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Ai miei studenti di primo anno,

futuri giuristi ma già cittadini.

 
INDICE

pag.

PREFAZIONE
L’Antigone come pretesto 1

CAPITOLO PRIMO
La trama 5

CAPITOLO SECONDO
I termini del conflitto 29

CAPITOLO TERZO
La tragedia del nomos 57

CAPITOLO QUARTO
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 89

CAPITOLO QUINTO
L’Antigone di Hegel 121

CAPITOLO SESTO
L’Antigone di Lacan 165

CONCLUSIONE 215

 
PREFAZIONE
L’ANTIGONE COME PRETESTO

Questo piccolo libro è stato scritto per gli studenti del cor-
so di laurea in Giurisprudenza che al primo anno preparano
l’esame di Filosofia del diritto. Un maestro come Paolo Gros-
si, nel ‘volgare illustre’ della sua Prima lezione di diritto 1, li
chiama “novizi”: novizi degli studi giuridici e perciò in quan-
to tali sensibili all’interrogazione critica sulla giustizia delle
leggi. Tuttavia un’interrogazione del genere, nella sua radica-
lità, è mossa da una preoccupazione teorica – e solleva pro-
blemi morali e politici – che non risultano di esclusiva rile-
vanza giuridica. Perciò questo libro non si rivolge solo agli
studenti della Facoltà di Giurisprudenza in quanto futuri giu-
risti, ma affronta temi che ci riguardano tutti, in quanto citta-
dini. E da Socrate in poi i problemi di coloro che vivono nella
polis sono l’argomento privilegiato e l’oggetto prevalente del
discorso filosofico.
Perciò nelle pagine seguenti l’Antigone di Sofocle 2 sarà il

1
Laterza, Roma-Bari 2007.
2
La traduzione italiana alla quale farò riferimento, per la sua mag-
giore fedeltà all’originale, è la seguente: SOFOCLE, Antigone, Edipo
Re, Edipo a Colono, a cura di F. FERRARI, con testo greco a fronte,
Bur, Milano 1997. Ho anche tenuto presente SOFOCLE, Antigone, trad.
e Introduzione a cura di M. Cacciari, note di regia di W. Li Moli, Ei-
2 Il dilemma di Antigone

pretesto per una riflessione critica su alcune implicazioni fon-


damentali dell’istituzione delle leggi – della loro produzione
e della loro esecuzione – all’interno dei regimi democratici,
nei quali, almeno in linea di principio, esse non sono autoriz-
zate da nessuna fonte extrasociale. E così, tanto nella demo-
crazia greca quanto in quella moderna, l’esplicitazione della
genesi sociale delle leggi fa emergere in termini radicali il
problema della loro giustificazione o legittimazione, il cui
fondamento è da ricondurre esclusivamente alla responsabili-
tà dei consociati.
Sarà questo il filo conduttore d’una rilettura filosofico-
giuridica del testo di Sofocle: una rilettura che non si rivolge
a un pubblico di addetti ai lavori, e che perciò occorre far in-
cominciare da uno sguardo d’insieme alla trama del dramma
(capitolo primo), seguito da una presentazione iniziale dei
termini del conflitto tra Antigone e Creonte e della sua posta
in gioco (capitolo secondo). Un conflitto che non contrappo-
ne la ragione al torto, ma l’unilateralità di due ragioni o se si
vuole di due torti, in ogni caso di due sistemi di valori, fra cui
la messinscena tragica dimostra che scegliere non solo è im-
possibile, ma non avrebbe neanche senso. A differenza del-
l’Edipo Re, integralmente proteso alla finale e dolorosa sco-
perta della verità che dissipa le iniziali apparenze, il tema
fondamentale dell’Antigone sfugge alle competenze della ra-
gione speculativa, sottraendosi radicalmente alla pretesa fon-
damentale di quest’ultima, consistente nell’esibire una volta
per tutte l’oggettività del vero. Perciò – come si vedrà nel ca-
pitolo terzo – l’Antigone può essere definita la tragedia del

naudi, Torino 2007. Un’autorevole edizione critica del testo si troverà


in SOPHOCLE, Tragédies. Tome 1, Les Trachiniennes – Antigone, texte
établi par Alphonse Dain et traduit pas Paul Mazon, troisième tirage
de la septième édition revue et corrigée par Jean Irigoin, Les belles
lettres, Paris 2005.
Prefazione 3

nomos: una tragedia abissalmente aperta, in quanto non cul-


mina in nessuna verità che si potrebbe illusoriamente presu-
mere destinata a fornire la risposta risolutiva e corretta all’in-
terrogazione radicale sulla giustizia delle leggi, che la anima
dall’inizio alla fine. Il capitolo quarto analizza gli effetti della
hybris – cioè dell’eccesso o dismisura, di cui si macchiano
tanto Antigone quanto Creonte – sullo statuto stesso della le-
galità, che finisce con lo smarrire il proprio carattere istituito,
e perciò destituibile, con conseguenze devastanti sulla tenuta
della polis e soprattutto sulla questione della sua legittima-
zione. Gli ultimi due capitoli esaminano criticamente quelle
che a tutt’oggi appaiono le due interpretazioni complessive
più influenti del dramma, quella filosofica di Hegel e quella
psicoanalitica di Lacan. A causa delle loro premesse teoriche,
tuttavia, Hegel e Lacan lasciano in ombra le ricadute sul no-
mos delle prese di posizione unilaterali dei protagonisti, il cui
scontro mortale ha un esito devastante non solo per l’eroina
ma contemporaneamente anche per l’ordine istituito della po-
lis, che ne risulta di fatto radicalmente delegittimato.
La ricerca d’una mediazione efficace tra le parti in conflit-
to, che il teatro tragico segnala come esigenza pressante e an-
cor oggi attuale, senza tuttavia indicare i modi e le forme del
suo soddisfacimento, si precisa nel corso del libro come
l’unica possibile forma di legittimazione dell’ordine sociale
in un regime democratico.
Un classico come l’Antigone, radicato nell’immaginario
dell’antica Grecia, costituisce un punto di riferimento fonda-
mentale per la cultura contemporanea, e segnatamente per la
filosofia del diritto 3; di conseguenza, occuparsene non costi-
 

3
Eugenio Ripepe, già nel titolo d’un suo bel saggio sull’Antigone,
ne parla a giusta ragione come della “più antica lezione di filosofia del
diritto”: cfr. E. RIPEPE, “Ricominciare da Antigone o ricominciare dal-
l’Antigone? Ancora una volta sulla più antica lezione di filosofia del

 
4 Il dilemma di Antigone

tuisce una prerogativa esclusiva degli ellenisti. Ma il riferi-


mento al loro lavoro, anche attraverso frequenti citazioni di
loro scritti, mi è parso indispensabile per lumeggiarne le im-
plicazioni filosofico-giuridiche, alle quali in ogni caso le pa-
gine seguenti rigorosamente si limiteranno 4.

Napoli, novembre 2016.

diritto”, in Scritti in onore di Antonio Cristiani, Omaggio della Facoltà


di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, Giappichelli, Torino 2001,
pp. 677-718. (Dichiaro fin d’ora il mio debito nei confronti di questo
importante scritto, ricchissimo d’analisi testuali e riflessioni critiche,
che per questo motivo sarà spesso citato nel seguito).
4
Una prima stesura del capitolo terzo è apparsa in “Pour une relec-
ture de l’Antigone comme tragédie du nomos”, Metodo. International
Studies in Phenomenology and Philosophy, II (2014), n. 1, pp. 201-
215 (leggibile online: http://metodo-rivista.eu/index.php/metodo/article/
view/68/54). Il capitolo quinto è una rielaborazione di “L’Antigone di
Hegel tra filosofia del diritto e filosofia della storia”, in RIFD – Rivi-
sta internazionale di filosofia del diritto 93, 2016, n. 1, pp. 1-32, men-
tre nel capitolo sesto sono confluiti due testi: il primo è “L’Antigone
di Jacques Lacan: tra desiderio e legge”, in Teoria e critica della rego-
lazione sociale (2016, n. 2, dedicato a “Lacan e la legge” e curato da
Alberto Andronico); il secondo è “Jacques Lacan o della duplicità del-
la legge”, in L’inconscio. Rivista di filosofia e psicoanalisi” (2016, n.
2, numero monografico su “L’inconscio politico”, curato da Felice
Cimatti e Fabrizio Palombi). In varie parti del libro e soprattutto nella
sua Conclusione sono ripresi alcuni miei interventi sull’Antigone, pre-
sentati al corso di Teoria dell’interpretazione e dell’argomentazione
giuridica tenuto da Angelo Abignente alla Federico II, che qui ringra-
zio per le tante discussioni sul tema, con e senza gli studenti.
CAPITOLO PRIMO
LA TRAMA

L’antefatto mitologico
L’irremovibile intransigenza di Antigone che “parla” soprattutto
attraverso il suo gesto
La loquacità di Creonte
L’editto di Creonte e le leggi di Antigone
Dall’accecamento autoritario di Creonte alla sua inutile revoca
della condanna a morte di Antigone
La solitudine di Creonte
L’antefatto mitologico.

Edipo, dopo aver ucciso suo padre Laio e averne preso il


posto sul trono di Tebe sposandone la vedova, cioè sua madre
Giocasta, da quest’ultima ha avuto quattro figli, due femmine
(Antigone e Ismene) e due maschi (Eteocle e Polinice). Dopo
la morte di Edipo, scoppia a Tebe una guerra civile per la
conquista del potere. Eteocle e Polinice combattono su fronti
avversi e muoiono l’uno per mano dell’altro alle porte della
città. Se però Eteocle muore da vincitore e patriota, Polinice,
che si era alleato con l’esercito argivo sceso in guerra contro
Tebe, muore da sconfitto e traditore, perché ha combattuto e
perso contro la sua patria e l’indipendenza di quest’ultima.
Perciò dopo la loro morte, che segna la fine della guerra civi-
le, il nuovo re Creonte, fratello di Giocasta e perciò zio ma-
terno di Antigone e dei due fratelli defunti, stabilisce che
Eteocle sia seppellito con tutti gli onori, mentre ordina che il
cadavere di Polinice, in quanto nemico della patria, sia lascia-
to insepolto fuori le mura della città. Chiunque trasgredirà
questo divieto, sarà punito con la morte.

L’irremovibile intransigenza di Antigone che “parla”


soprattutto attraverso il suo gesto.

Questo, a grandi linee, l’antefatto dell’opera scritta da So-


focle intorno al 440 a.C. Fin dalla sua entrata in scena, nel
corso d’un concitato dialogo con la sorella Ismene (vv. 1-99),
Antigone si mostra irremovibile. Ha già preso la sua decisio-
ne irrevocabile: disobbedirà agli ordini di Creonte e andrà a
8 Il dilemma di Antigone

seppellire Polinice. Ismene se ne spaventa e scandalizza, le


ricorda la morte violenta di tutti i loro familiari e la invita in-
sistentemente a desistere dal suo folle proposito, richiaman-
dola a una considerazione realistica dei rapporti di forza, a
tutto vantaggio del potere del sovrano: “E ora noi, che siamo
rimaste sole, considera la fine miserabile che faremo se vio-
lando la legge trasgrediremo l’autorità e i decreti dei capi.
No, dobbiamo ricordarci che siamo due donne, incapaci di
tener testa a degli uomini; e poi, che siamo governati dai più
forti e quindi è nostro dovere obbedire a questi ordini, e ad
altri ancora più ingrati” (vv. 58-64).
Antigone prende atto della posizione rinunciataria della
sorella, non tenta neanche di farle cambiare opinione, ma si
limita a ribadire fermamente la propria decisione; e quando
Ismene, terrorizzata dalla possibile piega degli eventi, la invi-
ta prudenzialmente a “non rivelare a nessuno” il suo piano, le
risponde con orgogliosa determinazione: “No, gridalo alto:
tanto più mi sarai odiosa col tuo silenzio, se non lo proclame-
rai davanti a tutti” (vv. 86-87).
Antigone non vuole in alcun modo occultare o mettere il
silenziatore al suo gesto, di cui non solo non si vergogna, ma
addirittura va orgogliosa; perciò le è completamente estranea
ogni strategia opportunistica mirante a sottrarsi alla condanna
a morte. Tantomeno intende agire di nascosto, allo scopo di
non turbare l’ordine costituito. Le preoccupazioni ‘mondane’
di Ismene le sono del tutto estranee. Perciò non si perita di
trattare la sorella con evidente disprezzo per la sua volontà
conformista e per i suoi tentativi di presentare come inevita-
bile l’osservanza se non addirittura l’obbedienza ch’essa s’ac-
cinge a prestare al bando di Creonte 1.
 

1
Sulla differenza tra obbedienza, che Max Weber intendeva come
fede (razionale) nella legittimità del comando emanato dal potere co-
stituito, e osservanza, come mera conformità del comportamento al
La trama 9

Antigone giungerà a rincarare la dose nel momento in cui


Ismene, pur non avendo preso parte attiva alla sepoltura di
Polinice, vorrebbe che l’eroina ormai condannata a morte, le
consentisse di morire con lei, per evitarle di sopravvivere da
sola; ma non è questo il problema di Antigone, che replica
seccamente: “Ades e i morti sanno chi agì. Io non amo chi
ama solo a parole” (v. 543). Un simile primato morale del ge-
sto, che nessuna costruzione verbale potrà mai sostituire, co-
stituisce la nota dominante del carattere di Antigone e dell’in-
tera tragedia che da lei prende il nome.
Nell’economia generale del dramma, è fondamentale che
l’azione compiuta da Antigone si mantenga coerentemente
estranea ad ogni calcolo ‘politico’, cioè ad ogni strategia ten-
dente a suscitare una qualunque forma di consenso pubblico,
sia in termini di popolarità, sia in termini di esplicita appro-
vazione da parte di questo o quel gruppo determinato di citta-
dini. Per questo motivo, lungi dal dilungarsi in discorsi mi-
ranti a spiegare, giustificare o magari perfino teorizzare la sua
disobbedienza all’ordine di Creonte, Antigone ‘parla’ soprat-
tutto con la muta eloquenza del suo gesto, cioè con l’intransi-
genza e la forza di rottura della sua iniziativa.
Sino alla fine, con estrema coerenza Antigone manterrà
questo atteggiamento di inflessibile rigore e fermezza, che
non solo si rifiuta di nascondere il proprio comportamento,
ma non prova in nessun modo ad attenuarne la forza di rottu-
ra. Più che soffermarsi a commentare la propria decisione di
andare a seppellire il fratello, Antigone si limita, se interroga-
ta, ad annunciarla e ribadirla, evitando ogni forma di giustifi-
 

contenuto della legge, cfr. F. CIARAMELLI, “Dal consenso alla legitti-


mazione. Le vicissitudini della servitù volontaria ieri e oggi”, in F.
CIARAMELLI-U.M. OLIVIERI, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volon-
taria e società depressa, Mimesis, Milano 2013, pp. 55-119, soprattut-
to alle pp. 57-61.

 
10 Il dilemma di Antigone

cazione del suo gesto. Nella radicale rilettura del mito propo-
sta da Sofocle, le diventa del tutto estraneo qualunque tenta-
tivo di minimizzare la propria trasgressione, relativizzando
per esempio la gravità della colpa di Polinice. Come è stato
notato dalla critica, non c’è un solo punto in cui l’Antigone
sofoclea si soffermi sul delitto di Polinice: “Non importa va-
lutare la gravità delle colpe che egli ha commesso, non im-
porta addurre eventuali attenuanti per i suoi delitti. Che cosa
abbia fatto Polinice non ha rilevanza alcuna. E questo silen-
zio si rivela particolarmente significativo se rapportato al fi-
nale dei Sette contro Tebe eschilei, dove Antigone, nel tenta-
tivo di scagionare Polinice, fa notare che egli si è messo, sì,
contro la sua città, ma questo suo delitto è soltanto una rea-
zione al fatto che Eteocle si è rifiutato di mantenere quegli
accordi secondo i quali i due fratelli avrebbero dovuto regna-
re un anno ciascuno: ‘Egli ha restituito offesa con offesa’,
proclama la fanciulla in Eschilo (Sept., v. 1049). Ebbene, di
tutto questo non c’è traccia nel dramma sofocleo” 2.
In Sofocle, le parole e soprattutto le azioni di Antigone
non mirano mai a persuadere chi l’ascolta né tantomeno a su-
scitarne l’approvazione. Per lei, infatti, conta unicamente evi-
tare che il corpo dell’amato fratello, qualunque cosa abbia
fatto in vita, sia lasciato insepolto. Questo le impongono gli
indissolubili legami e doveri familiari, cui a nessun costo in-
tende sottrarsi.
Non c’è evoluzione nella posizione di Antigone, che ri-
marrà sempre fedele alla deliberazione annunciata a Ismene
nelle prime battute del dramma e subito dopo, senza ulteriori
proclami, messa in atto. Sia nello scontro verbale con Creonte

2
M.P. PATTONI, “L’Antigone di Sofocle. Il testo e le sue interpreta-
zioni”, Introduzione a A. SÉRGIO, Antigone, Educatt, Milano 2014, pp.
14-15.
La trama 11

(vv. 440-582) sia nello scambio di battute col Coro (vv. 805-
882) che precede il suo notissimo lamento funebre (kommόs)
nel quale viene da lei formulato il proprio addio alla vita (vv.
891-943), Antigone si mostra disinteressata a persuadere i
propri interlocutori allo scopo di riceverne approvazione e
sostegno; non mira dunque in alcun modo a crearsi un gruppo
di sostenitori. Le sue parole si limitano sempre soltanto a
confermare e ribadire in forme diverse la sua unica e irrevo-
cabile determinazione, la sua tetragona decisione, quella che
lei stessa riconosce fin dall’inizio come la sua dysboulia (dis-
sennatezza, v. 95), in forza della quale è disposta a subire la
cosa terribile (pathein to deinon, v. 96 3) ordinata dal sovrano,
pur di compiere l’estremo gesto di pietà nei confronti del fra-
tello Polinice.

La loquacità di Creonte.

