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Note sull’anattā, parte III: anattā e relazione

Giuliano Giustarini

Con questo articolo conclusivo vorrei tentare di affrontare una riflessione su alcuni aspetti che nelle due

parti precedenti di questa serie “Note sull’anattā” erano stati toccati piuttosto marginalmente, e vorrei farlo

partendo dalle seguenti domande: in che modo i rapporti interpersonali possono essere influenzati dal

grado di comprensione del non-sé? Quale nuovo significato assumono i diversi aspetti di una relazione?

E, di conseguenza, quali sono gli effetti di tale comprensione sull’etica?1

Gli articoli precedenti sull’anattā hanno offerto vari esempi, tratti soprattutto dalle scritture buddhiste

antiche, di come la visione dell’anattā sia volta a confutare la credenza, latente o manifesta,

nell’esistenza (e nell’offerta di felicità ultima) di un qualsivoglia nucleo separato e permanente. È di

importanza cruciale tenere a mente che tale confutazione non ha né l’intento né la capacità di negare

alcuna qualità del cuore. Quella che può apparire come la preziosa profondità dell’essere, fondamento di

un’intima aspirazione al bene, cioè alla liberazione propria e degli altri, alla luce degli insegnamenti

sull’anattā non resta affatto spenta o smarrita in un insensato vacuum caotico. Al contrario, dissipare

l’attribuzione di un sé separato a questa qualità la spoglia dalla soffocante costrizione dell’io-mio e ne

esplica l’infinita potenzialità.

Una potenzialità che non potrebbe non esprimersi, in modi evidenti o sottili, nell’ambito delle relazioni.

L’esercizio dei fattori contemplativi, incastonato nella linea direttiva della retta comprensione, dissolve I

meccanismi di identificazione e possesso e migliora apprezzabilmente la qualità delle relazioni, favorendo

un’apertura che non è affatto secondaria in un cammino di liberazione. Ovviamente, occorre superare

l’insidioso pregiudizio secondo cui, affinché una relazione abbia luogo, debbano esserci dei soggetti

permanenti e separati che la rendano possibile. Basta accostare i due termini ‘separazione’ e ‘relazione’

per rendersi conto che questo pregiudizio costituisce un ossimoro, ostinatamente difeso da quella qualità

negativa della credenza nell’io-mio chiamata papañca, proliferazione mentale.

1 Questa digressione sugli effetti della comprensione dell’anattā sui rapporti interpersonali, pur prendendo spunto da
un discorso tenuto all’A.Me.Co. nel dicembre 2013, si basa soprattutto su appunti personali e riflessioni successive,
in buona parte ispirate, a loro volta, dai commenti emersi in occasione dell’incontro all’Orfeo.
La comprensione dell’assenza di un sé solido e separato rende possibile la maturazione di un fattore

chiave del processo di purificazione del cuore. Si tratta di karuṇā, termine solitamente tradotto come

compassione, ma che assume nel contesto soteriologico buddhista significati specifici che ‘compassione’

difficilmente può rendere. Nel linguaggio corrente si assiste a una spiacevole inflazione del termine

‘compassione’, il cui risultato forse più palese è l’incrostazione di condiscendenza che può presentare.

Dall’altro canto, tuttavia, il suo stesso etimo “sentire insieme”, o anche “soffrire insieme”, si rivela

inadeguato a descrivere la valenza semantica di karuṇā, rischiando di sottendere la possibilità (o

addirittura la necessità) di restare invischiati nella sofferenza altrui, a prescindere dalla più o meno

genuina intenzione di lenirla. La locuzione “patire con” può suggerire una spinta genuina all’aiuto degli

altri, ma può anche tradire una risposta inappropriata alla sofferenza e consistente, in una certa misura,

nel rimanerne negativamente affetti e nell’attribuire un valore intrinseco al mero condividerla.

