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Due giorni dopo, di venerdì, all’orario stabilito per la prima lezione, la campanella suonò.

Prima di aprire la
porta, ero scontenta della la mia immagine proiettata nello specchio che copriva il fondo della credenza. Mi
ricordo bene di quell’episodio perché, se per le donne in generale è un atto quasi istintivo guardarsi in
qualunque superficie sulla quale possano riflettersi, era da molto che fuggivo da queste fantasie –
considerando che le rughe sono ferite capaci di annichilire/distruggere qualunque illusione. Non diedi,
almeno in quel momento, la giusta importanza al fatto ed aprii la porta. Eugenio portava una
borsa/borsellino, un quaderno e i libri per studiare. Mi guardò energicamente/intensamente:

-Buon pomeriggio, come va signora?

Io avevo sempre tenuto al fatto che i miei alunni mi trattassero dandomi del lei, mi sembrava educato e
distinto. In quel momento, tuttavia, c’era qualcosa di teso e sgradevole nel trattamento
formale/cerimonioso: nelle parole di Eugenio il rispetto era sinonimo di ironia. No, quella era l’impressione,
non poteva essere diversamente, mi convinsi, e gli dissi di entrare. Mi chiese il permesso e mi obbedì.
Mentre mi passava accanto lo osservai. Mi sembrava più alto di prima. Molto più alto, mi sembrava anche
più robusto e forte. Il viso che nel nostro primo incontro era quasi femminile per quanto fosse delicato,
nonostante gli occhi restavano di un verde splendido avevano acquisito dei tratti virili. Accreditai il
cambiamento al pullover scuro di lana e ai capelli che ora erano tagliati alla maniera militare. Lo seguii per il
corridoio, lo feci accomodare a una delle sedie della sala da pranzo, gli offrii il tè che rifiutò con gentilezza. E
biscotti? Ancora una volta declinò l’offerta:
-No signora, grazie.
Immediatamente, feci ciò che secondo il mio istinto era più adeguato: gli chiesi che mi chiamasse per
nome/mi desse del tu, puramente e semplicemente, quelle forme di cortesia facevano sentirmi più vecchia
di quello che in realtà fossi. Eugenio si scusò e guardò l’orologio da polso ostentando un’aria impaziente il
che,

Secondo i miei piani, in quel primo incontro, dovevo assicurarmi di ciò che il mio nuovo alunno sapesse già.
Mi accomodai al suo lato, gli presi il libri e gli feci delle domande banali sull’analisi sintattica. Mi rispose a
tratti, ma esitò nelle orazioni subordinate. La madre era caduta malata proprio nel periodo di quella
lezione, spiegò, ei suoi occhi diventarono ancora più belli con una punta acuta di tristezza. Ebbi pena ed una
voglia grande di stringerlo, forte forte, al petto. Lui si raddrizzò sulla sedia, fingendo di sistemare il foglio del
quaderno.

Proseguii sulla lezione facendogli una lunga lista di congiunzioni subortinanti, spiegando le particolarità di
ognuna. Eugenio seguiva la lezione con grande attenzione, interrompendomi, di volta in volta, per qualche
domanda. Dopo un periodo di tempo ragionevole, propose di risolvere qualche esercizio. Si mise al lavoro,
e, osservandolo, tenni per me il fatto che si preoccupasse poco della bellezza e quanto più della rapidità
rispetto alla perfezione. Scriveva con precisione con la matita, cancellava e ricominciava a scrivere alcune
risposte, si soffermava su alcune frasi, si allontanava, concentrato, guardando il foglio a distanza, rifacendo
sempre lo sesso gesto di appoggiare la testa su pollice ed indice. Non mi guardò neanche una volta durante
quel tempo, ed era come se fossi assente, cosa che mi generò/causò un sentimento di sconsolato
abbandono.
La prima ora di lezione passò rapidamente. La domenica mi decisi a togliere la polvere che si era
accumulata sui libri – la signora delle pulizie ne rimaneva lontana per mio ordine – e, quando uscii per
comprare il latte, ne approfittai per passare davanti casa del mio alunno. Chiusa.
Il lunedì albeggiò/iniziò grigio e freddo.

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