto-
logica della disciplina di cui si rivendica l’autonomia scientifica».
15 Si cfr. AMELIO P., Una nuova criminologia per un nuovo diritto penale, cit., col.

253. Si cfr. anche, per le felici intuizioni sul tema, PISAPIA G., Fondamento e oggetto
della criminologia, Padova, 1983, passim, ove fra l’altro viene riconosciuto che in dot-

19
Al riguardo, Gianvittorio Pisapia rileva che: «il sovrapporsi di
molteplici discipline nell’ambito criminologico ha, peraltro, determi-
nato incertezze e disorientamenti che sembrano far ritenere la cri-
minologia una sorta di terra di nessuno», con la constatazione che
«ancora oggi la criminologia» non riesce a «dispiegare la propria
identità se non riferendosi, in maniera più o meno critica, ad altre
scienze o discipline»: il che «giustifica il dubbio che essa, al di là di
una ormai accettata denominazione semantica, sia ancora lontana
dal vedere identificati il proprio oggetto e la propria dimensione,
nonché una metodologia»16. L’autore, proseguendo nell’accurata
disamina del «fondamento e oggetto della criminologia», osserva che
«l’attuale sociologia criminale» – variamente denominata: addirittura
come “nuova criminologia” o “criminologia critica” – a sua volta
«mette…sotto accusa l’antropologia criminale, in quanto il para-
digma eziologico da questa assunto supporrebbe una nozione onto-
logica di criminalità intesa come un dato precostituito alle defini-
zioni ed alla reazione sociale»17. A fronte poi della «possibilità di
una criminologia che non solo non venga identificata con l’antropo-
logia criminale, ma neppure come momento di sintesi di conoscenze
sui fenomeni della criminalità, della devianza e del controllo
sociale», reputa il Pisapia che «la sociologia criminale non si pone,
data la struttura del suo discorso, come scienza criminologica alter-
nativa, ma come critica sociologica rispetto a fenomeni che sono di

trina «si riscontra una quasi unanime convergenza nel definire la criminologia come
scienza fenomenologica e causale-esplicativa, che studia il crimine, il criminale, la cri-
minalità come fenomeno sociale, o anche, in una visione più ampia, le varie forme
del controllo sociale» (Op. loc. cit., pag. 5).
16 PISAPIA G., Op. cit., pagg.1-2.
17 PISAPIA G., Op. cit., pag.171.

20
interesse anche della criminologia»18 e che quest’ultima, «quale
scienza a carattere normativo, offre gli strumenti analitici per indivi-
duare l’area problematica che sta a monte delle codificazioni di feno-
meni quali la criminalità e la devianza», con la conseguenza di non
poter la criminologia, «durante il suo percorso conoscitivo», invero,
«non instaurare fecondi rapporti con il diritto penale, la sociologia
criminale e l’antropologia criminale»19.
Ma forse proprio da tale ‘connessione’ – e ‘confusione’ – non solo
terminologica, di due scienze interagenti fra di loro, deriva il risul-
tato di maggior rilievo cui, partendo da angoli visuali diversi, sono
addivenute le due relative dottrine, durante l’evoluzione del pen-
siero sociologico, da un lato, e di quello criminologico dall’altro:
l’indirizzo subiettivistico in una ‘moderna’ visione della figura del
reo e della sua personalità.
D’altro canto la dottrina, sia sociologica che criminalistica, è più
volte insorta contro tale ibrido, ma paradossalmente felice, connu-
bio tra criminologia e sociologia criminale: atteso che proprio da tale
contraddittoria commistione è poi nata la criminologia moderna.

Par. 2 – L’approccio interdisciplinare

Invero, uno dei più tormentati problemi affrontati, in teoria gene-


rale, dal pensiero sociologico e criminologico contemporaneo, è
costituito dalla coesistenza – nello studio della criminalità, delle sue
cause ed effetti, sia nella dimensione ‘individuale’ (studio della per-
sonalità criminale) sia nella dimensione del ‘fenomeno sociale’ (stu-

18
PISAPIA G., Op. cit., pag.174.
19 PISAPIA G., Op. cit., pag.180.

21
dio della devianza in genere, non solo quella ‘criminale’, intesa come
fatto di ‘patologia sociale’) – di due fondamentali discipline (stori-
camente assurte a ‘scienze’: la criminologia e la sociologia criminale),
di cui è arduo determinare le oggettive distinte identità ontologiche
ed i propri confini concettuali: attesa la loro natura di «scienze inter-
disciplinari» che si contendono, reciprocamente, il “campo di stu-
dio”, interagendo fra di loro in una dimensione ed in prospettive
che, anche per le precipue finalità perseguite, vanno ben oltre la
realtà di una semplicistica – oseremmo dire ‘banale’ – integrazione,
fra l’approccio sociologico e quello antropologico-criminale.
La disputa dottrinale – che investe la conoscenza dei più vari
campi ed aspetti dello ‘scibile umano’: dalla sociologia al diritto,
dalla filosofia alla morale ed alla religione, dalla medicina all’econo-
mia – non è di scarso rilievo: siccome è indubitato che, prima di stu-
diare analiticamente un qualsivoglia fenomeno (individuale o sociale,
empirico od astratto, compreso le «ideologie») è pregiudiziale: a) -
dapprima costruire dommaticamente – quindi, come ‘categoria’ – la
scienza ‘capace’, per le sue peculiari attitudini, della comprensione
scientifica del fenomeno stesso; b) - e poi delimitarne il “campo
d’indagine”, stabilendo i suoi precisi confini concettuali rispetto alle
altre scienze, sia pur in un’ampia visione di «approccio interdiscipli-
nare» alle tematiche ed ai fenomeni oggetto di studio.
La “storica confusione”, tra criminologia e sociologia criminale,
non attiene, infatti, ad una disputa ‘meramente terminologica’; bensì
trae origini da due distinti atteggiamenti culturali che, da due diversi
– per non dire ‘opposti’ – orientamenti del pensiero sociologico e di
quello criminologico, talvolta anche ‘coevamente’ hanno cagionato la
confusione di idee in ordine alla stessa ‘entità’ ontologico-strutturale
ed alle finalità precipue delle due scienze: non ultimo lo studio della
personalità criminale.

22
Invero, la criminologia nel lungo cammino del suo sviluppo con-
cettuale, ha più volte - nella storia del suo stesso divenire – assimi-
lato canoni, schemi e contenuti della sociologia criminale.
In un interessante studio di ricostruzione storica delle varie tappe
percorse dalla criminologia, il Ponti individua tre “momenti” riferiti
agli «aspetti contenutistici ed operativi» di questa disciplina e preci-
samente: «l’epoca che ha inizio dal dopo-guerra e che termina nel
1968, gli anni del ’68 o del trionfo dell’ideologia, il dopo-sessan-
totto»20.
Nel ‘primo momento’, secondo l’autore, essa – atteggiandosi a
«criminologia riformista e riformatrice» – «si concretizza nel senso
della criminologia clinica» e, inserendosi «nella realtà del mondo
carcerario», pone come suoi confini: «lo studio scientifico della per-
sonalità, la comprensione del mondo umano e sociale di chi delin-
que, la ricerca delle tecniche e delle metodologie risocializzative»:
così mostrando di aver ben recepito «i nuovi spunti» della «sociolo-
gia struttural-funzionalistica» e cioè: «relatività dei valori culturali,
significato contingente del delitto, implicazioni economico-sociali
del numero oscuro e della criminalità dei colletti bianchi, signifi-
canza della criminalità occulta economica e politica, rilevanza dei
fattori economici e di classe, ecc.»21.
Nel ‘secondo momento’ la criminologia non può non risentire
degli avvenimenti e dei significati del ’68 che costituì una vera e pro-
pria «rivoluzione culturale» con riverberi sulla disciplina che – come
un po’ tutta la cultura del momento, in genere – «si alimentò sui

20 Si cfr. PONTI G., Contenuti e finalità delle discipline criminologiche e sviluppo


storico della realtà italiana, in Rivista di polizia, 1983, fasc. I-II, pag.4 e segg.
21 PONTI G., Op.loc.cit, pag.5.

23
temi della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno e soprattutto
Marcuse)»22.
Ne deriva un nuovo volto della criminologia che – riferisce il
Ponti – sotto l’aspetto concettuale, ‘ripudia’, con decisa inversione
di tendenza, «lo struttural-funzionalismo» ed «assorbe i contenuti
della sociologia interazionistica, della sociologia radicale, le imposta-
zioni della National Deviancy Conference, della sociologia marxiana»,
dando fondamentale rilievo al «concetto di devianza» che «riassorbe
e vanifica quello di criminalità»: nel senso che assurge a «nuovo
concetto che meglio si presta a riassumere in sé tutta la visione ideo-
logica e politica, attorno a cui ruota tutta la sociologia criminale e
che viene immediatamente recepito e fatto proprio dalla cultura di
sinistra». Alla luce di una nuova Weltanschauung, «si parte dall’ana-
lisi dell’emarginazione e della marginalità e divengono devianti non
solo gli emarginati ma anche tutti i marginali». Da tale aberrante
premessa culturale deriva che «la responsabilità del singolo circa la
sua condotta viene rifiutata: ogni colpa è della società, la devianza è
il frutto della reazione istituzionale e delle discriminazioni di classe,
la delinquenza è pertanto anch’essa sempre e solo politica; è solo
uno stereotipo; il deviante non esiste in sé ma solo nella definizione
sociale; tutto è soggettivismo»: trattasi, in definitiva, di «una nuova
criminologia tutta ideologica e niente scientifica» con cultori «di
prevalente ceppo sociologico», la cui ideologia si riflette «anche
sulla realtà operativa nei settori criminalistici e penali»23 con il car-

22
Così, con efficace espressione, PONTI G., Op..cit., pag.7. Per un’approfondita
analisi del ’68 americano, francese ed italiano, si cfr. SIDOTI F., Istituzioni e crimina-
lità, Padova, 1966, pagg. 70 e segg., 94 e segg., 293 e segg.
23
Si cfr. PONTI G., Op. cit., pagg.11 e 12.

24
cere che diventa «il prototipo della istituzione emarginativa e
totale»24.
Il “terzo momento”, succedaneo al «tramonto della ideologia»,
viene considerato dal Ponti come «il momento dello sconcerto,…del
reflusso, del ripensamento, ma anche forse del recupero di certi
valori e della ricerca di nuovi»: in questo momento la criminologia,
«fortemente ferita dal fenomeno del terrorismo», sembra all’autore
del preciso studio di ricostruzione storico-scientifica «che bran-
coli…. fra la delusione e la speranza di ritrovare una sua identità»;
onde il Ponti rileva che vi sono oggi in Italia «almeno tre crimino-
logie» che così individua: a) – «una criminologia ideologica», cioè
«quella dei sociologi antiscientifici,… disancorata dalla realtà empi-
rica» e che «più delle altre…sembra vagare nel buio»; b) – «una
seconda criminologia fatta di operatori sociali che, bene o male, sono
stati immessi con la riforma carceraria nella realtà criminale: educa-
tori, psicologi esperti» i quali però, da un lato si trovano di fronte
ad una «realtà carceraria ben mutata, con delinquenti non più moti-
vati ad essere risocializzati, insensibili ai principi che furono della
criminologia clinica», ma dall’altro pur «maturano ricche espe-
rienze»; ed infine c) – «la criminologia di vecchio stampo», cioè
«quella di criminologi non improvvisati,…ma che hanno fatto vera
ricerca, utilizzando la loro matrice scientifica»: onde, pur avendo
«sopportato malamente il crollo della criminologia clinica…ha però
a suo favore pur sempre la mentalità empirica, il metodo delle
scienze»25.

24
PONTI G., Op. cit., pag.13.
25
Si cfr. PONTI G., Op.ult.cit., pagg.15-18.

25
Le perspicue intuizioni del Ponti – come espresse nel suo basilare
scritto più volte citato in questo lavoro26 – vengono poi riprese,
maturate e compendiate dall’autore attraverso le varie edizioni del
suo fondamentale Compendio di criminologia,27 ove non a caso viene
affermato che «con la crisi del “mito risocializzativo” operatività e
finalità degli interventi contro la criminalità sono mutati, anche se
rimane inalterato il fondamentale contributo della nostra disciplina
per la miglior conoscenza del problema della criminalità, e se pur gli
interventi dell’operatore criminologo non sono venuti a cessare, ma
hanno assunto nuove dimensioni»28.
Quanto poi all’attitudine della criminologia ad occuparsi dei mol-
teplici problemi relativi ai comportamenti devianti, il Ponti già nel
lontano 1980 evidenziava come la criminologia richiamasse «una
sempre maggior attenzione fra gli studiosi e gli studenti di molteplici
discipline: dalle scienze sociali a quelle giuridiche, psicologiche,
mediche e psichiatriche, alle scienze politiche, alla pedagogia, alla
filosofia», siccome «la criminalità, fra i tanti problemi sociali che
affliggono il nostro momento, non è certo fra gli ultimi» e, ancora,

26
PONTI G., Contenuti e finalità delle discipline criminologiche e sviluppo storico
della realtà italiana, cit.
27 Si cfr. PONTI G., Compendio di criminologia, Milano, ed. 1980.
28 Così PONTI G., nella Prefazione alla quarta edizione del Compendio di crimino-

logia, Milano, 1999, pag.XIX e seg . In altra parte del suo scritto, l’autore osserva
come «la disciplina criminologia…non è esclusivamente riservata ai futuri addetti al
lavoro del sistema giustizia, ma offre anche in una prospettiva umanistica, molteplici
spunti per ampliare le conoscenze e favorire la riflessione sui fatti sociali, sulle carat-
teristiche psicologiche e relazionali dei singoli e dei gruppi, sui disturbi mentali; e
ancora sulla responsabilità morale e sulla libertà dell’agire, sui tanti fattori che si cor-
relano con le scelte di condotta nella vita sociale», così fornendo «una molteplicità di
spunti che mirano a favorire una migliore conoscenza della persona umana» (Si cfr.
Compendio, cit., pagg. 1-2).

26
poiché «la delinquenza, convenzionale e non, se pur è un male di
sempre, è andata crescendo paurosamente nella seconda metà del
secolo, sia nel numero che nella gravità, coinvolgendo sempre più
numerosi settori della vita sociale»29.
In tale ottica, lo studio della personalità non poteva non risentire
del mutevole vario atteggiarsi delle scienze sociologiche e criminolo-
giche – ancora alla ricerca di una loro soddisfacente identità ed
autonomia – e, parallelamente, di un diritto penale in profonda tra-
sformazione, vieppiù teso ad adeguarsi, nell’indirizzo soggettivistico,
ad una società a sua volta in radicale trasformazione30.

29
Così PONTI G., nella Prefazione alla seconda edizione del Compendio di crimi-
nologia, Milano, 1980.
30 Osserva il Mantovani che «pur nella loro autonomia di scienze, l’una di scienza

normativa legata ad una impostazione di valori e l’altra di scienza empirico-conosci-


tiva, legata ai fenomeni, il diritto penale e la criminologia vivono – talora con ritardi
e divari della scienza penale rispetto alle scienze criminologiche – in un rapporto di
complementarietà necessaria e di interdipendenza» (MANTOVANI F., Diritto penale,
Parte gen., Padova, 2001, pag. XXXIII), tanto che «come sarebbe superba la pretesa
del criminologo di costruire le proprie categorie trascurando la realtà dei valori che
esse esprimono, così è non meno grave atto di presunzione ascientifica, che non fa
progredire la scienza penale, l’isolamento del giurista nella torre eburnea delle forme
pure» (MANTOVANI F., Op. loc. cit., pag. XXXIV). Quanto poi al diritto penale, il
Mantovani, dopo aver affermato che questo va inteso come «valore e natura» perché
valuta come criminosi fatti umani in rapporto a certi valori e perché i fatti, in quanto
tali, appartengono al mondo della natura» (Op. cit., pag. XXXIV) e che «il diritto
penale è solo una parte, anche se la più importante, del più ampio genus del diritto
punitivo» (Op. cit., pag. XXXVI), rileva che «la scienza penale moderna abbraccia nel
proprio campo di indagine non solo il diritto penale, quale complesso di norme penali
positive mediante le quali la società reagisce contro il crimine (senza perdere di vista
la più ampia categoria del diritto punitivo), ma anche le acquisizioni della criminolo-
gia, che studia sotto tutti i suoi aspetti il fenomeno criminale, e la politica penale, la
quale, nella sua più ampia e comprensiva finalità di ricercare i mezzi più adatti a pre-
venire il crimine, ha pure lo scopo di permettere la razionale utilizzazione dei dati

27
Di conseguenza, se il diritto penale cambia volto e, per l’effetto,
anche il processo penale, ch’è lo strumento per eccellenza dell’af-
fermazione e realizzazione del diritto penale sostanziale, non deve
stupire che anche la criminologia si adegui al mutare dei tempi e
delle coscienze sociali, cambiando anch’essa volto, in una società in
profonda trasformazione cui non sono estranei i vari processi di
“maturazione sociale”.

Par. 3 – L’evoluzione della teoria generale della personalità

Sembra utile, a questo punto, ripercorrere con ordine le tappe


dello studio sistematico della personalità umana, con particolare
riferimento alla personalità deviata, vieppiù considerata in dottrina
come ‘fonte’ dei comportamenti devianti, anche criminali.
La prima osservazione è la seguente: se le molteplici scienze
sociali che si contendono il ‘campo di studio’ della personalità
deviata in genere, e di quella criminale in specie, rivendicano, cia-
scuna di esse, la propria autonomia, come si perviene a considerare
la criminologia come la “scienza madre” idonea, più delle altre disci-

offerti dalle scienze dell’uomo in norme giuridiche e la migliore formulazione di tali


norme positive (tecnica legislativa)» (Op. cit., pagg. XXXVI e XXXVII).
La teoria del Mantovani – da condividersi appieno – trova riscontro normativo
nella c.d. «rideterminazione e aggiornamento dei settori scientifico-disciplinari» di inse-
gnamento nelle università italiane, operata dal D.M. 4 ottobre 2000 (in suppl. ord.
G.U. 24 ottobre 2000, n.249, serie gen.) che include nel “settore Jus 17 – Diritto
penale” anche gli studi attinenti alla «criminologia per quanto riguarda gli aspetti di
più immediata rilevanza giuridica». Onde ben può ritenersi che «la criminologia è
scienza ausiliaria del diritto penale» (si cfr. AMELIO P., Una nuova criminologia per un
nuovo diritto penale, cit., col. 254).

28
pline, ad affrontare la complessa tematica dei comportamenti
devianti?
Se, per esempio, la sociologia affronta, secondo l’opinione dello
Stoetzel, problemi quasi simili a quelli osservati, per esempio, dalla
psicologia sociale, se ancora la sociologia ha oggi, come anche la cri-
minologia, dei metodi ‘propri’ e soprattutto una propria autonomia,
qual’è il criterio distintivo per individuare i diversi oggetti di studio
di queste due scienze?
Lo stesso Gurwitch, a proposito dell’alternativa “psicologia o
sociologia?”, reputa che trattasi, in definitiva, di «una falsa alterna-
tiva di un falso problema di cui ci si deve liberare (esattamente
come ci si deve liberare del problema individuo-società)»; giun-
gendo ad ammettere che vi sia, salvo che in certi punti, una indub-
bia collaborazione tra psicologia e sociologia31.
Franco Ferrarotti, a sua volta, nella individuazione della scienza
destinata per eccellenza ad occuparsi dei problemi della devianza,
difende la sociologia generale. Egli, infatti, dopo averne ammesso la
natura di «analisi empirica concettualmente orientata», riconosce la
sua ampia autonomia da tutte le altre scienze e, in primis, dalla filo-
sofia sociale, dalla psicologia, dall’antropologia culturale, dall’econo-
mia, dal diritto e dalla storia. In particolare, reputa la sociologia
come la sola, nel novero delle scienze sociali, «che studia i rapporti
sociali in quanto tali, prescindendo dalla loro natura religiosa, eco-
nomica, giuridica e così via», in questo senso ponendosi la sociolo-
gia come «la scienza della società»32.

31
Si cfr. STOETZEL J., Op. cit., pag. 37 e segg. e passim.
32
Si cfr. FERRAROTTI F., La sociologia, Torino, 1967, pag. 20 e segg.

29
E Gennaro Guadagno, indiscusso fondatore della «nuova sociolo-
gia criminale» cui dedicò l’omonimo volume33, frutto di precedenti
esperienze maturate lungo il cammino della sua «impostazione
sociologica» del problema della criminalità, specie a sèguito
dell’«irrompere di idee nuove, scaturite essenzialmente dall’evolversi
del pensiero sociologico generale», poteva con efficace espressione
affermare, nel 1973, che erano ormai maturi i tempi per «liberarsi
dagli schemi precostituiti che, accentuando l’aspetto bio-costituzio-
nalistico del problema, hanno falsato la visione integrale della cri-
minogenesi», nonché per «intensificare gli studi sperimentali e le
indagini sul campo», indirizzando «le ricerche verso obbiettivi con-
creti, certamente più utili delle ipotesi e dei giudizi di mera proba-
bilità che possono portare poi a facili scetticismi ed incompren-
sioni»34. Ed in relazione alla ‘teoria’ della personalità, intesa come
«personalità sociale» e come «sistema di cui occorre studiare le varie
componenti», per individuarne le «varianti normali» e quelle «anor-
mali», per poi poter definire l’oggetto ed i limiti della «personalità
criminale», sembra decisamente esatto il rilievo della necessità di
«partire dalla concezione dinamica della personalità» onde «poter
ricercare non solo l’elaborazione recente dell’azione criminosa ma
anche i vari elementi che hanno potuto favorirne lo sviluppo»35.