Anche Creonte appare saldamente coerente con i suoi


principi, che lo spingono a ispirare il proprio comportamento
alla difesa e alla salvaguardia della polis, di cui, in qualità di
sovrano, s’assume fino in fondo la responsabilità. Perciò,

3
“L’aggettivo deinos – ‘straordinario’, ‘meraviglioso’, ma anche
‘terribile’ e ‘tremendo’ – è uno dei termini chiave che attraversano il
testo” (D. SUSANETTI, “Commento”, in SOFOCLE, Antigone, Introdu-
zione, traduzione e commento di D. Susanetti, Carocci, Roma 2012, p.
180). In questa stessa nota, Davide Susanetti fornisce un rapido inven-
tario delle occorrenze di questo aggettivo, che ritornerà in modo parti-
colare nell’incipit del primo stasimo della tragedia, contenente il fa-
mosissimo ‘inno all’uomo’: “Polla ta deina kouden anthrōpou deino-
teron pelei”, letteralmente: “Molte sono le cose terribili [o straordina-
rie], ma nessuna lo è più dell’essere umano” (vv. 332-333), su cui mi
limito a rimandare a D. SUSANETTI, “Commento”, cit., pp. 224-238.

 
12 Il dilemma di Antigone

esattamente come la fanciulla, almeno fino al momento in cui


non si arrenderà agli eventi, non è disposto ad ascoltare nes-
suno: in conseguenza di ciò, lungi da lui la sola ipotesi di
mettere in discussione e quindi relativizzare la propria risolu-
zione. Ma, rispetto alla concisa risolutezza di Antigone, egli
si mostra ben più loquace; le sue prese di posizione, an-
ch’esse almeno inizialmente irremovibili, risultano accompa-
gnate da circostanziate dichiarazioni d’intenti miranti a susci-
tare, attraverso argomentazioni e ragionamenti, l’adesione
degli interlocutori. Già nel suo primo discorso agli anziani, da
lui espressamente convocati in assemblea (vv. 163 ss.), il so-
vrano, da poco salito al potere, motiva le ragioni del suo edit-
to in nome della necessaria difesa della città, dopo il trauma
della guerra civile. Vietando di seppellire i cadaveri di coloro
che, essendo scesi in battaglia a fianco dei nemici di Tebe,
avevano tradito la patria e i concittadini, Creonte intende al
tempo stesso difendere e salvaguardare il bene comune o l’in-
teresse collettivo e far valere il principio, indispensabile a
rendere efficace una tale difesa, della necessaria ed esemplare
punizione dei traditori.
Ciononostante, il divieto da lui promulgato va contro un
elemento fondamentale del comune sentire dei Greci, già
chiaramente riconoscibile in Omero, che Platone, pur pren-
dendo drasticamente le distanze da poesia e tragedia, conside-
rava il massimo poeta e il primo tra gli autori tragici, tanto da
definirlo “educatore dell’Ellade” (Repubblica X, 606 e). Eb-
bene in Omero, soprattutto nell’Iliade, arrecare offesa al ca-
davere del nemico morto è considerata azione spregevole ed
empia: un’azione, quindi, che viola al tempo stesso tanto le
consuetudini civili, quanto le tradizioni religiose, che nell’im-
maginario greco sono strettamente congiunte. Occorre tenere
ben fermo questo punto, non esplicitato a chiare lettere nel
testo di Sofocle, esattamente a causa della sua evidenza nella
cultura del tempo.
La trama 13

Proprio in nome di questa convinzione diffusa, il corifeo


che parla a nome dei vecchi Tebani, non appena si diffonde la
notizia che il corpo di Polinice è stato trovato dalle guardie
“cosparso di arida polvere” (v. 246), si rivolge a Creonte, in
forma rispettosamente dubitativa, con queste parole: “Ho su-
bito provato il sospetto, mio sovrano, che il fatto sia voluto
dagli dei” (vv. 278-79). Il sovrano, però, non tollera una simi-
le insinuazione e controbatte stizzito: “Taci, prima che le tue
parole mi esasperino: cerca di non mostrarti vecchio e stupido
nello stesso tempo. Non ti permetto di affermare che gli dei si
prendono cura di questo cadavere. Forse lo hanno seppellito
come premio per le sue benemerenze, lui che venne per dare
alle fiamme templi e offerte votive, per devastare la loro ter-
ra, per infrangere le loro leggi? Quando mai gli dei hanno re-
so onore ai malvagi? No, non è possibile” (vv. 280-289).
Nel seguito del suo discorso, continuando a esplicitare le
ragioni che lo hanno indotto a emanare il divieto trasgredito
da Antigone, Creonte si riferisce al fatto che in città vi siano
ancora dei sostenitori del “partito argivo”, di cui Polinice era
stato il capo, e dichiara espressamente di voler aver voluto
evitare che una cerimonia funebre in suo onore rischiasse di
disturbare il processo di pacificazione iniziato dopo la fine
della guerra civile: “Già da tempo uomini di questa città, in-
sofferenti al mio comando, levano contro di me queste prote-
ste: nell’ombra scuotono la testa e non piegano il collo sotto
il giogo, come sarebbe giusto, ma rifiutano di sottomettersi a
me. Senza dubbio sono stati loro a indurre col denaro le mie
guardie a compiere il misfatto. Mai ebbe corso consuetudine
tanto deleteria come il denaro, che rovina le città, scaccia gli
uomini dalle loro case, ammaestra e volge al male le menti
degli onesti, incitandoli a vergognosi misfatti: è il denaro che
insegna ogni delitto, ogni empietà” (vv. 289-301).
La rigidità e la severità di Creonte sono la conseguenza di-
retta del suo programma di governo, che – come sintetizza

 
14 Il dilemma di Antigone

efficacemente Maria Pia Pattoni – “s’articola in tre principi


fondamentali. Il suo primo dovere di statista è anzi tutto di es-
sere giusto e non avere paura di arrivare alle decisioni estreme
per il bene dello Stato (vv. 178-181); in secondo luogo, non
bisogna mai cedere alle tentazioni della philia [amicizia], fa-
vorendo amici o parenti, giacché la cosa pubblica deve stare al
di sopra degli interessi familiari o dei legami personali (vv.
182-183); infine, non si deve consentire che il buon cittadino
sia ricompensato allo stesso modo del malvagio: dunque
Eteocle va onorato, e Polinice punito (vv. 192 ss.)” 4.
Il pubblico ateniese del V secolo a. C., al quale Sofocle si
rivolge mettendo in bocca a Creonte queste determinazioni,
doveva considerare legittimi e saggi i principi ai quali il so-
vrano dichiara di ispirare il suo governo: non a caso, infatti, il
Coro – espressione di ciò che oggi chiameremmo l’opinione
pubblica – gli riconosce esplicitamente “il potere di adottare
qualsiasi misura, sia verso i vivi sia verso i morti” (v. 209).
Ovviamente Creonte ne è ben consapevole, e tuttavia non si
sottrae al compito di motivare pubblicamente le sue decisioni,
il che suggerisce che, almeno nella prima parte del dramma,
egli rappresenti la figura del capo politico responsabile, capa-
ce di prendere decisioni condivisibili, basate su buone ragio-
ni, ispirate alla salvaguardia del bene della città.

L’editto di Creonte e le leggi di Antigone.

Se, con le sue articolate argomentazioni, Creonte sembra


voler dimostrare che la sua decisione politica merita l’appro-
vazione dei Tebani, Antigone, come s’è visto, non si preoc-
cupa in alcun modo del giudizio altrui, ma si limita a prote-

4
M.P. PATTONI, op. cit., p. 11.
La trama 15

stare con i fatti. Soltanto nei celebri versi (vv. 450-458) in cui
s’assume pienamente la responsabilità del suo gesto, conte-
stando l’editto [kērygma] del sovrano e richiamandosi all’au-
torità superiore di usanze [nomima] non scritte, la parola di
Antigone si fa sentire in tutta la sua dirompente singolarità.
Ricostruiamo il contesto di questa scena chiave 5: Creonte
chiede ad Antigone se sia stata davvero lei a seppellire Poli-
nice (v. 442); Antigone non lo nega; allora il sovrano le do-
manda se conoscesse l’editto che vietava proprio ciò che lei
ha compiuto (vv. 445-446). Anche stavolta Antigone non ne-
ga, e anzi aggiunge: “Come avrei potuto ignorarlo? Era pub-
blico” (v. 448). A questo punto Creonte chiede di nuovo: “E
hai osato ugualmente trasgredire le leggi [yperbainein no-
mous]”? (v. 449). A quest’ultima domanda, Antigone dà la
sua notissima risposta: “Questo editto non Zeus proclamò per
me [ou gar ti moi Zeus ēn o kēruxas tade], né Dike, che abita
con gli dei sotterranei. No, essi non hanno sancito per gli
uomini queste leggi [nomous]; né avrei attribuito ai tuoi pro-
clami [kērygmata] tanta forza che un mortale potesse violare
[yperdramein] le leggi non scritte, incrollabili, degli dei
[agrapta kasphalē theōn nomima], che non da oggi né da ieri,
ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla
luce” (vv. 450-458).
Centrale è in questa risposta la contrapposizione tra il co-
mando politico (sia esso espresso nella forma del kērygma o
in quella del nomos) proveniente dal potere di volta in volta
 

5
“Nell’interrogatorio-istrutturia (tutto sommato, ampiamente ‘ga-
rantista’) al quale la sottopone Creonte, di fatto offrendole più d’una
via d’uscita, la rivendicazione di responsabilità che viene da Antigone
è tanto netta da non consentire altra alternativa alla condanna, se non
quella di una sorta di autosconfessione, assolutamente inconcepibile
da parte di un sovrano ormai portato a vedere in un eventuale ripen-
samento non un onorevole atto di umiltà, ma un disonorevole atto di
umiliazione”, E. Ripepe, op. cit., p. 710.

 
16 Il dilemma di Antigone

costituito e la fedeltà a usanze o leggi non scritte [agrapta


nomima] che vi si sottraggono e che anzi hanno la prerogati-
va di poterlo mettere in discussione. Si noti che la linea di
frattura tra le due forme di normatività non è la scrittura, co-
me molti commenti implicitamente fanno intendere. In realtà,
infatti, non è scritta neanche la disposizione di Creonte, che
più volte viene chiamata kērygma, cioè editto, e altre volte
nomos, legge. Non è questa la sua differenza rispetto ai no-
mima secolari, esistenti da tempo immemorabile, ai quali si
richiama Antigone. Scrive al riguardo Susanetti: “Nelle paro-
le della figlia di Edipo si è voluto vedere la contrapposizione
tra un diritto orale di tradizione aristocratica – che esige in
questo caso l’osservanza della sepoltura e dei propri privilegi
– e le leggi scritte della città democratica che si riconosce nel-
l’eguaglianza e nella coesione dei suoi membri. Ma la norma
posta da Creonte è orale tanto quanto le leggi degli dei. Il ri-
chiamo alle ‘norme che vivono da sempre’ è semmai una
mossa retorica di delegittimazione nei confronti dell’interlo-
cutore, di un Creonte che si è appena insediato al governo” 6.
Nella sua minuziosa analisi del lessico relativo alla legalità
e alla giustizia, utilizzato da Sofocle in questa tragedia, esa-
minando la contrapposizione tra il kērigma o il nomos di
Creonte e i nomima immemorabili evocati da Antigone, Fran-
çois Ost nota che “nomima ricorre una sola volta, ma in modo
essenziale. È la parola di Antigone. La parola che le viene al-
la bocca proprio quando nomos, che è utilizzato anche da
Creonte, non si rivela all’altezza delle sue esigenze. Antigone
non accetta il nomos di Creonte, l’editto politico che d’altron-
de chiamerà semplicemente ‘divieto’; così, per giustificare la
propria azione, si appella ad un altro registro normativo, ser-
 

6
D. SUSANETTI, “Di ciò che nasce morto. Il complesso di Antigo-
ne”, in SOFOCLE, Antigone, Introduzione, traduzione e commento di D.
Susanetti, cit., p. 37.
La trama 17

vendosi di un termine raro, che solo lei userà: nomima” 7.


Analogamente ai nomoi evocati dal Coro dell’Edipo Re 8, i
nomima di Antigone, in quanto non scritti, non presuppongo-
no una deliberazione cosciente e intenzionale. L’involucro
mitico della loro origine, che rimanda agli dei della città e
della tradizione, fa segno verso “una fonte dell’istituzione che
si situa al di là della coscienza lucida degli uomini quali legi-
slatori” 9 e perciò chiama in causa “la funzione immaginaria
dell’inconscio” 10, attraverso cui diviene possibile una presa
di distanza dal nomos vigente. Immaginarne la messa in di-
scussione è il primo passo della sua alterazione e trasforma-
zione. Le parole di Antigone attestano anzitutto il distacco
del singolo dal coinvolgimento che l’omologazione sociale
impone e produce come un riflesso condizionato. Per lei, il
nomos come sovranità della legislazione in quanto comando
politico non ha più l’ultima parola, ma deve rapportarsi a
principi atemporali che, rispetto al diritto imposto dal potere
vigente, costituiscono, come scrive F. Ost, “l’orizzonte ulti-
mo, la faccia nascosta, l’esigenza etica fondamentale che non
cessa di approfondirne le prescrizioni. Ora, a meno che non si
disfi della propria ombra, il diritto in vigore non potrà mai
pretendere di fare a meno del diritto ideale, per esempio per-
ché ne avrebbe soddisfatto integralmente i valori. È proprio

7
F. OST, Mosé, Eschilo, Sofocle. All’origine dell’immaginario giu-
ridico, trad. G. Viano Marogna, Il Mulino, Bologna 2007, p. 184.
8
“… le leggi che vigono eccelse, nell’alto dei cieli generate. L’O-
limpo soltanto ne è padre: non le produsse prole d’uomini effimeri, né
mai oblio le assopirà. Vive in esse un dio possente, che non invec-
chia”, SOFOCLE, Edipo Re, vv. 865-871. Si veda anche Edipo a Colo-
no, v. 1383.
9
C. CASTORIADIS, L’enigma del soggetto. Il sociale e le istituzioni,
a cura di F. CIARAMELLI, Dedalo, Bari 1998, p. 52.
10
C. CASTORIADIS, op. cit., p. 167.

 
18 Il dilemma di Antigone

questa, tuttavia, la pretesa dei despoti, e soprattutto di Creon-


te: chiudere il becco a tutti quelli che tentano di ricordare l’e-
sigenza di un diritto ‘altro’, mentre i loro editti esprimerebbe-
ro il bene, tutto il bene possibile per la città” 11. Per dirla in
altri termini, se l’editto di Creonte, in quanto diritto in vigore,
appartiene all’ordine istituito, i nomima di Antigone sono l’i-
stituente 12 che lo altera e destabilizza ma è anche il solo a po-
terlo legittimare. Al di qua dell’attività cosciente di istituzio-
nalizzazione, la legalità istituita si radica in un istituente che
ne mostra i limiti, lo destituisce della sua aura di assolutezza
e intoccabilità, permette di porre la domanda sulla sua legit-
timità e in tal modo lo rende trasformabile.
Questi pochi versi dell’Antigone (450-458) sono la sola
esplicitazione verbale che l’eroina fornisca del proprio gesto,
in una forma che tuttavia evita l’asserzione della sua univer-
salizzabilità. Antigone invece assume sino in fondo la singo-
larità d’un comportamento, che si sottrae radicalmente alla
logica del comando politico e che perciò non ricerca la pro-
pria legittimazione appellandosi all’autorità costituita.
La contrapposizione qui non ha luogo tra la norma posta
da Creonte e un diverso ambito normativo. La vera collisione
messa in scena dal dramma coinvolge, da un lato, la legge
pubblicamente bandita dal potere costituito e, dall’altro, la
singolarità di un’azione che la trasgredisce. Il contrasto si
svolge, dunque, tra la prescrizione formulata dal sovrano e
l’azione o il gesto singolo compiuto dall’eroina. Solo a cose
fatte, cioè solo dopo aver agito, Antigone, interrogata dal so-
vrano, che in questo caso svolge anche il ruolo di giudice,
parla del suo gesto per difendersi. Si rifiuta di sconfessare il
 

11
F. OST, op. cit., p. 192.
12
Cfr. F. OST, op. cit., p. 194. La traduzione italiana non è sempre
fedele all’originale: cfr. F. OST, Raconter la loi. Au sources de l’ima-
ginaire juridique, Odile Jacob, Paris 2004, p. 180
La trama 19

proprio operato, e assumendosene la responsabilità, ricorre a


una strategia retorica di delegittimazione del potere costituito,
facendo appello ai nomima immemorabili.
Torneremo in seguito su questo punto centrale, che costi-
tuisce senz’altro il cuore del dramma. Ciò che va ancora in
via preliminare sottolineato è il fatto che Antigone, anche
quando fa notare a Creonte che alcuni cittadini di Tebe ne
approvano l’operato, ma tacciono per compiacerlo (v. 508),
non ricerca affatto il loro avallo, né tantomeno intende dar ri-
lievo alla propria ‘popolarità’ sulla scena pubblica; anzi, nel
suo secondo dialogo con Ismene, fa chiaramente capire che
non le interessa in alcun modo l’assenso dei vivi (v. 557).
Questa intransigente e totale noncuranza per qualunque im-
plicazione diversa dalla realizzazione dell’unica cosa che le
stia davvero a cuore, cioè evitare a suo fratello una punizione
che in fin dei conti mira a distruggerne l’umanità, caratterizza
stabilmente l’atteggiamento di Antigone dall’inizio alla fine.
Emerge così una delle differenze fondamentali tra l’eroina
e Creonte: se la decisione risoluta della prima, nella sua secca
concisione, resta sempre ferma e irremovibile, la deliberazio-
ne di Creonte, pur inizialmente arricchita di motivazioni e ra-
gionamenti, si mantiene salda e tenace solo fino a un certo
punto, risultando alla lunga tutto meno che irrevocabile.

Dall’accecamento autoritario di Creonte alla sua inutile


revoca della condanna a morte di Antigone.