Le descrizioni di karuṇā nella letteratura buddhista sembrano illustrare dinamiche ascendenti, che vanno

dal percepire la sofferenza altrui all’intervenire con una mente non invischiata in aiuto di chi soffre. In

questa seconda forma, karuṇā è strettamente intrecciata con paññā (saggezza penetrante, la forma più

alta di attività cognitiva nell’epistemologia buddhista) e upekkhā (equanimità, equilibrio incrollabile che

permettere di osservare gli oggetti esperiti senza rimanerne invischiati, e che non discrimina). Inoltre, due

composti, presentati come perfetti sinonimi di karuṇā, svelano un rovesciamento di piani rispetto al

consueto rapporto con la sofferenza.

Il primo di questi due composti è sabba-paṇa-bhūta-hita-anukampika, che potremmo tradurre con “avere

a cuore il bene di tutti gli esseri viventi”; si tratta della motivazione fondamentale che ha spinto il Buddha

a insegnare, ed è l’esatto contrario dell’avversione e dell’odio, come questo passaggio che segue sembra

chiarire inequivocabilmente: “abbandonando l’avversione e l’odio, dimora con mente libera da avversione;

avendo a cuore il bene di tutti gli esseri viventi, purifica la mente dall’avversione e dall’odio”.2 Anukampika

viene anche descritto come la spinta dietro la decisione di un devata di aiutare Bāhiya Dārucīriya a

incontrare il Buddha, nel noto Sutta in cui il Buddha raccomanda a Bāhiya, con una sintesi magistrale, di

depurare l’esperienza sensoriale [dagli inquinanti] per poter finalmente raggiungere quella liberazione

ultima per cui Bāhiya si era esercitato per tanti anni (Udāna 10; PTS 6).

Il secondo composto, che si trova nei commentari in lingua pali, è dukkha-apanayana-kāmata, “volontà di

rimuovere la sofferenza”. Vi si può ravvisare un’attenzione immediata al malessere dell’altro basata

sull’intento spontaneo di liberarlo da ciò che lo affligge, si tratti della sofferenza esistenziale e

2 Byāpādappadosaṃ pahāya abyāpannacitto viharati sabbapāṇabhūtahitānukampī byāpādappadosā cittaṃ


parisodheti (Cūḷahatthipadopamasutta, Majjhima Nikāya 27, I.296, PTS I.181).
onnipervasiva o di una preoccupazione temporanea. Nel commentario al passo dell’Udāna citato sopra,

dukkhāpanayanakāmata appare come parafrasi di anukampika (Udāna Aṭṭhakathā 10, PTS 82), mentre

in un altro commentario è associato al desiderio del Buddha, la cui mente è pacificata, di recare felicità a

tutti gli esseri, includendo se stessi e tutti gli altri3. Sono indicazioni che da un lato offrono importanti

descrizioni della compassione come qualità presente non solo nel cammino, ma anche nella liberazione

ultima, dove assume la sua espressione più elevata ed equanime. Dall’altro, questa sensibilità verso la

sofferenza di tutti gli esseri va di pari passo con l’acquietarsi di quell’agitazione interna che non è altro

che l’io-mio. In questa spiegazione del commentario, il desiderio di recare felicità che emerge dal cuore

pacificato del Buddha non fa distinzione alcuna tra sé e gli altri, neanche in considerazione del fatto che il

Beato è ritenuto aver già raggiunto la felicità ultima: si direbbe un modo molto pregnante di sottolineare il

valore della sintesi tra compassione ed equanimità e della purificazione dall’io-mio.

Emerge dunque che queste descrizioni di karuṇā acquistano un significato più preciso prendendo in

esame l’interagire di karuṇā con quelli che sono per antonomasia i suoi alleati imprescindibili, ovvero la

saggezza (paññā) e la stessa equanimità (upekkhā), e adottando come sfondo di investigazione la

sequenza delle quattro verità sulla sofferenza enunciate dal Buddha. Il desiderio di togliere la sofferenza

che in varie forme affligge gli esseri richiede una profonda conoscenza delle sue dinamiche, altrimenti

rischia di essere un intervento inappropriato o addirittura controproducente. Perché la compassione

intesa come karuṇā sia tale, è indispensabile che sia accompagnata dalla capacità di osservare con

estrema accuratezza la sofferenza (in sé e negli altri), restandone il meno possibile invischiati. Ciò

include riconoscerne le forme, le cause, la limitatezza rispetto all’orizzonte della liberazione, e avere una

matura confidenza con gli strumenti in grado di ridurla e infine sradicarla. In altre parole, l’azione
compassionevole consiste nell’adoperarsi per uscire dalle sabbie mobili di dukkha e aiutare gli altri a

uscirne a loro volta, non a tuffarcisi dentro spinti dall’io-mio e da un malinteso spirito di altruismo.

