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Giuliano Giustarini
Con questo articolo conclusivo vorrei tentare di affrontare una riflessione su alcuni aspetti che nelle due
parti precedenti di questa serie “Note sull’anattā” erano stati toccati piuttosto marginalmente, e vorrei farlo
partendo dalle seguenti domande: in che modo i rapporti interpersonali possono essere influenzati dal
grado di comprensione del non-sé? Quale nuovo significato assumono i diversi aspetti di una relazione?
Gli articoli precedenti sull’anattā hanno offerto vari esempi, tratti soprattutto dalle scritture buddhiste
antiche, di come la visione dell’anattā sia volta a confutare la credenza, latente o manifesta,
importanza cruciale tenere a mente che tale confutazione non ha né l’intento né la capacità di negare
alcuna qualità del cuore. Quella che può apparire come la preziosa profondità dell’essere, fondamento di
un’intima aspirazione al bene, cioè alla liberazione propria e degli altri, alla luce degli insegnamenti
sull’anattā non resta affatto spenta o smarrita in un insensato vacuum caotico. Al contrario, dissipare
Una potenzialità che non potrebbe non esprimersi, in modi evidenti o sottili, nell’ambito delle relazioni.
L’esercizio dei fattori contemplativi, incastonato nella linea direttiva della retta comprensione, dissolve I
un’apertura che non è affatto secondaria in un cammino di liberazione. Ovviamente, occorre superare
l’insidioso pregiudizio secondo cui, affinché una relazione abbia luogo, debbano esserci dei soggetti
permanenti e separati che la rendano possibile. Basta accostare i due termini ‘separazione’ e ‘relazione’
per rendersi conto che questo pregiudizio costituisce un ossimoro, ostinatamente difeso da quella qualità
1 Questa digressione sugli effetti della comprensione dell’anattā sui rapporti interpersonali, pur prendendo spunto da
un discorso tenuto all’A.Me.Co. nel dicembre 2013, si basa soprattutto su appunti personali e riflessioni successive,
in buona parte ispirate, a loro volta, dai commenti emersi in occasione dell’incontro all’Orfeo.
La comprensione dell’assenza di un sé solido e separato rende possibile la maturazione di un fattore
chiave del processo di purificazione del cuore. Si tratta di karuṇā, termine solitamente tradotto come
compassione, ma che assume nel contesto soteriologico buddhista significati specifici che ‘compassione’
difficilmente può rendere. Nel linguaggio corrente si assiste a una spiacevole inflazione del termine
‘compassione’, il cui risultato forse più palese è l’incrostazione di condiscendenza che può presentare.
Dall’altro canto, tuttavia, il suo stesso etimo “sentire insieme”, o anche “soffrire insieme”, si rivela
addirittura la necessità) di restare invischiati nella sofferenza altrui, a prescindere dalla più o meno
genuina intenzione di lenirla. La locuzione “patire con” può suggerire una spinta genuina all’aiuto degli
altri, ma può anche tradire una risposta inappropriata alla sofferenza e consistente, in una certa misura,
Le descrizioni di karuṇā nella letteratura buddhista sembrano illustrare dinamiche ascendenti, che vanno
dal percepire la sofferenza altrui all’intervenire con una mente non invischiata in aiuto di chi soffre. In
questa seconda forma, karuṇā è strettamente intrecciata con paññā (saggezza penetrante, la forma più
alta di attività cognitiva nell’epistemologia buddhista) e upekkhā (equanimità, equilibrio incrollabile che
permettere di osservare gli oggetti esperiti senza rimanerne invischiati, e che non discrimina). Inoltre, due
composti, presentati come perfetti sinonimi di karuṇā, svelano un rovesciamento di piani rispetto al
Il primo di questi due composti è sabba-paṇa-bhūta-hita-anukampika, che potremmo tradurre con “avere
a cuore il bene di tutti gli esseri viventi”; si tratta della motivazione fondamentale che ha spinto il Buddha
a insegnare, ed è l’esatto contrario dell’avversione e dell’odio, come questo passaggio che segue sembra
chiarire inequivocabilmente: “abbandonando l’avversione e l’odio, dimora con mente libera da avversione;
avendo a cuore il bene di tutti gli esseri viventi, purifica la mente dall’avversione e dall’odio”.2 Anukampika
viene anche descritto come la spinta dietro la decisione di un devata di aiutare Bāhiya Dārucīriya a
incontrare il Buddha, nel noto Sutta in cui il Buddha raccomanda a Bāhiya, con una sintesi magistrale, di
depurare l’esperienza sensoriale [dagli inquinanti] per poter finalmente raggiungere quella liberazione
ultima per cui Bāhiya si era esercitato per tanti anni (Udāna 10; PTS 6).