33
GUADAGNO G., La nuova sociologia criminale, Napoli, 1973.
Il volume presenta la maturazione di una teoria – i cui prodromi sono ravvisabili
nei precedenti scritti dell’autore: Lineamenti di sociologia criminale, edito nel 1962;
Sociologia della criminalità, edito nel 1966 e Principi di sociologia criminale, edito nel
1970 – che ravvisa nella sociologia criminale quella «scienza settoriale della sociologia
generale» che «studia la criminalità come fatto sociale complessivo, in rapporto alle
strutture sociali» proponendosi di «individuare i molteplici fattori che ne influenzano
la modificazione qualitativa e quantitativa» (Op. loc. cit., pag.47).
34 Si cfr. GUADAGNO G., La nuova sociologia criminale, cit., pagg. V-VII.
35
GUADAGNO G., Op. ult. cit., pag. 70 e segg., pag. 82 e segg.

30
Ma il cammino della teoria generale della personalità umana è
stato lungo e difficile.
È opportuno a questo punto, illustrare in sintesi, attraverso un
excursus storico, le principali teorie che hanno dominato la cultura
in genere ed il pensiero giuspenalistico e criminalistico in specie, nel
secolo scorso.
Ed invero per l’individuazione – sul piano dommatico – della ‘cate-
goria’ della «personalità criminale», appare propedeutica, al nostro
studio, l’esposizione delle più accreditate teorie della personalità che,
durante il lento evolversi del pensiero sociologico e criminologico,
hanno suscitato l’interesse della dottrina criminalistica, spesso condi-
zionando il legislatore – non solo italiano – nella scelta di opportune
politiche legislative: talvolta anche sotto la spinta emotiva dell’opi-
nione pubblica, sempre più tesa ad invocare provvedimenti legislativi
di efficace contrasto alle nuove emergenti forme di criminalità.
L’excursus storico, inoltre, ‘spiega’ il lento cammino di una cor-
rente di opinione che, partendo da due poli opposti – e cioè: da un
lato la nuova sociologia criminale, figlia della sociologia generale (ma,
in ogni caso, distinta dalla politica criminale e dalla sociologia giuri-
dico-penale); e dall’altro la nuova criminologia, a sua volta figlia della
medicina legale (anche nella ‘variante’ antropologica) – attraverso un
lento ma progressivo sviluppo in due alvei, ‘diversi’ ma ‘conver-
genti’, ha finito per condurre al riconoscimento della piena attitu-
dine delle due scienze ad occuparsi – sia pur in una visione di
approccio interdisciplinare e ciascuna, dal proprio angolo visuale,
rivendicando la propria autonomia rispetto all’altra – del medesimo
conteso campo di studio36.

36
Circa le lunghe tappe dell’evolversi del pensiero sociologico e criminologico,
per la comprensione del fenomeno sociale della devianza, non solo criminale, ed il

31
Da un punto di vista prettamente sociologico, si riconosce in par-
ticolare alla nuova sociologia criminale – così come anche alla mede-
sima criminologia – ai fini dello studio della personalità socialmente
deviata, quell’autonomia che, pur recentemente conquistata, le ha
consentito di uscire dai limiti angusti in cui era ristretta, schiacciata
da tendenze sopraffattrici, e di offrire una visione concreta di come
debba essere studiato l’individuo nei suoi rapporti con la società,
avendo particolare riferimento a quei fattori endogeni ed esogeni
relativi alla integrazione dell’individuo nella società stessa.
Non a torto il Guadagno, indiscusso fondatore della “nuova
sociologia criminale”37, avvertiva che “poiché la personalità stessa è
la risultante dei rapporti sociali, occorrerà cogliere il grado di
influenza dei vari fattori di socializzazione sul terreno della crimina-
lità, particolarmente per l’indagine sul comportamento del criminale,
per lo studio dei costumi, delle regole morali tradizionali, delle isti-
tuzioni, delle crisi sociali, delle condizioni economiche, delle diffe-
renze tra le classi, della struttura dei gruppi e delle relazioni inter-
personali”.
Senonché questo è anche l’oggetto della criminologia moderna
che, permeata – dopo il ’68 – dallo spirito sociologico, l’ha risco-
perto alcuni lustri dopo.

diverso atteggiarsi delle discipline, si cfr. AMELIO P., Una nuova criminologia per un
nuovo diritto penale, cit., col.254 e segg.
37
Si cfr.: GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit.; IDEM, La nuova socio-
logia criminale, cit., pag.81 e segg.

32
Par. 4 – Difficoltà nel definire la personalità

Ancora oggi, malgrado l’estesa letteratura esistente sull’argomento


in questione, una delle tematiche più difficili è quella relativa ad una
soddisfacente definizione dello stesso concetto di personalità.
Infatti, i termini “persona” e “personalità” sono stati usati stori-
camente con significati sempre diversi38. Basti pensare all’evoluzione
concettuale che ha avuto il termine “persona” a partire dal suo
primo, originario significato di “maschera teatrale”. Infatti per “per-
sona” era da intendersi anticamente la maschera impiegata in origine
nel teatro greco e poi verso l’anno 100 a.C. usata –come ci ricorda
Eysenck39 – dagli stessi romani. Anzi, è da dire col Gemelli che, in
una successiva evoluzione del termine, “persona” significò per
metafora la stessa “figura” dell’attore: “sia in quanto rappresenta
una determinata parte, sia in quanto si presenta con un determinato
tipo”. Altra evoluzione è ancora da ricercarsi nel latino classico. Lo
Stoetzel, a proposito delle circa 50 diverse definizioni della perso-
nalità esaminate da Allport, riferisce che «questi significati possono

38 Circa la difficoltà di ‘definire’ la personalità, Eysenck ricorda come Allport esa-


minandone circa 50 definizioni, riuscì appena a “scalfirne” la superficie; che,
«secondo il filosofo Kant, “la personalità testimonia in modo tangibile ai nostri occhi
corporei la sublimità della natura”; che Stern ha definito la personalità come “un’u-
nità multiforme e dinamica”; e Windelband come “individualità divenuta oggettiva a
se stessa”». Onde – precisa Eysenck – «occorre smetterla di considerare la “perso-
nalità” come un termine strettamente scientifico suscettibile di un significato preciso
come atomo, riflesso, pianeta, acido o molecola, ma considerarlo un termine descrit-
tivo di un determinato campo di studio»: soltanto così potendosi pervenire a posse-
dere una nozione «migliore del posto preciso occupato dalla personalità nella psico-
logia moderna» (si cfr. EYSENCK H.J., Senso e controsenso in psicologia, cit., pag.153
e seg.).
39 EYSENCK J., Op. loc.cit., pag.154.

33
tutti essere riallacciati ai significati posseduti dalla parola persona
nel latino classico» che sono quattro: l’apparenza esteriore, il ruolo
interpretato dall’attore, l’attore stesso ed il personaggio con signifi-
cato di valore. A proposito di tali significati, l’autore ricorda alcune
espressioni di autori latini quali: “personam alienam ferre” (in Tito
Livio) nel senso di “mascherare la propria personalità”; “personam
capere” nel senso di “assumere un ruolo; “persona Staleni” (in Cice-
rone) nel senso di designare “il personaggio di Stalenio”; e tante
altre espressioni che vanno comunque sempre intese in uno dei
significati sopra riportati.
In una ulteriore evoluzione concettuale, il termine persona ha
assunto poi tutta una molteplicità di significati, tendendo comunque
vieppiù ad identificarsi con l’espressione “personalità”.
Infine, persona e personalità vengono a loro volta spesso confuse
con altre espressioni di diverso contenuto e significato, in relazione
soprattutto alle varie teorie ed al diverso modo in cui gli autori
reputano di intendere la personalità.
Così, il Gemelli: “Ad aumentare confusione non pochi sono gli
psicologi che usano promiscuamente le espressioni: personalità,
carattere, temperamento, quasi fossero equivalenti”40.
È ben noto che Allport esaminò nella sua “introduzione fonda-
mentale” circa 50 definizioni diverse di personalità, prima di giun-
gere alla sua nota definizione, espressione e sintesi di una teoria che
riscosse il favore della dottrina; ma Eysenck – come già detto – è

40
GEMELLI A., La psicologia dell’età evolutiva, Milano, 1956. Già dicemmo come
il Gemelli abbia distinto i tre diversi scopi cui tendono personalità, carattere e tem-
peramento, ritenendoli oggetto di studio di discipline diverse (biologia, psicologia e
psichiatria).

34
dell’opinione che, malgrado ciò, Allport sia riuscito soltanto a “scal-
firne la superficie”41.
Esula dall’oggetto precipuo del nostro studio perdersi nel ‘labi-
rinto’ delle varie definizioni della personalità, nelle più disparate
accezioni semantiche: onde soltanto per completezza di studio sem-
bra opportuna una veloce ‘panoramica’ delle più importanti teorie
della personalità umana; trattando i problemi relativi a quest’ultima
prioritariamente da un punto di vista strettamente sociologico e cri-
minologico.

Par. 5 – La teoria del Guadagno come premessa per l’orientamento


attuale nello studio della personalità criminale – Persona-
lità e delitto

Sul piano strettamente sociologico, rilevante appare in dottrina la


definizione del Guadagno42 circa il termine persona: “In sociologia
il termine persona sta ad indicare il prodotto umano del processo di
socializzazione e di integrazione, attraverso il quale l’uomo diventa
membro di una società e appartenente ad una determinata cultura”.
In questa definizione di “personalità” offerta all’attenzione degli
studiosi dal Guadagno, indiscusso fondatore – si ribadisce – della “

41
EYSENCK J., Op. ult. cit, pag.153.
42
GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., pag.79. Per un riscontro della
teoria del Guadagno in tema di “personalità”, intesa nel senso di «personalità
sociale», si cfr. anzitutto la sua maggiore opera: La nuova sociologia criminale, cit.,
pag.63 e segg. Essa presenta la maturazione di idee e concetti teorici già presenti nei
suoi precedenti scritti: Lineamenti di sociologia criminale,cit.; Sociologia della crimina-
lità, cit.; Principi di sociologia criminale, cit.

35
nuova sociologia criminale”, sembra poter riscontrare piena ade-
renza agli orientamenti attuali della sociologia.
Lo stesso autore avverte che “non è più possibile trattare dell’in-
dividuo o delle persone da un lato e della socialità dall’altra”43.
L’uomo indubbiamente ha dei fattori costituzionali, di ordine bio-
logico (disposizioni) che in parte ne condizionano i comportamenti;
ma esso è soprattutto prodotto della società in cui vive. Certo il
Guadagno non intende disconoscere l’importanza che alcuni aspetti
biologici possono avere per l’individuo; ma nega che i fattori biolo-
gici siano esclusivi e determinanti (tranne che nei casi di malattie
mentali), come sostenuto da alcune teorie del passato. Egli dà
importanza soprattutto ai rapporti dell’uomo con la società, con par-
ticolare riferimento alle relazioni che si instaurano fra individuo e
società stessa, nonché ai modi in cui l’individuo reagisce alle pres-
sioni criminogene esterne a seconda delle proprie tendenze, dei pro-
pri istinti, ma soprattutto della propria cultura.
In definitiva, egli ammette l’esistenza di due fattori: uno di natura
endogena, l’altro di natura esogena; ma riconosce la prevalente
importanza di quest’ultimo – pur senza prescindere dal primo – spe-
cialmente per quanto concerne la cultura: fattore determinante per la
integrazione dell’individuo nella società e specialmente nella società
istituzionalizzata.
In rapporto al delitto, viene enfaticamente affermato che «la com-
ponente biopsicologica, ivi compreso il fattore ereditario, non è
disgiunta dal fattore esogeno, perché la personalità del delinquente
non è solo quella d’origine, ma è soprattutto quella acquisita, attra-
verso il processo d’inserimento nella società, sicchè gli stimoli al

43
GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., pag. 80.

36
delitto sono prevalentemente di provenienza esterna». Onde vi è
una intima relazione tra “disposizione” ed “ambiente” e, conside-
rando quest’ultimo soprattutto nel significato di ambiente “sociale”,
ben può affermarsi che la relazione è fra l’individuo e la società in
cui vive44. Anzi, si può addirittura giungere alla configurazione del
triangolo di Honig – richiamato dal Guadagno all’ attenzione della
dottrina – dato da persona, cultura e società. La disgregazione di
questa è poi in intimo rapporto con la disgregazione della persona-
lità; ed il delitto non può che essere inteso come fatto socialmente
deviante.
Anche Gurwitch ammette l’intimo legame esistente tra individuo
e società, reputando l’uno immanente nell’altra e viceversa.
È questa la concezione moderna e densa di significato cui ha
attinto anche la dottrina criminalistica.
È nota l’opinione del Niceforo che tanta importanza attribuisce
alle pressioni ambientali e alle relazioni individuali; così come la teo-
ria di Exner sulla disposizione e l’ambiente: teoria che non sembra
discostarsi, per molti aspetti, dalla concezione di Hurwitz.
In particolare l’Exner, pur riconoscendo che la «disposizione» è
pur sempre la «base per la formazione della personalità», precisa
però che la disposizione è «l’elemento permanente che assicura alla
persona l’identità del suo divenire pieno di cambiamenti»: onde «la
disposizione esiste, la personalità diventa» e «ciò che forma la per-
sonalità entro i limiti stabiliti è l’ambiente»45.

44
Circa i concetti di «interazione tra individuo ed ambiente», «integrazione
ambientale della personalità», «maturazione sociale» ed «integrazione istituzionale», si
cfr. GUADAGNO G., La nuova sociologia criminale, cit., pag. 104 e segg. e passim.
45 Si cfr EXNER F., Criminologia, cit., pag. 29 e seg. L’autore, inoltre, specifica:

«Ciò che abbiamo ereditato e ciò che abbiamo vissuto formano la personalità» (Op.
loc. cit., pag. 30).

37
Basti ora osservare che persino il Ferri46, già allievo di Cesare
Lombroso e propugnatore del nuovo indirizzo criminologico sul
piano, non più dell’antiquata antropologia criminale (specialmente
come era stata intesa dal Lombroso), bensì sulla base della moderna
scienza della sociologia criminale, rilevò la indiscutibile influenza
esercitata dall’ambiente esterno sulle azioni umane. A proposito, per
esempio, dell’imputabilità, egli osservò e scrisse che, sia material-
mente che giuridicamente, l’uomo è imputabile e responsabile “sol-
tanto perché e finchè egli vive in società”.
In seguito, sarà evidenziata l’importanza che il Guadagno attri-
buisce alla società per la formazione e lo sviluppo della personalità
umana, ed il riconoscimento dell’incidenza dei fattori socio-culturali
su di essa.
Anche il Ferri evidenziò l’influenza dei fattori sociali sulla perso-
nalità umana, affermando che la delinquenza è frutto, non solo di un
fattore biologico (ed a tal proposito l’autore menziona le “nevrosi cri-
minali”, utilizzando questo termine – come egli stesso scrive – “in
mancanza d’altro”), ma anche di fattori fisici e sociali. Egli giudicò
che tutti e tre i fattori – salvo la maggiore o minore influenza di uno
o di un altro di essi – fossero determinanti, dovendosi ritenere il
delitto come “il prodotto simultaneo di tutti e tre questi ordini di
cause naturali”.
È da notare che, sebbene oggi l’opinione del Ferri risulti superata
dalla moderna dottrina criminalistica, egli ebbe tuttavia il merito di
aver indicato la nuova via da seguire: allontanandosi dai rigidi
schemi e dalla oscura e statica concezione del Lombroso, e sco-
prendo invece l’aspetto dinamico della personalità, sia pur entro
determinati limiti.

46
FERRI E., Sociologia criminale, Torino, 1930.

38
Egli stesso si ritenne soddisfatto dei risultati cui giunse, asse-
rendo: “è questa spiegazione sintetica sull’origine e natura della
delinquenza, che nessun critico, né metafisico né positivista, della
nuova scuola criminale ha affrontato direttamente mai, confessando
così implicitamente la verità e completezza”.
Il problema però va impostato diversamente. Esso dev’essere
ricondotto ai rapporti fra individuo e società, avendo riguardo ai
diversi gradi di integrazione del primo nella seconda, a causa dei già
ricordati fattori endogeni ed esogeni, i quali – secondo il Guadagno
– determinano nel soggetto stesso un “gioco” fra stimoli crimino-
impellenti e crimino-resistenti”. La delinquenza – secondo lo stesso
autore - non sarebbe altro che “la risultante del gioco che si viene
a stabilire fra spinta al delitto e capacità di resistenza individuale”.
Ma il cammino della teoria della personalità è stato lungo e tor-
tuoso e non sempre di facile comprensione.
Prima di esaminare il problema della personalità alla stregua delle
più recenti concezioni, sarà opportuno accennare alle più importanti
teorie del passato ed alla loro incidenza sulle moderne teorie.
La teoria della personalità – per Hall e Lindsey – non è comun-
que ancora giunta al suo punto d’arrivo: essendo essa strettamente
collegata all’evolversi dei tempi ed alle mutevolezze del pensiero
umano.

39
CAPITOLO II

LE TEORIE ‘TRADIZIONALI’ DELLA PERSONALITÀ

Par. 1 – L’indirizzo costituzionalista della Scuola di Tubinga.

In conseguenza della manifesta insufficienza dell’ “indirizzo psi-


copatologico”, si verificò una tendenza a studiare la personalità ed
il delinquente da un punto di vista strettamente biologico.47
Si trattò del tentativo da parte di studiosi, per la maggior parte
tedeschi, di ‘creare’ una vera e propria dottrina caratterologica che
richiamasse l’attenzione sui rapporti tra costituzione e carattere. E si
ebbero due famose scuole: quella (tedesca) di Tubinga e la Scuola
italiana facente capo al De Giovanni.

a) – La tipologia di Kretschmer

La Scuola di Tubinga è legata ai nomi di Kretschmer ed Hoff-


mann, ma soprattutto a quello di Kretschmer.

47
GEMELLI A., La personalità del delinquente nei suoi fondamenti biologici e psi-
cologici, Milano, 1948.

40
Questo autore che, secondo il Rohracher48, prese «le mosse da
considerazioni di ordine psichiatrico» è da considerarsi come il
capostipite dei sistemi caratterologici.
Egli classificò i “tipi costituzionali” stabilendo una correlazione
tra questi e determinati disturbi mentali, tra costituzione corporea e
carattere.
Bisogna, anzi, notare che questo problema della correlazione tra
caratteristiche fisiche e caratteristiche psichiche non era nuovo all’e-
poca di Kretschmer. Già lo stesso Ippocrate se ne era occupato,
intorno al 400 a.C., ed altri autori seguirono il suo esempio con
impostazioni sempre diverse.
La caratterologia di Kretschmer trovò discepoli che la ampliarono
e modificarono anche, quali Emald, Jaensch ed altri.
Kretschmer confirò tre tipi fondamentali: il tipo leptosomico, il
tipo atletico ed il tipo picnico.
A questi tipi costituzionali Kretschmer ricollegò particolari carat-
teristiche psichiche. Per esempio, egli ritenne che i maniaco-depres-
sivi fossero per la maggior parte dei tipi picnici, gli schizofrenici,
nella maggioranza dei casi, atletici e leptosomici. Alcuni studiosi
della tipologia kretschemeriana proposero delle forme “miste”.

b) – La tipologia di Jaensch

Altri studi tipologici furono compiuti da Erich Jaensch, fondatore


di una”tipologia sperimentale”.

48
ROHRACHER H., Elementi di caratterologia, cit., pag.51.

41
Egli partì dal concetto di “integrazione” e distinse gli individui in
due gruppi fondamentali: “gli integrati” ed “i disintegrati”, assu-
mendo a criterio distintivo – come ricorda il Rohracher49 – la carat-
teristica “della presenza o della mancanza di integrazione fra le sin-
gole attività psichiche”.
Jaensch reputò necessario per l’individuo raggiungere anzitutto
un grado di integrazione, che potremmo definire “interno”: condi-
zione, questa, necessaria per giungere ad una successiva integrazione
dell’individuo e, in particolare, del suo mondo interno con il mondo
esterno. Si noti che Jaensch parla di “mondo” esterno e non già di
società.
La sua teoria potrebbe anche sembrare ‘vicina’ alle moderne con-
cezioni sociologiche – che si pongono il problema della integrazione
dell’individuo nella società in dipendenza di vari fattori – se non
fosse che questo autore ‘si perde’ poi in una sterile classificazione:
insistendo con determinati tipi e, in particolare, argomentando che
– come riferisce Rohracher50 – “il massimo di integrazione è rap-
presentato dall’individuo basedowoide” definita con la lettera “B”
dell’alfabeto.
Esatta appare l’opinione del Gemelli51 allorquando scrive: «Que-
ste classificazioni tipologiche non hanno fatto fare un passo avanti
alle nostre conoscenze e nel campo della criminologia a nulla hanno
servito».
Infatti, queste dottrine tipologiche richiamano l’attenzione sul
“caso patologico”, laddove interessa studiare le azioni dell’individuo
normale.