È evidente che confondere l’invischiamento con una presunta partecipazione innesca ulteriori dinamiche

di sofferenza. La partecipazione è invece quell’intimo desiderio di felicità sintetizzato dai composti

summenzionati. E, trattandosi non solo di una qualità propria della liberazione ultima ma anche di un

fattore coltivabile fin dall’inizio, può operare come una bussola per orientarsi tanto nelle relazioni quanto

nel proprio lavoro interiore.

Rendersi progressivamente conto dell’assenza di un sé separato, lungi dal provocare una disaffezione

verso gli altri nell’erroneo assunto che “non c’è nessuno”, incoraggia un senso di cura verso tutti gli

3 Ayañhi bhagavā sukhūpasaṃhārakāmatāya dukkhāpanayanakāmatāya ca sabbasattesu samacitto, yādiso attani,


tādiso paresu… Suttanipāta-Aṭṭhakathā (Paramatthajotikā) I.154, PTS I.202.
esseri. La relazione che scaturisce dal comprendere l’anattā, tutt’altro che congelata o addirittura vilipesa,

è purificata dall’attaccamento e dall’avversione; in tale relazione si è perciò naturalmente inclini alla

benevolenza, alla sensibilità, a un sincero auspicio di libertà rivolto a se stessi e agli altri. Come si è

accennato negli articoli precedenti di questa serie, la qualità che emerge dall’anattānupassanā (la

contemplazione del non sé) è la disidentificazione (atammayatā), ovvero l’assenza di ahaṃkāra e

mamaṃkāra, i fattori compulsivi dell’io-mio, parafrasati nella letteratura commentariale pali come l’idea
dell’io e l’attaccamento al mio. Mano a mano che questi due perniciosi inquinanti vengono meno,

l’interazione fluisce più libera, in un progressivo raffinamento di etica, saggezza e raccoglimento.

Osservando l’assenza di un sé separato in tutte le cose e in tutti gli esseri, si purifica la mente

dall’identificazione con l’io-mio e dall’accecamento e dalla contrazione di cui questa è permeata;

nell’ambito delle relazioni, questo salto qualitativo si traduce nel vedere con una maggiore chiarezza

empatica l’altro con cui si interagisce e le proprie eventuali reazioni di chiusura, destinate a diluirsi proprio

in questa crescente chiarezza.

Si era già detto che l’identificazione con l’io-mio è descritta dal Buddha come una contrazione, uno

spasmo (phandita), o una ferita (iñjita)4. Sono definizioni da tenere a mente quando, esaminando le

dinamiche del sentiero di liberazione, si cerca di comprendere come la disidentificazione dal senso di io-

mio operi nelle relazioni interpersonali: quest’ultima non consiste in una semplice adesione intellettuale

(pur implicando di fatto una trasformazione a livello cognitivo), ma in una decontrazione, un vero e proprio

scioglimento di un crampo interiore che provoca sofferenza in sé e negli esseri con cui si viene a contatto

(e i modi di venire a contatto possono essere vari e non necessariamente evidenti). Cessando

progressivamente di sprecare forze per difendere qualcosa che di per sé non esiste, si permette alla
relazione di avvenire su basi di tutt’altro stampo, ovvero la chiarezza, la benevolenza, la compassione. A

tal fine è fondamentale comprendere che quel processo correttamente definito disidentificazione equivale

a una progressiva riduzione, fino alla radicale rimozione, degli inquinanti che affliggono la mente e

contaminano le relazioni, vale a dire l’ignoranza, l’attaccamento e l’avversione. È quasi tautologico

riconoscere che nella misura in cui una relazione resta affetta da ignoranza, attaccamento e avversione, il

conflitto sarà la sua connotazione predominante.