Il secondo composto, che si trova nei commentari in lingua pali, è dukkha-apanayana-kāmata, “volontà di
sull’intento spontaneo di liberarlo da ciò che lo affligge, si tratti della sofferenza esistenziale e
dukkhāpanayanakāmata appare come parafrasi di anukampika (Udāna Aṭṭhakathā 10, PTS 82), mentre
in un altro commentario è associato al desiderio del Buddha, la cui mente è pacificata, di recare felicità a
tutti gli esseri, includendo se stessi e tutti gli altri3. Sono indicazioni che da un lato offrono importanti
descrizioni della compassione come qualità presente non solo nel cammino, ma anche nella liberazione
ultima, dove assume la sua espressione più elevata ed equanime. Dall’altro, questa sensibilità verso la
sofferenza di tutti gli esseri va di pari passo con l’acquietarsi di quell’agitazione interna che non è altro
che l’io-mio. In questa spiegazione del commentario, il desiderio di recare felicità che emerge dal cuore
pacificato del Buddha non fa distinzione alcuna tra sé e gli altri, neanche in considerazione del fatto che il
Beato è ritenuto aver già raggiunto la felicità ultima: si direbbe un modo molto pregnante di sottolineare il
Emerge dunque che queste descrizioni di karuṇā acquistano un significato più preciso prendendo in
esame l’interagire di karuṇā con quelli che sono per antonomasia i suoi alleati imprescindibili, ovvero la
sequenza delle quattro verità sulla sofferenza enunciate dal Buddha. Il desiderio di togliere la sofferenza
che in varie forme affligge gli esseri richiede una profonda conoscenza delle sue dinamiche, altrimenti
intesa come karuṇā sia tale, è indispensabile che sia accompagnata dalla capacità di osservare con
estrema accuratezza la sofferenza (in sé e negli altri), restandone il meno possibile invischiati. Ciò
include riconoscerne le forme, le cause, la limitatezza rispetto all’orizzonte della liberazione, e avere una
matura confidenza con gli strumenti in grado di ridurla e infine sradicarla. In altre parole, l’azione
compassionevole consiste nell’adoperarsi per uscire dalle sabbie mobili di dukkha e aiutare gli altri a
uscirne a loro volta, non a tuffarcisi dentro spinti dall’io-mio e da un malinteso spirito di altruismo.
È evidente che confondere l’invischiamento con una presunta partecipazione innesca ulteriori dinamiche
summenzionati. E, trattandosi non solo di una qualità propria della liberazione ultima ma anche di un
fattore coltivabile fin dall’inizio, può operare come una bussola per orientarsi tanto nelle relazioni quanto
Rendersi progressivamente conto dell’assenza di un sé separato, lungi dal provocare una disaffezione
verso gli altri nell’erroneo assunto che “non c’è nessuno”, incoraggia un senso di cura verso tutti gli
benevolenza, alla sensibilità, a un sincero auspicio di libertà rivolto a se stessi e agli altri. Come si è
accennato negli articoli precedenti di questa serie, la qualità che emerge dall’anattānupassanā (la
mamaṃkāra, i fattori compulsivi dell’io-mio, parafrasati nella letteratura commentariale pali come l’idea
dell’io e l’attaccamento al mio. Mano a mano che questi due perniciosi inquinanti vengono meno,
Osservando l’assenza di un sé separato in tutte le cose e in tutti gli esseri, si purifica la mente
nell’ambito delle relazioni, questo salto qualitativo si traduce nel vedere con una maggiore chiarezza
empatica l’altro con cui si interagisce e le proprie eventuali reazioni di chiusura, destinate a diluirsi proprio
Si era già detto che l’identificazione con l’io-mio è descritta dal Buddha come una contrazione, uno
spasmo (phandita), o una ferita (iñjita)4. Sono definizioni da tenere a mente quando, esaminando le
dinamiche del sentiero di liberazione, si cerca di comprendere come la disidentificazione dal senso di io-
mio operi nelle relazioni interpersonali: quest’ultima non consiste in una semplice adesione intellettuale
(pur implicando di fatto una trasformazione a livello cognitivo), ma in una decontrazione, un vero e proprio
scioglimento di un crampo interiore che provoca sofferenza in sé e negli esseri con cui si viene a contatto
(e i modi di venire a contatto possono essere vari e non necessariamente evidenti). Cessando
progressivamente di sprecare forze per difendere qualcosa che di per sé non esiste, si permette alla
relazione di avvenire su basi di tutt’altro stampo, ovvero la chiarezza, la benevolenza, la compassione. A
tal fine è fondamentale comprendere che quel processo correttamente definito disidentificazione equivale
a una progressiva riduzione, fino alla radicale rimozione, degli inquinanti che affliggono la mente e
riconoscere che nella misura in cui una relazione resta affetta da ignoranza, attaccamento e avversione, il
Si discute molto sulle possibili applicazioni dell’etica buddhista nelle questioni economiche e socio-
politiche odierne, e il discorso verte spesso sulla prospettiva etica delineata nei testi buddhisti (in
particolare nel Vinaya, la sezione sulla disciplina morale), ma forse meno sulla trasformazione interiore
che la soteriologia incoraggia e insegna, una trasformazione che può rappresentare il fattore cruciale in
determinati problemi sia estremamente importante, forse ancora più importante è lavorare a una mente
che voglia e sappia risolvere tali problemi. Ciò significa che l’influenza reciproca tra lavoro interiore e
relazione permette quelle azioni proficue e quell’armonia sociale che una semplice pianificazione, per
dall’ipnosi dell’io-mio, ovvero da quell’identificazione che è causa primaria di conflitti di ogni genere,
partendo dall’ambito dei rapporti interpersonali fino alla più ampia scala dei conflitti sociali e globali.