49
ROHRACHER H., Op. cit., pag.82.
50
ROHRACHER H., Op. ult. cit., pag.83.
51 GEMELLI A., La personalità del delinquente nei suoi fondamenti biologici e psi-

cologici, cit.

42
Se si considera poi che ogni uomo è diverso dagli altri ed ha una
propria individualità, tanto più ci si accorge della sterilità di queste
correnti tipologiche che, partendo dalla costituzione, ‘pretendono’
di inquadrare in ‘schemi fissi’ l’uomo, che invece è varietà, vita e
continuo divenire nella mutevolezza del suo stesso carattere52.

Par. 2 – L’indirizzo morfologico della Scuola italiana.

Anche la Scuola italiana di indirizzo morfologico, con ‘capo-


scuola’ il De Giovanni, ebbe le sue pecche, non riuscendo a dare
una soddisfacente spiegazione del concetto di personalità.
Se, come asserisce il Guadagno53, essa perviene – per merito del
Viola – all’ «importante risultato sulla inscindibilità del fisico dallo
psichico», ritenendosi l’individualità come «l’insieme coordinato dei
fattori fisici e psichici», ebbe tuttavia le sue manchevolezze ricondu-
cibili al concetto, da noi già espresse, di voler fare rientrare l’uomo
in schemi fissi e tipici: con tutte le conseguenze negative delle dot-
trine tipologiche.
Rettamente il Gemelli54, dopo aver disconosciuto che «compito
principale della tipologia sia di determinare i tipi di carattere tramite
una classificazione dei tipi e dei caratteri», ammette anche che

52
Com’è stato posto in rilievo da Antonio Punzi, in uno studio sulla concezione
dell’uomo nel pensatore francese Julien Offray de La Mettrie alla cui prospettiva fa
criticamente riferimento, non può essere «pensato» l’uomo solo come «una macchina
ben organizzata, ossia un insieme di molle che si caricano le une con le altre senza
che si possa stabilire da quale di esse la natura abbia iniziato la sua mirabile opera
ingegneristica (si cfr. PUNZI A., I diritti dell’uomo-macchina, Torino, 1995, pag. 22 e
segg.).
53 Si cfr. GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., pag.81.
54
Si cfr. GEMELLI A., Op.ult.cit, passim.

43
‘merito’ della Scuola italiana sia stato di aver messo in luce «alcune
relazioni tra i tipi somatici ed i tipi psichici con una sicurezza sin
qui ignorata»; ma insiste nel suo atteggiamento di respingere le dot-
trine tipologiche per il fatto che tutte queste “classificazioni”, pur
coincidendo in alcuni punti, per la maggior parte differiscono però
in molti altri e, soprattutto, poiché con queste teorie – a suo dire –
«anziché cogliere il dinamismo della vita psichica, si irrigidisce in
schemi e in quadri quella sua infinita varietà di manifestazioni che,
per essere manifestazioni ed espressioni della personalità umana,
non si prestano ad essere chiuse nelle linee di una classificazione dei
tipi».

Par. 3 – L’indirizzo integrale di Pende

Molto discussa è anche la teoria del Pende che, sebbene migliore


della tipologia del Kretschmer, per alcuni aspetti e principalmente
per il fatto di aver rivolto attenzione al mondo normale a differenza
di quest’ultimo che aveva considerato, invece, il mondo patologico,
però a sua volta non soddisfa per difetti comuni a tutte le conce-
zioni cosiddette ’tipologiche’.
Al riguardo, rilevano Franchini ed Introna55 che «la teoria di
Pende deriva dalla biotipologia individuale»: scienza il cui campo di
studio è dato dalle manifestazioni anatomiche, umorali, funzionali e
psicologiche dalla cui sintesi “diagnostica” viene fuori il “tipo”.
Infatti, la teoria del Pende si basa – a dire del Guadagno56 - «
sulla scienza unitaria del biotipo, che contempla tutti gli aspetti della

55
FRANCHINI A.-INTRONA F., Delinquenza minorile, Padova, 1961.
56
GUADAGNO G., Op. ult. cit., pag. 83.

44
personalità, raffigurata con la nota piramide a quattro facce». È que-
sta la cosiddetta “piramide biotipo-logica” che presenta una faccia
morfologica, una faccia dinamico-immorale, una faccia morale ed
una faccia intellettiva.
La teoria del Pende riveste carattere “unitario ed integrale”. Essa
studia la personalità «portando l’analisi alle componenti organiche
(anatomiche, fisiologiche, morfologiche, endocrinologiche) e psichi-
che (sentimento, intelligenza, volontà, carattere)»57.
Inoltre, il Pende che – per testimonianza di Franchini ed
Introna58 – si rifà per quanto concerne l’ “aspetto somatico” alla
concezione del Viola, illustra il tipo brevilineo e quello longilineo, il
tipo ipertiroideo e quello ipotiroideo, il tipo muscolare e quello cere-
brale, i tipi tachipsichici e quelli bradipsichici, oltre a tutta una vasta
gamma di altri tipi raggruppati per categorie che, secondo il
Gemelli59, «rispondono bene a tipi esistenti nella realtà». Il Gemelli
invero ammette i migliori pregi dell’opinione del Pende rispetto a
quella di Kretschmer; però ne critica egualmente la teoria, ricono-
scendo che essa ricade negli errori ‘comuni’ a tutte le teorie a base
costituzionalistica.
In particolare, il Gemelli, pronunciandosi a proposito della
Scuola italiana, afferma: «dal punto di vista della conoscenza della
natura e della genesi del carattere, questi lavori che, pur rappresen-
tano un reale progresso su tutto quanto si era fatto in precedenza in
fatto di tipologia umana e di costituzionalismo, non hanno fatto fare
alcun progresso reale»60.

57
GUADAGNO G.,Op. ult. cit., pag. 83.
58
FRANCHINI A.-INTRONA F., Op. cit., passim.
59
GEMELLI A., Op. ult cit., passim.
60
GEMELLI A., Op.ult. cit., passim.

45
È da ricordare inoltre che, successivamente, il Di Tullio seguì l’in-
dirizzo costituzionalista, applicando la teoria di Pende che egli
invero accettò, sia pure con qualche limitazione.
È appena il caso quindi ricordare che il Di Tullio creò in Italia
un nuovo indirizzo, ma – a parere del Gemelli61 – il suo non fu che
un vano tentativo di “rinnovare” quell’antropologia criminale che,
legata al nome di Cesare Lombroso, in cui si identificò, fu vivace-
mente combattuta dalla Scuola positiva e principalmente dallo stesso
Ferri. Questi, infatti, pur essendo stato allievo geniale del Lom-
broso, ben presto se ne distaccò, contrapponendo alla antropologia
criminale di quest’ultimo, la sua sociologia criminale.

Par. 4 – La teoria psico-analitica di Freud

Sigmund Freud ebbe indubbiamente il merito di elaborare –


come ricordano Hall e Lindzey62 – «la prima teoria completa della
personalità»: fondando le sue indagini su metodi nuovi, propria-
mente quelli delle associazioni libere e cioè psico-analitici, dando
completo assetto e sistemazione ad una dottrina che forse – secondo
Eysenck63 – era già “accettata e discussa centinaia di anni prima che
Freud nascesse”.
Egli, in netta opposizione alle dottrine tipologiche che, inqua-
drando l’uomo in schemi fissi e tipici, ignorano il dinamismo tipico
della personalità umana, rivolse a quest’ultima la sua attenzione rite-
nendo che solo guardando a quanto c’è di più intimo e profondo in

61
GEMELLI A., Op. ult. cit., passim.
62
Si cfr. HALL C.S. e LINDZEY G., Teorie della personalità, 1966, pag. 31 e segg.
63
EYSENCK A.J., Senso e controsenso in psicologia, Firenze, 1961.

46
noi, fosse possibile trovare la soluzione dei nostri problemi o, per lo
meno, la spiegazione dei nostri comportamenti.
Egli paragonò64 la nostra psiche ad un iceberg. È noto come que-
ste montagne di ghiaccio siano per la maggior parte immerse nelle
acque, emergendone in proporzione solo per una breve superficie.
Parallelamente, ciò che emerge dal nostro intimo è la coscienza, men-
tre la zona nascosta sarebbe costituita dalla “regione dell’inconscio”.
Questo concetto di “inconscio” è molto importante. Osserva il
Guadagno che Freud lo intese come «una sfera profonda della vita
psichica, in cui vengono rimossi tutti gli elementi di contrasto che si
determinano da ciò che noi vorremmo e dalle nostre tendenze istin-
tive».
Per Freud la personalità si divide in tre parti costitutive della
medesima: l’es (o id) costituita da impulsi e desideri inconsci (vi
sono compresi tutti i fattori psicologici ereditari e gli istinti); il super-
io (super ego) che è, propriamente, l’io ideale superiore, rappresen-
tante interiore della moralità sociale così come essa si presenta prin-
cipalmente al bambino (esso è parzialmente conscio e parzialmente
inconscio); ed infine l’io (ego) che si interpone nel contrasto tra es
e super-io, costituendo «l’esecutivo della personalità, perché con-
trolla le funzioni motorie, sceglie i fattori ambientali a cui risponde,
e decide quali istinti soddisfare e in quale modo»65.

64
HALL C.S. e LINDZEY G., Op. cit., pag. 31 e seg.
65
Si cfr. HALL C.S. e LINDZEY G., Op. cit., pag.31 e passim.
Dalla teoria freudiana della personalità discende l’altra teoria di Freud sulla inter-
pretazione dei sogni. Secondo questa concezione, taluni impulsi trattenuti durante la
veglia nell’inconscio – a causa della sorveglianza del super-io – riaffiorerebbero nel
sonno in un periodo, cioè, in cui diminuisce il potere di sorveglianza del super-io; e
si manifesterebbero, sia pur sotto un debito travestimento operato nella cosiddetta
“officina dei sogni”.

47
In definitiva, Freud rivolse la sua attenzione al passato ritenendo
che “neurosi” accertate nei malati di mente si manifestassero in
dipendenza di fatti accaduti nel passato, apportatori di “turbe” alla per-
sonalità del soggetto specie nella sfera affettiva. Il meccanismo di
difesa dell’io – cioè la rimozione – le avrebbe allora ‘trattenute’ e
solo in sèguito questi stati psichici intensi si sarebbero manifestati
sotto l’aspetto tipico delle “neurosi”.
Le teorie freudiane ebbero il grande merito di aver condotto l’at-
tenzione sulla personalità umana, scrutata nei suoi minimi e più
intimi particolari e dal più profondo; ma ebbero anche il torto di
configurarci una oscura e pesante influenza del passato sui nostri
comportamenti, come una fatalità che pesa su di noi e principal-
mente sul nostro carattere.
Non a torto il Gemelli disconosce che, per comprendere il carat-
tere, si debba volgere lo sguardo al passato; e coerentemente conte-
sta «l’eredità che pesa sul destino di ciascun uomo e si rivela nella
vita di tutti i giorni», reputando che vi sia una «nemesi oscura», nella
concezione freudiana, «che minaccia sempre il nostro avvenire»66.

Par. 5 – La psicologia individuale di Adler

Contro il pessimismo di Freud si levò il pensiero dell’Adler.


Questo autore, pur servendosi dello stesso sistema di indagine
circa la natura del carattere, non giunse, però, a conclusioni pessi-
mistiche; ma anzi per Adler lo studio della personalità assunse un
orientamento finalistico.

66
GEMELLI A., Sulla natura e sulla genesi del carattere, cit., passim.

48
Sulla base di una “psicologia individuale”, egli ritenne che, per
conoscere a fondo un individuo, fosse necessario comprenderne le
aspirazioni. In aperto contrasto con i principi di Freud, Adler
sostenne che l’uomo «è motivato in primo luogo da istanze sociali»
e, pur non disconoscendo in esso una «natura innata», richiama l’at-
tenzione – con la sua teoria del sé creativo – sulle cosiddette «varia-
bili sociali»67.
Egli rivolse l’attenzione alla “tendenza alla valorizzazione”, consi-
derata come una forza psichica antagonista dell’altra forza psichica
che è il “complesso d’inferiorità”. Anzi, secondo questo autore, pro-
prio in conseguenza di una sua inferiorità, l’individuo verrebbe por-
tato – per il suo istinto di valorizzazione – a raggiungere risultati
superiori ad ogni aspettativa: di modo che si otterrebbe non già una
compensazione, ma addirittura una ipercompensazione.
Adler, in particolare, in una prima fase dei suoi studi accennò ad
una «volontà di potenza»; ma successivamente preferì l’espressione
«aspirazione alla superiorità», reputando che essa accompagni sem-
pre l’individuo dalla nascita alla morte.
L’aspirazione alla superiorità sarebbe poi, per Adler, innata e
facente parte della vita: anzi, a tal proposito, ricordano Hall e Lind-
zey che Adler, «in ultima analisi, la identifica con la vita stessa».
Hubert Rohracher a sua volta precisa che per Adler «i sentimenti
di inferiorità sono reazioni della personalità all’ambiente sociale», e

67
Si cfr. HALL C.S. e LINDZEY G., Op. cit, pag. 111 e segg. e passim.
Ricordano Hall e Lindzey che, a differenza dell’io di Freud, «il sé adleriano è un
sistema soggettivo, altamente personalizzato, che interpreta e rende significative le
esperienze dell’organismo»; ed ancora: «al monologo freudiano sul sesso Adler
aggiunse altre voci significative. L’uomo è innanzitutto una creatura sociale e non ses-
suale, ed è spinto da interessi non sessuali ma sociali».

49
che l’impulso di valorizzazione «è diretto al raggiungimento di una
posizione dominante nell’ambiente sociale». In particolare, quest’au-
tore scrive: «così la dottrina originaria di Adler si può ricondurre ad
uno schema semplice di reazioni: constatare la superiorità di un
altro significa sentimento di inferiorità, contro cui l’istinto di valo-
rizzazione lotta, esigendo dei risultati particolarmente elevati: tutte
le forze vengono polarizzate per ottenere tali risultati, e con ciò
viene compensato il sentimento di inferiorità e soddisfatto l’istinto
di valorizzazione»68.
Se la teoria di Adler ha avuto il pregio di aver considerato «più
di ogni altra dottrina» l’importanza dell’ambiente inteso come
ambiente sociale, individuando «quattro campi in cui l’uomo deve
prendere posizione» – e cioè: «il sesso, la professione, i rapporti con
gli altri individui e l’irrazionale (religione, arte, natura)» – non di
meno essa mostra – per Rohracher – i suoi limiti, come «teoria dello
sviluppo del carattere», a causa di una «impostazione assai semplice
ed unilaterale»69.
Il carattere – per Adler – altro non sarebbe, su testimonianza del
Gemelli70, che «il modo di reagire alle circostanze della vita stessa,
una specie di superamento o liberazione dalle difficoltà che essa pre-
senta».

68
Si cfr. ROHRACHER H., Elementi di caratterologia, cit., pag. 210.
69
ROHRACHER H.,Op.loc.cit., pag.211. Secondo questo autore, la psicologia indi-
viduale di Adler, «in relazione alla dottrina delle nevrosi, rappresenta un esempio
convincente di un sistema che, pur utilizzando principi giusti», tuttavia «rimane uni-
laterale per il tentativo di ricondurre tutte le differenze esistenti fra gli individui ad
una unica entità psichica» (Op.cit., pag.209).
70
GEMELLI A., Sulla natura e sulla genesi del carattere, cit.

50
Senonchè – osservano Hall e Lindzey – Adler ebbe certamente il
merito di aver creato «una teoria umanistica della personalità che è
l’antitesi della concezione freudiana dell’uomo»71.

Par. 6 – La concezione psicologica del Gemelli

Pur nell’ambito dell’indirizzo integrale, si distinse il pensiero di


Agostino Gemelli.
Già si è detto dell’opinione di questo autore nei confronti del-
l’indirizzo costituzionalista tedesco (Scuola di Tubinga) e di quello
morfologico della Scuola Italiana (De Giovanni, Viola); così pure si
è riferito della sua critica nei riguardi di Freud, di Adler e dello
stesso indirizzo integrale del Pende, la cui teoria fu particolarmente
oggetto di severe considerazioni.
Appare qui necessario integrare quanto sopra già espresso con
altre osservazioni: e ciò per maggiore chiarezza e precisione.
Il Gemelli ben rilevò le insufficienze della teoria psicoanalitica di
Freud e della psicologia individuale di Adler, pur riconoscendo a
questi autori qualche merito (cui si è accennato nei paragrafi prece-
denti) e, ritenne inutili, per la conoscenza del carattere, le cosiddette

71
Si cfr. HALL C.S. e LINDZEY G., Op.cit., pag.121, ove fra l’altro si rileva come
Adler, «nell’attribuire all’uomo qualità altruistiche, umanitarie, di cooperazione, di
creatività, di consapevolezza e di singolarità», abbia restituito all’uomo «un senso di
dignità e di valore che la psicoanalisi minacciava di distruggere», sostituendo «il deso-
lante quadro materialistico, che suscitava orrore e ripugnanza in molti lettori freu-
diani, con un quadro dell’uomo più soddisfacente, più ottimistico e ben più lusin-
ghiero»: onde ben può sostenersi che «la concezione adleriana della natura della
pericolosità coincide con la credenza popolare per cui l’uomo è l’artefice e non la vit-
tima del suo destino» (Op.loc.cit., pag.121).

51
dottrine tipologiche, mostrandosi, invece, propugnatore ad oltranza
dell’attitudine della psicologia a condurre la ricerca a risultati cui
altre scienze non sarebbero in grado di pervenire.
Al Gemelli va riconosciuto, in particolare, il privilegio di aver
rivolto l’attenzione all’uomo ‘normale’, a differenza di Freud e di
Adler che si erano occupati principalmente del campo ‘patologico’.
Così egli scrisse: «alla guida di Freud e Adler ci si muove sul ter-
reno patologico. Freud e Adler nelle loro scuole studiano la genesi
delle neurosi e di lì non si esce».
In altri termini, il Gemelli, si occupò dell’uomo medio; e consi-
derò il carattere in senso plastico e dinamico come «il risultato di
fattori sociali dei quali è possibile regolare il gioco», fra l’altro scri-
vendo: «cos’altro può ben indicarci il carattere di un uomo, se non
i suoi sforzi, le sue rinunce, le sue speranze, le sue delusioni? È solo
attraverso la lotta che si affronta nella vita sociale che viene fuori il
carattere».
I rilievi del Gemelli convincono appieno. L’uomo non viene più
presentato come succube della fatalità freudiana, come un fanciullo
indifeso su cui il passato ha svolto un ruolo determinante; ma viene
inteso come individuo che, pur influenzato dall’ambiente in cui vive,
ha la possibilità – sia pure entro certi limiti – di modificare con l’in-
telligenza e la volontà finanche gli elementi avversi: facendo sì che
circostanze sfavorevoli possano venire superate e talvolta addirittura
essere trasformate in favorevoli, ovvero, quando ciò non sia possi-
bile, di ‘aggirare l’ostacolo’ con l’adattarsi alle circostanze.
Tale concezione non è, del resto, una sua esclusività. Si vedrà in
sèguito come altri autori abbiano posto in rilievo il ‘gioco’ che si
crea tra disposizione ed ambiente, le relazioni che si instaurano tra
individuo e società, e quale importanza ciò abbia per la formazione
e lo sviluppo della personalità umana.

52
Così il Guadagno riassume la teoria del Gemelli: «per il Ge-
melli… lo studio dell’uomo nella sua personalità individuale non
può che essere psicologico, avendo riguardo, nello studio della per-
sonalità, dei seguenti elementi:
a) sostrato organico della personalità; b) modo con cui i fattori
organici vengono fusi e potenziati nella sintesi personale; c) ruolo
che ha la vita psichica interiore; d) processo attraverso cui, di strato
in strato, si arriva a quella sovrastruttura che conferisce alla perso-
nalità la sua caratteristica di essere una sintesi di tali fattori»72.
È necessario soffermarsi sull’importanza che il Gemelli attribuisce
alla psicologia per la comprensione dei problemi relativi alla perso-
nalità umana.
Egli reputa che lo studio della personalità vada condotto sul
piano psicologico; al riguardo affermando che lo studio della perso-
nalità – come anche «la determinazione dei suoi caratteri differen-
ziali» – sembra «essere divenuto il principale compito degli psico-
logi».
Pur ammettendo che la psicologia non dispone di un «mezzo
diretto per esaminare il meccanismo dell’azione volontaria, se non
quando si tratta di azione posta sperimentalmente», egli tuttavia
rivendica il compito fondamentale della psicologia di occuparsi, con
successo, di tutti i problemi relativi alla personalità umana, anche
nei suoi aspetti socialmente devianti, ritenendo logico che la psico-
logia – posta in una situazione che potremmo dire di “scienza
madre” – chieda aiuto, per il conseguimento dei suoi fini, a tutte le
scienze che «permettono di porre in luce i fattori della personalità
umana», senza peraltro essere sminuita nell’importanza dei suoi
compiti e delle sue funzioni.

72
GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., pagg. 83-84.

53
Anzi, il Gemelli precisa che la psicologia assolve a compiti fon-
damentali che non potrebbero, comunque, mai essere realizzati da
antropologia, endocrinologia e sociologia, e particolarmente a quello
importantissimo di «trovare la connessione tra i vari elementi rac-
colti con i metodi indicati da queste varie scienze per cogliere la
connessione dinamica e gli elementi costitutivi del modo di agire
dell’uomo».