L’accecamento di Creonte, che prelude alla sua repentina


decisione di revocare la condanna a morte di Antigone (una
decisione che però giunge troppo tardi, quando Antigone è
ormai morta), incomincia già nel dialogo fortemente polemico
col figlio Emone, ch’è anche il fidanzato della fanciulla (vv.
631-765). Sofocle è molto abile nel mostrare fin dall’inizio del

 
20 Il dilemma di Antigone

confronto tra padre e figlio come Creonte abbia incominciato a


cambiare atteggiamento. Se nel discorso iniziale rivolto ai vec-
chi Tebani la sua preoccupazione fondamentale era la difesa
del bene pubblico, ciò che ora, parlando con suo figlio, egli in-
nanzitutto mostra di temere è il rischio che la sua autorità pos-
sa esser messa in discussione, dapprima all’interno della sua
stessa casa, poi nell’intera città. E questa paura l’esprime fin
dall’attacco del suo discorso a Emone: “O figlio, forse ti avvi-
cini pieno d’ira a tuo padre perché hai udito il verdetto inap-
pellabile che ha condannato la tua fidanzata?” (vv. 632-333).
Uno solo è il principio che, secondo Creonte, Emone deve
tener ben saldo dentro di sé, ed è il seguente: “assecondare in
tutto la volontà paterna” (v. 640). La subordinazione del fi-
glio al potere paterno sul piano domestico è, secondo Creon-
te, analoga e speculare alla necessaria subordinazione dei
sudditi al potere politico e alle decisioni di quest’ultimo.
Emerge qui tutta una “concezione disciplinare dei rapporti
politici: la disciplina deve regnare tanto nella famiglia, stam-
po in cui si formano i futuri cittadini, quanto nella città” 13.
Anche in questo contesto, Creonte non smette di argomenta-
re, ma lo fa ricorrendo esclusivamente al principio d’autorità:
“Se lascerò crescere l’insubordinazione nel seno stesso della
mia famiglia, cosa dovrò tollerare dagli estranei? Chi è sag-
gio verso i propri familiari si mostrerà giusto anche verso i
cittadini; ma chi trasgredisce e viola le leggi, o presume di
dare ordini ai capi, non avrà mai il mio consenso. No, a
chiunque la città abbia affidato il potere, a costui si deve ob-
bedienza nelle cose piccole e grandi, giuste o non giuste. […]
Non c’è male più grave dell’anarchia, che rovina le città, tur-
ba le famiglie, spezza i ranghi e provoca la fuga nel corso
della battaglia” (vv. 659-674).

13
F. OST, op. cit., p. 205.
La trama 21

Da queste parole, la posizione di Creonte emerge con


maggior chiarezza. Egli non si limita a difendere l’armonia
della polis, ma vuole altresì salvaguardare l’intangibilità di un
ordine autoritario e soprattutto profondamente misogino; guai
a farsi guidare da una donna, come ai suoi occhi finisce col
fare Emone: “Perciò bisogna sostenere le disposizioni del-
l’autorità, e a nessun costo lasciarsi vincere da una donna. È
pur sempre preferibile soccombere a un uomo, se è necessa-
rio: almeno nessuno dirà che siamo più deboli di una donna”
(vv. 677-680). Su questo punto il Coro, espressione del co-
mune sentire d’una società patriarcale, non esita a dargli ra-
gione (“Se la vecchiaia non ci inganna, ci sembra che tu ab-
bia parlato con saggezza”, vv. 680-81). In realtà, come osser-
va Susanetti, “il gesto compiuto da Antigone non solo fa va-
cillare l’ordine gerarchico della città, ma comporta implici-
tamente un’inversione di genere che strappa e modifica
l’identità sessuale dei personaggi coinvolti nella vicenda” 14.
In un mondo in cui le donne sono considerate per natura trop-
po deboli per ribellarsi a chi comanda (come sappiamo che,
fin dalla prima scena del dramma, sostiene Ismene, vv. 61-
62), “la trasgressione dell’editto virilizza Antigone e, per
converso, fa coincidere Creonte con l’inerme inferiorità del
femminile” 15.
L’ostinata difesa della propria decisione da parte di Creon-
te è dunque motivata anche da una precisa volontà di ribadire
la sua superiorità di genere, la cui messa a rischio sembra de-
stabilizzarlo e letteralmente angosciarlo. Si tocca qui un pun-
to nevralgico, su cui insiste molto la messinscena sofoclea.
Discende esclusivamente dal disagio di questa minaccia, che
lo colpisce nella sua identità profonda prima che nel suo ruo-

14
D. SUSANETTI, “Commento”, cit., p. 288.
15
Ibidem.

 
22 Il dilemma di Antigone

lo pubblico, l’infastidita sordità di Creonte alla considerazio-


ne ‘politica’ di Emone che gli suggerisce moderazione e pru-
denza in quanto in città si sta diffondendo il dubbio che la
condanna a morte di Antigone sia esagerata e arbitraria, e
perciò in ultima analisi empia. Gli dice Emone: “Io, tenen-
domi nell’ombra, posso udire tutto, e so quanto la città la-
menta che questa fanciulla, la più innocente di tutte le donne,
debba morire della morte più indegna per un atto così nobile”
(vv. 692-695). E perciò gli dà un consiglio: “Non trincerarti
nell’illusione che solo ciò che dici tu, e nient’altro, sia giu-
sto” (vv. 705-706). Anche in questo caso, il Coro non s’op-
pone al discorso appena pronunciato, ma, a testimonianza
d’una profonda spaccatura nelle opinioni diffuse in città, non si
esime dallo scagliare una lancia anche a favore di Emone, e
perciò, rivolgendosi a entrambi, dice: “È opportuno, mio so-
vrano, che tu impari da tuo figlio, se ha parlato a proposito, e
tu, Emone, da lui: entrambi avete parlato bene” (vv. 724-725).
Purtroppo, però, un simile atteggiamento di equidistanza,
che riconosca le ragioni di entrambi, risulta impraticabile in un
conflitto così radicale e devastante. Non c’è spazio per alcun
tipo di azione volta a favorire un accordo tra i litiganti, si rivela
impossibile smussare i contrasti che li contrappongono in mo-
do talmente radicale da impedire ogni punto di contatto. Cre-
onte ne è ben consapevole, solo lui ha tra le mani il bastone del
comando e per questa ragione non tollera alcun tipo di insu-
bordinazione, percepita come pericolosa minaccia al suo pote-
re di padre e di re. Perciò dà la stura a tutto il suo autoritari-
smo. Innanzitutto non è per nulla accettabile che un ragazzino
faccia la predica ad un uomo anziano, ch’è per giunta suo pa-
dre (v. 726-727); inoltre i ribelli non meritano alcun riguardo
(v. 730); infine, quando Emone gli fa notare che “tutto il popo-
lo di Tebe” nega che Antigone sia contagiata dalla malattia
della ribellione (v. 733), Creonte esclama sarcastico: “Sarà dun-
que la città a suggerirmi gli ordini che devo dare?” (v. 734).
La trama 23

Il Creonte che polemizza con Emone non è più il sovrano


che all’inizio del dramma intendeva ragionevolmente ante-
porre il bene pubblico all’interesse privato, il rispetto della
legge ai legami di sangue: è ormai un uomo di potere colpito
nel suo orgoglio di capo e di maschio, che confonde qualsiasi
dubbio sulle sue decisioni col pericolo dell’anarchia, che ve-
de con angoscia da ogni parte minacce alla sua autorità e alla
sua stessa virilità e che perciò alla fine reagisce alzando la
posta. Sicché, rivolto a un servo, perentoriamente gli ordina:
“Conducimi qua l’essere odioso, che muoia subito, davanti
agli occhi del fidanzato” (vv. 760-761).
Ebbene, proprio una simile determinazione, che fino a
questo punto era apparsa così irremovibile, incomincia a en-
trare in crisi nel corso del successivo dialogo tra Creonte e
Tiresia (vv. 988-1090). Applicando all’operato del sovrano lo
stesso criterio al quale quest’ultimo era ricorso per vietare la
sepoltura di Polinice, cioè il bene effettivo della polis, Tiresia
gliene imputa coerentemente la rovina: “La città è malata per
tuo volere” (v. 1015) e gli dimostra che, se il coefficiente di
giuridicità è l’efficacia realistica, proprio lui, Creonte, de-
v’esser condannato senz’appello – anzi dovrebbe condannarsi
da solo –, dal momento che il suo autoritarismo si sta rive-
lando del tutto inadeguato a governare la città. Ma all’indo-
vino cieco che lo mette in guardia dalla “obiettiva dismisu-
ra” 16 delle sue azioni e che vorrebbe indurlo a più miti con-
sigli, preannunciandogli le conseguenze catastrofiche della
sua risoluzione, il sovrano, fino ad allora così disposto ad ar-
gomentare in difesa del suo operato, replica unicamente con
la derisione e l’insulto.
A questo punto gli eventi precipitano e lo travolgono. Per-
 

16
B. MONANARI, “Ordine e sapienza: la solitudine di Creonte”, in
La norma subita, a cura di B. MONTANARI, Giappichelli, Torino 1993,
pp. 27-54, qui p. 51.

 
24 Il dilemma di Antigone

ciò, poco dopo, su suggerimento del corifeo, un Creonte or-


mai profondamente turbato e assai meno sicuro di sé, si piega
alla revoca del bando, una revoca però resa purtroppo inutile
dal fatto che Antigone, nel frattempo condotta nel luogo del
suo supplizio (dove avrebbe dovuto essere murata viva), s’è
già uccisa (vv. 1108-1114).
È da notare che Creonte non accompagna con nessuna ar-
gomentazione razionale la sua inopinata deliberazione di an-
nullare la condanna a morte di Antigone; sicché questa deci-
sione improvvisa appare come un estemporaneo voltafaccia,
fino a poco prima del tutto imprevedibile e impensabile. A
fargli mutare la sua risoluzione, infatti, non sono stati i circo-
stanziati ragionamenti dei suoi interlocutori né i loro ripetuti
inviti alla prudenza, ma – come sottolinea Eugenio Ripepe –
“la sopravvenuta sensazione, che ben presto diventa la tragica
constatazione, di aver sfidato un potere più grande del suo, di
aver infranto norme anche per lui vincolanti, attirandosi una
sanzione alla quale non è in grado di opporre resistenza” 17. Il
susseguirsi delle sventure che colpiscono la sua famiglia – il
suicidio del figlio Emone e subito dopo quello della moglie
Euridice – va ai suoi occhi ricondotto alla forza maggiore del
fato o degli dei, superiore all’autorità che lui stesso incarna
nella polis. E proprio per questo, ma solo per questo, Creonte
revoca il bando, senza però cambiare idea, cioè senza espri-
mere alcun ripensamento o alcuna sconfessione delle ragioni
che precedentemente lo avevano indotto a emanarlo e a di-
fenderlo, rifiutando tenacemente gli inviti a ripensarci prove-
nienti da Emone, da Tiresia e dal Coro dei vecchi Tebani.

17
E. RIPEPE, op. cit., pp. 708-9.
La trama 25

La solitudine di Creonte.

Eppure c’è un punto in cui Creonte sembra far sua la posi-


zione di Antigone: “Ora che ho mutato sentenza, io stesso la
libererò così come la imprigionai. Temo che sia meglio osser-
vare fino al termine della propria vita le leggi stabilite (tous
kathestōtas nomous)” (vv. 1111-1114). Le “leggi stabilite”, su
cui ora ripiega lo stesso sovrano, coincidono esattamente con
le usanze o consuetudini d’origine immemorabile, alle quali
s’appellava Antigone. Ma dietro queste parole non c’è alcun
ripensamento sostanziale delle sue precedenti prese di posi-
zione. In realtà, se Creonte finisce “per cedere (v. 1095), crol-
lando brutalmente, lasciando lo Stato privo di eredi, non è
perché sia stato convinto dal lavoro persuasivo della ragione e
dalle virtù del dialogo, ma perché il rapporto di forze – la sola
logica che comprenda – gli è divenuto sfavorevole” 18.
Benché dunque solo Antigone resti irremovibile, tuttavia
ciò che sicuramente l’accomuna a Creonte è il fatto che in en-
trambi sia totalmente assente ogni tipo di messa in discussio-
ne della propria decisione fondamentale. La logica che ispira
il loro comportamento è sempre la stessa. In Antigone preva-
le dall’inizio alla fine la fedeltà agli affetti familiari, in
Creonte prevalgono invece la passione politica e l’attacca-
mento al potere.
Alla fine è unicamente la forza degli eventi e non la per-
suasione – come esito della comunicazione e del dialogo in-
tersoggettivo – che conduce Creonte a riconoscere i suoi erro-
ri, cosa che accade quando egli entra in scena recando tra le
braccia il corpo ancora caldo del figlio Emone, che sotto i
suoi occhi s’era appena tolto la vita davanti a un’Antigone
ormai morta, appesa per il collo ad un laccio di lino. Allora

18
F. OST, op. cit., pp. 209-210.

 
26 Il dilemma di Antigone

Creonte esclama: “Ah, errori [hamartēmata] ostinati, errori


fatali della mia mente dissennata. Guardate! Uccisori e uccisi
dello stesso sangue. Ahimè, infausta decisione! Ah, figlio, di
morte immatura giovane sei morto – ahimè ahimè – te ne sei
andato, per la mia, non per la tua follia [dysbouliais]”; e il
Coro, rivolgendosi al sovrano, immediatamente conclude:
“Ahimè quanto in ritardo riconosci il giusto [tēn dikēn]” (vv.
1265-1270).
Sofocle coglie qui una caratteristica ricorrente della vita
quotidiana: lo stato d’emergenza colpisce direttamente la sfe-
ra emotiva, facendo venir meno la coerenza razionale tra le
proprie convinzioni e i propri comportamenti. Questi ultimi si
modificano, senza che ciò comporti un’analoga ed esplicita
trasformazione delle convinzioni che li precedono e li moti-
vano. Una simile incoerenza, così diffusa tra gli esseri umani
e così evidente in Creonte, è tuttavia del tutto assente nel caso
di Antigone: ed è questa sua incrollabile linearità che la rende
moralmente superiore a Creonte, cioè molto più di lui degna
d’ammirazione 19.
E così, alla fine, Creonte resta solo. Lui che – come gli
aveva contestato Emone – avrebbe voluto “esser saggio da
solo [phronein monos]” (v. 707) e perciò – sono ancora paro-
le del figlio – avrebbe dovuto “regnare in un deserto” (v.
739), è l’unico che sopravvive: ma questa è la sua terribile
condanna. Come ha scritto Massimo Cacciari, “a lui non è
concesso il farmaco della morte. Il genio di Sofocle ha colto
qui il punto essenziale; la tensione tragica si sarebbe spezzata
 

19
Questo aspetto, in nome del quale la vera eroina tragica è Anti-
gone, mentre Creonte è solo un anti-eroe, è sottolineato con grande
insistenza dall’interpretazione psicoanalitica del dramma proposta da
Jacques Lacan, troppo complessa per essere qui riassunta in poche
battute e che perciò sarà analizzata e discussa nel seguito (cfr. infra,
capitolo sesto).
La trama 27

se anche Creonte avesse posto fine ai suoi giorni. Creonte


credeva che solo la polis salvasse, ed esperimenta ora, suo
malgrado, che solo la polis sopravvive. Poiché nella polis sol-
tanto ha ‘creduto’, ora deve dividerne il destino” 20.

20
M. CACCIARI, “La parola che uccide”, in SOFOCLE, Antigone, a
cura di M. CACCIARI, cit., p. XIII.

 
28 Il dilemma di Antigone
CAPITOLO SECONDO
I TERMINI DEL CONFLITTO

Il dilemma del nomos: è possibile o meno una risposta universale


ed evidente alla domanda sulla giustizia delle leggi?
Breve digressione sul totalitarismo in quanto annullamento della
distinzione tra legalità e legittimità
Opposizioni non negoziabili
La democrazia come regime dell’autolimitazione
La hybris e le sue implicazioni filosofiche.
La prassi e la possibilità etica del suo autocontrollo sono l’unico
luogo d’elaborazione del conflitto tragico
Antigone e Ceonte: un dialogo di sordi
Il conflitto irrisolto
Il dilemma del nomos: è possibile o meno una risposta
universale ed evidente alla domanda sulla giustizia delle
leggi?

In linea generale, in ogni agglomerato sociale vige una


qualche forma di legalità, che però non viene necessariamen-
te considerata effetto d’un intervento umano. Nonostante ciò,
la legalità vigente come dato di fatto è sempre il punto d’arrivo
d’una più o meno complessa elaborazione sociale, anche quan-
do non sia riconosciuta esplicitamente come tale e non siano
formalizzate e rese pubblicamente controllabili – cioè non
siano istituzionalizzate – le concrete modalità della sua istitu-
zione. È qui sottinteso un passaggio decisivo dalla domanda
sulla validità delle norme a quella sulla legittimità dell’intero
sistema normativo. La prima si situa sul piano procedurale ed è
interna al sistema giuridico; la seconda ricerca la “fondazione
metasistematica del principio fondamentale del sistema”, il che
di fatto la conduce a mettere a fuoco il significato e le implica-
zioni della “legittimazione del diritto positivo” 1.

1
U. SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico (1965), a cura di A.
CATANIA-M. JORI, Editoriale Scientifica, Napoli 1997, pp. 129-130.
Scarpelli restringe l’applicazione del concetto di validità (propriamen-
te detta) alle singole norme del diritto, e riserva la nozione di legitti-
mità per indicare la “validità” (impropriamente detta) dell’intero si-
stema giuridico. Egli scrive: “La funzione di un titolo di legittimità
rispetto ad un sistema di diritto positivo è appunto quella di giustifi-
carne l’assunzione a guida dei comportamenti e criterio per giudicare
delle norme di quel sistema” (ivi, p. 129). Per un approfondimento
dell’arcipelago concettuale connesso alla nozione di legittimità, cfr. S.
32 Il dilemma di Antigone

Nei regimi democratici, caratterizzati dall’esclusione espli-


cita d’ogni elaborazione extra-sociale della legalità, i conso-
ciati non possono non interrogarsi criticamente e riflettere
pubblicamente sulla giustificazione di quest’ultima, alimen-
tando così l’interminabile discussione sulla legittimità del-
l’ordinamento giuridico.
Ed è esattamente questo il contesto – il solo contesto – al
cui interno emerge l’alternativa che s’esprime nel dilemma
fondamentale del nomos: è possibile o meno, rispetto agli atti
della legislazione come comando politico, esibirne una giusti-
ficazione teoretico-conoscitiva, in ultima analisi intuitiva, che
consenta perciò di rispondere una volta per tutte alla doman-
da sulla giustizia delle leggi in nome dell’evidenza del vero?
C’è o non c’è una legittimazione oggettiva, cioè universale e
necessaria, e quindi in definitiva insindacabile, della legalità
istituita? E se una simile unità di misura universale e necessa-
ria non esiste, è ancora possibile distinguere tra leggi vigenti
e giustizia (o tra legalità e legittimità) e soprattutto sostenere
che tra di esse vi sia uno scarto incolmabile che rende il con-
flitto ineliminabile e fa sempre di nuovo rinascere l’esigenza
d’una sua mediazione giuridica 2?