Si discute molto sulle possibili applicazioni dell’etica buddhista nelle questioni economiche e socio-

politiche odierne, e il discorso verte spesso sulla prospettiva etica delineata nei testi buddhisti (in

particolare nel Vinaya, la sezione sulla disciplina morale), ma forse meno sulla trasformazione interiore

che la soteriologia incoraggia e insegna, una trasformazione che può rappresentare il fattore cruciale in

4 Yavakalāpisutta (Saṃyutta Nikāya IV.248, PTS IV.202 ss.).


ogni miglioramento culturale, politico, ambientale, etc. Sebbene definire le azioni appropriate a risolvere

determinati problemi sia estremamente importante, forse ancora più importante è lavorare a una mente

che voglia e sappia risolvere tali problemi. Ciò significa che l’influenza reciproca tra lavoro interiore e

relazione permette quelle azioni proficue e quell’armonia sociale che una semplice pianificazione, per

quanto accurata, difficilmente potrebbe realizzare: la comprensione dell’anattā comporta il risveglio

dall’ipnosi dell’io-mio, ovvero da quell’identificazione che è causa primaria di conflitti di ogni genere,

partendo dall’ambito dei rapporti interpersonali fino alla più ampia scala dei conflitti sociali e globali.

Come si è detto, parlare di io-mio o di ignoranza-attaccamento-avversione è esattamente la stessa cosa,

ragion per cui comprendere sempre più in profondità l’assenza di esistenze separate e permanenti

comporta la purificazione della mente (e quindi del mondo) dai veleni dell’avidità e dell’odio. In un mondo

altamente infiammabile, a ogni latitudine, una diminuzione dei suoi combustibili più letali è probabilmente

il miglior contributo possibile alla pace.

In virtù della stretta interrelazione tra lavoro interiore e relazione, è vero anche l’opposto, cioè che la

relazione improntata sulla compassione, sull’intenzione di non nuocere e di fare il bene prosciuga i veleni

del cuore e rende più efficace il lavoro contemplativo. Al contrario, relazioni conflittuali e prive di rispetto e

benevolenza contribuiscono ad accecare la mente, impedendole di vedere “le cose come sono” e di

liberarsi dalla sofferenza. Non è un caso che la quarta nobile verità, il nobile ottuplice sentiero, intrecci

sapentemente fattori cognitivi, etici e meditativi.

Per comprendere più nitidamente gli insegnamenti del Buddha circa la natura delle relazioni pervase da

una visione più o meno chiara dell’anattā, occorre forse mettere in luce e dissipare possibili malintesi. In

tal senso, appare proficuo rendersi conto che l’allentamento della morsa dell’io-mio non equivale affatto a

una sorta di passività, o inazione; non equivale a una qualsivoglia sensibilizzazione, né tantomeno

all’arroccamento nel cinismo, facilmente ascrivibile alla gamma di trappole di cui l’io-mio dispone; di

conseguenza, non può affatto comportare alcuna forma di negligenza verso se stessi e gli altri, né

nell’ambito dei rispettivi aneliti di liberazione, né riguardo ai bisogni più ordinari, a cominciare da quelli più

fondamentali come la salute psicofisica. Insidiosa è anche l’idea, o il tacito assunto, che l’assenza di io-

mio possa implicare un minore rispetto per se stessi. Alla base di questa possibile inclinazione a non

prendere se stessi in dovuta considerazione vi è ancora una volta una trappola dell’io-mio, che qui si

manifesta nella concezione erronea secondo cui il rispetto, la benevolenza e l’augurio di felicità rivolti a

se stessi sarebbero in qualche modo forme di egoismo. Al contrario, le scritture sottolineano l’importanza

della sollecitudine (appamāda) applicata in ogni circostanza e della cura del proprio corpo e della propria

mente affinché questi siano in salute e in grado di sostenere la pratica meditativa. La negligenza
(pamāda) sia verso se stessi sia verso gli altri, al contrario, è un’intossicazione che mina le basi del lavoro

contemplativo. In questa prospettiva, il desiderio di liberazione (muccitu-kāma o nissaritu-kāma) dal

condizionato è una forma estremamente raffinata della cura e del rispetto per se stessi e,

accompagnandosi a un percorso di superamento delle meccaniche dell’io-mio, per definizione non può in

alcun modo alimentare forme di egoismo.