Par. 7 – Altre teorie

a) – La teoria analitica di Jung

Qualche cenno si impone a proposito della teoria analitica di Carl


Gustav Jung.
Questo autore elaborò un classificazione tipologica che – a dire del
Guadagno73 – «ricorda quella di Kretschmer» e che «sottolinea l’im-
portanza dell’aspetto somato-funzionale del carattere (tempera-
mento)». Egli ci mostrò gli uomini divisi nelle due principali cate-
gorie di introvertiti ed extravertiti, a seconda della direzione «con
cui si manifestavano gli effetti della loro libido» intesa, questa, come
«un’energia psichica o la volontà nel senso di Schopenhauer»74.
Sulla base di questa ripartizione fondamentale, egli operò delle
successive classificazioni considerando le singole funzioni psichiche
quali il pensiero, la sensibilità, i sentimenti e l’intuizione, ed identi-
ficò – come riferisce il Guadagno75 – i seguenti sottotipi: introver-

73
GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., pag. 83.
74
ROHRACHER H., Elementi di caratterologia, cit., pag. 90.
75
GUADAGNO G., Op. ult. cit., pag. 83.

54
tito-pensiero, introvertito-sentimento, introvertito-sensazione, intro-
vertito-intuizione, estrovertito-pensiero, estrovertito-sentimento,
estrovertito-sensazione, estrovertito-intuizione.
Osservano Hall e Lindzey che la teoria junghiana non ha avuto
molta fortuna e soprattutto non ha riscosso l’interesse degli psico-
logi per il fatto di non essere stata verificata con i metodi della psi-
cologia scientifica. Sempre secondo Hall e Lindzey76, la psicologia
ufficiale avrebbe ignorato la pur importante ed originale teoria di
Jung per il fatto che si tratta di psicologia «fondata su ricerche cli-
niche piuttosto che su analisi sperimentali», anche se «è indubbio
che la teoria della personalità quale fu sviluppata da Jung nei suoi
scritti, applicandola ad un’ampia gamma di fenomeni umani, rimane
una delle conquiste più notevoli del pensiero moderno».

b) – La teoria di Lewin in reazione al “behaviorismo”

Kurt Lewin, con la sua psicologia sociale, ha il merito di aver


creato una Scuola efficacemente in contrapposizione alle concezioni
del “behaviorismo” e ad altre correnti con tendenze fisiologiche,
come quella del Pavlov.
È ben noto infatti che il “behaviorismo”, rienendo l’ambiente
come l’unico fattore per la formazione della personalità, – per dire
di Hall e Lindzey77 – «era quasi riuscito a ridurre l’uomo ad un
automa un pupazzo meccanico che ballava al suono degli stimoli
esterni o si scuoteva per via di impulsi fisiologici interni, un robot
privo di spontaneità e creatività, un uomo vuoto».

76
HALL C.S. e LINDZEY G., Teorie della personalità, cit., pagg.76 e segg., 107 e seg.
77
HALL C.S. e LINDZEY G., Op. cit, pag.199 e segg.

55
Ben ci ricorda il Rohracher che il “behaviorismo” aveva imperato
soprattutto per la sua aderenza al “carattere nazionale americano”,
sempre proclive a negare influssi ereditari ed a guardare viceversa
con simpatia all’influsso dell’ambiente, lasciando “aperta ogni possi-
bilità ai singoli individui”78.
Ma il “behaviorismo” commetteva il grave errore – per il Gua-
dagno79 – di tendere «alla obiettivazione dell’uomo verso la nega-
zione della coscienza soggettiva».
Quanto sopra per illustrare il progresso della teoria sociologica
della personalità ad opera del Lewin che, divergendo nettamente da
tendenze di “psicologia oggettiva”, si occupò della personalità dal
punto di vista della “psicologia sociale”, studiando ‘sperimental-
mente’ – come testimoniano Hall e Lindzey80 – «l’importante dimen-
sione della condotta umana». Egli ebbe riguardo all’uomo, posto al
centro di un ambiente psicologico, ed in particolare al suo compor-
tamento derivato “dalla totalità dei fatti psicologici esistenti nello
spazio di vita in un momento dato”.
Sono noti i famosi diagrammi di questo autore.
La psicologia sociale di Lewin fu anche: detta, “vettoriale”
avendo riguardo ai cosiddetti vettori che sono «fattori varii» che
operano sulla personalità dell’uomo considerato come «nucleo del
gruppo sociale»81.

78
ROHRACHER H., Elementi di caratterologia, cit., pag. 78.
79
GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., pag.67 e segg. e passim..
80
HALL C.S. e LINDZEY G., Op. ult. cit., pag. 199 e segg.
81
GUADAGNO G., La nuova sociologia criminale, cit., pag.66 e seg.

56
c) – La teoria di Allport

Gordon W.Allport si dedicò molto alla studio della personalità.


Egli esaminò circa 50 definizioni diverse di personalità sotto vari
punti di vista (etimologico, teologico, giuridico, psicologico, sociolo-
gico, ecc.) prima di giungere alla sua famosa definizione della per-
sonalità intesa come “l’organizzazione dinamica entro l’individuo di
quei sistemi psicofisici che determinano il suo adattamento unico al
suo ambiente”.
Per merito di Allport, la teoria della personalità fece un altro
notevole passo in avanti.
Infatti, questo autore, mentre da un lato dà risalto all’importanza
dell’individualità – fanno notare Hall e Lindzey che a tal proposito
l’aggettivo «unico» della sopra riportata definizione sta appunto ad
indicare la notevole diversità esistente, specie in tema di personalità,
tra individuo ed individuo – d’altro canto dà notevole rilevanza
all’‘adattamento’ dell’individuo all’ambiente82.
Da notare che nei suoi studi l’Allport fu propugnatore dell’uni-
cità del comportamento umano; egli dette rilevanza ai cosiddetti
“trattati”, ragion per cui la sua teoria fu spesso detta “psicologia dei
trattati”. Hall e Lindzey ci rammentano che “trattato” per questo
autore è “una tendenza determinante o una predisposizione alla
risposta e nota che esso «rappresenta per Allport ciò che il bisogno
è per Murray, l’istinto per Freuci e il sentimento per Mc Dougall»83.

82
Così testualmente HALL C.S. e LINDZEY G.: .«Con l’espressione “adattamento
al suo ambiente”, Allport indica la convinzione che la personalità si interpone tra l’in-
dividuo e il suo ambiente fisico e psicologico, qualche volta sottomettendosi a esso,
qualche volta dominandolo» (Op.cit., pag. 248, passim).
83
HALL C.S. e LINDZEY G., Op.ult. cit., pag. 248, passim.

57
d) – La teoria bisociale di Murphy

Altro notevole contributo fu apportato alla teoria della persona-


lità dal Murphy.
Per questo Autore componenti della personalità sono: le disposi-
zioni fisiologiche, le canalizzazioni, le risposte condizionate, le abi-
tudini cognitive e percettive.
Egli distingue poi nell’organizzazione della personalità tre fasi: la
globale, la differenziata e la integrata.
Ma ciò di veramente importante della teoria cosiddetta “bioso-
ciale” del Murphy, sta nella sua concezione della personalità come
«un fluente continuo di eventi dell’organismo e dell’ambiente». Egli
non trova opposizione tra eredità ed ambiente e non ammette l’esi-
stenza di “tratti ereditati” e “tratti acquisiti” ritenendo non possibile
che i secondi si sovrappongano ai primi come il francobollo sulla
lettera (egli stesso compie questo paragone). È invece opinione del
Murphy che il nostro organismo per il solo fatto di essere “un
sistema di tessuti sottoposto a cambiamenti” non mantenga mai per
molto tempo gli stessi tratti. Ci testimonia Hall e Lindzey84 che que-
sto autore giunge ad affermare: «se è vero che nulla è acquisito, nel
senso popolare, è anche vero che nulla è ereditato».
Giustamente il Guadagno85 ci presenta la personalità, nella teoria
di Murphy, come «il prodotto di un processo bipolare, un polo
essendo situato nell’organismo, l’altro nell’ambiente esterno».
La teoria biosociale di Murphy si rifà, per alcuni aspetti, alla teo-
ria del campo di Lewin; ma se ne distingue per altri aspetti e prin-
cipalmente per il suo orientamento “biologico”.

84
Si cfr., HALL C.S. e LINDZEY G., Op. cit., pag. 475 e segg.
85
GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., pag.86.

58
CAPITOLO III

FORMAZIONE E SVILUPPO
DELLA PERSONALITÀ CRIMINALE

Par.1 – Disposizione ed ambiente

Exner ed Hurwitz fondano le proprie teorie su due ‘elementi’ –


ma, aggiungiamo noi, sono anche delle ‘categorie’ – che Exner
indica come i “due poli”: e cioè la disposizione e l’ambiente che, pur
distinti concettualmente, vanno tuttavia considerati unitariamente a
causa dei molteplici, intimi, rapporti che fra di loro si instaurano.
Anzitutto, va precisato che nella concezione di Hurwitz il termine
“disposizione” non va confuso con quello di “personalità” (o indi-
vidualità)86.
Infatti, mentre la prima è in riferimento alle cosiddette “poten-
zialità ereditate”, la seconda è invece conseguenza sia della disposi-
zione, sia dei fattori ambientali che su di questa hanno agito.
La disposizione deve il suo sviluppo ai fattori ambientali, su cui
si forma, ed essendo per Exner «l’elemento permanente che assicura
alla persona l’identità del suo divenire pieno di cambiamenti», è la
base su cui si forma la personalità. Questa poi, in osservanza di quei
principi moderni che la vogliono plastica e mutevole, e soprattutto

86
Si cfr. HURWITZ S., Criminologia, cit.

59
“dinamica”, poggia sulla disposizione, ma si forma a causa dell’am-
biente.
Così Exner87: «lo sviluppo della personalità avviene con l’evolu-
zione delle sue disposizioni esterne secondo leggi proprie», ed ancora:
«ciò che abbiamo ereditato e ciò che abbiamo vissuto formano la per-
sonalità».
Non diversamente Hurwitz88 afferma l’«interazione» fra disposi-
zione ed ambiente, ammettendo che tra i fattori dell’una e quella
dell’altro vi sia una incessante e reciproca influenza.
La teoria dell’interazione ha fatto fare un notevole passo avanti
alla teoria della personalità.
Al riguardo, osserva giustamente il Guadagno89 che tale teoria ha
risolto l’‘urto’ tra tesi individualista e tesi collettivista che aveva
tenuto banco fino all’inizio del tempo.
A proposito del rapporto intercorrente tra disposizione ed
ambiente, e del loro reciproco gioco nella formazione e per lo svi-
luppo della personalità, non possiamo passare sotto silenzio i due
principi fondamentali pronunciati da Exner90 con riferimento a que-
sta:
a) – «ciò che diventa la disposizione entro il margine concesso da
essa, dipende dall’ambiente»;
b) – «dipende dalla disposizione, quale ambiente e come questo
ambiente agisce sulle persone, entro il margine concesso dalle circo-
stanze esterne».

87
EXNER F., Criminologia, cit., pag. 30.
88
HURWITZ S., Op. ult. cit., passim.
89
Si cfr. GUADAGNO G., La nuova sociologia criminale, cit., pag. 145 e segg.
90
EXNER F., Op. cit., pag.33.

60
Questi due principi – come enunciati dall’Exner – sono da con-
siderarsi basilari per il nuovo indirizzo della criminologia.
In particolare, Exner distingue tre gruppi di fatti che – a suo dire
– «determinano il fondamento della personalità»; e cioè: 1) «fatti che
determinano il fondamento della personalità»; 2) «fatti che sviluppano
la personalità»; 3) «fatti che formano la personalità»91.
Exner include nel primo gruppo l’ereditarietà, data dalla disposi-
zione; nel secondo ha riguardo al grado di sviluppo delle disposi-
zioni ereditarie, con particolare riferimento alle trasformazioni soma-
tico-psichiche dell’individuo – come per esempio la pubertà – che si
sviluppano “prevalentemente” dalla disposizione, pur senza trascu-
rare talune influenze dell’ambiente; infine, nel terzo gruppo com-
prende tutti i fatti influenzatori e modificatori della personalità che
contribuiscono a darle una “direzione”. In particolare, egli reputa
che molto la personalità dipenda dalla scelta dell’ambiente, dalla
formazione di questo ad opera dell’individuo (entro determinati
limiti) e della sua sensibilità.
Exner92 giudica che specialmente il primo fenomeno, cioè la scelta
dell’ambiente, sia di notevole importanza per lo studio della perso-
nalità. Egli ha riguardo alla possibilità dell’individuo di scegliersi
l’ambiente, inteso nel senso più ampio della parola, sia naturale che
sociale, e cita Goethe che afferma: «Dimmi chi frequenti e ti dirò chi
sei; se so di che cosa ti occupi, so anche cosa puoi diventare».
Ben obietta Hurwitz93 che spesso l’individuo non è in grado di
scegliersi l’ambiente, e fa riferimento all’ambiente familiare in cui il

91
EXNER F., Op. cit., pag.36 e segg.
92
EXNER F., Op. cit., pag.34.
93
Si cfr. HURWITZ S., Op. cit., passim.

61
bambino si trova già immesso e non certo per propria volontà o
determinazione.
Ma Exner non ha trascurato questa ipotesi ed afferma che in que-
sti casi, ed altri (come ad esempio il servizio militare, la prigione,
ecc.), l’ambiente è dato dal “Destino”.
Anche De Greef – come rammenta Hurtwitz – ha operato una
distinzione precisamente tra il “milieu inéluctable” (ambiente fami-
liare) ed il “milieu accepté ou choici” che sarebbe «l’ambiente gene-
rale dell’adulto».

Par. 2 – Le disposizioni criminali

Se è vero che la personalità è frutto della disposizione e dell’am-


biente, è anche parallelamente vero che la personalità criminale è
prodotto di disposizioni criminali e di particolari tipi di ambienti.
Anzitutto chiediamoci: esistono delle disposizioni criminali?
Al quesito Hurwitz risponde affermativamente, notando che il
problema «se esistano disposizioni per un comportamento antiso-
ciale di natura tipicamente criminale» è una parte del problema
dell’«eredità delle caratteristiche del carattere». Comunque Hurwitz
conclude ammettendo la possibilità che le cosiddette “potenzialità
psichiche” siano ereditate «in modo da predisporre ad una condotta
antisociale di natura criminale», pur ammettendo di ignorare le leggi
regolatrici di questa eredità.
Anche Exner ammette l’esistenza di disposizioni ereditarie. Anzi,
merito dell’Exner è stato, appunto, di sostituire il concetto di
“disposizione” a quello di “predestinazione”. Inoltre, l’autore, paral-
lelamente a quanto affermato per la formazione e lo sviluppo della
personalità in genere, anche a proposito della personalità criminale

62
attribuisce rilievo ai fattori ambientali considerando anzi il delitto
come “negazione” a pressioni ambientali.
L’argomento sarà ripreso allorché si tratterà – più innanzi – del-
l’ereditarietà e, particolarmente, dello studio delle famiglie criminali
e dei gemelli mono e biovulari.
Basta qui notare che, in tutte le direzioni della personalità umana
e quindi anche nel campo criminale, è sempre l’eterno ‘gioco’ – e
interazione – tra disposizione ed ambiente che determina l’azione
umana.
Non a torto il Guadagno definisce il delitto «fatto socialmente
deviante» e, in rapporto alla particolare situazione di coloro che non
hanno potuto o saputo integrarsi socialmente, raggiungendo la
necessaria maturazione sociale, a causa dell’influire di fattori endo-
geni ed esogeni, riconosce la “regressione psichica” di costoro e la
loro “predisposizione” a «comportamenti antisociali in genere e
quindi anche devianti», reputando – di conseguenza – il delitto
come «risultante del gioco che si viene a stabilire tra spinta al delitto
e capacità di resistenza individuale, fra stimoli crimino-impellenti e
crimino-resistenti».
Circa l’influenza della disposizione e dell’ambiente sulla forma-
zione e sviluppo di una personalità in direzione deviata e princi-
palmente criminale, Hurwitz94 richiama l’attenzione sul fatto che
non si possa ammettere uno di questi fattori escludendone l’altro,
ma si debba invece ritenerli entrambi, pur ammettendo che il diffi-
cile stia nel determinare il diverso grado di influenza e dell’uno e
dell’altro. A tal proposito, l’autore così scrive: «la letteratura nord
europea ha stabilito una classificazione riguardo alle relazioni fra i

94 HURWITZ S., Op. cit., passim.

63
fattori della predisposizione e l’ambiente, la quale distingue tre
gruppi di casi: 1) quando la disposizione, il carattere l’individualità
(il fattore I) sono considerati determinanti; 2) quando la disposi-
zione, ecc. e l’ambiente (il fattore A) agiscono in modo uguale; 3)
quando i fattori ambientali sono considerati determinanti. È inutile
dire che una classificazione di questa specie, per quanto basata su
accurate osservazioni, dipende più o meno da valutazioni perso-
nali».
Quanto al problema della ‘necessità’ di una «integrazione» tra
discipline, per comprendere l’incidenza dei fattori socio-culturali –
in primis l’ambiente familiare – sulla formazione della personalità
criminale e quindi sui rapporti tra «fattori familiari e delinquenza»,
Bandini e Gatti rilevano che «sono state elaborate molte teorie in
merito» ed anche «integrazioni tra le diverse discipline che hanno
portato a fecondi risultati, e che attualmente sono quelle maggior-
mente seguite in campo criminologico»95; ed inoltre, facendo riferi-
mento soprattutto alle teorie di Canepa, Wolfgang e Ferracuti, repu-
tano che, «per poter chiarire il processo individuale attraverso il
quale un soggetto diviene progressivamente un delinquente», «sia
necessaria l’integrazione dell’approccio psicodinamico e dell’approc-
cio sociologico»96.

95
Si cfr. BANDINI T. - GATTI U., Dinamica familiare e delinquenza giovanile,
Milano, 1972, pag. 85 e segg.
96 Si cfr. BANDINI T. - GATTI U., Op. cit., pagg. 85, 95 e segg.

64
Par. 3 – Studi sull’ereditarietà

Studi più approfonditi furono compiuti sulla ereditarietà da


scienziati per la maggior parte tedeschi, nella scia – come riferisce il
Gemelli – delle «nuove ideologie sulla razza»97.
Furono impiegati tre metodi: lo studio concreto (esame dell’al-
bero genealogico) delle famiglie criminali, lo studio statistico di esse,
e l’esame dei gemelli, sul quale maggiormente si accentuò l’interesse
degli studiosi.

a) – Studio concreto delle famiglie criminali

Lo studio più antico sulle famiglie criminali risale al 1847, anno


in cui Dugdale pubblicò i risultati della sua ricerca. Egli esaminò più
di settecento appartenenti alla famiglia Juke, tristemente famosa
famiglia di criminali, risalendo nella storia di essa per oltre duecento
anni. Si scoprì che il capostipite di questa famiglia fu un alcolizzato
e tra i suoi discendenti si annoverarono delinquenti, vagabondi e
prostitute in numero cospicuo. Da notare che l’investigazione ini-
ziata da Dugdale fu poi proseguita e completata nel 1916 da Esta-
brook, che giunse ad identificare oltre tremila discendenti della
stessa famiglia pervenendo a questi risultati: metà dei membri della
famiglia erano da considerarsi dei deboli di mente, circa un terzo era
costituito da vagabondi, ladri, prostitute, ecc. Comunque, Estabrook
osservò che i criminali erano da annoverarsi tutti fra i “deboli di
mente”.

97 GEMELLI A., La personalità del delinquente nei suoi fondamenti biologici e psi-
cologici, cit.

65
Altri studi furono eseguiti da Goddard su di una famiglia deno-
minata dallo stesso autore “Kallikak” parola che, nella sua accezione
etimologica (Kalós e Kakós) voleva indicare le buone e le cattive
qualità ereditarie di detta famiglia.
Fu possibile risalire nella storia di questa famiglia per circa sei
generazioni.
Come riferisce Hurwitz98, Goddard scoprì che un antenato di
questa famiglia aveva avuto rapporti con una ragazza debole di
mente, prima di sposarsi con una donna normale, ed osservò come
delle due discendenze – derivate dai rapporti con le due donne – la
prima annoverasse per lo più tra i suoi membri degli antisociali,
mentre la seconda persone normali nella quasi totalità dei suoi com-
ponenti.
Ma – come anche un profano dell’argomento può notare – que-
sti studi sulle famiglie criminali vanno senz’altro respinti.
Hurwitz afferma che «una valutazione critica delle investigazioni
descritte e dei loro risultati dimostra come prima cosa che non è
giustificato in ogni caso ritenere che esse forniscano una diretta
documentazione di un alto grado di frequenza criminale inerente a
particolari famiglie».
Franchini ed Introna non diversamente giustificano le aspre criti-
che rivolte soprattutto al “metodo” stesso, che non fu certamente un
metodo “scientifico”99.
Lo stesso Exner, dopo aver ammesso che questi studi hanno
puramente un merito, e cioè quello di richiamare l’attenzione «sul-
l’importanza del problema criminologico e psichiatrico dell’eredità»,

98
HURWITZ S.,Op.cit., passim.
99
FRANCHINI A.-INTRONA F., Delinquenza minorile, cit., passim.

66
riconosce la inesattezza – dal punto di vista scientifico – dei risul-
tati, e soprattutto osserva che la grande percentuale di criminalità,
rilevata in queste famiglie, è piuttosto da porsi in relazione a fattori
ambientali: poiché «le famiglie di delinquenti hanno avuto origine
nello strato più basso del popolo e i loro membri fin dalla giovi-
nezza esposti alle stesse influenze cattive, cosicché una ripetizione
delle reazioni criminali deve essere certamente messa in rapporto
con ciò».
Exner ribadisce che non intende, con ciò, attribuire la criminalità
di queste famiglie a sole condizioni ambientali: siccome altre fami-
glie,in condizioni ambientali analoghe, presentano diversa e minore
percentuale di criminalità.
Altra fallacia del metodo consisterebbe, poi, nello scegliere dei
casi singoli «la cui unicità esclude conclusioni finali generali».

b) – Studio statistico delle famiglie criminali

Anche lo studio statistico delle famiglie mostra pregi e difetti.