ragion per cui comprendere sempre più in profondità l’assenza di esistenze separate e permanenti
comporta la purificazione della mente (e quindi del mondo) dai veleni dell’avidità e dell’odio. In un mondo
altamente infiammabile, a ogni latitudine, una diminuzione dei suoi combustibili più letali è probabilmente
In virtù della stretta interrelazione tra lavoro interiore e relazione, è vero anche l’opposto, cioè che la
relazione improntata sulla compassione, sull’intenzione di non nuocere e di fare il bene prosciuga i veleni
del cuore e rende più efficace il lavoro contemplativo. Al contrario, relazioni conflittuali e prive di rispetto e
benevolenza contribuiscono ad accecare la mente, impedendole di vedere “le cose come sono” e di
liberarsi dalla sofferenza. Non è un caso che la quarta nobile verità, il nobile ottuplice sentiero, intrecci
Per comprendere più nitidamente gli insegnamenti del Buddha circa la natura delle relazioni pervase da
una visione più o meno chiara dell’anattā, occorre forse mettere in luce e dissipare possibili malintesi. In
tal senso, appare proficuo rendersi conto che l’allentamento della morsa dell’io-mio non equivale affatto a
una sorta di passività, o inazione; non equivale a una qualsivoglia sensibilizzazione, né tantomeno
all’arroccamento nel cinismo, facilmente ascrivibile alla gamma di trappole di cui l’io-mio dispone; di
conseguenza, non può affatto comportare alcuna forma di negligenza verso se stessi e gli altri, né
nell’ambito dei rispettivi aneliti di liberazione, né riguardo ai bisogni più ordinari, a cominciare da quelli più
fondamentali come la salute psicofisica. Insidiosa è anche l’idea, o il tacito assunto, che l’assenza di io-
mio possa implicare un minore rispetto per se stessi. Alla base di questa possibile inclinazione a non
prendere se stessi in dovuta considerazione vi è ancora una volta una trappola dell’io-mio, che qui si
manifesta nella concezione erronea secondo cui il rispetto, la benevolenza e l’augurio di felicità rivolti a
se stessi sarebbero in qualche modo forme di egoismo. Al contrario, le scritture sottolineano l’importanza
della sollecitudine (appamāda) applicata in ogni circostanza e della cura del proprio corpo e della propria
mente affinché questi siano in salute e in grado di sostenere la pratica meditativa. La negligenza
(pamāda) sia verso se stessi sia verso gli altri, al contrario, è un’intossicazione che mina le basi del lavoro
condizionato è una forma estremamente raffinata della cura e del rispetto per se stessi e,
accompagnandosi a un percorso di superamento delle meccaniche dell’io-mio, per definizione non può in
Una palese conferma dell’interazione tra la pratica interiore e la sfera delle relazioni si trova nella teoria
del kamma (in sanscrito: karman), l’azione intenzionale che conduce inevitabilmente a retribuzioni di vario
tipo, in questa vita e nelle successive. Nella soteriologia buddhista il kamma viene purificato per mezzo
della rinuncia alle azioni nocive, della dedizione alle azioni salutari, buone, e del lavoro contemplativo.
Quest’ultimo può avere come campo di applicazione, oltre agli oggetti elencati nelle illustrazioni dei
fondamenti della consapevolezza (satipaṭṭhāna), il kamma stesso nella sua triplice manifestazione di
corpo, parola e mente, come si può leggere in questo insegnamento del Buddha al figlio Rāhula:
L’alleggerimento dell’azione dall’ingombro dell’io-mio non solo procede in direzione della liberazione
interiore di chi vi si dedica, ma sottrae alle relazioni quelle tossine che possono renderle in varia misura
vischiose e conflittuali. Il praticante può così offrire alle persone con cui entra in contatto un duplice dono:
la levità risultante dal proprio lavoro di investigazione e lasciare andare, e il suggerimento implicito che
questa levità è alla portata anche dell’altra persona. Si tratta, semplificando, del dono del Dharma, quello
In conclusione, si potrebbe dire che togliere l’io-mio alle relazioni non comporta alcuna perdita, perché ciò
che viene meno in realtà è una restrittiva autoreferenzialità che congestiona i rapporti con le sue
immancabili frizioni. Similmente, vedere gli esseri e le cose come privi di entità permanenti e separate
non compromette affatto la benevolenza e la tenerezza, ma le sfronda dalle aspettative e dalle delusioni.