CASTIGNONE, “Legalità, legittimità, legittimazione”, in Sociologia del


diritto IV, 1977, n. 1, pp. 19-38.
2
Sull’esigenza della mediazione fatta valere dal pensiero dei giuri-
sti nel processo di costituzione delle moderne liberal-democrazie, ha
molto insistito Biagio de Giovanni nel suo recente e fecondissimo ‘ri-
torno’ alla filosofia del diritto: cfr. B. DE GIOVANNI, Alle origini della
democrazia di massa. I filosofi e i giuristi, Editoriale Scientifica, Na-
poli 2013 e ID., Elogio della sovranità politica, Editoriale Scientifica,
Napoli 2015.
I termini del conflitto 33

Breve digressione sul totalitarismo in quanto annulla-


mento della distinzione tra legalità e legittimità.

L’esperienza storica della polis greca è soltanto il contesto


in cui originariamente si presenta il dilemma del nomos, che
però non vi si riduce. La sua portata è intrinsecamente con-
nessa all’esperienza della democrazia, come si evince con
grande chiarezza dall’esame delle conseguenze della sistema-
tica negazione di quest’ultima negli Stati totalitari del ventesi-
mo secolo. Con la distruzione della democrazia viene meno
ogni possibile distinzione tra legalità e legittimità, senza di cui
un dramma come quello di Antigone non avrebbe più senso.
È stata Hannah Arendt, all’indomani dei massacri della
seconda guerra mondiale, a mostrare in che modo l’ideologia
totalitaria, con la sua pretesa d’abolire una volta per tutte la
distinzione tra legalità e legittimità, abbia finito col distrugge-
re il dilemma del nomos, demolendo drasticamente la duplici-
tà semantica che attraversa la stessa nozione di legge. Dive-
nuta in tal modo irrealizzabile ogni interrogazione critica sul
nomos, in quanto quest’ultimo non viene più considerato co-
me un’istituzione umana ma come il riflesso immediato d’una
legalità sovrumana, universale e immodificabile, risulta radi-
calmente esclusa la possibilità stessa di mettere in discussio-
ne lo stato di cose esistente.
In realtà, come argomenta Hannah Arendt, contrariamente
alle apparenze, i regimi totalitari non sono “anomici” e perciò
vanno ben distinti dalle esperienze precedenti delle dittature,
delle tirannidi o dei dispotismi, caratterizzate tutte dall’arbi-
trio del potere vittorioso e vigente. Al contrario, lungi dal-
l’essere arbitraria, la dominazione totalitaria pretende di ob-
bedire in modo rigoroso e inequivocabile alle superiori leggi
della Natura (nel caso del nazismo) o della Storia (nel caso
dello stalinismo). Il governo totalitario sostiene infatti di ab-

 
34 Il dilemma di Antigone

beverarsi direttamente alle “fonti dell’autorità da cui il diritto


positivo ha ricevuto la sua legittimazione”. Continua Hannah
Arendt: “La noncuranza per le leggi positive pretende di esse-
re una forma superiore di legittimità [legitimacy] che, ispi-
randosi alle fonti, può fare a meno della meschina legalità. La
conformità alla legge propria del totalitarismo [Totalitarian
lawfulness] si vanta di aver trovato il modo per instaurare
l’impero della giustizia sulla terra, qualcosa che la legalità del
diritto positivo non è mai riuscita ad ottenere” 3.
Discende da qui una “differenza sostanziale tra la conce-
zione totalitaria del diritto e le altre” 4. Il regime totalitario
annulla il dilemma del nomos, dal momento che comporta
l’identificazione completa tra il fatto e il diritto, cioè tra l’es-
sere umano e la legge, e di conseguenza abolisce la possibili-
tà stessa d’un divario tra legalità e giustizia; esso inoltre pre-
tende di svincolare “dall’azione e dalla volontà dell’uomo”
l’adempimento del diritto o la conformità alla legge (the ful-
fillment of law) 5, riducendone la realizzazione a un insieme
di automatismi. L’essere umano, ormai sprovvisto di iniziati-
va e unicità, e perciò incapace di azione, diventerebbe nei
suoi comportamenti standardizzati l’incarnazione compiuta
della legge.
In tal modo, scompaiono i prerequisiti stessi del dilemma
del nomos. Quest’ultimo, infatti, vive della tensione tra lega-
lità e legittimità (o giustizia), il cui divario, nella tradizione
demolita dal totalitarismo, per definizione non poteva essere
colmato “perché i principi di giusto e ingiusto, in cui il diritto
positivo traduce la propria fonte di autorità (la ‘legge natura-
 

3
H. ARENDT, Le origini del totalitarismo (1951 e 1958), trad. A.
Guadagnin, Edizioni Comunità, Torino 1999, p. 632.
4
Ivi, p. 633.
5
Ivi, p. 633.
I termini del conflitto 35

le’ che governa l’intero universo, o la legge divina rivelata


nella storia umana, o i costumi e le tradizioni manifestanti la
legge comune ai sentimenti di tutti gli uomini) sono necessa-
riamente generali e devono essere validi per un imprevedibile
numero di casi, di modo che ogni singolo caso concreto con
la sua irripetibile serie di circostanze li elude” 6.
In un regime democratico, la legalità istituita, dal momen-
to che essa non incarna – né tantomeno discende da – alcuna
legislazione universale e necessaria, comporta inevitabilmen-
te il problema della propria giustificazione. All’orizzonte del-
la riflessione sul dilemma del nomos c’è dunque l’indetermi-
natezza dell’agire umano, attraversato da un radicale poter-
essere-altrimenti, base di ogni possibile iniziativa politica e
giuridica, che invece l’identificazione totalitaria di essere
umano e legge s’accanisce a distruggere, senza tuttavia riu-
scirci completamente.
Infatti, nonostante le pretese del totalitarismo, la legalità
istituita non si lascia ricondurre a – e insindacabilmente fon-
dare su – un’unica origine ontologica legittimante. Questa
impossibilità di fornire alla legalità socialmente istituita una
base incontrovertibile, universale e necessaria, sottratta una
volta per tutte al dibattito pubblico, al confronto di opinioni e
in ultima analisi al conflitto, trova nell’Antigone un riferi-
mento emblematico.

Opposizioni non negoziabili.

L’enorme fortuna dell’Antigone ha dato luogo a innume-

6
Ivi, p. 632. Sulle implicazioni filosofico-giuridiche dell’analisi
arendtiana del totalitarismo, cfr. F. CIARAMELLI, “Hannah Arendt et la
portée politique de la loi”, in Cités, Puf, Paris, 2016, n. 67, pp. 47-57.

 
36 Il dilemma di Antigone

revoli interpretazioni e riscritture, di cui un critico letterario


di vaglia come George Steiner, ha fornito un articolato inven-
tario 7. Tra i tanti elementi ricorrenti che è possibile ritrovare
nei riferimenti moderni al dramma sofocleo, si rivela partico-
larmente significativa, ai fini della rilettura filosofico-giuri-
dica che qui interessa proporne, la sottolineatura della dimen-
sione conflittuale dell’esistenza umana, in cui probabilmente
si radica la principale ragione della persistente attualità del-
l’Antigone. Scrive Steiner: “A un solo testo letterario, credo,
è stato concesso di esprimere tutte le costanti principali del
conflitto presente nella condizione umana. Queste costanti
sono cinque: l’opposizione uomo-donna; vecchiaia-giovinez-
za; società-individuo; vivi-morti; uomini-divinità. I conflitti
che derivano da questi cinque ordini di opposizioni non sono
negoziabili” 8.
Affrontare la drasticità di simili collisioni fuoriesce dalle
competenze e dallo stesso potere della conoscenza teoretica o
speculativa, che mira alla comprensione dell’essere nel suo
fondamento e nelle sue differenti articolazioni. Le tensioni e
le opposizioni che emergono dall’Antigone esprimono le in-
certezze e l’indeterminatezza dell’azione umana nella loro
specifica irriducibilità, e per questa ragione trovano il loro
luogo d’elaborazione più appropriato nello spazio scenico del
teatro, anziché in quello concettuale della speculazione onto-
logica. Al loro cospetto, infatti, l’ontologia come intelligenza
 

7
G. STEINER, Le Antigoni, trad. N. Marini, Garzanti, Milano 1990.
Oltre all’ampia rassegna di C. MOLINARI, Storia di Antigone da Sofo-
cle al Living Theatre. Un mito occidentale, De Donato, Bari 1977, si
possono consultare inoltre i lavori di A.M. BELARDINELLI-G. GRECO (a
cura di), Antigone e le Antigoni. Storia, forme, fortuna di un mito, Le
Monnier, Firenze 2010 e di S. FORNARO, Antigone. Storia di un mito,
Carocci, Roma 2012.
8
G. STEINER, op. cit., p. 260.
I termini del conflitto 37

della realtà è messa fuori gioco e si rivela impotente. Ecco


perché non è neanche ipotizzabile che le collisioni tragiche
possano essere governate (e tantomeno ‘risolte’) dal sapere
ontologico-speculativo. S’impone quindi il ricorso a ciò che
Aristotele intendeva per phronēsis, termine tradotto in latino
con prudentia 9, cioè a una forma di saggezza pratica in quan-
to sola risorsa capace di consentire all’azione, attraverso l’au-
tocontrollo e l’autolimitazione, di far fronte alla dimensione
radicalmente conflittuale della condizione umana.
“Se la tragedia di Antigone può ancora offrirci un inse-
gnamento, è perché il contenuto del conflitto – malgrado il
carattere perduto e non ripetibile del fondo mitico da cui
emerge e del contesto festivo che circonda la celebrazione
dello spettacolo – ha conservato una sua permanenza incan-
cellabile. La tragedia di Antigone tocca quello che con Stei-
ner possiamo chiamare il fondo agonistico della prova uma-
na” 10. Poiché nessuna teorizzazione riesce a proporne una
volta per tutte una ‘soluzione’ evidente e definitiva, l’inse-
gnamento dell’Antigone ha un carattere eminentemente etico
o pratico e non ontologico-speculativo. Più precisamente, ciò
che in essa è in gioco non è la conoscenza della realtà, la
comprensione della verità o la scoperta d’uno stato di cose
nascosto, ma l’esigenza d’un modo di vita che si riveli capace
d’attraversare i conflitti della condizione umana senza farsene
travolgere. È qui in gioco il rapporto tra le azioni umane e il
loro limite che, come un’insuperabile linea dell’orizzonte,
possa circoscriverne i conflitti e le opposizioni: un limite che,

9
Cfr. P. AUBENQUE, La prudence chez Aristote, Puf, Paris 1986.
10
P. RICŒUR, “Le tragique de l’action”, in ID., Soi-même comme
un autre, Seuil, Paris 1990, p. 283. Nelle poche pagine di questo in-
tenso interludio (pp. 281-290), Ricœur fornisce una rilettura filosofica
dell’Antigone concisa e penetrante.

 
38 Il dilemma di Antigone

però, si presenta come un’esigenza etica da soddisfare e non


come un a priori da constatare, scoprire, indagare nella sua
universalità necessaria e quindi nelle sue costanti condizioni
di possibilità. Non si tratta, insomma, d’un limite oggettivo:
sarebbe illusorio considerarlo come un’essenza universale,
preliminarmente già data e perciò necessariamente implicata
dall’ontologia in quanto intelligenza dell’essere. Si tratta, al
contrario, di un’esigenza che l’agire umano, con le sue elabo-
razioni concrete, deve di volta in volta soddisfare: esigenza
etica d’un limite che può emergere solo dalla prassi, ma che
quest’ultima, proprio perché ne è l’unico luogo di produzio-
ne, può anche, tragicamente, ignorare e trasgredire. Come
conclude Ricœur, “l’istruzione dell’etico da parte del tragico
procede dal riconoscimento di questo limite” 11, e quindi dalla
consapevolezza che il fondo agonistico della prova umana
non può essere oltrepassato e dissolto dall’intelligenza del-
l’essere o dalla scoperta della verità, cioè in definitiva dalle
pretese ontologiche della filosofia teoretica o speculativa. Ri-
conoscere questa esigenza del limite, assumersi la responsa-
bilità di istituirlo: in questo duplice risultato consiste l’inse-
gnamento della tragedia, che perciò si situa nell’ambito della
filosofia pratica.

La democrazia come regime dell’autolimitazione.

Alla trasversalità del conflitto va anche aggiunta la sua


ineliminabilità alla base della prassi, in quanto premessa della
democrazia, che costituisce a sua volta l’unico terreno di col-
tura del teatro tragico. “In una società democratica, il popolo
può fare qualunque cosa, ed è tenuto a sapere che non deve
 

11
Ivi, p. 285.
I termini del conflitto 39

fare qualunque cosa. La democrazia è il regime dell’autoli-


mitazione, e dunque anche il regime del rischio storico, il che
equivale a dire che è il regime della libertà nonché un regime
tragico. Il destino della democrazia ateniese ne è un’illustra-
zione” 12.
In un regime democratico, spetta al potere politico – e
quindi al dēmos – il compito di elaborare e di conseguenza
istituire la propria autolimitazione, dal momento che la for-
ma di vita democratica presuppone l’assenza d’un fonda-
mento ontologico-conoscitivo in quanto schema o modello
ultimo dell’ordine dei significati, di cui le azioni umane do-
vrebbero costituire l’applicazione o la messa in opera. A dire
il vero, l’oggettività universale dei significati, radicata nella
realtà e resa accessibile dall’evidenza, è esattamente ciò di
cui è sprovvista l’esperienza umana. Di conseguenza, l’ordi-
ne del senso e dei significati è ciò che gli esseri umani, vi-
vendo in società, hanno il compito di elaborare e istituire at-
traverso la prassi collettiva, fatta di interlocuzioni e intera-
zioni. In questo senso, la stessa la democrazia “è un regime
tragico. E il senso della tragedia sta nel fatto che il problema
dell’uomo è la hybris: non c’è, infatti, una regola ultima cui
egli possa riferirsi per sfuggirvi” 13. L’impossibilità di trac-
ciare una volta per tutte e in maniera evidente i limiti della
politica – cioè i limiti del potere sovrano – non esonera in al-
cun modo la società democratica dall’arduo e difficile com-
pito di istituirli e rispettarli. Situazione del tutto paradossale,
alla quale impone di riflettere radicalmente l’esito catastrofi-
co dell’Antigone.

12
C. CASTORIADIS, L’enigma del soggetto, cit., p. 215.
13
C. CASTORIADIS, La rivoluzione democratica. Teoria e progetto
dell’autogoverno, a cura di F. CIARAMELLI, Eleuthera, Milano 2001,
p. 33.

 
40 Il dilemma di Antigone

La hybris e le sue implicazioni filosofiche.

Ma che cos’è la hybris? A che cosa allude la sua centralità,


indispensabile per comprendere il conflitto messo in scena
dalla tragedia? Questa parola-chiave – che può tradursi con
termini quali soverchieria, temerità, superbia, tracotanza o
protervia – allude all’eccesso o alla dismisura dell’azione
umana, quindi all’arrogante disconoscimento dei suoi limiti, i
quali ultimi, tuttavia, non risultano preventivamente fissati e
stabiliti una volta per tutte; perciò l’aspetto oltraggioso e smi-
surato della hybris, anziché riferirsi a una trasgressione di li-
miti predeterminati, riguarda il fallimento dell’agire nell’indi-
spensabile elaborazione dei propri limiti, cioè nella sua auto-
limitazione.
Ovviamente la hybris ha fondamentali implicazioni mora-
li, ma – e questo aspetto risulta decisivo al fine di compren-
derne la portata specifica – non presuppone nessuna “morale”
codificata o nessuna “legge morale” preesistente; essa non è
preceduta da nessun codice preliminare di regole di condotta
che l’azione eccessiva avrebbe violato. La hybris non si ridu-
ce quindi alla trasgressione di una o di molte prescrizioni o
norme preesistenti, che dovrebbero regolare l’azione, dal mo-
mento che essa presuppone non solo la libertà ma soprattutto
“l’indeterminatezza di fondo nei riferimenti ultimi del nostro
agire […]. La trasgressione della legge non è hybris: è
un’infrazione definita e limitata. Ci può essere hybris solo
quando l’autolimitazione sarebbe l’unica ‘norma’, quando
vengono trasgrediti limiti che non erano definiti da nessuna
parte” 14.
Ragionare come se la hybris fosse l’equivalente greco o
pagano della nozione di “peccato” proveniente dalla tradizio-

14
C. CASTORIADIS, L’enigma del soggetto, cit., p. 215.
I termini del conflitto 41

ne ebraico-cristiana, significa non cogliere la radicale tragici-


tà dell’esistenza umana, elaborata dall’immaginario greco. La
nozione di “peccato”, inteso come il venir meno d’un impe-
gno attraverso la trasgressione di un interdetto, presuppone
un patto o un’alleanza tra Dio e il popolo, da cui discende un
insieme di norme di condotta che preesistono alla particolari-
tà e concretezza dell’azione umana, sia individuale sia collet-
tiva. Il presupposto d’un principio d’ordine preliminare è del
tutto assente dall’orizzonte della hybris, che perciò va intesa
come fallimento dell’agire umano nella necessaria ricerca di
un’autolimitazione proprio laddove manca la fissazione pre-
liminare e oggettiva del suo limite, e perciò l’elaborazione di
quest’ultimo – cioè la stessa istituzione del limite – è al tem-
po stesso meno garantita ma molto più urgente.
Il ruolo capitale della hybris nell’immaginario greco auto-
rizza a concludere che la Grecia classica “è innanzitutto e per
prima cosa una cultura tragica. Quel che fa greca la Grecia
non è la misura e l’armonia, né un’evidenza della verità come
‘disvelamento’. Quel che fa greca la Grecia è la questione del
non-senso o del non-essere. L’esperienza greca fondamentale
è lo svelamento non già dell’essere e del senso, ma del non-
senso irremissibile” 15.
Ciò consente di approfondire la demarcazione tra la hybris
(la dismisura dell’agire, da intendersi rigorosamente come in-
successo dell’autolimitazione in assenza d’una preesistente
indicazione univoca dei limiti dell’azione umana) e l’infra-
zione d’una legge universale, preliminarmente data. Al ri-
guardo, non bisogna lasciarsi fuorviare dall’identità della pa-
rola hamartia, che nel greco delle epistole di San Paolo – si
 

15
C. CASTORIADIS, Ce qui fait la Grèce. 1. D’Homère à Héraclite,
Séminaires 1982-1983 (La création humaine II), a cura di E. ESCO-
BAR-M. GONDICAS-P. VERNAY, preceduto da P. VIDAL-NAQUET, “Cas-
toriadis et la Grèce ancienne”, Seuil, Paris 2004, p. 278.