I pregi consistono nel prendere in considerazione, non già casi
singoli (come per esempio i capostipiti, per poi esaminarne l’intera
discendenza), bensì numerosi casi: in modo da far derivare dai risul-
tati una maggiore garanzia.
In particolare, questo metodo va alla ricerca delle cosiddette “tare
ereditarie”, con riferimento alle alterazioni mentali (debolezze men-
tali, pazzia, epilessia) ed all’alcoolismo; nonché alle psicopatie ed alla
criminalità.
Hurwitz osserva che, con questo metodo, i fattori ereditari ven-
gono esaminati “nel loro insieme”; ed Exner precisa che “la tara”
può essere diretta, indiretta, collaterale, a seconda che si riscontri

67
rispettivamente nei parenti, solo nei discendenti e nei collaterali, e
ne operò, secondo la specie, una distinzione in “tara da malattie
mentali”, “tara da psicopatia”, “tara di criminalità” e “tara di alcoo-
lismo”.
Con riferimento al primo tipo, cioè la “tara da malattie mentali”,
Exner rilevò che «non si può dimostrare un rapporto ereditario tra
psicosi e criminalità». Ammise, al contrario, a proposito delle “tare
psicopatiche”, il rapporto ereditario tra delinquenza e psicopatia; ed
è significativa a tal proposito l’opinione di Franchini ed Introna i
quali affermano: «è al contrario netto il rapporto che lega la crimi-
nalità alle psicopatie familiari, ma è ben chiaro che una buona parte
dei delinquenti abituali e recidivi è appunto rappresentata da per-
sonalità psicopatiche o quanto meno da nevrotici che, in molti casi,
sono ai margini della abnormità psichica».
Circa la “tara di criminalità”, Exner ammise un naturale elevato
rapporto tra la criminalità dei genitori e la criminalità dei figli, ma
avvertì di non trarne affrettate conclusioni.
Infatti, è evidente che i figli dei criminali vengono allevati in un
ambiente di per sé già corrotto e, quindi, è difficile stabilire: a) – in
che proporzione la loro criminalità sia da attribuirsi alla disposizione
ereditaria; b) – in quale altra posizione sia invece da addebitarsi a
fattori ambientali.
In particolare, Exner riferisce delle ricerche eseguite da Kuttner,
che studiò la criminalità nei figli dei delinquenti, considerando sia i
figli consanguinei che quelli non consanguinei.
Dai diversi risultati ottenuti nei confronti dei primi e dei secondi,
Kuttner dedusse che il fattore ereditario avesse una notevolissima
importanza.
Infatti, risultò che i figliastri, pur allevati nell’ambito familiare di
un patrigno criminale e, quindi, in condizioni ambientali chiara-

68
mente sfavorevoli, ciò nonostante avevano mantenuto una linea di
condotta migliore di quella dei figli consanguinei.
Exner riconobbe che le ricerche di Kuttner portavano un discreto
contributo agli studi sulla tara di criminalità; ma Franchini ed
Introna testimoniano che Hurwitz criticò l’opinione di Kuttner, rile-
vando che un’alta percentuale degli individui, di cui furono esami-
nati i figli consanguinei e non consanguinei, era di psicopatici (come
lo stesso Kuttner aveva ammesso) e che, pertanto, la tara da essi ere-
ditata era piuttosto una “tara psicopatica” e non già una “tara crimi-
nale”.
Aggiungendo poi a questa tara psicopatica il ‘cattivo stato’ in cui
questi figli furono allevati, con riferimento alle deficienze di educa-
zione ed all’ambiente chiaramente negativo, Hurwitz giudicò di
potersi così spiegare il loro comportamento criminale.
Infine, Exner si occupò della “tara di alcolismo”: ne riconobbe la
frequenza; ma dubitò se si trattasse di una vera eredità, oppure di
un danneggiamento del germe o del feto a causa dell’abuso di alcool
da parte dei genitori; o, ancora, se tale frequenza fosse da ricon-
durre a cause ambientali, con riferimento al “danno ambientale”
riportato dal bambino allevato in casa di genitori alcolizzati.
In definitiva, Hurwitz respinse il metodo dello “studio delle fami-
glie criminali”, affermando che «le informazioni generali sulla tara
ereditaria in generale non danno un grande affidamento»; ed anche
Franchini ed Introna criticano questo metodo sostenendo che, seb-
bene non si possa disconoscere una presenza di tare familiari nei
delinquenti precoci e recidivi, tuttavia ciò non autorizza ad affer-
mare l’esistenza di una «trasmissione ereditaria di un germe di cri-
minalità».

69
c) – Studio dei gemelli

L’esame dei gemelli rappresenta il terzo metodo – dopo lo studio


concreto e lo studio statistico delle famiglie criminali – cui fecero
ricorso autorevoli studiosi, per indagare sulle disposizioni criminali
ereditarie e propriamente sul rapporto tra ereditarietà e criminalità.
Esistono due specie di gemelli: quelli “monovulari” detti anche
“monozigoti” o “monozigotici” e quelli “biovulari” o “dizigoti” o
anche “dizigotici”.
I primi provengono dallo stesso ovulo che ha avuto una gemma-
zione posteriormente alla fecondazione: e si ha quindi, per essi, la
cosiddetta “identità genetica”; essi sono sempre dello stesso sesso e
si somigliano moltissimo.
I secondi, invece, derivano da due ovuli fecondati contempora-
neamente: essi hanno somiglianze ma anche dissomiglianze che
sono, però, sempre minori delle diversità che si riscontrano tra fra-
telli.
I gemelli dizigoti possono essere anche di sesso diverso e sono
anche detti, per le ragioni di cui sopra, “fraterni”.
Sia i gemelli monovulari che quelli biovulari furono oggetto di stu-
dio, ma particolarmente si rivolse l’attenzione a quelli monozigoti.
Si ebbe infatti riguardo alla particolare rassomiglianza di questo
tipo di gemelli; e si tentò – da parte di alcuni studiosi – di ammet-
tere, correlativamente alla concordanza dei gemelli monozigoti sul
piano fisico, una concordanza di caratteri psichici.
Furono soprattutto studiosi tedeschi a servirsi di questi gemelli
monovulari per stabilire il loro comportamento nelle azioni crimi-
nose.
Tra i maggiori cultori di questo tipo di studio va menzionato il
Lange. Questi, studiato un gemello criminale, si occupò poi dell’al-

70
tro, per notarne la concordanza o meno; e giunse alla conclusione
che la concordanza dell’azione criminosa per i gemelli monozigoti –
a differenza dei gemelli dizigoti – fosse rilevante.
Al riguardo, scrisse il Gemelli: «da questa constatazione Lange
trasse la conclusione che il fattore disposizionale determina un’a-
zione predominante nel determinismo della delinquenza».
Riferisce, a sua volta, Exner che molti studiosi seguirono le orme
del Lange nello studio dei gemelli mono e bioculari; e, ancora, che
questi ricercatori, avendo notato che, nella maggior parte dei casi, i
gemelli si comportavano entrambi come criminali, avvalorarono la
tesi che ciò «testimonierebbe la causalità ereditaria della loro crimi-
nalità».
Stumpfl distinse i gemelli monovulari ‘maschi’ da quelli ‘femmine’
e notò che i primi – con riferimento ad azioni delittuose gravi –
mostravano una chiara concordanza, mentre invece i secondi si com-
portavano differentemente, commettendo azioni criminose peraltro
lievi e non ripetute.
Anche Kranz compì notevoli osservazioni di gemelli mono e bio-
vulari, occupandosi, nello studio di questi ultimi, anche di gemelli
di sesso diverso: pervenendo alla conclusione che i casi di concor-
danza non erano poi tanto rilevanti. Holpinger e Newman conclu-
sero, invece, che l’influenza esercitata dalla costituzione ereditaria
fosse uguale a quella esercitata dall’ambiente e – ricorda il Gemelli
– non mancarono autori che attribuirono ancora maggior peso al
fattore ereditario.
Il Mezger ritenne – per testimonianza del Gemelli100 – di poter
rispondere al quesito: «vi è una speciale disposizione ereditaria alla

100
GEMELLI A., La personalità del delinquente nei suoi fondamenti biologici
e psicologici, cit.

71
criminalità?», affermando che fossero da porre senz’altro da parte
talune concezioni lombrosiane con cui si voleva dare – come scrive
il Gemelli – «una disposizione (Anlage) alla delinquenza, perché non
è stata data la dimostrazione che una determinata disposizione dia
luogo ad una determinata forma di delinquenza».
Il Gemelli reputò giusta l’osservazione del Mezger secondo cui la
delinquenza, nelle sue varie e molteplici manifestazioni, non possa
considerarsi come una qualità trasmissibile per via ereditaria.
Altri autori ancora – sempre secondo la testimonianza del
Gemelli – respinsero l’idea di una “predisposizione” ereditaria ed
affacciarono l’ipotesi che si potesse,tutt’al più, parlare di “caratteri-
stiche psicologiche” che stanno alla base del comportamento antiso-
ciale.
Già con Exner101, è indubitato che si compì un notevole passo in
avanti.
Egli, infatti, reputò di non potersi ammettere una “predestina-
zione” alla delinquenza; ma soltanto una “predisposizione”.
In polemica con Stumpfel, che riconosceva la concordanza nei
gemelli monovulari di «criminalità recidiva precoce», ritenendola cro-
nica e quindi basata sulla disposizione, Exner affermò che questo
punto era «dubbioso» e che in ogni caso, «non è vero che la crimi-
nalità recidiva con inizio precoce sia un segno indiscusso di un
carattere che dovrebbe condurre alla delinquenza sotto condizioni
ambientali normali».
In altri termini, Exner contestò che potesse desumersi, dall’esame
dei gemelli, una predestinazione alla delinquenza; potendo solo
ammettersi una predisposizione. Come rilevano Franchini ed

101
EXNER F., Op.cit., passim.

72
Introna102, «al massimo, concorda Exner, si può parlare di una inte-
razione fra disposizione ereditaria e fattore ambientale con peso
diverso dell’uno o dell’altro momento causale a seconda dei casi».

d) – Conclusioni tratte dagli studi sull’ereditarietà

Il Gemelli osserva che questi studiosi tedeschi si resero conto che


il solo fattore “disposizione” «non mostra a dare ragione della delin-
quenza»; ma è necessario riconoscere l’importanza che ha il fattore
ambientale, avendo riguardo al fatto che questi due fattori sono in
intima relazione fra di loro, agendo insieme ed influenzandosi reci-
procamente.
In definitiva, il Gemelli ammette che noi «ereditiamo condizioni
morfologiche, fisiologiche e patologiche, individuali, familiari e di
razza, che influiscono sul carattere» e che ciò può far pensare ad
una – peraltro apparente – «trasmissione di caratteri psichici in via
ereditaria»; ma puntualizza che, anzitutto, noi ereditiamo solo un
numero limitatissimo di «fattori biologici della vita psichica», che
«non bastano a cogliere la genesi della infinita varietà del carattere
umano».
In particolare, a proposito dell’esistenza di una eredità psichica e
principalmente di una «trasmissione di caratteri psichici caratteristici
del delinquente», con la conseguente influenza per la «formazione
della personalità del delinquente», il Gemelli afferma che questa
eredità psichica è così poco provata da ridursi soltanto ad una
«povera illusione».

102
FRANCHINI A.-INTRONA F., Op. cit., pagg.82-83.

73
Hurwitz103 a sua volta respinge una prevalenza dei fattori eredi-
tari rispetto a quelli ambientali, scrivendo tra l’altro: «È risultato
manifesto che i concetti di disposizione e di ambiente sono di solito
molto più complicati ed interdipendenti di quello che non si pensi
generalmente. Questa sola analisi ha reso evidente che non può
esservi una criminalità puramente ereditaria».
Il Guadagno104 respinge la concezione di «una disposizione pura
dell’eredità» ed osserva che questa non ha «un ruolo decisivo», per
tutti i delinquenti. Egli sostiene che, se da un lato può benissimo
darsi che alcune persone abbiano una tendenza al delitto per una
disposizione ereditaria non modificata da fattori ambientali, è pur
altresì vero che altre persone, prive di tale disposizione, commettono
azioni criminose sotto l’influsso dell’ambiente o, anche, in conse-
guenza di cambiamenti di ambiente.

Par. 4 – Le malattie mentali

Il Guadagno105 esclude «una vera base anatomo-patologica della


criminalità»; ma precisa che ciò è vero tranne i casi di malattie men-

103
HURWITZ, Op.cit.
104
Si cfr. GUADAGNO G.,La nuova sociologia criminale, cit., pag. 81 e segg.
105 Si cfr. GUADAGNO G.,Op. ult. cit., pag. 86 e segg.; IDEM, Sociologia della cri-

minalità, pag. 92 e segg. e passim. L’autore avverte che bisogna «andare cauti nel-
l’accogliere senz’altro quelle concezioni intese ad ammettere l’esistenza di una spe-
ciale costituzione delinquenziale», siccome «se per costituzione occorre intendere il
complesso delle caratteristiche fisiologiche, endocrinologiche e temperamenti degli
individui, è ben difficile configurare delle categorie criminali in cui risultino alterati
tutti i detti fattori, una volta che le cause di carattere patologico sono state da noi
considerate come varianti anormali e poste quindi al di fuori della personalità nor-
male», onde è necessario prendere in considerazione, ai fini dello studio della perso-
nalità del delinquente, le manifestazioni proprie dell’uomo normale che delinque per
reazioni varie, non quelle dell’uomo malato».

74
tali che siano di tale entità e portata da «annullare nei soggetti, nei
casi di infermità totale, tutti gli altri elementi causali nella eziologia
del delitto». Invece, nei casi di infermità parziale, è ancora possibile
che i fattori ambientali possano esercitare influenza sulla psiche pur
inferma.
Exner ammette che malattie, non solo psichiche ma anche soma-
tiche, possano esercitare influenza sulla formazione stessa della per-
sonalità e sul suo sviluppo.
Franchini ed Introna106 compiono un’accurata indagine in propo-
sito e, nello studio delle cause biologiche di alterazione della perso-
nalità, distinguono tutta una molteplicità di cause (a parte l’eredita-
rietà). Essi iniziano con l’esaminare le malattie dei genitori nel
periodo anteriore al concepimento (con particolare riguardo al dan-
neggiamento delle cellule germinali – cioè, della blastotoxia – in con-
seguenza di tubercolosi, sifilide, alcoolismo, diabete, tossicomania,
ecc.), per poi trattare: delle «cause contemporanee al concepimento»
(somma nella prole delle tare dei genitori consanguinei); delle «cause
che agiscono durante la gravidanza» (con riferimento a talune malat-
tie infettive e ad altre malattie, come tubercolosi, sifilide, blenorra-
gia; oltre poi le intossicazioni da alcool e stupefacenti); delle «cause
che agiscono durante il parto» (fattori tossici per l’uso di anestetici,
ed il trauma stesso della nascita); infine, delle «cause successive alla
nascita» (traumatismi cranici, malattie infettive, intossicazioni,
carenze alimentari e vitaminiche, encefaliti infantili, ecc.).
Circa poi le malattie mentali, va anzitutto precisato che esse pos-
sono essere ereditarie oppur no: a seconda della loro natura e specie.

106
FRANCHINI A.-INTRONA F., Op. cit., pag. 71 e segg.

75
Hurwitz107 annovera tra le malattie mentali ereditarie la “debo-
lezza mentale” e le “psicosi”; precisando però che, per la prima, se
ne ammette l’ereditarietà solo in proporzione dell’80%, e che tra le
psicosi ne esistono anche di non ereditarie (psicosi prodotte da
avvelenamento, da infezioni, da lesioni al cervello, ecc.).
Le psicosi ereditarie comprendono – secondo questo autore - «la
schizofrenia, le psicosi maniaco-depressive e l’epilessia». Avverte però
Hurwitz che, per queste tre forme di psicosi, l’ereditarietà è piutto-
sto incerta.
Quanto poi all’influenza delle malattie mentali (ereditarie oppur
no) sulla personalità, giova riportare qualche esempio.
Rammenta Hurwitz che l’atto aggressivo è tipico di soggetti schi-
zofrenici, tenendo presente che una caratteristica fondamentale della
schizofrenia (denominata in origine “dementia precox”) è «lo svi-
luppo verso il cambiamento della personalità».
Le psicosi maniaco-depressive sarebbero caratterizzate, secondo
Hurwitz, da «una trasformazione patologica dello stato d’animo
verso il polo depressivo, malinconico, o verso il polo opposto,
maniaco». In una estrema fase depressiva, il soggetto patologico può
essere portato al suicidio; così come, invece, in una fase altamente
maniaca, possono compiersi delitti sessuali.
Importante è anche la post-encefalite epidemica. Esattamente il
Guadagno richiama l’attenzione su questa malattia che – a suo dire
– «forse, più dell’encefalite vera e propria, presenta interessanti
aspetti per le devianti patologiche della personalità»108 ed «ha una
grande tendenza a lasciare dietro di sé lesioni permanenti dell’ence-

107
HURWTZ S., Op.cit., passim.
108
GUADAGNO G., Op. ult. cit., pag.95 e segg. e passim.

76
falo o delle zone colpite dall’infiammazione»109. Essa, tra i vari sin-
tomi, presenta specialmente quello della «ideazione ossessiva».
Il Pende studiò con molta attenzione le malattie dell’encefalo,
tentando, con la sua teoria, di far derivare l’ammissione di una costi-
tuzione delinquenziale proprio dall’osservazione di talune lesioni
encefaliche.
Franchini ed Introna110 rivolgono l’attenzione al diencefalo, giu-
stamente considerato come «punto di raccordo tra le formazioni
della vita istintiva vegetativa e quelle della vita di relazione», colle-
gato intimamente con tutto il sistema endocrino, ma rilevano l’ “esa-
gerazione” del Pende ed anche del Di Tullio. Soprattutto negano
che si possa concepire una zona “criminogenetica”. La delinquenza,
infatti, è molto complessa perché possa essere riportata ad un unico
fattore generalizzato.
Anche il Guadagno111 riconosce che indubbiamente queste lesioni
di encefaliche rivestono grande importanza, essendo il diencefalo un
organo particolarmente delicato «vero ponte tra soma o psiche»; ma
avverte di non «confondere le alterazioni del diencefalo con quelle
che sono le manifestazioni del funzionamento normale di questo
delicato settore del cervello».
Sostiene inoltre il Guadagno che, in caso di normalità biologica,
gli effetti dell’attività criminogena sono da attribuirsi alla elabora-
zione di stimoli che provocano una «regressione psichica» della per-
sonalità, sulla quale incidono moltissimo i «fattori sociali» che hanno
il potere di agevolarla o impedirla.

109 GUADAGNO G., La nuova sociologia criminale, cit., pag. 78.


110 FRANCHINI A.-INTRONA F., Op. cit., pag. 100 e segg.
111 GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., passim.

77
Infine, va ricordata la distinzione – operata dal Guadagno – tra
le cosiddette “varianti normali” ed “anormali”112. Mentre queste
ultime sono rappresentate dalle vere e proprie malattie mentali, le
prime invece sono «quegli stati di più o meno profonda intensità dei
processi psicologici cerebrali (intensità delle emozioni; grado delle
passioni)».
Particolare importanza rivestono poi le “neurosi”, che rientrano
nella categoria delle “psicosi reattive”. Queste, infatti, sono delle
‘turbe’ che si manifestano per lo più in soggetti sensibili.
Il Guadagno attribuisce alle neurosi «una causa rilevante di
deviazione sociale e di comportamento criminoso»: e ciò nella scia
delle più moderne tendenze.
Hurwitz nota che il termine “neurosi” servì, in un primo tempo,
a definire il ‘tipo’ di malattia nervosa; ma successivamente passò ad
indicare le “psico-neurosi” (disturbi psichici), volendosi con questa
espressione indicare le tensioni interne, i desideri repressi, i conflitti
non risolti e finanche le tendenze istintive; ed osserva che non si è
ancora giunti ad una definizione precisa delle “neurosi”. In ogni
caso, però Hurwitz attribuisce a queste notevole rilievo, consideran-
dole come «causa di deviazione sociale e di comportamento crimi-
nale». Egli, infine, reputa che vi sia un’alta percentuale di psicopa-
tici tra i criminali, e specialmente tra quelli recidivi.