E non si perde nessun appoggio, perché alla base ingannevole dell’io si sostituisce quella della
esempio, il Buddha afferma esplicitamente che la contrazione (phandita) e la ferita (iñjita) cessano nel
raccoglimento derivante dalla consapevolezza del respiro (ānāpānasatisamādhi)7. Una centratezza che è
estremamente sensibile al mondo circostante: durante un intensivo all’Orfeo di parecchi anni fa, un’amica
chiese ad Ajahn Sucitto come si potesse coniugare la visione dell’anattā con la sofferenza degli esseri.
Se ricordo bene, la domanda era del tipo “quando vedo un bambino che soffre, come può essere d’aiuto
pensare che è privo di un sé, che tutti gli esseri sono privi di un sé?”. La domanda mi incuriosiva molto,
andava a toccare i miei dubbi sull’esistenza o meno di soggetto e oggetto nell’amore, nella relazione in
genere, nella vita e oltre. Mentre già pregustavo un’affascinante spiegazione ontologica, Ajahn Sucitto si
Questa di Ajahn Sucitto può semprare una replica paradossale e al contempo semplicistica, ma mi
sembra chiarire molti possibili malintesi sull’anattā (o almeno, allora mi sembrò chiarire alcuni dei miei):
l’io-mio non è il cuore, ma ciò che lo occlude. La centratezza della pratica di consapevolezza non è un
arroccamento, ma una purificazione immediata ed efficace delle relazioni, che se meno afflitte dagli
inquinanti possono divenire terreno di maggiore chiarezza, armonia e benevolenza. In questa luce, i ritiri
di meditazione, così come ogni forma di pratica formale, possono essere letti, invece che come forme di
Nelle scritture buddhiste esiste un termine, viveka, che potrebbe tradursi come isolamento o distacco, e
che pare adatto a designare tanto la dimensione del ritiro quanto i frutti della pratica meditativa
strettamente intesa e dell’intero sentiero del Dharma. Si tratta chiaramente di un isolamento salutare, una
sorta di serra esteriore e interiore nella quale la pratica può fiorire fino al suo compimento. Vi sono tre tipi
di viveka:
kāya-viveka, l’isolamento fisico, il ritiro vero e proprio in luoghi e condizioni idonee al lavoro
contemplativo;
stabile;
Per quanto possa apparire inizialmente contraddittorio, ciò che qui viene convenzionalmente chiamato
isolamento è in ultima analisi un’apertura. Si tratta infatti, come la sequenza della tripartizione dimostra, di
un distacco dalle condizioni che costruiscono e rinforzano il senso dell’io-mio, vale a dire di un distacco
che invece che allontanarci dagli altri, ci avvicina. Il fattore che ossida le relazioni è l’io-mio, mentre la
comprensione dell’anattā trasforma ogni azione in un contatto più salutare con la realtà e con tutti gli
esseri, vicini o lontani. I comportamenti nocivi, in virtù di questa chiarezza, si riducono e si abbandonano
sempre più spontaneamente, perché viene a mancare proprio quel carburante che li tiene in moto. Di
bene e sulla cura amorevole di sè e degli altri. Il distacco (o isolamento) in chiave contemplativa,
purificando le azioni fisiche, verbali, e mentali, diviene così il perno di un’etica risvegliata dal torpore
benevolenza e compassione.
Sotto molti aspetti, lo stesso termine anattā, negando che qualsiasi cosa possa permanere immutata nel
contatto con ciò che la circonda, significa relazione. Per questo motivo ogni singola relazione, nella
misura in cui è illuminata dalla comprensione dell’anattā, è finalmente riconosciuta come tale, invece che
confinata nella percezione di un io-mio attorno al quale gravitano oggetti/persone gratificanti o disturbanti.
Questa percezione, come si è detto, soffoca la relazione e la rende soggetta alla manipolazione e al
conflitto, a vari livelli. Infine, il quadro della realtà che l’io-mio presenta è fondamentalmente illusorio: gli
insegnamenti del Buddha sottolineano, con penetrante chiarezza e inequivocabile insistenza, che non
esiste un centro fisso (dhuva), l’io-mio, non vi sono orbite rigide e prevedibili, e l’intera costruzione non è
una realtà solida e immutabile ma, al contrario, un miraggio. E quando questo continuo, faticoso
liberazione.