Una palese conferma dell’interazione tra la pratica interiore e la sfera delle relazioni si trova nella teoria

del kamma (in sanscrito: karman), l’azione intenzionale che conduce inevitabilmente a retribuzioni di vario

tipo, in questa vita e nelle successive. Nella soteriologia buddhista il kamma viene purificato per mezzo

della rinuncia alle azioni nocive, della dedizione alle azioni salutari, buone, e del lavoro contemplativo.

Quest’ultimo può avere come campo di applicazione, oltre agli oggetti elencati nelle illustrazioni dei

fondamenti della consapevolezza (satipaṭṭhāna), il kamma stesso nella sua triplice manifestazione di

corpo, parola e mente, come si può leggere in questo insegnamento del Buddha al figlio Rāhula:

“Purificherò l’azione fisica esaminandola ed esaminandola, purificherò l’azione verbale

esaminandola ed esaminandola, purificherò l’azione mentale esaminandola ed esaminandola”: in

questo modo, Rāhula, dovrai praticare.5

L’alleggerimento dell’azione dall’ingombro dell’io-mio non solo procede in direzione della liberazione

interiore di chi vi si dedica, ma sottrae alle relazioni quelle tossine che possono renderle in varia misura

vischiose e conflittuali. Il praticante può così offrire alle persone con cui entra in contatto un duplice dono:

la levità risultante dal proprio lavoro di investigazione e lasciare andare, e il suggerimento implicito che

questa levità è alla portata anche dell’altra persona. Si tratta, semplificando, del dono del Dharma, quello

che nel Dhammapada è detto “sovrastare ogni altro dono”6.

In conclusione, si potrebbe dire che togliere l’io-mio alle relazioni non comporta alcuna perdita, perché ciò

che viene meno in realtà è una restrittiva autoreferenzialità che congestiona i rapporti con le sue

immancabili frizioni. Similmente, vedere gli esseri e le cose come privi di entità permanenti e separate

non compromette affatto la benevolenza e la tenerezza, ma le sfronda dalle aspettative e dalle delusioni.

E non si perde nessun appoggio, perché alla base ingannevole dell’io si sostituisce quella della

5 Paccavekkhitvā paccavekkhitvā kāyakammaṃ parisodhessāmi paccavekkhitvā paccavekkhitvā vacīkammaṃ


parisodhessāmi paccavekkhitvā paccavekkhitvā manokammaṃ parisodhessām iti evañhi te Rāhula sikkhitabbaṃ
(Ambalaṭṭhikarāhulovādasutta, Majjhima Nikāya 61, PTS I.420).
6 Sabbadānaṃ Dhammadānaṃ jināti (Dhammapada 354, PTS 99).
consapevolezza, grazie alla quale si sviluppa una qualità della mente centrata ma non egocentrica: per

esempio, il Buddha afferma esplicitamente che la contrazione (phandita) e la ferita (iñjita) cessano nel

raccoglimento derivante dalla consapevolezza del respiro (ānāpānasatisamādhi)7. Una centratezza che è

estremamente sensibile al mondo circostante: durante un intensivo all’Orfeo di parecchi anni fa, un’amica

chiese ad Ajahn Sucitto come si potesse coniugare la visione dell’anattā con la sofferenza degli esseri.

Se ricordo bene, la domanda era del tipo “quando vedo un bambino che soffre, come può essere d’aiuto

pensare che è privo di un sé, che tutti gli esseri sono privi di un sé?”. La domanda mi incuriosiva molto,

andava a toccare i miei dubbi sull’esistenza o meno di soggetto e oggetto nell’amore, nella relazione in

genere, nella vita e oltre. Mentre già pregustavo un’affascinante spiegazione ontologica, Ajahn Sucitto si

aprì in un bellissimo sorriso e le rispose: “Rimani nel tuo cuore”.