112
Si cfr. GUADAGNO G., La nuova sociologia criminale, cit., pag. 75 e segg.

78
CAPITOLO IV

SVILUPPO DELLA PERSONALITÀ CRIMINALE


NEL MINORE DELINQUENTE

Par. 1 – Incidenza dei fattori socio-culturali su formazione e svi-


luppo della personalità criminale

Di notevole interesse è – per la dottrina criminalistica – il pro-


blema della delinquenza minorile. È evidente che il periodo dell’età
evolutiva è quello più delicato della vita dell’uomo: poiché è la fase
di sviluppo in cui il bambino, il fanciullo, il giovane sono più espo-
sti all’influenza dell’ambiente esterno. Particolare importanza riveste
poi l’incidenza (positiva o negativa) esercitata sulla personalità dai
cosiddetti “fattori socio-culturali”, fra i quali vanno annoverati – in
primis – la famiglia, la scuola, l’apprendistato, il lavoro, il tempo
libero e le comunicazioni di massa. Rileva, in tale contesto, la “cul-
tura” intesa nel senso più lato della parola: siccome è «attraverso il
processo di inculturazione» che «si acquisiscono quei processi selet-
tivi che incanalano le reazioni degli uomini a stimoli sia esterni che
interni», onde sia l’«integrazione istituzionale» sia la maturazione
sociale «stanno proprio ad indicare il processo di inserimento del-
l’individuo nella cultura»113.

113
Si cfr. GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., pag.127.

79
L’età evolutiva è quindi la fase in cui si avvia la ‘formazione’ della
personalità umana attraverso il suo primo e più importante svi-
luppo114.

114
Anzitutto, discordanze si riscontrano fra gli autori nello stabilire i limiti di età
tra cui va compresa l’età evolutiva. Il Gemelli (La psicologia dell’età evolutiva, Milano,
1956) fa rientrare l’età evolutiva nel periodo compreso tra la nascita e i 20 anni circa
e distingue tre fasi principali: la prima andrebbe dalla nascita ai sei anni; la seconda
dai sette ai 13 o 14 anni di vita: infine la terza dai 14 ai 20 anni circa. Diverse sono
– secondo l’autore – le caratteristiche di queste tre fasi.
La prima fase è caratterizzata soprattutto dalla permanenza del fanciullo nell’am-
bito della famiglia, ed è un periodo di profonda preparazione: il fanciullo compie la
sua prima maturazione “anatomo-fisiologica”, cominciando a rivolgere la sua atten-
zione al «mondo esterno che lo circonda» e che egli riconosce con l’esperienza sen-
soriale, e si pone – tramite il linguaggio – in comunicazione con gli altri uomini. Que-
sta fase è inoltre caratterizzata dal gioco.
La seconda fase si distingue per l’immissione del fanciullo nell’ambito scolastico,
ove – tra l’altro – avviene anche il passaggio dal gioco al lavoro (anche se il gioco
non è ancora del tutto abbandonato) e, soprattutto, si plasma ed affina l’attività sen-
soriale; mentre già comincia a delinearsi per il fanciullo la possibilità di «guidarsi nel-
l’azione», soprattutto per mezzo dell’attività intellettuale che inizia a svilupparsi. In
particolare, nota il Gemelli: «così, per mezzo dello studio, il fanciullo è messo a con-
tatto del patrimonio culturale dell’umanità, che gli viene offerto dalla pur ristretta
società in cui vive, rappresentata dalla famiglia e dalla scuola e può impadronirsene.
Speciale importanza ha in questo periodo l’attività affettiva; pulsioni, inclinazioni, rea-
zioni affettive sono infatti le molle per l’agire di un fine».
Infine, la terza fase è caratterizzata dalla definitiva immissione del giovane nel-
l’ambiente lavorativo o professionale. È questa l’età dell’adolescenza e della giovi-
nezza in cui l’individuo trova l’affermarsi della propria personalità, finalmente di
fronte al gioco ‘disposizione – ambiente’: inteso ormai non più nel senso ristretto di
ambiente familiare o in quello meno ristretto di ambiente scolastico; bensì in quello
ampio di ambiente sociale.
In altri termini, il giovane, che «si appresta a diventare uomo», si trova immesso
nella società intesa nel senso più ampio della parola. È questo il periodo – avverte il
Gemelli – in cui il giovane, rielaborando interiormente l’apprendimento, frutto del-
l’ambiente in cui vive, dà una vera e propria impronta personale a tutto ciò che ha
appreso: «in una parola, comincia ad essere se stesso e ad averne consapevolezza».
Questo è anche il periodo in cui, soprattutto, si afferma la volontà, che sceglie e
determina i fini da perseguire, ed in cui l’individuo viene ‘spinto’ da “interessi” che

80
Prima di esaminare i “fattori socio-culturali” che, nelle varie fasi
dell’età evolutiva esercitano indiscussa influenza sulla personalità del
minore, determinando spesso variazioni nel senso asociale o antiso-
ciale o criminale, va premesso che – per opinione ampiamente dif-
fusa in dottrina – il periodo dell’età evolutiva è molto critica e com-
plessa: anche e soprattutto per la facilità con cui il minore può
essere suggestionato dall’ambiente115.

non sono più quelli “di natura sensoriale” tipici della fase precedente; bensì pretta-
mente “di natura spirituale”. Reputa il Gemelli che ciò accade poiché «ogni dato
oggettivo risveglia una reazione affettiva».
L’autore, infine, suddivide le “tre fasi” considerate in un numero maggiore di altre
fasi: per poter meglio esaminare, nei vari aspetti, il periodo dell’età evolutiva. Anche
Franchini ed Introna (Delinquenza minorile, cit.) distinguono diverse fasi; ma i limiti
di età, in cui far rientrare il periodo dell’età evolutiva, sarebbero maggiori.
Sono infatti distinti i seguenti periodi: la prima infanzia (dalla nascita ai 2 anni),
la seconda infanzia (dai 2 ai 6 anni): la terza infanzia (che culmina nell’inizio della
pubertà): la pubertà (che va fino ai 16-17 anni delle femmine e fino ai 17-18 anni per
i maschi) – a sua volta suddivisa nei periodi: prepuberale, puberale e postpuberale –
costituente fase molto lunga comprensiva anche del periodo di adolescenza (ritenuta
invece dal Gemelli successiva a quello della pubertà); la prima giovinezza (fino a 21
anni) e la seconda giovinezza (fino ai 30).
Questa classificazione di Franchini ed Introna sembra più aderente alla realtà:
infatti, la personalità dell’uomo è in continua evoluzione e – indipendentemente da
significati etimologici – si reputa più logico assegnare all’età evolutiva un maggior
limite di tempo di quanto non faccia invece il Gemelli che ne fissa il termine ai 20
anni. Va precisato a questo punto, che la distinzione in fasi è operata per comodità
di studio, poiché il passaggio da una fase all’altra avviene in modo graduale e senza
«nette separazioni temporali» (GEMELLI A., Op. loc. cit.) ma non è escluso che tal-
volta ciò avvenga bruscamente: con conseguenza di turbamenti per «l’equilibrio del
soggetto, la sua maturazione, il suo apprendimento e quindi il suo adattamento»
(FRANCHINI A.-INTRONA F., Op. loc. cit.).
115 Allorché ci si occuperà – per i minori – del ruolo della famiglia intesa come

fattore socio-culturale, si evidenzierà, per esempio, che questa è addirittura un


ambiente imposto al bambino prima e al fanciullo poi – come sostiene Exner – dal
“destino”.

81
Così non a torto Franchini ed Introna – a proposito del «ruolo
criminogeno svolto dall’ambiente» – affermano che «in tema di
delinquenza minorile, l’azione ambientale è in genere più determi-
nante che nella criminalità adulta a causa dell’estrema sensibilità e
suggestionabilità del minore»116.
Alfredo Niceforo117 osserva che il dinamismo della vita moderna
fa sì che il giovane diventi uomo prima del tempo affacciandosi alla
vita con un anticipo che lo coglie impreparato ed ancora immaturo
per poter affrontare le situazioni che la vita stessa – nella sua mul-
tiforme varietà – presenta: proprio da ciò deriverebbe «l’affermarsi
della mala condotta, anche criminale, nei giovani e persino l’im-
pressionante fatto del suicidio tra i giovani stessi».
L’importante fenomeno del c.d. “suicidio in famiglia” mostra l’i-
nadeguatezza dei giovani ad affrontare determinate situazioni della
vita o incapacità a risolvere problemi trascendenti le loro stesse pos-
sibilità, con la conseguenza dello scoramento e l’attuazione di que-
sto atto ‘antisociale’.
Molto spesso si odono espressioni del tipo: “Vorrei trovare il
coraggio di suicidarmi”; ma questa sola espressione già offre la valu-
tazione di chi la pronuncia.
Invero, il suicidio non è mai espressione di un “coraggio”; bensì
di debolezza, inadeguatezza a far fronte alle difficoltà della vita, ad
affrontare e risolvere situazioni difficili. Onde coloro che pronun-
ciano frasi del genere già dimostrano di essere dei ‘falliti’ della vita.
Ciò premesso, va ora esaminata l’incidenza dei fattori socio-cultu-
rali sulla formazione di una personalità criminale: ciò, senza peral-

116
FRANCHINI A.-INTRONA F., Op. cit.., pag. 123.
117
NICEFORO A., Criminologia, dinamica del delitto e classificazione del delin-
quente, Milano - Roma, 1954.

82
tro voler del tutto disconoscere la rilevanza di talune cause biologi-
che di alterazione della personalità.

Par. 2 – Famiglia - scuola - lavoro

La famiglia è un ambiente “sui generis”. In particolare, il primo


ambiente in cui il bambino si trova immesso: – non certo per sua
volontà. Già scrivemmo delle osservazioni di Hurwitz e dell’opi-
nione di Exner circa la famiglia considerata come ambiente dato dal
“destino”.
Un tempo la famiglia assolveva a molti compiti espletando nume-
rose e varie funzioni.
Oggi ha perduto molte prerogative del passato, ma gli studiosi
sono concordi nel ritenere la grande importanza, che essa ha ancora,
per la formazione della personalità, e principalmente del carattere,
tramite l’educazione impartita ai figli. Non a torto il Guadagno defi-
nisce l’educazione come «fonte d’apprendimento sociale e perciò
d’inculturazione».
Circa poi le conseguenze negative che derivano dalla mancanza di
educazione o da una cattiva impartizione di questa ai fanciulli nelle
famiglie criminali, bisogna osservare che il bambino ‘tende’ ad ele-
vare il padre e la madre a “modelli” cui tenta di ispirarsi, per le pro-
prie azioni.
Infatti, i Glueck – in una loro famosa indagine basata sul con-
fronto di 500 ragazzi delinquenti con altri 500 non delinquenti,
scelti in base a particolari accorgimenti – posero in luce l’influenza
negativa che ha per il fanciullo il disordine della casa, la negligenza
delle madri, i cattivi rapporti fra genitori, la trascuratezza di questi
nell’organizzare e consentire una sana ricreazione ai propri figli, con

83
la conseguenza – specie in quest’ultimo caso – di favorire la ten-
denza in essi a cercare sfogo altrove, magari per istrada, unendosi in
gruppi e bande per praticare giochi anche pericolosi, lontano
comunque dalla sorveglianza dei genitori118.
In definitiva, se – come esattamente rilevano Bandini e Gatti119 –
«il crimine è stato interpretato, di volta in volta, come espressione
di un disturbo individuale, come risultato di carenze familiari, come
difetto di socializzazione dovuto ad eventi disturbanti occorsi nel-
l’età evolutiva», in tale ottica la famiglia si pone come «il punto
nodale nel quale confluisce la problematica che conduce ad un com-
portamento deviante» e, di conseguenza, «viene ad assumere un
ruolo privilegiato» siccome «punto focale di emergenza dei pro-
blemi… studiati».
Su questa visione sembra che concordi la dottrina.
Ed invero, da Weber a Durkheim, dalla “teoria delle associazioni
differenziali” del Sutherland a quella delle “opportunità illegittime”
di Cloward e Ohlin, dalla concezione di Merton a quella di Cohen,
da Horkheimer ed Adorno a Guadagno, Ferracuti, Canepa, Bandini,
Gatti, Ponti, ed a quanti altri – soprattutto sociologi e criminologi –
si sono occupati del tema, non sembra si sia mai dubitato della
notevolissima incidenza della famiglia sulla formazione della perso-
nalità, soprattutto nell’aspetto dei comportamenti devianti.

118
GLUECK S. e E., Dal fanciullo al delinquente, Firenze, 1957. Si cfr. anche
CLOWARD R.A. – OHLIN L.E., Teoria delle bande delinquenti in America, Bari, 1968
(trad. it. dall’originale “Delinquency and opportunità: A Theory of Delinquent Gangs”,
Glencoe, 1964).
119 Si cfr. BANDINI T. – GATTI U., Dinamica familiare e delinquenza giovanile, cit.,

pagg. 1 e segg., 95 e segg.

84
Il disadattamento, ovvero la mancata o insufficiente integrazione
del ragazzo nella famiglia, comporta di conseguenza la maggiore dif-
ficoltà di integrazione nell’ambito scolastico.
La scuola è infatti un ambiente particolare, un ambiente “coatto”
– a dirla con il Guadagno – dove il fanciullo, lontano dalla prote-
zione dei genitori, si trova a doversi cimentare da solo (sia pure
sotto la guida e la direzione del maestro) nella prima “arena” della
sua vita. Invero, se il ragazzo non ha superato la prima fase di inte-
grazione “familiare”, la scuola non avrà certo il potere di sopperire
alle carenze educative: e ne deriverà per il fanciullo un maggiore
“disadattamento” – con innegabili riverberi sulla personalità – che
influirà poi sul suo futuro, specie quando, lontano dalla protezione
della famiglia e fuori della guida della scuola, si troverà ad affron-
tare l’ambiente professionale o lavorativo.
Anche il lavoro, può essere posto in relazione a comportamenti
antisociali e delinquenziali; infatti, Franchini ed Introna notano
come l’analfabetismo o una inadeguata istruzione, e soprattutto le
necessità economiche, spingono il giovane verso forme di lavoro non
qualificato, con tutte le conseguenze di una scelta avventata, guidata
da un impulso di bisogno.
In proposito, sostiene il Guadagno120: «l’accesso ad un lavoro non
del tutto qualificato da parte di chi non ha l’istruzione necessaria,
reca già in sé gli effetti della scarsissima stabilità e della misera retri-
buzione»; conseguenza della prima è il senso di insicurezza, effetto
della seconda è la indigenza del lavoratore con ovvia ripercussione
sulla propria famiglia.

120
GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., pag. 142 e seg.

85
Par. 3 – Tempo libero e comunicazioni di massa

È questo forse l’argomento più scottante in tema di delinquenza


minorile.
Osservava il Niceforo121 che «il moderno tipo di civiltà, ‘facendo
uomini’ il bimbo e il giovane prima del tempo, porta seco necessa-
riamente un affacciarsi più frequente del bimbo e del giovane,
ancora immaturi alla vita e alle sue lotte, o competizioni, o sugge-
stioni, assai spesso pericolose».
È indubitato che il giovane dei nostri tempi sia portato, molto più
che non quello dei tempi andati, a cercare amicizie e compagnie con
cui trascorrere il tempo. E la scelta di questi amici è della massima
importanza.
In particolare, dall’indagine effettuata dai Gluek122, risulta chiaro
che i delinquenti, a differenza dei non delinquenti, tendono a riu-
nirsi prevalentemente in gruppi e bande che praticano giochi d’az-
zardo, e mantengono, comunque, una condotta antisociale.
I non delinquenti, invece, praticano per lo più sports sani e,
rifuggendo da passatempi violenti e pericolosi, mostrano una prefe-
renza per divertimenti tranquilli.
Va inoltre rilevato che la società in cui viviamo, per l’evolversi dei
tempi e del progresso tecnologico è in profonda trasformazione: essa
peraltro attraversa un momento di profondo inquinamento morale
che ha impregnato anche i mezzi di comunicazione di massa e cioè
– come ricorda il Guadagno – «i giornali di informazione, e illu-
strati, la letteratura divulgativa e di svago, la radio, la televisione, gli

121
NICEFORO A., Criminologia, dinamica del delitto e classificazione dei delinquenti,
Milano, 1954, pag. 9 e segg. e passim.
122
GLUECK S. e E., Dal fanciullo al delinquente, cit.

86
spettacoli in genere»123, cui vanno aggiunti i moderni sistemi infor-
matici e telematici cui spesso sono collegate attività criminose (per
esempio: la pornografia e la pedofilia on-line, l’invio di capitali all’e-
stero, ecc.).
La stampa e la televisione, poi, mostrano una tendenza preoccu-
pante a porre in rilievo efferati delitti ed a riprodurre fotografie di
scene raccapriccianti. Tutto ciò può suggestionare la tenera e mal-
leabile personalità del fanciullo.
Il Niceforo si soffermava su questo punto ammettendo che l’at-
tenzione dei moderni criminalisti è proprio rivolta alla «possibile
influenza suggestionatrice che la stampa e la riproduzione fotogra-
fica possono esercitare, con le loro cronache, sulla giovane e irre-
quieta fantasia dei minorenni»124.
Anche un particolare ‘tipo’ di letteratura (romanzi “gialli”, i
cosiddetti “fumetti”, ecc.) esercitano talvolta sui giovani un’influenza
deleteria. Ed i danni per la personalità – secondo il Guadagno -
«sono ancora più evidenti quando si passa alla cosiddetta letteratura
a scopo di svago, perché non si tratta più di fatti realmente avvenuti
ed eventualmente presentati in modo suggestivo, bensì di fatti quasi
sempre immaginari e spesso caratterizzati da contenuto morboso
sadico erotico-sessuale o violento o del tutto irreale».

123
GUADAGNO G., Op. ult. cit., pag. 147.
124
NICEFORO A., Op. cit., passim. Anche il Guadagno, a proposito dell’«eventuale
influenza criminogena della stampa», richiama l’attenzione sugli «effetti della cronaca
nera» aggiungendo: «e ciò non tanto per la notizia del delitto, quanto per la descri-
zione dettagliata dei particolari raccapriccianti dell’esecuzione del delitto, e spesse
volte morbosa dei suoi precedenti e causali»; il che non può non determinare «dele-
teria suggestioni», specialmente in «soggetti minori o facilmente suggestionabili» i
quali «non potranno opporre sufficiente forza di resistenza», con la conseguenza che
«il fattore imitazione per contagio finisce spesse volte per prevalere» (si cfr. GUADA-
GNO G., Op. ult. cit., pagg. 147-148).

87
A loro volta, Franchini ed Introna biasimano le due caratteristi-
che essenziali della stampa moderna di informazione che sono: la
informazione rapida ed il linguaggio iconico125.
Parallelamente, si discute sulle influenze negative esercitate sulla
gioventù dalle cinematografie moderne.
La dottrina criminalistica tradizionale ha sovente posto in rilievo
i modi ‘vergognosi’ con cui i ragazzi molto spesso si procurano il
danaro per andare al cinema, disertando la scuola per recarsi alle
cosiddette “mattinate” (fenomeno riscontrabile soprattutto nella
seconda metà del secolo scorso): con l’effetto di trascurare lo studio
e di essere esposti alla suggestione che molte volte i films esercitano
in modo negativo sui giovani.
Il fenomeno risulta oggi affievolito – ma non eliminato – dalla
diffusione dei mezzi televisivi, informatici e telematici.
Il Guadagno richiama l’attenzione sul fatto che molti giovani
delinquenti hanno proprio dai films tratto spunto per compiere
azioni criminose spesso per puro esibizionismo o volendo imitare il
protagonista126; e nemmeno sono da negare certi perturbamenti ero-
tici, conseguenza della proiezione di ‘particolari’ films, onde risulta
doloroso constatare l’aspetto negativo della radio e finanche della
televisione.
Osserva il Guadagno127 che, a parte «le scene di violenza e di ter-
rore» che tanto danno possono arrecare ai bambini, spesso vengono

125
FRANCHINI A.-INTRONA F., Op. cit., passim.
126
GUADAGNO G., Op. ult. cit., pag. 148 e segg. L’autore però avverte che «molte
idee ed impulsi criminali vengono comunque sollecitati dai films, senza tradursi tut-
tavia in un immediato comportamento criminale»: siccome «idee ed impulsi vengono
in genere confinati nella mente e col passare del tempo possono scomparire senza
lasciare traccia, ma possono anche agire in modo subdolo fino a plasmare un modulo
di vita» (Op. loc. cit., pag. 149).
127
GUADAGNO G., Op. ult. cit., pag. 150.

88
messi in onda documentari e commenti che – lungi dall’aver un fine
puramente istruttivo – comportano dei “giudizi di valore” che, a
volte, falsando finanche la realtà, mirano soltanto a far leva su «par-
ticolari stati d’animo dell’opinione pubblica».
In realtà, il mondo della gioventù di oggi è estremamente irre-
quieto. Molti giovani, infatti, non sanno neanche cosa esattamente
vogliono dalla vita, ed il fatto di voler affrontare – non avendone la
necessaria capacità ed esperienza – problemi più grandi di loro,
porta a conseguenze disastrose ed anche all’inquietante fenomeno
del suicidio in tenera età.