 
42 Il dilemma di Antigone

pensi al celebre capitolo VII dell’Epistola ai Romani – e in


generale nel Nuovo Testamento indica il “peccato” come tra-
sgressione della legge divina, mentre nella Poetica (52 a) di
Aristotele indica l’“errore” compiuto dall’eroe tragico, quindi
l’atto concreto che materializza la sua hybris. L’identità del
termine, in due contesti storico-culturali tanto diversi, allude
a due esperienze altrettanto irriducibili. Nel primo caso, ha-
martia presuppone la donazione agli uomini della legge divi-
na e ne indica la trasgressione; nel secondo caso, in assenza
d’una preliminare e univoca espressione del limite, hamartia
fa riferimento al fallimento dell’autolimitazione dell’agire.
Nel far discendere dall’intreccio messo in scena dalla tra-
gedia l’esigenza d’un autocontrollo della prassi, reso tanto
più difficile e urgente dalla mancanza d’un modello ideale da
mettere in opera, consiste per Aristotele l’insegnamento mo-
rale della tragedia. Nell’impostazione aristotelica del proble-
ma, si prendono radicalmente le distanze da Platone, e soprat-
tutto dalla diffidenza di quest’ultimo nei riguardi dei poeti
tragici, che, com’è noto, dovevano essere banditi dalla Città
delineata tanto nella Repubblica quanto nelle Leggi. Per Ari-
stotele, all’opposto di Platone, “la messincena tragica è ricca
d’insegnamenti perché attesta l’impossibilità di ridurre l’azio-
ne, che è sempre interazione e al tempo stesso interlocuzione,
all’applicazione tecnica di un sapere acquisito o alla messa-
in-opera di modelli evidenti” 16. In un contesto del genere,
l’errore dell’eroe tragico, cioè “l’hamartia – letteralmente il
fatto di mancare il bersaglio – è sempre possibile. Il perso-
naggio tragico è colui che, situandosi nell’intervallo tra
l’ēthos (il ‘carattere’ in quanto insieme di buone abitudini e
opzioni in vista dell’agire-bene) e l’eudaimonia (la ‘felicità’,

16
J. TAMINIAUX, Le théâtre des philosophes: la tragédie, l’être,
l’action, Jérôme Millon, Grenoble 1995, p. 55.
I termini del conflitto 43

cioè la prassi ben riuscita), via di mezzo che occupano tutti


quelli che interagiscono, è in balia di quell’insuccesso per il
quale, senza meritare la sua sventura, di quest’ultima è tutta-
via l’autore [est à la merci de ce raté qui fait que sans mériter
son infortune elle est cependant de son fait]. Scongiurare l’ha-
martia sempre possibile, nella quale si condensano le avversi-
tà della tychē (sorte), ecco dunque per Aristotele la lezione
che la tragedia elargisce ai cittadini riuniti in assemblea, attra-
verso il canale intermedio della pietà – per la sventura imme-
ritata – e del timore – perché una cosa del genere può capitare
anche a me – che sono entrambi fattori di lucidità” 17.
La dimensione prasseologica della tragedia comporta la
centralità della phronēsis o saggezza pratica. Quest’ultima,
nell’accezione aristotelica, e dunque in quanto “perspicacia
deliberativa, radicalmente temporale e rivolta ai casi concreti,
inglobante l’insieme della vita e legata a una pluralità” 18, co-
stituisce una virtù intellettuale interamente “riferita allo spa-
zio delle apparenze e alla prassi che vi si inscrive” 19. La
phronēsis è ciò che “emerge indirettamente dalla descrizione
dell’intreccio che Aristotele considera l’imitazione tragica
della prassi. Rendendo giustizia a tutta la fragilità della prassi
interlocutoria e plurale, la misura a propria volta fragile della
phronēsis sarebbe allora il solo modo possibile di scongiurare
l’hamartia” 20.
L’assenza di capisaldi ontologici, universali e necessari, ai
quali gli individui agenti nello spazio pubblico della Città
dovrebbero conformarsi, costituisce la premessa radicale del-
la tragedia. Quest’ultima è in realtà una creazione della de-
 

17
J. TAMINIAUX, Le théâtre des philosophes, cit., p. 58.
18
Ivi, p. 68.
19
Ivi, p. 65.
20
Ivi, p. 68.

 
44 Il dilemma di Antigone

mocrazia in quanto “regime che rischia di propria iniziativa.


La democrazia non è garantita contro sé stessa. Gli altri regi-
mi non conoscono il rischio, vivendo nella certezza della ser-
vitù. Come la democrazia, neanche gli altri regimi sono ga-
rantiti contro sé stessi, ma ciò che garantiscono a tutti è
l’asservimento” 21. Alla stregua dell’azione individuale, irri-
ducibile alla messa in opera d’un modello ideale preliminar-
mente dato, la democrazia è l’attività collettiva al cui interno
l’istituzione delle leggi deriva esclusivamente dall’interlocu-
zione e interazione conflittuale dei cittadini. Le nozioni di au-
tonomia e autolimitazione s’impongono qui congiuntamente.
La città, essendo la fonte delle proprie norme, non potrà mai
sottrarsi alla questione dei limiti della propria attività auto-
noma. Su questo piano, la tragedia svolge un ruolo decisivo
in quanto vera e propria “istituzione di autolimitazione” 22.

La prassi e la possibilità etica del suo autocontrollo so-


no l’unico luogo d’elaborazione del conflitto tragico.

Il solo modo per fronteggiare la hybris, cioè la dismisura o


tracotanza che conduce la città alla rovina, consiste nel per-
seguire l’autocontrollo delle azioni e l’autolimitazione delle
proprie pretese, pur sapendo che di questa esigenza etica e
politica non esiste alcun modello precostituito da mettere in
opera. Per soddisfare una tale esigenza è perciò indispensabi-
le il ricorso a quella capacità di discernimento, di saggezza
pratica e d’autocontrollo nelle deliberazioni cui allude il ver-
bo greco phronein, cui da ultimo ricorre il Coro dell’Antigone
nei versi finali del dramma: “La saggezza pratica [to phro-

21
C. CASTORIADIS, Ce qui fait la Grèce, cit., p. 297.
22
C. CASTORIADIS, L’enigma del soggetto, cit., pp. 217-218.
I termini del conflitto 45

nein] è la prima condizione della felicità. Non si deve mai


commettere empietà verso gli dei. Le parole superbe degli
uomini arroganti scontano i colpi spietati del destino e in
vecchiaia insegnano a essere saggi [to phronein edidaxan]”
(vv. 1348-1353). Va aggiunto che, in precedenza, il Coro
aveva già invitato Creonte all’autolimitazione, allo scopo di
poter deliberare saggiamente: “Occorre prudenza [euboulias],
figlio di Meneceo” (v. 1098). Commenta Paul Ricœur: “Un
appello alla ‘buona deliberazione’ [eubolia] attraversa il
dramma: come se ‘pensare giusto’ fosse l’unica replica pos-
sibile a ‘soffrire il terribile’ [pathein to deinon] (v. 96)” 23.
In questa conclusione non va visto nulla di ‘moralistico’ o
di edificante. Al contrario, il suo senso consiste nell’indivi-
duare rigorosamente nella prassi – e nella sua possibile attitu-
dine all’autocontrollo individuale e collettivo, cioè etico e po-
litico – il solo ‘luogo’ d’incidenza e d’elaborazione del con-
flitto tragico. In assenza d’ogni schema preliminare che pre-
tenderebbe di poter ricavare dall’approccio ontologico-specu-
lativo un modello ideale di convivenza, al cui interno le que-
stioni etiche, giuridiche e politiche sarebbero già risolte e dis-
solte prima ancora di poter emergere, incombe alla struttura
relazionale e interlocutoria dell’azione – e solo ad essa – la
responsabilità di affrontare la “dimensione agonistica della
prova umana”. Perciò l’interfaccia della tragedia non è l’on-
tologia, cioè l’intelligenza della realtà nelle sue connessioni
necessarie, ma l’etica come ambito delle prestazioni relazio-
nali, che presuppongono il poter-essere-altrimenti e perciò
fanno appello alla responsabilità e all’autolimitazione. L’esi-
genza d’una mediazione giuridica, che la tragica fine di Anti-
gone pone ma non soddisfa, diventa così la prima conseguen-
za dell’imperativo etico-politico che emerge dall’opera.
 

23
P. RICŒUR, op. cit., p. 287.

 
46 Il dilemma di Antigone

Antigone e Ceonte: un dialogo di sordi.

Come s’è già visto, Creonte finisce per revocare inutil-


mente la punizione di Antigone non perché ceda agli argo-
menti di Emone o di Tiresia, ma soltanto perché sopraffatto
dalla forza degli eventi. L’insistenza di Sofocle sulla rappre-
sentazione dello sperdimento emotivo di Creonte al cospetto
dei lutti che hanno colpito la sua famiglia, senza però accom-
pagnare questo dato da nessun cenno a un qualunque tipo di
ripensamento circa le sue convinzioni etiche e politiche, con-
ferma che il conflitto mortale messo in scena dal dramma re-
sta un conflitto irrisolto.
Il voltafaccia finale del sovrano, quale inattesa e non ar-
gomentata conseguenza del terrore per la piega catastrofica
presa dagli eventi, non annulla le ragioni del suo conflitto con
Antigone, ma si riduce soltanto ad un maldestro tentativo di
evitarne l’esito funesto. Sul piano dei contenuti, la disputa
che li contrappone resta radicale. Bisogna perciò prestare at-
tenzione a non minimizzarla, riducendola a una forma, per
quanto estrema e perciò tragica, di incomprensione o frain-
tendimento. In realtà, alla base della lite tra Antigone e
Creonte, non c’è alcun malinteso, c’è invece la contrapposi-
zione frontale di due determinazioni del tutto incapaci di –
ma soprattutto del tutto disinteressate a – trovare un punto di
contatto o una mediazione.
Per ciascuno dei due, la decisione presa, più o meno
esplicitata nelle sue ragioni, più o meno interessata ad un’ap-
provazione pubblica, è la sola possibile, e per questo motivo
risulta anche indiscutibile e insindacabile. Tanto Antigone
quanto Creonte si rapportano alla propria decisione come se
si trattasse di una verità intuitiva e coercitiva; essi la vivono,
insomma, quale unica conseguenza possibile d’un sapere in-
controvertibile e indubitabile, e perciò agiscono come se la
I termini del conflitto 47

propria decisione avesse per oggetto un dato fornito d’evi-


denza immediata. In maniera esattamente speculare, quindi,
per ciascuno dei due decidere in altro modo non sarebbe pos-
sibile perché risulterebbe privo di senso. La parabola della
tragedia mostra le conseguenze catastrofiche cui conduce
questa maniera di rapportarsi all’oggetto d’una decisione –
che in quanto tale riguarda l’indeterminatezza dell’agire, la
contingenza di quest’ultimo, la sua estraneità all’ontologia, il
ventaglio di possibilità ch’esso fornisce all’essere umano –
come se un tale oggetto potesse implicare la necessità inde-
rogabile propria della conoscenza e quindi dell’evidenza del
vero.
Per questa ragione lo scontro verbale tra Antigone e
Creonte risulta singolarmente improduttivo. Steiner l’ha de-
finito un “dialogo di sordi” 24. Qualcosa del genere può an-
che dirsi dell’alterco, altrettanto acceso e inconcludente, tra
Creonte e suo figlio. Nei due casi, più gli interlocutori si ri-
volgono la parola, più s’allontanano: questo però non accade
affatto perché essi non comunicano abbastanza e perciò non
riescono a comprendersi. Al contrario, la radicalità della lo-
ro contrapposizione autorizza la conclusione esattamente
opposta. Apportando una clamorosa smentita all’ottimismo
umanistico d’una posizione come quella esemplificata dal-
l’ermeneutica di Gadamer, secondo cui “il comprendere ri-
sfocia sempre nell’accordo ristabilito” 25, Antigone e Creon-
te restano in conflitto proprio perché si sono compresi be-
nissimo; il dialogo accresce il loro disaccordo, che porta
ciascuno dei due al rifiuto completo delle decisioni dell’al-
tro. In questa insuperabilità del conflitto, in questa inettitu-
 

24
G. STEINER, op. cit., p. 276.
25
Cfr. H.-G. GADAMER, Verità e metodo 2. Integrazioni, a cura di
R. DOTTORI, Bompiani, Milano 1995, p. 154.

 
48 Il dilemma di Antigone

dine dei contendenti a ricercarne una possibile mediazione,


in questa reciproca autoreferenzialità consiste il nucleo fon-
damentale della loro tragedia e l’essenza etico-politica del
suo insegnamento.

Il conflitto irrisolto.

Nei pochi versi in cui, come s’è visto nel capitolo prece-
dente, Antigone replica duramente a Creonte, contrappone
l’editto o il proclama (kērygma) del sovrano alle usanze (no-
mima) immemorabili, care agli dei. “I nomima sono le tradi-
zioni, gli usi antichi – qui le leggi degli dei […] inscritte nella
coscienza dei giusti” 26. Ad una lettura affrettata potrebbe
sembrare che un diritto a sfondo religioso, seguito dalla fan-
ciulla, venga qui contrapposto al diritto positivo, imposto dal
sovrano. Ma a guardar bene le cose, la vera contrapposizione
ha luogo “tra due diverse leggi, che hanno entrambe un fon-
damento religioso” 27. Infatti, nel mondo greco, la religione
non si limitava a imporre il rispetto di leggi, usanze e consue-
tudini tradizionali, ma con altrettanta forza prescriveva l’ob-
bedienza alle leggi della città e all’autorità costituita. “L’insi-
stenza sulla opposizione evidente – e assai superficiale – tra
legge umana e legge divina dimentica che, per i Greci, sep-
pellire i morti è anche una legge umana, così come difendere
il proprio paese è anche una legge divina” 28. Se così non fos-
se, la religione greca non sarebbe stata una religione civile.
Perciò sono gli stessi dei che ordinano “contemporaneamente
 

26
F. OST, op. cit., p. 184.
27
E. RIPEPE, op. cit., p. 685.
28
C. CASTORIADIS, “La polis greca e la creazione della democra-
zia”, in ID., L’enigma del soggetto, cit., p. 219.
I termini del conflitto 49

il rispetto della ragion di Stato e il culto dei morti”; di conse-


guenza, “la contrapposizione non riguarda la religione e l’em-
pietà, ma la linea di divisione attraversa la pietà stessa, ren-
dendola complessa come si rende complessa la politica giusta
[…]. In questo gioco tragico dei contrari, l’essenza del socia-
le appare nella sua verità paradossale: quello che è necessario
appare impossibile, quello che sembra impossibile è tuttavia
necessario, e l’importante non è tanto risolvere il paradosso
(questa è precisamente l’illusione semplificatrice e fatale),
quanto farlo vivere della propria tensione, non dimenticando
mai il pericolo che rappresenta il suo oblio o il suo presunto
superamento” 29.
Questo importante chiarimento, tuttavia, complica le cose.
Se il conflitto messo in scena dal dramma non può essere cir-
coscritto all’opposizione tra religione (in quanto presunta e-
spressione di leggi naturali e perciò necessarie e universali) e
politica (in quanto espressione di leggi convenzionali e perciò
contingenti e particolari), ciò significa che la dimensione con-
flittuale, interna tanto alla religione quanto alla politica, at-
traversa l’intera estensione sociale, unico ‘luogo’ della nor-
matività, cioè della sua istituzione regolamentata e simboli-
camente strutturata. Ed è esattamente questa normatività del
sociale, al tempo stesso simbolica e istituita, ad essere attra-
versata dal conflitto.
Il ruolo della tragedia consiste nel presentare sul palco-
scenico del teatro (e quindi all’assemblea dei cittadini in
quanto spettatori che partecipano a questa vera e propria li-
turgia civile) l’insolubilità in sede teoretica del conflitto in-
terno all’istituzione politica della società, che perciò esige da
parte degli stessi cittadini quella particolare vigilanza e quel

29
F. OST, Mosé, Eschilo, Sofocle, cit., p. 190.

 
50 Il dilemma di Antigone

particolare discernimento cui allude, nell’accezione aristote-


lica, la nozione morale di phronēsis (prudenza, saggezza pra-
tica, discernimento), che costituisce, come già sappiamo, l’u-
nico possibile rimedio al fallimento dell’azione nell’elabo-
razione dei propri limiti. Non è un caso, dunque, che nel suo
studio ormai classico sulla “prudenza in Aristotele”, Pierre
Aubenque si soffermi con dovizia di riferimenti filologici sul
contributo fondamentale della “fonte tragica” alla determina-
zione aristotelica di questa nozione 30, così decisiva in ambi-
to etico, politico e giuridico, e così ricorrente nell’Anti-
gone 31.
Proprio come ad esempio emblematico di “conflitto irri-
solto” si riferisce ancora una volta all’Antigone un libro re-
cente e attualissimo di Gaetano Azzariti, intitolato Contro il
revisionismo costituzionale, secondo il quale “il ruolo di
strumento di risoluzione dei conflitti” viene attribuito al dirit-
to in modo del tutto diverso nell’antichità classica e nell’età
moderna. Scrive Azzariti: “La distinzione fondamentale tra le
due ere può essere così riassunta: nell’età antica si accettava
l’idea che il conflitto potesse rimanere irrisolto, con l’età mo-
derna si afferma invece l’idea che sia necessario dare, in ogni
 