Questa di Ajahn Sucitto può semprare una replica paradossale e al contempo semplicistica, ma mi

sembra chiarire molti possibili malintesi sull’anattā (o almeno, allora mi sembrò chiarire alcuni dei miei):

l’io-mio non è il cuore, ma ciò che lo occlude. La centratezza della pratica di consapevolezza non è un

arroccamento, ma una purificazione immediata ed efficace delle relazioni, che se meno afflitte dagli

inquinanti possono divenire terreno di maggiore chiarezza, armonia e benevolenza. In questa luce, i ritiri

di meditazione, così come ogni forma di pratica formale, possono essere letti, invece che come forme di

individualismo autoreferenziale, come espressioni estremamente genuine di generosità.

Nelle scritture buddhiste esiste un termine, viveka, che potrebbe tradursi come isolamento o distacco, e

che pare adatto a designare tanto la dimensione del ritiro quanto i frutti della pratica meditativa

strettamente intesa e dell’intero sentiero del Dharma. Si tratta chiaramente di un isolamento salutare, una

sorta di serra esteriore e interiore nella quale la pratica può fiorire fino al suo compimento. Vi sono tre tipi

di viveka:

kāya-viveka, l’isolamento fisico, il ritiro vero e proprio in luoghi e condizioni idonee al lavoro
contemplativo;

citta-viveka, l’isolamento mentale, ovvero il raggiungimento di forme di raccoglimento profondo in cui la


mente non è disturbata dagli impedimenti (nīvaraṇa) e dimora in una concentrazione particolarmente

stabile;

7 Mahākappinasutta, Saṃyutta Nikāya V.983, PTS V.315-316.


upadhi-viveka, l’isolamento dall’attaccamento e dal senso di possesso, vale a dire distacco dalle
contaminazioni, dagli aggregati e dai fattori compositivi, motori del saṃsāra; questo tipo di isolamento è

detto corrispondere al senza-morte (a-mata), o nibbāna.

Per quanto possa apparire inizialmente contraddittorio, ciò che qui viene convenzionalmente chiamato

isolamento è in ultima analisi un’apertura. Si tratta infatti, come la sequenza della tripartizione dimostra, di

un distacco dalle condizioni che costruiscono e rinforzano il senso dell’io-mio, vale a dire di un distacco

che invece che allontanarci dagli altri, ci avvicina. Il fattore che ossida le relazioni è l’io-mio, mentre la

comprensione dell’anattā trasforma ogni azione in un contatto più salutare con la realtà e con tutti gli

esseri, vicini o lontani. I comportamenti nocivi, in virtù di questa chiarezza, si riducono e si abbandonano

sempre più spontaneamente, perché viene a mancare proprio quel carburante che li tiene in moto. Di

converso, dalla rinuncia all’io-mio scaturiscono e si intensificano azioni improntate sull’aspirazione al

bene e sulla cura amorevole di sè e degli altri. Il distacco (o isolamento) in chiave contemplativa,

purificando le azioni fisiche, verbali, e mentali, diviene così il perno di un’etica risvegliata dal torpore

dell’io, indissolubilmente legata alla saggezza e alla meditazione, e radicalmente essenziata di

benevolenza e compassione.

Sotto molti aspetti, lo stesso termine anattā, negando che qualsiasi cosa possa permanere immutata nel

contatto con ciò che la circonda, significa relazione. Per questo motivo ogni singola relazione, nella

misura in cui è illuminata dalla comprensione dell’anattā, è finalmente riconosciuta come tale, invece che

confinata nella percezione di un io-mio attorno al quale gravitano oggetti/persone gratificanti o disturbanti.

Questa percezione, come si è detto, soffoca la relazione e la rende soggetta alla manipolazione e al

conflitto, a vari livelli. Infine, il quadro della realtà che l’io-mio presenta è fondamentalmente illusorio: gli

insegnamenti del Buddha sottolineano, con penetrante chiarezza e inequivocabile insistenza, che non

esiste un centro fisso (dhuva), l’io-mio, non vi sono orbite rigide e prevedibili, e l’intera costruzione non è

una realtà solida e immutabile ma, al contrario, un miraggio. E quando questo continuo, faticoso

architettare termina completamente e definitivamente, insegna il Buddha, c’è la felicità ultima, la

liberazione.

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