89
CAPITOLO V

PERSONALITÀ E DELINQUENZA

Par. 1 – La personalità deviata – asocialità, antisocialità, criminalità

Esclusa la possibilità di ammissione di «una vera base anatomo-


patologica della criminalità»128, e ritenuta l’importanza reciproca di
fattori disposizionali e fattori ambientali, è ovvio che, dal loro
‘gioco’ di continue relazioni e reciproche influenze, viene a formarsi
e svilupparsi la personalità umana nelle varie direzioni, e quindi
anche in quelle deviate.
Viene ora in esame la personalità deviata nelle sue molteplici
forme che vanno dalla asocialità all’antisocialità, fino a giungere –
nello stadio ultimo – alla criminalità.
Il Niceforo riconosce, in tema di condotta criminale, l’influenza
sia dell’ambiente, sia della cosiddetta «personalità congenita» con le
sue possibilità di reazione. Per questo autore, la «condotta crimi-
nale» è la «risultante della convergenza…della pressione ambientale
e della reazione individuale»129.

128
Si cfr. GUADAGNO G., La nuova sociologia criminale, cit., pag.86 e segg. e pas-
sim.
129
NICEFORO A., Criminologia, dinamica del delitto e classificazione dei delinquenti,
cit., pag.9. In tema di «dinamica del delitto» e di indagini relative alle «cause o con-

90
Il Niceforo, invero, non attribuisce maggior peso alla personalità
congenita; ma neanche ammette una prevalenza dei fattori ambien-
tali: reputando che la pressione dell’ambiente sull’individuo, pur
notevole, tuttavia non sia tale da annientare l’uomo che conserva
intatte «tutte le caratteristiche della sua personalità profonda, istin-
tiva, biologica»; ed aggiunge: «segno è che l’uomo mai è stato can-
cellato dall’opera minatoria di socializzazione imposta dall’ambiente
sociale-psichico».
L’uomo è in grado di reagire alle pressioni dell’ambiente, mo-
strando sempre vive e genuine tutte le sue qualità individuali.
Al riguardo, rileva il Guadagno – con un’osservazione di natura
spiccatamente filosofica – che, se così non fosse, si verificherebbe
«l’aureo sogno di Schopenhauer»: la scomparsa dell’umanità. Il rilievo
– a parte il contenuto filosofico – risponde a verità.
Infatti, l’uomo è vita, dinamismo, coscienza di tendere sempre
verso nuovi orizzonti, proponendosi nuove mete ed assegnandosi
nuovi compiti.
È stata già riportata, al riguardo, l’opinione del Gemelli: senza il
sacrificio, la lotta, le pure a volte necessarie delusioni e cocenti ama-
rezze, l’uomo è come se non esistesse. Aggiungiamo soltanto che il
Gemelli richiama maggiormente l’attenzione sul fatto che, proprio a
causa dei molteplici fini che l’individuo si prefigge, e principalmente
delle sue reazioni all’ambiente sociale, si plasma la personalità: cioè,
«il modo particolare di comportarsi dell’individuo».

cause o fattori o forze del delitto e della delinquenza», va però rilevato che, «invece
di considerare a una a una come probabili “cause”…l’età, il sesso, la costituzione, le
singole malattie e degenerazioni, l’ambiente e le condizioni di ordine economico,
sociale, tellurico», va piuttosto studiato «in che modo variano delinquenti e delin-
quenza in funzione di ciascheduno dei sopradetti fatti, e con quale intensità tale
variare si faccia» (si cfr. NICEFORO A., Op. loc. cit., pag. 37).

91
Ond’è che rileva la concezione del Guadagno con riferimento alla
definizione che egli stesso dà della «persona», intesa in sociologia
come «il prodotto umano del processo di socializzazione e di integra-
zione, attraverso il quale l’uomo diventa membro di una società ed
appartenente ad una determinata cultura». Col che il Guadagno non
intende certo disconoscere l’importanza che per la formazione della
personalità hanno determinate malattie mentali, ma ritiene che –
esclusa “una vera base anatomo-patologica della criminalità”130 – nel
senso illustrato nel paragrafo precedente – sia necessario «fondare la
personalità su basi più strettamente psicologiche e sociali»131. Egli
ha particolare riguardo all’integrazione dell’individuo nella società ed
alla sua maturità sociale. La teoria viene sviluppata132 partendo dallo
studio della personalità “originaria” o “di base”, in cui vi sono
«componenti istintivi» e «processi di adattamento» da cui si svilup-
pano «il temperamento prima e il carattere individuale poi, e quindi
tutte le varie attitudini e tendenze, che, sotto l’influenza dell’am-
biente e dell’educazione si trasformano poi nelle varie attitudini di
cui è costituita l’abituale attività individuale».
Ovviamente, non sempre le attitudini vengono realizzate, non
tutti gli uomini riescono ad integrarsi e a maturarsi socialmente.
L’integrazione inoltre, quando avviene, procede per gradi. È evi-
dente che il fanciullo compirà il primo processo di integrazione nel-
l’ambito della prima forma di società che incontra, e cioè la fami-
glia. Solo dopo aver superato questa prima integrazione, potrà

130
GUADAGNO G., La nuova sociologia criminale, cit., pag.86.
131
GUADAGNO G., Sociologia della criminalità, cit., pag. 102; IDEM, La nuova
sociologia criminale, cit., pag.88.
132
Si cfr. GUADAGNO G., Op. ult. cit., pag. 120 e segg.

92
integrarsi efficacemente nell’ambiente scolastico, successivamente in
quello professionale e così via.
Viceversa, la mancata integrazione del fanciullo nell’ambito fami-
liare comporterà una minore possibilità di integrazione nell’ambito
della scuola e via di seguito. Ecco perché il Guadagno distingue due
gruppi di individui: a) – quelli che in conseguenza di una integra-
zione sociale completa, «sono portati ad eccellere per intelletto,
bontà e volontà»; b) – quelli che invece non hanno raggiunto tali
risultati e, per un processo di regressione psichica, mostrano delle
tendenze negative e «sono predisposti a comportamenti antiso-
ciali»133.
Gli individui di questo secondo gruppo vengono presentati – dal
Guadagno – come provvisti di «un io inferiore più prepotentemente
egoistico, ed un io superiore meno resistente» reputandosi che, nel
gioco tra stimoli “crimino-impellenti” a “crimino repellenti”, questi
uomini abbiano minore capacità di resistenza e, quindi, siano più
facilmente indotti a commettere azioni delittuose. L’autore, al
riguardo, così si esprime: «Ogni azione delittuosa è sempre la risul-
tante del gioco che si viene a stabilire tra spinta al delitto e capacità
di resistenza individuale tra stimoli crimino-impellenti e crimino-
resistenti».
Analogamente a quanto dedotto per il processo di integrazione, è
evidente che alcuni uomini riescono a conseguire un soddisfacente
grado di maturazione «bio-sociale», mentre invece altri falliscono nel
tentativo: soltanto l’individuo che ‘riesce’ «aggiunge al ruolo di pas-

133
Si cfr. GUADAGNO G., Op. ult. cit., pag.89. Si cfr. anche dello stesso autore:
Accertamento del fatto e accertamento della personalità come presupposti per l’applica-
zione della sanzione penale, cit., pag.22 e segg.

93
sivo recettore quello di membro attivo della società di individui».
Circa poi coloro che ‘falliscono’, l’autore distingue due categorie:
quella degli inadeguati e quella degli inetti. La differenza sta in ciò:
mentre i primi ‘falliscono’ nel «conseguire la condizione di membro
sociale», i secondi, invece, pur raggiungendo un ruolo attivo, non
acquisiscono «quegli atteggiamenti verso gli altri richiesti dalla legge
e dai costumi».
I delinquenti rientrano, per l’appunto, in questa seconda cate-
goria.
Scrive il Guadagno: «La delinquenza può ritenersi una manife-
stazione di inettitudine e i soggetti delinquenti vanno riguardati
nella categoria dei deviati sociali».
Questa nozione di delinquenza è – secondo l’autore – intima-
mente collegata al concetto di «anomia», intesa come «l’indebolirsi
del senso di coesione sociale». Senonché, non tutti coloro che
‘mostrano’ una personalità deviata sono dei criminali. Di qui la
necessità di distinguere: i “criminali” dagli “antisociali” e dai cosid-
detti “asociali”.
Mentre il criminale o delinquente134 è colui che ha ‘spinto’ il suo
comportamento deviante fino alla violazione di una norma penale,
l’antisociale è invece l’individuo che – secondo il Guadagno – «si
pone in contrasto con le regole di condotta morale e sociale a
cagione del suo rifiuto di adattarsi socialmente» senza, peraltro,
spingere la sua azione alle estreme conseguenze della violazione
della legge.

134
A voler sottilizzare, i due termini non sono sinonimi, dal momento che delin-
quente – a dire del Guadagno – fa pensare più ad uno status e quindi sarebbe preferi-
bile per indicare i recidivi.

94
Asociali, infine, sono quegli individui che, lungi dal violare norme
penali o dall’assumere un semplice atteggiamento di sfida nei
riguardi della società, ponendosi in avversione ad essa, tengono un
comportamento che potremmo dire “neutro”: ossia, di estraneità nei
confronti della società. Essi che, per la loro ignavia, sono da consi-
derarsi degli “esseri inutili”, si caratterizzano – secondo il Guadagno
– «per il traviamento morale, soprattutto nei minorenni, e per l’in-
sofferenza ai precetti etici e sociali».
È comprensibile l’importanza che può avere – in una società pro-
gredita – il creare dei “sistemi di prevenzione”, al fine di impedire
che gli asociali e gli antisociali divengano quanto prima dei delin-
quenti. Gli antisociali, infatti, non sono ancora delinquenti, anche se
già mostrano delle disposizioni e/o delle potenzialità a divenire tali;
ed il Guadagno, in proposito, rammenta l’uso che alcuni autori
hanno fatto dell’espressione «situazioni precriminali»: con riferi-
mento, per l’appunto, alle situazioni in cui vengono a trovarsi in
particolar modo gli antisociali.
Conclude il Guadagno, rilevando che sarebbe opportuno – ai fini
della prevenzione (per asociali ed antisociali) – «un esame psico-tec-
nico ambientale, basato sulle osservazioni cliniche e sulle informa-
zioni delle autorità».

Par. 2 – La personalità criminale ed il problema della criminalità

In tema di personalità, già nel 1967, Alessandro Alberto Calvi,


nella nota opera “Tipo criminologico e tipo normativo d’autore”,
sosteneva: “Al centro del diritto criminale, oggi, è posto l’Uomo; o
per meglio dire, l’uomo-delinquente. La progressiva umanizzazione
del diritto criminale, in un prossimo futuro, dovrà accentuare simile

95
posizione di sistematica supremazia, già riconosciuta all’ uomo-delin-
quente”135.
In conclusione, si perveniva gradualmente a considerare la perso-
nalità criminale come il fulcro genetico del reato; e, per converso, il
reato veniva a sua volta, osservato nel suo «valore sintomatico»
come ‘sintomo’, cioè, di una personalità criminale e di un disadat-
tamento sociale. Ciò presentava un ulteriore vantaggio: la possibilità
di considerare il reo anche nell’aspetto di ‘possibile’ autore di fatti
criminosi, agli effetti di una più efficace prevenzione e repressione
dei reati nella lotta contro il crimine.
Ma ciò non è possibile, se non si individua preliminarmente il
metodo, al tempo stesso consequenziale e funzionale ad una precisa
collocazione dommatica della criminologia nell’ambito delle scienze
penalistiche, ove l’ordinamento giuridico italiano l’ha ricondotta, col
noto D.M. 4 ottobre 2000 relativo alla rideterminazione dei settori
scientifico- disciplinari di insegnamento nelle università italiane.
Lo stesso Alessandro Alberto Calvi, nella sua citata opera “Tipo
criminologico e tipo normativo d’autore”, affermava: “Ho cercato di
separare diritto e criminologia, criminologia e politica criminale,
politica criminale e politica in senso stretto, politica e filosofia. Non
credo d’esservi pienamente riuscito. Il tema, per sua natura, affianca
ad ogni passo l’un profilo all’altro: per quanto sia buona la volontà
di chi lo affronta”136.

135
Si cfr. CALVI A.A., Tipo criminologico e tipo normativo d’autore, Padova, 1967,
pag.5. Ai due tipi individuati dal Calvi ed al Marini può aggiungersi un altro tipo
quale risulta dall’esecuzione della pena (si pensi, per esempio, ai c.d. «semiliberi», ai
soggetti affidati in prova al servizio sociale, ai detenuti sottoposti al regime ex art.41
bis o.p.). Circa i concetti di «tipo criminologico» e «tipo normativo» d’autore di
reato, si cfr. anche MARINI G., Lineamenti del sistema penale, 1993, pagg. 241 e segg.,
809 e passim.
136
CALVI A.A., Op.cit., pag. VI.

96
Ed invero, la ‘storia’ dell’impegno scientifico vôlto ad individuare
i precisi “confini” o “limiti concettuali” della criminologia moderna,
registra – come già detto – una perenne oscillazione tra una pretesa
derivazione della criminologia moderna dall’antiquata criminologia,
a sua volta figlia della medicina legale (anche nella ‘variante’ antro-
pologica), e per contro una diversa derivazione dalla sociologia cri-
minale – con la quale spesso andava confusa – a sua volta figlia della
sociologia generale e, in ogni caso, distinta dalla politica criminale e
dalla sociologia giuridico-penale.
Onde la questione dommatica resta aperta, con inevitabili river-
beri sullo studio del fenomeno della criminalità in generale e della
personalità criminale in particolare.
Ferrando Mantovani, nel suo basilare lavoro “Il problema della
criminalità, nel 1984 affermava che la criminalità «resta e continuerà
a restare, perché affonda le radici ultime nelle imperscrutabili
profondità esistenziali, individuali e collettive del mistero del-
l’uomo» e circa i mezzi opportuni di contrasto rilevava che «il pro-
blema della politica criminale è quella non della eliminazione ma di
un costante impegno di contenimento della criminalità», col ricorso
anche alla prevenzione speciale – nell’ottica della pena come stru-
mento irrinunciabile di controllo sociale – ma sempre subordinata al
“primato” della prevenzione generale: risultando così ben chiaro –
come fondamentale principio – che una politica sociale preventiva è
pur sempre la migliore “politica criminale” e che la pena è l’extrema
ratio della politica sociale137.

137
Sul punto, si cfr. MANTOVANI F., Il problema della criminalità, Padova,
1984, pag.667. Circa poi l’«indispensabilità» del diritto penale e la funzione
della pena, osserva il Mantovani come quest’ultima, «in una società libera, per-
sonalistico-pluralista», certamente «concorre a disciplinare la vita sociale tra-
mite la ‘coazione psicologica’ e la intrinseca “disapprovazione sociale”, e non

97
Quanto poi al «criterio di individualizzazione della pena», esso
non potrà – ne dovrà – mai prescindere dall’esame della personalità

mediante gli strumenti polizieschi, e in conformità di ciò lascia valere il singolo come
persona responsabile e non lo degrada ad oggetto, a mera entità biologica o sociolo-
gica», ma ribadisce che «il diritto penale deve…essere il mezzo ultimo, la extrema ratio,
di affermazione dell’ordine giuridico, spettando la priorità a misure di controllo sociale
più moderate e meno dispendiose, finché queste si dimostrino sufficienti a proteggere
la società e nei limiti in cui sono armonizzabili con le esigenze minime dello Stato di
diritto» (si cfr. MANTOVANI F., Diritto penale, Parte gen., cit., pag. XXXV e segg.). D’al-
tronde, «la stessa storia del diritto penale» – prosegue il Mantovani – «non è che un
particolare aspetto della storia dell’umanità nel suo divenire di corsi e ricorsi, di evo-
luzioni ed involuzioni», siccome «ne riflette ed evidenzia le ingiustizie così come ne
registra i progressi verso più dignitose ed umane forme di vita sociale» (Op. ult. cit.,
pag. XXXVII).
Sull’effettività del diritto penale, si cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, ed
F.VENTURI (a cura di), Torino, 1965. Invero l’idea dell’effettività del diritto penale fu
ben presente in Beccaria, di cui scrive LEONARDO MAZZA: «Certamente prevale in Bec-
caria la considerazione dell’importanza del bene leso e quindi la tendenza oggettivistica,
ma non è nemmeno corretto pensare che si possano costruire criteri psicologico-soggettivi
soltanto sulla base della valutazione del ruolo e della posizione dell’agente; al contrario,
infatti, nelle pagine dedicate alla calunnia, al tentativo ed alla delazione si apprezza l’at-
teggiamento interiore del singolo ed il “vigore” necessario egualmente così per i “grandi”
come per le “grandi virtù”, a dimostrazione che nel nobile milanese non è rimasta del
tutto estranea l’analisi dell’intenzione che guida il soggetto ad orientarsi nel mondo delle
relazioni umane» (si cfr. MAZZA L., Lezioni di diritto penale, Torino 2000, pag. 233).
Ed ancora – a proposito di «quel sublime genio che, fra le tenebre comuni, osò il primo
slanciarsi e indicare il gran problema della scienza sociale» come affermato da Pietro
Verri (si cfr. MAZZA L., op. ult. cit., pag. 218 e seg.) – in tema di «razionalizzazione»
nella classificazione dei reati, e di «depenalizzazione», osserva: «Neppure sembra
potersi convenire con chi ritiene che la razionalizzazione proposta da Beccaria nella clas-
sificazione dei reati includa l’adesione alla depenalizzazione di vaste aree tradizional-
mente riservate al diritto criminale, specie là dove il bene leso non sia identificabile,
ovvero non riconducibile ad una delle categorie espressamente elencate, o si tratti di com-
portamenti che, pur soggettivamente intesi ad aggredire quei beni, tuttavia sono oggetti-
vamente inefficaci a condurre a termine la violazione. Una simile tendenza sarebbe poi
rafforzata dal carattere accessorio attribuito al diritto penale e dall’esigenza di prevenire
piuttosto che di reprimere, nell’ambito di una totale chiusura alle problematiche inerenti
al rapporto fra crimine e struttura sociale». (Op. loc. cit., pag. 233).

98
del reo, come ‘normativamente disposto’ – sia pure implicitamente
– dall’art.133 c.p.
E sembra invero ‘corretto’ usare il termine «normativamente»:
siccome la prevalente dottrina è orientata nel senso di reputare l’e-
spressione «capacità a delinquere» ex capoverso dell’art.133 c.p.
come equivalente alla dizione «personalità».
Il Canepa, prendendo spunto da un progetto – risalente al 1949
– di riforma del libro I del Codice penale, nel quale «si manteneva
sostanzialmente invariato l’art.133, salva la sostituzione dell’espres-
sione “capacità a delinquere” con il termine “personalità”» ed in
contrasto con le opinioni ed i «pareri» espressi al riguardo da auto-
revoli studiosi dell’epoca, invero si mostrava ‘contrario’ a tale inno-
vazione, osservando che «con la sostituzione, all’art.119 (attuale 133
c.p.), della “capacità a delinquere” con la “personalità” si passava
dalla parte al tutto, «entrando così nel vago e nel generico, poiché
ogni caratteristica dell’uomo in quanto soggetto di diritti è attinente
alla sua personalità»138.
Ed il chiaro autore, proponeva quindi la «conservazione del con-
cetto di capacità a delinquere, da indicarsi eventualmente con un ter-
mine più adatto» che designava, sia pur come ‘esempio’, nella
espressione «capacità antisociale»139.
A tali argomentazioni il Canepa aggiungeva che, pur essendo
«auspicabile la conservazione del suddetto concetto nelle future
codificazioni», era «altrettanto auspicabile» l’attuazione di «due
punti» ritenuti «fondamentali», e cioè: a) – una radicale modifica-
zione terminologica della espressione usata per indicare tale con-

138
Si cfr. CANEPA G., Personalità e delinquenza, Milano, 1974, pag. 181 e segg.
139 Si cfr. CANEPA G., Op. loc. cit., pag. 182.

99
cetto»140, essendo generalmente il termine “capacità” «relativo ad
attitudini moralmente positive o indifferenti, mai negative (come il
delinquere)»141; b) – una sostanziale chiarificazione del concetto, da
non potersi intendere come «attitudine a commettere reati, ma come
“criminosità attuale” (secondo la efficace espressione del Man-
zini)»142.
Il Guadagno, partendo dall’«evolversi del concetto di personalità,
intesa in senso dinamico e sociale», in un suo interessante studio
dedicato al problema, osserva: «gli elementi soggettivi della perso-
nalità dell’agente, da ricercare spesso in fattori quali il disadatta-
mento sociale, l’anomia ed i conflitti tra ruoli, status e mete, pene-
trano sempre più nella valutazione del giudice, affinché il giudizio
conclusivo non si limiti all’accertamento del fatto e del procedi-
mento psicologico che l’ha causato, ma venga verificato dall’esame
del soggetto»143.
Da questi argomenti efficacemente esposti dal Guadagno e dalla
implicita previsione normativa, ex art. 133 c.p., dell’esame della per-
sonalità ai fini della applicazione della pena, si ricava un ulteriore
argomento a sostegno della tesi – da noi propugnata – della confi-
gurazione della personalità umana (variamente intesa: in senso
sociale, dinamico, sintomatico di un avvenuto processo di matura-
zione e integrazione istituzionale, ovvero di comportamenti devianti,
ecc.) non solo come ‘bene giuridico’, ma anche come ‘categoria giu-
ridica’.