30
Cfr. P. AUBENQUE, “La source tragique”, in ID., La prudence
chez Aristote, cit., pp. 155-177.
31
Nella sua analisi dell’Antigone come dramma centrato sulla deli-
berazione e sulla saggezza pratica, Martha Nussbaum sottolinea che
“undici parole connesse alla deliberazione pratica compaiono 180 vol-
te nelle sette tragedie di Sofocle, mentre sono presenti per un totale di
50 volte nella sola Antigone”. In particolare, “la parola phronēma
compare sei volte nell’Antigone, mentre non è presente in nessun altro
dramma; lo stesso vale per dysboulia e per euboulia che ricorrono cia-
scuna due volte nell’Antigone” (M. NUSSBAUM, La fragilità del bene.
Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, a cura di G.
ZANETTI, Il Mulino, Bologna 1996, p. 180, nota 6).
I termini del conflitto 51

caso, una composizione ai conflitti. Per spiegare in che senso


le società dell’antichità lasciavano ‘irrisolti’ i conflitti, ci si
può richiamare ai tre miti fondativi del diritto. Mi riferisco
alle tre grandi condanne che la storia ci ha proposto: la con-
danna di Antigone, quella di Socrate e, infine, quella di Ge-
sù” 32.
Limitatamente al caso di Antigone, per Azzariti “la con-
trapposizione tra le ragioni di Antigone e quelle di Creonte è
evidente. Manifesta è anche l’impossibilità di trovare una so-
luzione al conflitto. Ciascuno è portatore di un diverso ordine
(il diritto naturale o quello delle leggi scritte) che, nei momen-
ti di conflitto tra loro, determinano una scissione tragica e non
componibile, senza alcuna possibilità di sintesi. […] Tale vi-
cenda esprime in termini molto netti – metaforici, direi –
l’irresolubilità del conflitto nell’antichità” 33.
Avremo modo, nel seguito di queste pagine, di mettere in
discussione la riduzione dell’Antigone a mero, ancorché in-
tenso, plaidoyer per il diritto naturale. Limitiamoci perciò ora
ad osservare soltanto che appare, nonostante tutto, eccessi-
vamente ottimistico il punto di vista presupposto al ragiona-
mento di Azzariti, secondo il quale l’epoca moderna, a diffe-
 

32
G. AZZARITI, Contro il revisionismo costituzionale, Laterza, Ro-
ma-Bari 2016, p. 30. Sull’attualità del rapporto tra diritto e conflitti,
oltre al precedente volume di G. AZZARITI, Diritto e conflitto. Lezioni
di diritto costituzionale, Laterza, Roma-Bari 2010 e all’importante in-
tervento di U. POMARICI, “Crisi e conflitti nella democrazia contempo-
ranea. ‘Variazioni’ sui beni comuni”, in Rivista di filosofia del diritto,
4/1, 2015, pp. 171-196, si veda il numero monografico di Teoria e cri-
tica della regolazione sociale su “L’età dei populismi. Diritti e conflit-
ti” a cura di F. CIARAMELLI-F.G. MENGA, Mimesis, Milano 2015 (in
questo fascicolo, va segnalato in particolare il bel saggio di M. BAR-
CELLONA, “Il diritto e il conflitto”, ivi, pp. 19-46).
33
G. AZZARITI, Contro il revisionismo costituzionale, cit., p. 31.

 
52 Il dilemma di Antigone

renza dell’età antica, avrebbe trovato il modo di comporre i


conflitti, riuscendo a ricondurre senza residui al diritto istitui-
to le istanze universali della giustizia e della morale fatte va-
lere da Antigone. Più persuasiva appare la tesi formulata al-
cuni anni fa da Rossana Rossanda in un saggio significativa-
mente titolato “Antigone ricorrente” 34, secondo cui il capola-
voro di Sofocle resta attuale in quanto può continuare a fun-
gere da pretesto per una riproposizione sempre possibile del
contrasto tra la coscienza singola e l’ordine collettivo del po-
tere e della legge 35. La stessa Rossanda è ritornata rapida-
mente sul medesimo tema, in occasione della riscrittura tea-
trale dell’Antigone proposta da Valeria Parrella, parlando di
“sfida tra coscienza e legge” 36. In termini non tanto differenti
s’esprime François Ost, secondo in quale, “nella cultura uni-
versale l’Antigone di Sofocle rimane il modello ineguagliato,
cento volte riprodotto, mai esaurito, della resistenza al potere.
Una simile resistenza appare tuttavia il rimedio ultimo quan-
do tutti gli altri sbocchi, giuridici e politici, si sono rivelati
occlusi” 37.

34
R. ROSSANDA, “Antigone ricorrente”, saggio introduttivo a SO-
FOCLE, Antigone, trad. di L. Biondetti, Feltrinelli, Milano 1978, II ed.
1987, pp. 1-40.
35
Sull’attualità di Antigone nel corso del Novecento, oltre all’utile
volumetto intitolato Antigone. Variazioni sul mito. Sofocle, Jean An-
ouilh, Bertold Brecht, a cura di M.G. CIANI, Marsilio, Venezia 2004
(che riporta oltre, al testo di Sofocle, i due più famosi testi teatrali no-
vecenteschi dedicati ad Antigone), si veda l’ampia ricostruzione di S.
FORNARO, L’ora di Antigone dal nazismo agli ‘anni di piombo’, Tu-
binga, Narr 2012.
36
Cfr. la quarta di copertina di V. PARRELLA, Antigone, Einaudi,
Torino 2012.
37
F. OST, op. cit., p. 173.
I termini del conflitto 53

Anche in un regime democratico, in cui i cittadini parteci-


pino attivamente ai processi di produzione autoritativa delle
norme giuridiche, non viene mai meno la possibilità del con-
flitto tra coscienza e potere, o in altri termini tra morale e di-
ritto. Non è ipotizzabile, come ricorda Uberto Scarpelli, ri-
prendendo un’efficace immagine di Alessandro Passarin d’En-
trèves, “rilasciare all’autorità una cambiale in bianco”, dele-
gando a quest’ultima “la determinazione del valore dei propri
comportamenti”, dal momento che “un’autorità democratica è
pur sempre un’autorità, le maggioranze si impongono alle
minoranze, i rappresentanti specificano o tradiscono le inten-
zioni dei rappresentati […]. Può dunque accadere (e certo ac-
cadrà più facilmente quando l’ordinamento giuridico sia non
soltanto basato sull’autorità, ma autoritario e antidemocrati-
co) che l’ordinamento giuridico un giorno richieda al cittadi-
no fedele quanto egli con la sua morale e la sua politica non
sia disposto a dare. L’obbligo giuridico entra allora in conflit-
to con il dovere morale e con l’impegno politico” 38.
La terminologia cui ricorre Eugenio Ripepe nel suo saggio
sull’Antigone è leggermente diversa, ma la sostanza del di-
scorso non cambia, dal momento che fa emergere il sempre
possibile conflitto tra obbligo giuridico e obbligo politico.
“Antigone, scrive Ripepe, non si considera tenuta ad obbedire
ciecamente al volere del sovrano, ma non per questo intende
sottrarsi alle conseguenze giuridiche della propria condotta”;
di conseguenza il suo comportamento appare dettato “dalla
volontà di non contravvenire all’obbligo giuridico (inteso
come dovere di assoggettarsi alla legge, e non come impegno
a obbedire a qualsiasi legge), indipendentemente dalla portata
attribuita all’obbligo politico (inteso come dovere di obbedire
 

38
U. SCARPELLI, “Dovere morale, obbligo giuridico, impegno poli-
tico”, in Rivista di filosofia, 1972, n. 4, pp. 291-299, qui pp. 295-296.

 
54 Il dilemma di Antigone

all’autorità)” 39. Dal momento che per Creonte, come per qua-
lunque potere autoritario e dispotico, i due obblighi fanno
corpo e non è neanche ipotizzabile la loro distinzione, la col-
lisione tra coscienza del singolo e autorità costituita è inevi-
tabile.
Questo conflitto potenziale e sempre possibile continua ad
alimentare, anche nel contesto della democrazia moderna, la
riflessione critica circa la necessaria autolimitazione del potere
politico. Infatti, nella modernità, il tratto distintivo della demo-
crazia “è il fatto che, pur avendo inaugurato una storia in cui
viene abolito il luogo d’un referente esterno a partire dal quale
la legge acquisiva la sua trascendenza, essa tuttavia non rende
la legge immanente all’ordine del mondo né tantomeno con-
fonde il suo ambito con quello del potere.[...] Alla nozione
d’un regime regolato da leggi, regolato cioè da un potere legit-
timo, la democrazia moderna invita a sostituire quella d’un re-
gime fondato sulla legittimità d’un dibattito sul legittimo e l’il-
legittimo – dibattito necessariamente senza garante e senza ter-
mine” 40.
Su questo punto, fatte salve le tante differenze storiche,
c’è una sostanziale continuità fra la democrazia greca e la
democrazia moderna: in entrambi i casi, infatti, l’unico fon-
damento possibile della giustificazione delle leggi, cioè delle
decisioni politiche che sono alla loro base, consiste nel rico-
noscere, come ha scritto Juan-Ramón Capella, che “qualsiasi
decisione politica, indipendentemente dai mezzi attraverso i
quali sia stata legittimata, è aperta alla critica, ed eventual-
mente può arrivare ad essere considerata illegittima. Deve
sempre rimanere in piedi la possibilità di dubitare di decisioni
 

39
E. RIPEPE, op. cit., p. 710.
40
C. LEFORT, Écrits sur le politique. XIX et XX siècles, Seuil, Paris
1986, pp. 52-53.
I termini del conflitto 55

che, nonostante siano legali, possono rivelarsi illegittime. Si


tratta di un assunto antico quanto l’Antigone di Sofocle” 41.

41
J.-R. CAPELLA, La nuova barbarie. La globalizzazione come con-
trorivoluzione conservatrice, trad. it., Dedalo, Bari 2008, p. 88.

 
56 Il dilemma di Antigone
CAPITOLO TERZO
LA TRAGEDIA DEL NOMOS

La scoperta della verità e l’interrogazione sul significato


Oltre l’opposizione tra giusnaturalismo e giuspositivismo
Il ‘silenzio’ di Antigone è la sua assoluta estraneità al logos che
esprime il comando politico
Due maniere irriducibili di intendere i doveri civili
La legittimazione del nomos e il problema della sua origine
La tragedia attica e il ruolo attivo dei cittadini-spettatori
Giustizia senza ontologia
La scoperta della verità e l’interrogazione sul significato.

L’Edipo Re, secondo una felice definizione, che sul piano


filologico risale a Karl Reinhardt e che in filosofia fu subito
ripresa e valorizzata in senso fortemente ontologico dallo
stesso Heidegger, costituisce la “tragedia dell’apparenza” 1;
dal canto suo, l’Antigone sembra poter essere definita la tra-
gedia del nomos. Questa differenza permetterà di comprende-
re meglio in che senso, come s’è detto nel capitolo precedente
citando un’osservazione di Paul Ricœur, l’insegnamento trat-
to dall’Antigone riguardi la filosofia pratica (la filosofia mo-
rale, la filosofia del diritto, la filosofia politica) e non la filo-
sofia teoretica: riguardi cioè in prima battuta la riflessione
che assume come irriducibile punto di partenza la contingen-
za e l’indeterminatezza dell’agire umano, e non quella che
delucida le determinazioni e connessioni necessarie portate
allo scoperto dall’intelligenza dell’essere.
In quanto “tragedia dell’apparenza”, la problematica del-
l’Edipo Re si situa sul piano ontologico della teoresi, nel sen-
so che la sua trama attiene alle vicissitudini della conoscenza,

1
Cfr. K. REINHARDT, Sofocle (1933), a cura di L. NOVARO, il me-
langolo, Genova 1989, p. 111. In un ben noto passaggio d’un suo cor-
so universitario del 1935 (pubblicato però solo dopo la guerra), Hei-
degger, riferendosi all’allora recentissimo libro di Reinhardt, pur de-
nunciandovi la persistenza del “moderno soggettivismo e psicologi-
smo”, sostiene che “l’interpretazione dell’Edipo Re quale ‘tragedia
dell’apparenza’ costituisce una grandiosa impresa”: cfr. M. HEIDEG-
GER, Introduzione alla metafisica (1953), trad. G. Masi, Introduzione
di G. Vattimo, Mursia, Milano 1986, p. 117.
60 Il dilemma di Antigone

cui oggetto è la scoperta e la comprensione della realtà nella


sua verità intrinseca (e in questo caso anche brutale: l’assas-
sinio del padre e l’incesto). È dunque lo stato di cose effettivo
che nell’Edipo Re, alla fine d’un lungo percorso conoscitivo,
annulla le ambiguità e gli inganni dell’apparenza e rende evi-
dente la verità dei fatti. La problematica dell’Antigone, inve-
ce, si situa sul piano morale e politico della prassi. Nella vi-
cenda ch’essa mette in scena, manca un criterio oggettivo e
universale che permetta di porre termine, una volta per tutte,
al conflitto che l’attraversa e agli interminabili dibattiti che
esso provoca: conflitto e dibattiti che non hanno per oggetto
la verità dei fatti ma il significato delle azioni umane.
“Verità e significato – come ha scritto Hannah Arendt –
non sono la stessa cosa” 2. La problematica dell’Antigone si
rivela insolubile sul piano teoretico esattamente perché ri-
guarda il significato dell’agire umano, nella sua intrinseca e
strutturale irriducibilità alla scoperta della verità. Il conflitto
etico e i dibattiti giuridico-politici che ne strutturano la trama
mancano di un’unica soluzione “giusta”, immediatamente
evidente a tutti. Ciò deriva dal fatto che non c’è – al di fuori
dello spazio conflittuale e polemico attraversato dal dramma
– un ambito oggettivo, universale e necessario, al quale po-
tersi rifare in tutta evidenza come criterio ultimo delle deci-
sioni sul “da farsi”. Il nomos, in quanto principio d’ordine
che stabilizza e permette di valutare le diverse possibilità ine-
renti all’agire umano, manca dell’unico requisito – l’oggetti-
vità universale e necessaria – in grado di fugare in maniera
definitiva ogni dubbio sul valore delle sue deliberazioni. Se
nel caso dell’apparenza, l’evidenza immediata del vero funge
da criterio ultimo che consente di sciogliere ogni ambiguità,

2
H. ARENDT, La vita della mente, a cura di A. DAL LAGO, Il Muli-
no, Bologna 1987, p. 97.
La tragedia del nomos 61

nel caso del nomos, l’unico criterio adeguato al dilemma


ch’esso pone in una società democratica, è l’interrogazione
permanente e in via di principio illimitata sulla sua legittimi-
tà. Ovviamente questo non significa disconoscere che, nello
spazio pubblico regolamentato dalla legalità istituita, il dibat-
tito democratico debba giungere a decisioni operative, fornite
d’una loro oggettività: ma in questo caso, l’unica oggettività
possibile è l’oggettività dell’istituito, sprovvista di quei carat-
teri preliminari di universalità e necessità che invece appar-
tengono all’evidenza del vero.
Le impreviste alternative e gli improvvisi colpi di scena su
cui, con grande maestria, Sofocle lascia sospesa fino all’epi-
logo l’intera vicenda dell’Edipo Re, riguardano qualcosa di
ben determinato, che pian piano verrà scoperto e poi perciò
finirà col perdere la sua vaghezza, ma non l’angoscia e lo
sgomento che continuerà ad accompagnare protagonista e
spettatori. Come stanno davvero le cose, l’eroe ancora non lo
sa, ma è destinato a venirlo a sapere, quando l’inganno del-
l’apparenza che si autodissimula sarà definitivamente sma-
scherato e l’accecante luce della verità potrà finalmente illu-
minare la scena. Perciò nell’Edipo Re il vero protagonista è
l’ambiguità dell’apparenza: un’ambiguità non solo conosciti-
va – cioè relativa al sapere – ma ontologica 3. Ciò che appare,

3
Precisa Heidegger: “L’apparenza compete all’essere inteso come
apparire. L’essere come apparenza non è meno potente dell’essere
come non-latenza. L’apparenza si verifica nell’essente stesso e si pro-
duce insieme ad esso. Ma l’apparenza non si limita a far sì che l’es-
sente appaia quello che propriamente non è, essa non si contenta di
dissimulare l’essente di cui è apparenza, ma occulta, come tale, sé
stessa, in quanto si mostra come essere. Dato che l’apparenza dissimu-
la così, essenzialmente, sé stessa, occultando e travisando, diciamo
giustamente che l’apparenza inganna. Questo inganno risiede nell’ap-
parenza stessa”, Introduzione alla metafisica, cit., p. 118.

 
62 Il dilemma di Antigone

infatti, può fungere da via d’accesso a ciò che è (e in questo


caso l’apparire costituisce una prima esibizione della realtà),
ma può anche risultare fuorviante (e in questo caso l’apparire
si trasforma nell’inganno dell’apparenza che nasconde la re-
altà e allontana da essa). A causa di questo suo sempre possi-
bile fraintendimento, apparire non equivale a mostrarsi 4: l’ap-
parenza non è mai una manifestazione o un’esibizione diretta
di ciò che è. Quando Edipo scoprirà come stanno realmente le
cose, il velo dell’apparenza sarà definitivamente caduto e la
realtà si mostrerà in tutto il suo orrore.

Oltre l’opposizione tra giusnaturalismo e giuspositivi-


smo.

La tragedia dell’infelice figlia e sorella di Edipo non ri-


guarda invece l’ontologia dell’apparenza, nella sua autodis-
simulazione e nei suoi sempre possibili inganni. Nell’Antigo-
ne, infatti, non c’è alcuna graduale scoperta della verità, per
la semplice ragione che, come già sappiamo, tutto fin dall’ini-
zio è esplicito e chiaro. La fanciulla entra in scena avendo già
deciso ciò che farà, senza alcuna volontà di occultarlo o travi-
sarlo, e sapendo bene che questa sua decisione la condurrà a
morte. L’oggetto della tragedia non è dunque niente che deb-
ba essere gradualmente scoperto o rivelato. Di conseguenza,
il tema fondamentale dell’Antigone non è materia di cono-
scenza bensì di decisione, di presa di posizione, di orienta-
mento o senso da dare all’azione. E quest’ultima, a differenza
dello “stato di cose” effettivo di cui si occupa la conoscenza,
è intrinsecamente sprovvista di necessità e di oggettività. Nel

4
Cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, a cura di P. CHIODI, § 7,
Longanesi, Milano 1976, pp. 48-49.
La tragedia del nomos 63

caso della tragedia dell’apparenza, è la realtà che guida


dall’esterno l’eroe e che prescrive al suo ondivago percorso
l’esito necessario, cioè la scoperta della verità; ma nel caso
della tragedia del nomos, dal momento che quest’ultimo co-
stituisce soltanto l’interfaccia dell’agire, ma risulta sprovvisto
d’un indiscutibile aggancio al reale, non c’è alcun punto
d’arrivo preliminarmente fissato, il cui svelamento – la cui
scoperta – potrebbe dar luogo allo scioglimento o alla neces-
saria conclusione del dramma, che per questa ragione risulta
intrinsecamente ‘aperto’. In questa sua abissale ‘apertura’ sta
forse una delle principali ragioni della sua grandezza e del suo
intramontabile fascino. Il dilemma del nomos resta struttural-
mente sprovvisto d’una soluzione giuridica o politica univer-
sale e necessaria, che lo dissolverebbe come dilemma e lo
renderebbe tutt’al più curiosità letteraria, storica o filologica.
In conseguenza di ciò, è da escludere che il senso filosofi-
co-giuridico dell’Antigone possa ricondursi alla ben nota op-
posizione di giusnaturalismo e giuspositivismo. Secondo cia-
scuna di queste due classiche e speculari teorie filosofiche del
diritto, il diritto naturale, ritenuto valido in forza della sua
conformità all’universalità e necessità della ‘giustizia’, o il
diritto positivo, che invece ‘vale’ in quanto comando di un
potere sovrano 5, avrebbero, ognuno per conto proprio, l’ulti-
ma parola. Nei due casi, perciò, si presuppone che anche sul
piano dell’agire abbia senso ricorrere a un criterio universale
e necessario, il quale – analogamente a quel che accade in se-
de logico-ontologica, mediante la distinzione tra verità ed er-
rore – consentirebbe di separare ragione e torto in maniera in-
sindacabile perché assolutamente evidente. Applicato alla
tragedia sofoclea, questo schema divide gli interpreti fra colo-

5
Secondo la formula utilizzata da J. HABERMAS, Morale, diritto,
politica, a cura di L. CEPPA, Einaudi, Torino 2007, p. 58.

 
64 Il dilemma di Antigone

ro che prendono le parti dell’eroina e quelli che invece par-


teggiano per il sovrano, visti rispettivamente come bandiere
del giusnaturalismo e del giuspositivismo.
Sennonché, la lezione dell’Antigone come tragedia del
nomos nella sua differenza dall’Edipo Re come tragedia del-
l’apparenza sta esattamente nell’opposizione drammatica non
della ragione al torto, ma di due ragioni (o di due torti), che
finiscono col rappresentare due unilateralità. Né la lettura
giusnaturalistica né quella giuspositivistica colgono questo
aspetto, perché entrambe rimuovono e disconoscono l’inde-
terminatezza dell’agire umano e finiscono col ridurne la di-
namica ad esecuzione automatica di una determinazione in-
sindacabile, abusivamente considerata universale e necessa-
ria: l’oggettività del “diritto naturale” o l’autorità insindacabi-
le del potere di fatto vigente.
Più vicino alla problematicità del dramma sembra il terzo
filone interpretativo dell’Antigone, individuato da Mauro
Barberis attraverso un’articolata mappatura dei principali mo-
delli d’interpretazione filosofico-giuridica del dramma: si
tratta d’un filone interpretativo che esclude la prevalenza di
un unico valore e promuove la consapevolezza che le ragioni
di Antigone e quelle di Creonte, pur inconciliabili, siano en-
trambe valide, ciascuna al proprio livello 6.
Se poi si tiene presente che la stessa Antigone, nella sua
replica a Creonte, più che all’evidenza razionale d’una giusti-
zia universale fa appello alla superiore stabilità – e quindi au-
torità – della tradizione (in quanto ‘luogo’ delle usanze im-
memorabili, che nessuno può essere autorizzato a trasgredire)
rispetto all’editto occasionalmente emanato dal sovrano, va
inevitabilmente relativizzata l’interpretazione che giustifica il
 

6
Cfr. M. BARBERIS, “Tre versioni di Antigone. Una meta-interpre-
tazione”, in M. RIPOLI-M. RUBINO (a cura di), Antigone. Il mito, il di-
ritto, lo spettacolo, De Ferrari, Genova 2005, pp. 18-20.
La tragedia del nomos 65

suo gesto in nome del diritto naturale, com’è stato acutamen-


te sostenuto da Eugenio Ripepe: “Il fatto che l’inviolabilità
delle leggi divine da parte delle leggi umane sia per Antigone
in re ipsa, e cioè prescinda da un’analisi in termini di giustizia
materiale, essendo per lei ovvio che leggi divine e giustizia
siano una cosa sola, sembra autorizzare a concludere che nella
sua prospettiva ‘giusnaturalistica’, la subordinazione di deter-
minate leggi (umane) a determinate altre (le ‘leggi non scritte e
immutabili degli dei’) più che una gerarchia di valori presup-
ponga una gerarchia di fonti normative. La conseguenza è che,
configurandosi a sua volta questa come espressione di una ge-
rarchia di poteri (l’obiezione fondamentale di Antigone a Cre-
onte è che egli non ha abbastanza potere per far violare le leg-
gi divine, v. 453), nel ‘giusnaturalismo’ attribuito ad Antigone
non sembra mancare una componente che, non per mero amo-
re di paradosso, si potrebbe forse definire positivistica” 7.
La pretesa di fornire un’interpretazione della tragedia co-
me esemplificazione di questa o quella teoria filosofica del
diritto fa dimenticare facilmente che Antigone e Creonte non
sono i rappresentati singoli d’una messa in opera più o meno
riuscita o più o meno fallita d’un modello ideale. Sono due
individui agenti: ed è esattamente la singolarità della loro
azione – fonte della sua tragicità – che viene rimossa dall’in-
terpretazione giusnaturalistica o giuspositivistica del dramma.
Se il gesto di Antigone fosse la concretizzazione del diritto
naturale, Creonte finirebbe per svolgere esclusivvamente il
ruolo del despota tirannico e disumano. In questo caso sareb-
 

7
E. RIPEPE, op. cit., p. 707. Un’originale difesa filosofica del dirit-
to naturale rivendicato da Antigone è sostenuta da E. MAZZARELLA,
“Antigone eterna. Un excursus su natura e diritto”, in I dialoghi del-
l’interpretazione. Studi in onore di Domenico Jervolino, a cura di M.
CASTAGNA-R. PITITTO-S. VENEZIA, Diogene Edizioni, Pomigliano
d’Arco (Na) 2014, pp. 231-248.

 
66 Il dilemma di Antigone

be il solo ‘colpevole’. Se viceversa egli fosse considerato il


sovrano che legittimamente e saggiamente governa la città,
Antigone non sarebbe altro che una ribelle giustamente puni-
ta. Sennonché, sia la prima sia la seconda impostazione falsi-
ficano completamente il senso del dramma, per il quale Anti-
gone e Creonte sono entrambi incapaci di “tessere insieme
(pareirōn) le leggi della propria terra (nomous khtonos) con
la giustizia degli dei garantita dal giuramento (theōn t’enor-
kon dikan)”, come sostiene Castoriadis 8 citando parole tratte
dal celeberrimo inno all’uomo (v. 369). Ciascuno dei due, ir-
rigidendosi nella sua posizione, diventa apolis – cioè senza
città e senza patria – per la sua audacia esagerata, per la sua
arroganza (tolmas charin) (v. 370-371).
In questo senso, come ha scritto Steiner, “l’intimità pole-
mica tra Creonte e Antigone emerge da uno scontro di ‘liber-
tà esistenziali’ quasi perfettamente bilanciate. Nessuno dei
due può cedere senza falsare la sua natura essenziale. Sia
Creonte sia Antigone sono auto-nomisti, esseri umani che
hanno messo la legge sotto la loro tutela” 9. Entrambi manca-
no di phronēsis e perciò cadono nella hybris. “Nessuno dei
due atteggiamenti che l’Antigone contrappone potrebbe esse-
re da solo quello giusto, senza far posto all’altro, senza rico-
noscere ciò che lo limita e lo contesta” 10. L’estraneità di An-
tigone e Creonte rende la mediazione tra l’ostilità reciproca
delle loro posizioni impossibile ma indispensabile.
La conclusione catastrofica in cui culmina il dramma
esprime il “fallimento assoluto e reciproco” delle due unilate-
 

8
C. CASTORIADIS, “Anthropogonie chez Eschyle et autocréation de
l’homme chez Sophocle”, in ID., Figures du pensable. Les carrefours
du Labyrinthe VI, Seuil, Paris 1999, p. 25.
9
G. STEINER, op. cit., p. 205.
10
J.-P. VERNANT-P. VIDAL-NAQUET, Mythe et tragédie en Grèce
ancienne, t. I, La découverte, Paris 1986, p. 34.
La tragedia del nomos 67

ralità contrapposte; dobbiamo concluderne che dall’Antigone


“non scaturisce nessuna ‘soluzione’ politica o giuridica espli-
cita” 11. In questo caso, l’evidente improponibilità d’una con-
siderazione del dramma come esemplificazione d’una teoria
filosofica del diritto, sia essa il giusnaturalismo o il giuspositi-
vismo, è rafforzata dall’impossibilità di sovrapporre al testo
teatrale di Sofocle interpretazioni teoriche troppo rigide, che,
come ben scrive Maria Pia Pattoni, fatalmente finiscono per
dimenticare due elementi decisivi: “1) in un testo teatrale non è
possibile assegnare un valore assoluto alle singole asserzioni
dei personaggi: queste ultime vanno invece valutate relativa-
mente a una strategia autoriale complessiva che articola le voci
in apparente autonomia secondo la funzionalità di un messag-
gio che va progressivamente costruendosi; 2) la parola teatrale
è sempre diretta a un pubblico che la recepisce secondo la cul-
tura comune agli spettatori stessi e all’autore, ovvero – nel no-
stro caso – la cultura della democrazia ateniese, dalla quale
l’esegesi critica non può in nessun modo prescindere” 12.
Il riferimento politico-culturale alla democrazia ateniese,
luogo d’origine della tragedia antica, risulta qui decisivo. In
quanto è un’opera teatrale e non un trattato filosofico, l’Anti-
gone pone il problema della giustificazione o legittimazione del-
l’ordine costituito, ma non ha la pretesa di risolverlo una volta
per tutte e in via universale e definitiva sul piano della teoria. In
questa prospettiva “pluralistica”, il significato fondamentale del-
l’Antigone consiste nella indispensabile problematizzazione
d’ogni ‘soluzione’ incentrata sulla difesa dell’unica ragione
‘giusta’ o dell’unico valore degno di essere salvaguardato.
 

11
F. OST, op. cit., p. 189.
12
M.P. PATTONI, op. cit., p. 9, che rimanda a G. PADUANO, “Anti-
gone e la democrazia ateniese”, in R. ALONGE (a cura di), Antigone,
volti di un enigma. Da Sofocle alle Brigate rosse, Edizioni di Pagina,
Bari 2008, pp. 3-22.

 
68 Il dilemma di Antigone

Il ‘silenzio’ di Antigone è la sua assoluta estraneità al


logos che esprime il comando politico.

La caratteristica fondamentale di Antigone è la sua “asso-


luta estraneità al comando delle leggi” 13 – un’estraneità più
forte e radicale d’un qualunque conflitto, il quale dal canto
suo può sempre venir risolto o ricomposto in un modo o in un
altro. Il gesto di Antigone, il suo ritrarsi dalla scena mondana,
allude alla genesi del senso dell’umano, radicato in una di-
mensione che l’ordine sociale, giuridico e politico non potrà
mai incorporare e annullare dentro di sé. Prima delle regole
pubbliche istituite dal nomos, la dimensione originaria del-
l’umano fa la sua comparsa nello spazio istituente delle rela-
zioni comunitarie di cui ciascun individuo è e resta responsa-
bile. La parola di Antigone si fa carico di questa sensibilità
morale in quanto ‘nascita latente’ del nomos e del logos – e
quindi di tutto ciò che è necessario all’istituzione dello spazio
pubblico – che trovano nella salvaguardia della sfera privata
l’espressione del proprio limite e dunque, al tempo stesso, le
condizioni della propria sempre possibile alterazione. Mettere
in discussione la configurazione di fatto acquisita dalla nor-
matività del nomos, superare i limiti del comando politico,
ritornare al fondamento relazionale e comunitario del potere
vigente, renderne evidente il “senso socialmente istituito, e
dunque socialmente destituibile” 14 e, così facendo, aprire la
polis alla radicalità dell’interrogazione sulla giustizia delle
 

13
M. CACCIARI, “La parola che uccide”, Introduzione a SOFOCLE,
Antigone, a cura di M. Cacciari, cit., p. IX .
14
M. BARCELLONA, Contro il nichilismo giuridico, Giappichelli,
Torino 2006, p. 298 (su cui mi sia permesso di rinviare a F. CIARA-
MELLI, “Nichilismo giuridico e deliberazione sociale del senso”, in Ri-
vista internazione di filosofia del diritto, serie V, LXXXIV, 2007, n.
3, pp. 463-483).
La tragedia del nomos 69

leggi: è a tutto ciò che invita l’appello d’Antigone ai nomima


(v. 456) non scritti, ch’ella invoca al posto del decreto di
Creonte.
In tal modo, l’esempio di Antigone fa segno verso la di-
mensione inaugurale e istituente delle relazioni inter-umane,
irriducibile tanto agli automatismi preliminari della physis
quanto alle determinazioni istituzionalizzate del nomos come
comando politico. Ciò che è stato chiamato il “silenzio d’An-
tigone” 15, cioè quel suo particolare rapporto con la parola che
si rifiuta di sottoporla alla procedura logica della universaliz-
zabilità, precede il logos degli scambi sociali ma non coinci-
de con gli schemi del metabolismo naturale che garantisce la
mera sopravvivenza biologica. In questo ambito pre-sociale
ma già umano, e perciò non più semplicemente naturale per-
ché già animato da un pathos morale, s’esprime la dimensio-
ne comunitaria delle relazioni inter-umane che le fonda senza
necessitarle, cioè “senza contraddirne, e negarne, il carattere
proprio di possibilità” 16. Il varo delle istituzioni giuridiche e
politiche è di là da venire, ma trova qui il suo presupposto.
“Antigone non si oppone affatto al logos di Creonte, per
quanto le appaia ‘irragionevole’. Potremmo anche senza fati-
ca pensare che ne abbia perfino inteso la ‘ragione’. Ma questa
‘ragione’ sarebbe comunque ai suoi occhi del tutto estranea e
impotente. Se si interpreta il conflitto tra i Due come interno
alla sfera del diritto o dell’etica o della politica, si manca
completamente il bersaglio. Sofocle lo intuisce ‘con timore e
tremore’. Antigone non mira a ‘riformare’ il potere di Creon-
te, a renderlo più ossequioso delle tradizioni, non cerca com-
 

15
Cfr. A. PUNZI, “Ragione senza argomentazione. Il silenzio di An-
tigone”, in ID., Dialogica del diritto. Studi per una filosofia della giu-
risprudenza, Giappichelli, Torino 2009, p. 157 ss.
16
A. MASULLO, Il senso del fondamento, Editoriale Scientifica,
Napoli 2007², p. 95.

 
70 Il dilemma di Antigone

promessi più o meno ‘alti’ tra il diritto positivo dello Stato e


la pietas domestica. Non rivendica un nuovo diritto, né un
nuovo ordine politico. La parola di Antigone manifesta un’al-
terità radicale rispetto a tutte queste dimensioni del logos. In
ciò la sua ‘dismisura’, che il Coro prontamente rileva” 17.
Sulla ‘dismisura’ di Antigone, sul fatto che anche lei si
macchi di hybris – cosa peraltro evidente, giacché, in caso con-
trario, non potrebbe essere un’eroina tragica – avremo modo di
ritornare alla fine del prossimo capitolo. È importante, però,
segnalarlo fin d’ora. In realtà, la messinscena sofoclea si man-
tiene in bilico su di un crinale scivoloso ma assai ben delineato
in cui il riconoscimento di ragioni contrapposte è sempre bi-
lanciato dalla denuncia di torti antitetici. Nel caso di Antigone
questo modo di procedere, esplicitato nei commenti del Coro,
certamente comporta il riconoscimento del suo sublime corag-
gio, ma comporta altresì la denuncia della sua illimitata e in fin
dei conti autolesionistica inflessibilità. L’accenno alla hybris
dell’eroina costituisce, perciò, un tema decisivo, per quanto
poco frequentato, anzi stranamente dimenticato o rimosso in
molti commenti, probabilmente a causa dell’ammirazione che
suscita la sua coerenza adamantina e della commozione simpa-
tetica che provoca la sua disarmata vulnerabilità.

Due maniere irriducibili di intendere i doveri civili.

Secondo la dinamica conflittuale messa in scena nel dram-


ma sofocleo, Antigone, assumendosi in prima persona la re-
sponsabilità del suo gesto, non difende questa o quella prero-
gativa – questo o quel diritto – calpestato dal potere hic et
nunc vigente, ma la premessa ultima dell’ordine sociale, al
tempo stesso simbolico e istituito, cioè la sua radice relazio-
 

17
M. CACCIARI, op. cit., pp. VIII-IX.
La tragedia del nomos 71

nale e perciò comunitaria, che ne instaura la dimensione pro-


priamente umana.
Anziché fondarsi sull’universale regolarità della natura, i
nomima ai quali si richiama la fanciulla, in quanto ‘usanze’
antichissime che rimandano ai costumi comuni presso i Gre-
ci 18, esprimono una sensibilità e un’attenzione alla dimensio-
ne relazionale dell’esistenza in quanto parte integrante dei
“doveri del kalos kagathos politēs” 19. Di conseguenza, il
conflitto messo in scena nel dramma ha luogo tra due manie-
re irriducibili di intendere i doveri dei cittadini all’interno
della polis. Per Creonte, le decisioni del legislatore sono so-
vrane e illimitate, e perciò vanno eseguite acriticamente senza
alcuna possibilità di discussione; per Antigone, queste stesse
decisioni devono rispettare le leggi non scritte, in questo caso
gli obblighi relativi alla sepoltura d’un congiunto, che costi-
tuiscono nel mondo greco un dovere reso imprescrittibile dal-
le consuetudini civili e religiose consacrate dalla tradizione 20.
 