140
Si cfr. CANEPA G., Op. cit., pagg. 182-183.
141
CANEPA G., Op. cit., pag. 183.
142 CANEPA G., Op. cit., pag. 183.
143 Si cfr. GUADAGNO G., Accertamento del fatto e accertamento della personalità

come presupposti per l’applicazione della sanzione penale, in Foro pen., 1970, nn.1-2,
pag. 22 e segg.

100
Ed infatti, «nella evoluzione del concetto di personalità verso l’at-
tuale concezione dinamica» – prosegue il Guadagno – «è dato
cogliere i segni inconfondibili degli elementi sociali che entrano
nella sua nozione»144.
In tale ottica, rileva il “complesso legislativo” posto a tutela del
minore, pur in presenza di comportamenti devianti, di natura cri-
minale.
Nel contesto della normativa “ad hoc”, si reputa di formulare
alcune osservazioni.
L’art. 1 del D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448, comunemente defi-
nito “codice di procedura penale minorile”, contiene tre disposizioni
fondamentali:
1) – la prima rinvia, per quanto non previsto specificamente dal
D.P.R. medesimo, alle norme del codice di rito ordinario: il processo
minorile è pertanto disciplinato dal D.P.R. 448/88 solo per gli
aspetti che derogano alle disposizioni comuni agli imputati maggio-
renni;
2) – la seconda indica in via chiara ed immediata la ratio della
disciplina derogatoria: realizzare la finalità educativa che, mentre per
i maggiorenni è attuata nella fase dell’esecuzione (art. 27 Cost.), per
i minorenni è anticipata fin dal primo atto processuale;

144
Si cfr. GUADAGNO G., Op. ult. cit., pag.25, ove viene anche espresso il con-
cetto che laddove «il processo di maturazione e di integrazione istituzionale» sia stato
«più intenso e completo», ci si trova di fronte ad individui che possono eccedere per
bontà, volontà ed intelletto, «mentre al contrario», laddove sia stato «incompleto il
processo di maturazione sociale», vanno riscontrate «tendenze, inclinazioni ed attitu-
dini di ordine inferiore connesse ad uno stato generico di ipoevoluzione e di regres-
sione psichica, che predispongono appunto a comportamenti antisociali e delittuosi»
(Op. loc. cit., pagg. 25 e 26).

101
3) – di conseguenza diviene importante lo studio della persona-
lità del minore, così come il ruolo del giudice, che deve illustrare
allo stesso il contenuto e le ragioni delle sue decisioni (art. 1 com-
ma 2).
La norma qualifica, pertanto, in via immediata il processo a
carico degli imputati minorenni: non solo come “processo del fatto”
(accertamento del reato e dell’eventuale responsabilità penale), ma
anche, e soprattutto. come “processo della personalità”.
Onde diventa importante il raffronto tra l’art. 220 c.p.p. e l’art. 9
del D.P.R. 448/88. Mentre la prima norma fa espresso divieto di stu-
diare la personalità degli imputati maggiorenni, eccettuati i casi di
patologie mentali da sottopone a perizia, rinviando l’osservazione
alla fase del “trattamento penitenziario”, per i minorenni, invece,
l’osservazione della personalità è immediata (art. 11 R.D.L. 1404/34
che disciplinava il vecchio processo minorile, art. 9 del DPR 448/88
relativo al cosiddetto nuovo processo minorile).
Lo studio della personalità è fondamentale sotto un triplice
aspetto:
a) – realizzare un processo a misura di minore e quindi ad offen-
sività minima;
b) – individuare soluzioni definitorie prodromiche al reinseri-
mento del minore nella vita sociale;
c) – possibilità per il giudice di adottare a favore del minore in
istato ‘abbandonico’ provvedimenti civili urgenti a sua tutela, validi
per trenta giorni, salva ratifica da parte del tribunale in sede civile
(art. 32, 4° comma ed art. 33 D.P.R. 448/88); nonché possibilità di
adottare i provvedimenti amministrativi di cui all’art. 25 R.D.L.
1404/34, in caso di sospensione della§
pena o concessione del perdono giudiziale.

102
Nell’aspetto della ‘offensività minima’, il legislatore ha previsto:
1) – organi giudiziari specializzati (art. 2 D.P.R. 448/88), che sono
i giudici naturali del minore (art. 25 Cost.);
2) – difensori specializzati (art. 11 D.P.R. 448/88), i quali siano in
grado: non solo di offrire al minore l’assistenza tecnica; ma anche di
comprendere le problematiche tipiche dell’età evolutiva;
3) – sezioni di P.G. specializzate (art. 5 D.P.R. 448/88);
4) – previsione dell’assistenza affettiva e psicologica al minorenne
in ogni stato e grado del procedimento (artt. 6 e 12 D.P.R. 448/88),
mercé la presenza degli esercenti la potestà genitoriale e dei “Servizi
minorili”: con conseguente nullità assoluta ex art. 179 c.p.p., nel
caso di mancata notifica ai predetti soggetti dell’avviso degli atti
processuali da compiere;
5) – inammissibilità della costituzione della parte civile: affinché
il minore non venga perseguito anche dall’accusa privata (art. 10
D.P.R. 448/88):
6) – tutela dell’imputato, con divieto di divulgazione delle notizie
e delle immagini atte a identificarlo (art. 13 D.P.R. 448/88), nonché
obbligo di procedere a ‘porte chiuse’, fatta eccezione per il minore
ultrasedicenne, che ne faccia motivata richiesta, allorché la stessa
venga ritenuta fondata dal giudice procedente (art. 33, 2° comma
D.P.R. 448/88).
Nel quadro altresì dell’offensività minima, le misure cautelari - e
cioè: arresto in flagranza, ex art. 16 D.P.R. 448/88; fermo, ex art. 17
D.P.R. 448/88; accompagnamento in flagranza ex art. 18bis D.P.R.
448/88 (misura cautelare. questa, specificamente prevista solo per i
minorenni) - sono sempre facoltative, qualunque sia il ‘tipo’ di reato
commesso - anche l’omicidio - e, nell’applicarle, la P.G. deve tenere
conto, non soltanto della gravità del fatto, ma anche della persona-
lità del minorenne (ex art. 16, 3° comma D.P.R. 448/88): disposi-

103
zione che evidenzia la costante ‘preoccupazione’; da parte del legi-
slatore, che sia osservata la personalità del minore.
Le misure cautelari previste per i minori – ‘tipiche’, in quanto
normativamente stabilite in relazione alle peculiari connotazioni
della personalità minorile – sono: a) “le prescrizioni” ex art. 20
D.P.R. 448/88; b) – “la permanenza in casa” ex art. 21 D.P.R.
448/88; c) – “il collocamento in comunità” ex art. 22 D.P.R. 448/88;
d)- “la custodia cautelare” ex art. 23 D.P.R. 448/88.
Loro caratteristiche sono:
a) – non possono interrompersi i processi educativi in atto (per
esempio: frequenza scolastica, attività lavorativa, ecc.);
b) – in caso di violazione della permanenza in casa o nella ‘comu-
nità, non è possibile contestare il reato di evasione, ma si può pro-
cedere solo all’aggravamento della misura;
c) – la custodia cautelare è prevista solo come extrema ratio;
d) – i termini di durata delle misure sono ridotti “della metà”
rispetto ai maggiorenni ed addirittura “dei due terzi” per gli infra-
sedicenni.
La ‘preoccupazione’ del legislatore di tutelare la personalità del
minore e di assicurare la finalità anche “educativa” del processo è
chiaramente evidenziata dall’art. 25 D.P.R. 448/88, il quale:
1) – esclude il decreto penale, poiché la pena pecuniaria non può
essere educativa per il minore, anche in considerazione che la soffe-
renza causata dalla deprivazione patrimoniale si ripercuote sull’eser-
cente titolare del reddito;
2) – esclude il c.d. “patteggiamento”, giacché non riconosce al
minore la capacità di negoziare col P.M. la definizione più idonea al
suo reinserimento sociale;
3)- ammette il rito direttissimo “solo se è possibile compiere gli
accertamenti previsti dall’articolo 9”, concernente la personalità del
minore, ed assicurargli “l’assistenza prevista dall’articolo 12”.

104
In questo quadro, il legislatore ha previsto per il minore possibi-
lità definitorie145 ed alternative ‘destigmatizzanti’ onde: a) – tutte le
schede relative ai minori, eccetto quelle di condanna a pena deten-
tiva, vengono eliminate al compimento del 18° anno di età; b) – solo
quella relativa al perdono giudiziale è eliminata al compimento del
21° anno per evitare il pericolo di una duplicazione del beneficio.
Tali possibilità definitore sono:
1) – il perdono giudiziale (disciplinato dagli artt. 169 c.p. e 19
R.D.L. 1404/34), il quale è completamente estintivo del reato com-
messo e consente la immediata fuoriuscita’ del minore dal circuito
penale, ogni qualvolta la pena detentiva da applicarsi in concreto
non superi i 2 anni di reclusione, sola o congiunta a pena pecunia-
ria;
2) – l’irrilevanza del fatto (art. 27 D.P.R. 448/88): formula, que-
sta, applicabile ogni qualvolta il fatto commesso, non abbia cagio-
nato rilevanti danni sociali e la prosecuzione del processo venga a
pregiudicare le esigenze educative del minorenne; trattandosi,
invero, di una forma di “diversion”. in quanto il processo viene defi-
nito – alternativamente al rinvio a giudizio – nel corso delle indagini
preliminari (art. 27, 3° comma D.P.R. 448/88), a sèguito di udienza
camerale; essendo la formula altresì applicabile – ai minori – all’e-
sito dell’udienza preliminare ovvero del giudizio immediato o del
giudizio direttissimo (art. 27, 4° comma D.PR 448/88);

145
In tema di possibilità definitorie, si cfr. COVELLI M.- DI MARCO A. - PASTORE
U., Le possibilità definitorie nel processo penale minorile, Napoli, 1998. Sulle peculia-
rità del nuovo processo penale minorile, si cfr. anche: MORO A.C., Manuale di diritto
minorile, Bologna, 1996; CHIAVARIO M., Il processo minorile, Torino, 1994; GIANNINO
P., Il processo penale minorile, Padova, 1994.

105
3) – la sospensione del processo e messa alla prova: formula cosid-
detta di “probation”, applicabile per tutti i reati, anche di eccezio-
nale gravità (ma un disegno di legge governativo propone di esclu-
derla per i delitti di omicidio - tentato o consumato - e di violenza
sessuale); la messa alla prova comportando: la sospensione del pro-
cesso, la sottoposizione del minore ad un periodo di prova non infe-
riore ad un anno e non superiore a tre anni, la conciliazione con la
persona offesa, nonché l’estinzione del reato in caso di esito positivo
della prova;
4) – le sanzioni sostitutive: applicabili ogni qualvolta la pena
detentiva in concreto non sia superiore a due anni, potendo il giu-
dice minorile sostituirla con la libertà controllata, per una misura
pari al doppio della durata della pena detentiva, ovvero con la semi-
detenzione (artt. 30 e 32 D.P.R. 448/88)146.
Norma base per lo studio della personalità per il minore è l’art.
133 c.p., il quale prevede che in ogni atto processuale fondato sulla
prognosi del comportamento futuro – per esempio: applicazione di
misura cautelare, definizione del processo con eventuale sospensione
della pena, ecc. – il giudice tenga conto delle condizioni oggettive e
soggettive emergenti dalla vicenda processuale.
Tuttavia, lo studio della personalità del minore si completa con
una serie di elementi:
a) – relazioni dei Servizi minorili del Ministero della Giustizia,
redatte all’esito dei colloqui con i minori ed i familiari, tendenti a
ricostruire l’anamnesi e l’ambiente sociale di provenienza del
minore;

146
Trattasi di misure propositive e non meramente detentive come la reclusione:
in quanto fondate su attività di studio e di lavoro, che preludono al reinserimento del
minore nella società.

106
b) – il libero convincimento del giudice, tratto dall’interrogatorio
del minore imputato o indagato, non sui fatti di causa - sui quali egli
può avvalersi, come i maggiorenni, della facoltà di non rispondere -
bensì sulla sua situazione personale;
c) – eventuali perizie disposte per valutare, ai sensi dell’art. 98
c.p., il grado di maturità del minore, ove il convincimento del giu-
dice non si sia potuto formare con certezza. Dall’esame delle dispo-
sizioni contenute nel D.P.R. 448/88 emerge, univoco, l’intento del
legislatore di tutelare la personalità del minore e di trasformare
“l’occasione negativa” del processo nell’ “occasione positiva” del
suo reinserimento nella vita sociale147.
In conclusione, se da tempo si assiste al fenomeno di una società
in profonda trasformazione – che ha postulato un diritto penale a
sua volta in evoluzione e, conseguentemente, nuovi modelli di pro-
cesso penale, per adeguarsi alle mutate condizioni socio-economiche
e giuridiche di una società vieppiù caratterizzata dall’anomia (intesa
come il venir meno del senso di coesione sociale, cui spesso si
accompagna un profondo senso di sfiducia nelle istituzioni) e dalla
cosiddetta globalizzazione dell’economia e dei mercati, col ritorno ad
una sfrenata concezione edonistica della vita – al fenomeno stesso
non può essere estranea la ricerca metodologica, con puntuale rigore
scientifico, delle cause – biologiche ovvero ambientali – che hanno
prodotto l’insorgere di nuovi e preoccupanti fenomeni delinquen-
ziali, o di devianza criminale (individuale e collettiva), che la
moderna dottrina – penalistica prima e criminalistica poi – soprat-

147
In quest’ottica, tenendo conto che la finalità rieducativa è uno degli scopi pre-
cipui del processo penale minorile, è auspicabile che lo studio della personalità del
minore responsabile sia vieppiù oggetto di indagine più vasta di quella relativa allo
stesso reato per cui si procede.

107
tutto sotto l’impulso della moderna sociologia americana, denomina
“nuove forme di criminalità”, cui la società delle istituzioni deve far
fronte. Esse sono individuate principalmente in alcuni preoccupanti
fenomeni criminosi – paradossalmente favoriti dallo stesso progresso
tecnologico – di cui la mafia, la camorra, il narcotraffico, il nuovo
terrorismo, gli abusi edilizi, i fatti di tangentopoli, il traffico di
organi e di esseri umani, i white collar crimes, la pedofilia on line, le
aggressioni all’ambiente, l’ecomafia e l’ecoterrorismo sono i più
macroscopici esempi148.
Invero, il quadro della criminalità, per le ragioni suesposte, è
venuto senza gradualità, ed anzi in una incontrollata progressione
vertiginosa, a modificarsi tanto da risultare completamente «stra-
volta la tipologia di nuova criminalità degli anni ’70; e ciò è dipeso,
paradossalmente, oltre che dall’impetuoso evolversi del progresso
tecnologico e dall’incrementarsi di un diffuso senso dell’anomia,
finanche dalla c.d. «globalizzazione dell’economia e dei mercati»,
cui sono collegati alcuni deprecabili fenomeni criminosi. È risaputo
come l’economia non sia più legata – come in passato – alle sole
risorse naturali. Questa profonda trasformazione, se da un lato ha
prodotto benessere, d’altro lato si presenta essa stessa come feno-
meno criminogeno149: nel senso di aver, col nuovo assetto «globale»,

148
Si cfr. AMELIO P., I reati ambientali: una nuova «preoccupante» forma di crimi-
nalità, in AA.VV., La tutela penale dell’ambiente, Torino, 2000, pag. 319 e segg.
149 È risaputo che la criminalità è oggi soprattutto ‘economica’ o ‘a sfondo eco-

nomico-patrimoniale’. I nostri tempi sono infatti caratterizzati – come già evidenziato


– dal ritorno ad una concezione edonistica della vita. Al riguardo il MANTOVANI, a
proposito del «consumismo edonistico» che «più che soddisfare crea i bisogni per la
sopravvivenza del sistema economico, per cui nulla è maggiormente necessario del
superfluo, perseguito lecitamente e illecitamente», rileva «una certa corrispondenza
tra tipi di reati patrimoniali e tipi di autore»: e ciò sia nell’aspetto dell’«estrazione
sociale», sia in quello del «profilo personologico», individuando, tra le “tipologie del

108
agevolato l’emergere di nuove forme di criminalità economica inter-
nazionale tra cui, in primis, il riciclaggio – ad opera della crimina-
lità organizzata e spesso con mezzi informatici e telematici – di capi-
tali cosiddetti «sporchi», cui vanno aggiunti, tra i più allarmanti

delinquente patrimoniale” le figure del «delinquente patrimoniale violento» e del


«delinquente patrimoniale fraudolento»; ed argomentando che «i delitti contro il
patrimonio» sono «tra i delitti dalla più elevata “cifra oscura”, perché la criminalità
patrimoniale più diffusa (furti, scippi, danneggiamenti), pur incidendo negativamente
e non poco sulla qualità della vita quotidiana, resta pressochè impunita e in gran
parte non viene neppure denunciata per la sempre più convinta inutilità della denun-
cia» (si cfr. MANTOVANI F., Diritto penale, Parte speciale, vol. II - I delitti contro il
patrimonio, Padova, 2002, pag.2). Ancora, circa le «cause della criminalità patrimo-
niale», si cfr.: MANTOVANI F., Op. ult. cit., pag. 1 e seg.; IDEM, Il problema della cri-
minalità, cit., passim; IDEM, Criminalità sommergente e cecità politico-criminale, in
Riv.it.dir. e proc.pen., 1999, pag.1201 e segg.
Decisamente interessante è la costruzione – operata sul piano dommatico dal
Mantovani – del ‘tipo di autore’ denominato «delinquente patrimoniale». Ed invero,
già in sociologia era nota la figura dell’homo oeconomicus, riguardo al quale, nel 1964,
Ralph Dahrendorf osservava: «La scienza sociale finora ci ha fornito due nuovi tipi
estremamente problematici di uomo, la cui presenza nella realtà dell’esperienza quo-
tidiana difficilmente oseremmo ammettere. L’uno è l’homo oeconomicus della
moderna economia» (si cfr. DAHRENDORF R., Homo sociologicus, Roma, 1976 – trad.
it. dall’originale: Ein Versuch zur Geschichte, Bedeutung und Kritik der Kategorie der
sozialen Rolle, Köln, 1964 – pag.24). Circa il significato in sociologia di questo “tipo
scientifico” cui la dottrina ha contrapposto lo psychological man, nel mentre – osserva
Ralph Dahrendorf – «come conseguenza del rapido sviluppo sociale» ad essi si affian-
cavano «altri due uomini “scientifici”», e cioè «l’uomo della sociologia e quello della
scienza politica» (rispettivamente denominati “homo sociologicus” ed “homo politi-
cus”), si cfr. DAHRENDORF R., Op. loc. cit., pag.24 e segg.
Per talune importanti implicazioni in tema di rapporti tra economia e diritto, si
cfr. AVITABILE L., La funzione del mercato nel diritto, Torino, 1999.
Per quanto concerne poi i rapporti tra diritto penale e criminologia, intesi il primo
come «scienza normativa legata ad una impostazione di valori» ed il secondo come
«scienza empirico-conoscitiva, legata ai fenomeni» – il MANTOVANI rileva come, pur
nella loro innegabile autonomia, «da un lato, il diritto penale offre alla criminologia,
avendo essa per oggetto delle sue investigazioni gli autori delle condotte criminose, il
nucleo fondamentale dei fatti che cadono sotto l’esame di questa scienza»… e «dal-
l’altro, la criminologia, in quanto volta a comprendere il fenomeno criminoso ed a

109
fenomeni delittuosi, il narcotraffico e le frodi finanziarie internazio-
nali; e vanno addirittura aggiunte le azioni di protesta nei confronti
della globalizzazione, spesso degenerate in episodi di ingiustificata
violenza, con la violazione di precetti penali.
Ma se, da un lato, la globalizzazione dell’economia nei suoi mol-
teplici aspetti è, per unanime riconoscimento in dottrina, una delle
più macroscopiche cause criminogene, in uno scenario preoccupante
di “internazionalizzazione del crimine”, va però anche considerato,
d’altro lato, che occorre riconoscere all’economia anche il suo
aspetto di “riverbero” della creatività dell’individuo e dei valori
della società in cui opera e, soprattutto, riconsiderare che proprio la
globalizzazione dell’economia e dei mercati non potrà mai determi-
nare – che direbbero oggi Schopenhauer e Nietzsche? – la nega-
zione dell’Uomo e, soprattutto, della sua personalità, in una incon-
cepibile visione apocalittica di annientamento dei valori e dei
princìpi della sua stessa esistenza.
Ciò anche nell’ottica di una seria riforma dei codici di diritto
penale sostanziale e processuale, in modo organico ed armonico ai
principi fondamentali della Costituzione.

contrastarlo, oltre a svolgere un preliminare controllo critico sulla “criminalità


legale”, offre al diritto penale e penitenziario contributi fondamentali nelle varie fasi
della loro vita e operatività» e precisamente: «1) nella stessa creazione della norma…;
2) nell’applicazione giudiziaria della legge penale» contribuendo «all’esame della per-
sonalità del singolo delinquente e alla individualizzazione delle sanzioni e del tratta-
mento…; 3) nell’esecuzione di tali sanzioni e trattamenti»” ed infine «4) nella prognosi
sul futuro comportamento del soggetto» (così MANTOVANI F., Diritto penale, Parte
gen., cit., pagg. XXXIII e XXXIV).

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Pubblicazione fuori commercio

Finito di stampare il 16 dicembre 2002


nelle Officine grafiche Francesco Giannini e Figli S.p.A.

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