18
S. TZITZIS, “Scolies sur les nomima d’Antigone représentés com-
me droit naturel”, in Archives de Philosophie du Droit XXXIII, 1988,
pp. 243-258, qui p. 246.
19
Ivi, p. 254.
20
Benché Antigone faccia appello alle usanze non scritte circa la
sepoltura dei congiunti, va tuttavia aggiunto che questo riferimento
alla tradizione consuetudinaria e religiosa viene da lei sensibilmente
indebolito, allorché sostiene (vv. 904-912) che non avrebbe infranto
l’editto di Creonte per un marito o un figlio, in quanto questi ultimi
non sarebbero così insostituibili come un fratello, quando i genitori
sono morti. Questo argomento controverso, che costituisce un implici-
to omaggio a Erodoto (Storie 3, 119) che aveva fatto pronunciare alla
moglie di Intrafene un discorso, sia pure solo per certi versi, analogo,
è ben presentato e discusso, dal punto di vista storico-filologico, in D.
SUSANETTI, “Commento”, cit., pp. 329-331, e dal punto di vista filoso-
fico in due testi di Bruno Moroncini, l’uno in riferimento all’interpre-
tazione hegeliana (B. MORONCINI, Il sorriso di Antigone. Frammenti

 
72 Il dilemma di Antigone

Il conflitto messo in scena dalla tragedia si gioca tutto al-


l’interno dell’ordine socialmente istituito. La stessa Antigone,
quando sostiene che l’editto di Creonte infranga le immemo-
rabili leggi degli dei, non gli contesta questa trasgressione
come una colpa religiosa, ma solo perché, così facendo, il so-
vrano ha violato ciò che in linguaggio moderno De Bechillon
non esita a definire “il Diritto costituzionale non scritto della
Città greca” 21. Alla luce di quest’osservazione, l’editto di
Creonte andrebbe inteso come una ‘norma ordinaria’ suscet-
tibile d’esser considerata illegittima alla luce di una norma di
grado superiore. In tal modo, i nomima non scritti svolgereb-
bero nel dramma il medesimo ruolo di garanzia che nelle
odierne democrazie costituzionali svolgono le Costituzioni
rigide nei confronti delle leggi ordinarie.
Una rilettura simile ispirava in Italia nell’immediato do-
poguerra e quindi all’indomani della svolta repubblicana un
giurista democratico come Piero Calamandrei nei suoi riferi-
menti ‘militanti’ alle “leggi di Antigone” 22. E ai giorni nostri
a questo medesimo schema possono ricondursi, negli scritti
di Gustavo Zagrebelsky, alcuni suggestivi interventi sull’An-
 

per una storia del tragico moderno (1986), Filema, Napoli 2004, pp.
149-153), l’altro in riferimento all’interpretazione lacaniana (cfr. B.
MORONCINI, “Antigone e l’essenza della tragedia”, in B. MORONCINI-
R. PETRILLO, L’etica del desiderio. Un commentario del seminario
sull’etica di Jacques Lacan, Cronopio, Napoli 2007, pp. 219-221).
21
DE BECHILLON, BECHILLON, “Retour sur la nature. Critique d’une
idée classique de droit naturel”, in J.-F. NIORT-G. VANNIER (a cura di),
Michel Villey et le droit naturel en question, L’Harmattan, Paris 1994,
p. 66, op. cit., p. 66. S. TZITZITIS, op. cit., p. 259 dal canto suo richia-
ma l’opposizione tra diritto legale e diritto consuetudinario alla quale
Jean Carbonnier riconduceva il vero significato della rivolta di Anti-
gone contro l’editto di Creonte.
22
Cfr. P. CALAMANDREI, Costituzione e leggi di Antigone. Scritti e
discorsi politici, a cura di C. STAJANO, Sansoni, Firenze 2004.
La tragedia del nomos 73

tigone 23, paralleli all’insistita rivendicazione dell’irriducibili-


tà della Costituzione all’ordine della legge e alla sua necessa-
ria inscrizione nell’orizzonte del ius 24. In questo senso, egli
parla d’una vera e propria “scommessa del costituzionali-
smo”, che si fonda sulla “capacità della Costituzione, posta
come lex, di diventare ius” 25. Posizione questa molto chiara
ed efficace nella sua posta in gioco – secondo cui l’appello
d’Antigone ai nomima andrebbe letto come un riferimento
necessario a dei principi giuridici superiori, all’occorrenza
capaci di correggere la legge istituita, quando quest’ultima
diventa arbitraria e quindi potenzialmente tirannica – ma su-
scettibile di qualche perplessità da parte di chi vi vede “il ri-
schio di una sovrainterpretazione che può condurre all’arbi-
trio filologico”. Sono parole di Emanuele Stolfi, che così con-
tinua: “Zagrebelsky insiste in effetti su una contrapposizione:
quella fra il diritto di Antigone e la legge di Creonte, quali
dimensioni di cui Sofocle avrebbe reclamato la coesistenza
nell’Atene democratica, dove sarebbe stato necessario essere
contemporaneamente Antigone e Creonte e non essere inte-
gralmente Antigone né Creonte. Ma questo comporta il ricor-

23
Cfr. G. ZAGREBELSKY, “Il diritto di Antigone e la legge di Creon-
te”, in Nomos basileus. La legge sovrana, a cura di I. DIONIGI, Rizzoli,
Milano 2006, pp. 19-61 e ID., La legge e la sua giustizia. Tre capitoli
di giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 51-72. Za-
grebelsky è in più di un’occasione intervenuto sull’Antigone nei suoi
scritti giornalistici, tra i quali si veda almeno “Antigone e la legge che
smarrisce il diritto”, La Repubblica, 25 giugno 2003; leggibile anche
online: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2003/
06/25/antigone-la-legge-che-smarrisce.html (consultato il 3 novembre
2016).
24
Cfr. per esempio G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia,
cit., p. 127.
25
Ivi, p. 126.

 
74 Il dilemma di Antigone

so a una polarità (diritto versus legge) che può avere un senso


nella storia romana (con la dialettica, precocemente istituita,
fra ius e lex) e poi ancor più in quella dell’Europa continenta-
le a partire dal XVIII e XIX secolo, ma che trovo improponi-
bile per la Grecia classica, che neppure disponeva di un ter-
mine per designare il nostro diritto (come noto, solo il latino,
fra le lingue antiche, coniò un vocabolo apposito) e che al
nomos assegnò un significato ben più esteso e composito di
quello che noi scorgiamo nella legge” 26. Il fondamento di
queste perplessità filologiche è costituito dalla impossibilità
di “ricondurre a una chiave ermeneutica unica […] e persino
estranea alla semantica sofoclea un ordito di motivi e intera-
zioni originariamente ben più complesso e (volutamente) am-
biguo. Potremmo dire, banalizzando un po’, che (anche, o
forse soprattutto) i giuristi e gli storici del diritto razionaliz-
zano e cercano risposte (interpretazioni) limpide e funzionali,
laddove il tragediografo mirava essenzialmente a suscitare
domande, evocare problemi profondi, molteplici e concatena-
ti, portando in scena, senza una dichiarata via di uscita, un
conflitto angoscioso, tale da suscitare quei moti di terrore e
pietà nella cui produzione Aristotele individuava, come noto,
lo scopo specifico della ‘imitazione’ tragica” 27.

26
Cfr. E. STOLFI, “Dualità nomiche”, in Dike, 17, 2014, pp. 101-
119, qui p. 112; sull’irriducibilità dell’esperienza greca del nomos alla
dicotomia di lex e ius, Stolfi rimanda, oltre che al suo precedente
“Nomoi e dualità tragiche. Un seminario su Antigone”, in SDHI –
Studia et documenta historiae et iuris, 80, 2014, pp. 484-5, al lavoro
di A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi,
Torino 2005, spec. p. 74 ss. (su cui mi sia permesso di rinviare al capi-
tolo IX, “Nomos e ius alle radici della democrazia moderna”, in F.
CIARAMELLI, Consenso sociale e legittimazione giuridica, Giappichel-
li, Torino 2013, pp. 167-184).
27
E. STOLFI, “Dualità nomiche”, cit., pp. 112-113.
La tragedia del nomos 75

La frattura tra Antigone e Creonte è espressione di quelle


che Stolfi chiama “dualità nomiche”; che, entro lo spazio isti-
tuito dell’ordine giuridico-politico, s’è prodotta una vera e
propria dicotomia di rivendicazioni difficilmente armonizza-
bili. Il teatro tragico le mette in scena senza aver la pretesa
conoscitiva o speculativa di prescrivere i modi della loro ri-
composizione in unità. Da qui la lucida conclusione di Stolfi:
“Proprio l’ostinazione e l’intransigenza (in sostanza, la hy-
bris) di chi rimaneva ancorato a uno solo degli inconciliabili
dettami in cui era andata scindendosi l’unità arcaica del no-
mos, era rappresentata come il male da esorcizzare. L’eccesso
e la dismisura, con quel quid di tirannico che vi rimaneva in-
scritto, incombevano ancora sulla città del V secolo, coi suoi
interni dissidi e il rischio della sopraffazione della maggioran-
za che (come rivela la stessa etimologia di dēmokratia) ne co-
stituiva il lato oscuro. Sofocle non aveva, ovviamente, solu-
zioni univoche da additare, tantomeno in modo esplicito; al
massimo poteva indurre a immaginare un percorso, all’insegna
della mediazione e di una faticosa ricomposizione delle dualità
nomiche, così da contemperare rispetto degli dei e delle più ri-
salenti tradizioni familiari (e perciò aristocratiche) con la sal-
vaguardia dell’assetto della polis. Ma soprattutto era suo com-
pito disseppellire un’inquietudine riposta e latente, portare alla
luce le angosce dell’uomo (e) del proprio tempo, indurre a in-
terrogarsi. È quello che, a partire dai suoi versi, continuiamo a
fare, incessantemente, da oltre due millenni” 28.

28
E. STOLFI, “Dualità nomiche”, cit., p. 115.

 
76 Il dilemma di Antigone

La legittimazione del nomos e il problema della sua ori-


gine.

Come ha scritto Aristotele, “dove i nomoi non comandano


[mē archousin], non c’è politeia” 29. Qui politeia, general-
mente tradotto con “costituzione”, significa esattamente
l’unione dei cittadini 30, cioè la loro pluralità tenuta unita dal-
l’effettività della legislazione in quanto comando politico.
Quest’ultimo costituisce, dunque, il cemento della società, la
sua legalità di volta in volta vigente. Sennonché, il senso del
nomos non si riduce al suo dato di fatto. La descrizione socio-
logica di quest’ultimo non esaurisce il problema della legit-
timazione del nomos, cioè della giustificazione del comando
politico. D’altra parte, in una società democratica, essendo in
via di principio esclusa ogni forma di autorizzazione extra-
sociale della legalità istituita, il giudizio dei consociati è la
sola possibile maniera di valutarla, cioè di giudicarne la tenu-
ta, decidendo se e come vale la pena trasformarla. L’unica
forma di legittimazione dell’ordine sociale vigente, l’unica
che si dimostri adeguata all’esperienza della democrazia, è
perciò la sua trasformabilità e perfettibilità a partire da un’ap-
profondita e radicale sua discussione pubblica, essendo im-
possibile ricondurre l’ordine costituito all’originaria evidenza
del vero, alla sua necessità incontrovertibile. A differenza di
ciò che accade nell’Edipo Re in quanto “tragedia dell’appa-
renza”, nell’Antigone alla ricerca della verità originaria dei
fatti (ricerca che non avrebbe neanche motivo di cominciare,
perché l’eroina mette subito le carte in tavola e non vuole af-
fatto che il suo gesto sia coperto dal silenzio) si sostituisce

29
ARISTOTELE, Politica, 1292 a 32.
30
Cfr. C. PACCHIANI, “Aristotele: la giustizia virtù politica”, in Fi-
losofia politica, XX, 2001 n. 1, pp. 29-49, p. 33.
La tragedia del nomos 77

l’esigenza – che lo svolgimento concreto del dramma lascia


insoddisfatta – d’una efficace mediazione giuridica tra posi-
zioni e interessi in conflitto radicale.
A questo punto, la domanda sulla legittimità dell’ordine
giuridico-politico non ha più un semplice valore formale e
procedurale ma fa riferimento a qualcosa di più profondo,
analogo a ciò che Scarpelli metteva in relazione con “la fon-
dazione metasistematica del principio fondamentale del si-
stema” e, in un passo precedentemente citato, chiamava “le-
gittimazione del diritto positivo” 31. Se ci si posiziona su un
simile piano metasistematico, ci si rende conto, come ha
scritto Roberto Calasso, che “qualsiasi teoria occidentale del-
la legittimità soffre di una mancanza: non conosce le acque
dell’origine. […] Senza quelle acque, tutti sono usurpatori. E
i primi usurpatori possono ricorrere a un solo alleato: il tem-
po. Quando una sovranità sussiste da un certo tempo si sup-
pone che la crudezza con cui ha affermato la sua forza sia già
avvolta e coperta dalla douceur di una consuetudine, di un’ac-
cettazione prolungata, infine: di una tradizione. Così la tradi-
zione non servirà più a rivendicare l’origine, ma a celarla” 32.
Questa ignoranza e questo disconoscimento, ben prima delle
tante geremiadi sulla “crisi del mondo moderno” 33, costitui-
scono secondo Calasso il “peculiare nefas dell’Occidente” 34,
costretto a colmare il vuoto di quell’origine mancante. L’in-
venzione dell’origine come inganno, caratterizzata dall’eva-

31
Cfr. supra, capitolo primo.
32
R. CALASSO, La rovina di Kasch, Adephli, Milano 1983, pp. 30-31.
33
L’espressione, poi tante volte ripresa, risale forse a un celebre li-
bro di René Guénon, la cui edizione originale è del 1927: cfr. R.
GUÉNON, La crisi del mondo moderno, a cura di J. EVOLA, Edizioni
Mediterranee, Roma 1972.
34
R. CALASSO, op. cit., p. 31.

 
78 Il dilemma di Antigone

nescenza del senso e soprattutto dall’avvertimento della sua


fragilità, estromette una volta per tutte la civiltà greco-oc-
cidentale dall’intimità dell’origine – “tempio sacro” 35 della
presunta coincidenza immediata di realtà e significato – ma al
tempo stesso ne produce l’inguaribile nostalgia.
È tuttavia necessario chiedersi se l’ignoranza dell’origine
e il suo disconoscimento siano davvero il “peculiare nefas”,
cioè la specifica empietà, il caratteristico e distintivo delitto
di cui si sarebbe macchiato l’Occidente, di cui, dunque, la sua
ragione e la sua forma di vita sarebbero responsabili, e perciò
in qualche modo dovrebbero poi anche emendarsi. Non sono
piuttosto la presa d’atto dell’assenza di un’origine necessitan-
te e ovviamente unica, la constatazione della carenza irredi-
mibile d’un fondamento universale e necessario del reale, in-
somma l’assunzione dell’impossibilità ontologica – oltre che
etica e prasseologica – d’accedere in maniera diretta ad un
unico principio fondante la molteplicità delle totalità storico-
culturali, tra loro diverse e irriducibili?
Anche la rigorosa analisi critica dell’obbligo giuridico mi-
nacciato dalla modernità, proposta di recente da Francesco
D’Agostino 36, culmina nella descrizione e nella critica di ciò
che ai suoi occhi costituisce il deprecabile disconoscimento
moderno dell’universalità e necessità del diritto: “Rifiutando
un orientamento valoriale, sia tradizionalistico sia giusnatura-
listico, il moderno esalta e si compiace del carattere contin-
gente del diritto, così come, in chiave più ampia, di qualsiasi
altra pratica sociale. Contingenza significa, in questo conte-
sto, assenza di presupposti vincolanti, mutabilità priva di
 

35
“Venite al tempio sacro delle vergini / dove è più grato il bosco e
sulle are / fuma l’incenso” (SAFFO, “Invito all’Erano”, in Lirici greci
tradotti da Salvatore Quasimodo, Mondadori, Milano 1967, p. 21).
36
F. D’AGOSTINO, “L’obbligo giuridico e il paradigma della tradi-
zione”, in Ragion pratica, 43, 2014, pp. 377-383.
La tragedia del nomos 79

condizionamenti e di limiti. Abolendo il valore della tradizio-


ne e negando la possibilità di poter dare un fondamento giu-
snaturalistico al diritto ne risulta che la qualità del diritto non
sta nel valore immanente delle sue norme, ma nel fatto che
esso può sempre essere cambiato, quindi nella sua trasfor-
mabilità e nella possibilità della sua negazione. In tal modo il
diritto moderno riconosce se stesso solo in quanto positivizza-
to; di conseguenza la produzione del diritto, come diritto po-
sitivo, viene a significare semplicemente la selezione, nel-
l’ambito di tutte le norme materialmente possibili, di quelle
volute per essere valide, destinate cioè ad essere generalmen-
te riconosciute per tali e meritevoli di essere rafforzate da
minacce sanzionatorie” 37.
In tal modo, secondo D’Agostino, il processo di positiviz-
zazione del diritto conduce fatalmente all’evaporazione con-
giunta di obbligo giuridico e obbligo politico: “La positivizza-
zione moderna degli ordinamenti giuridici e la duplice erosio-
ne della matrice tradizionale e della matrice giusnaturalistica
del diritto, con la conseguente e inevitabile qualificazione
formale e non sostanziale non solo degli illeciti (e in particola-
re dei reati), ma in generale del bene umano (almeno nella sua
dimensione sociopolitica), rendono fragilissimo non solo l’ob-
bligo giuridico, ma anche (il che per alcuni, e non a torto, va
ritenuto ancor più preoccupante) l’obbligo politico” 38.
E tuttavia, nonostante tutto, la stessa oggettività del diritto
non può valere e imporsi di per sé stessa, neanche nella pro-
spettiva ontologica e valoriale fatta valere da D’Agostino. In-
fatti, anche in questo orizzonte non inficiato dal relativismo
della modernità, risulta indispensabile ciò che D’Agostino
chiama “discernimento dei valori”, il quale non può che

37
Ivi, p. 381.
38
Ivi, p. 382.

 
80 Il dilemma di Antigone

comportare un intervento umano, quindi soggettivo, di cui


non si potrà disconoscere il carattere storicamente e social-
mente determinato. Leggiamo: “In ambedue i modelli del di-
ritto, quello tradizionalistico e quello giusnaturalistico, al di-
ritto viene attribuito un fondamento assoluto di carattere va-
loriale: un fondamento storicistico (nel senso più lato del
termine) per il tradizionalismo e metafisico-religioso per il
giusnaturalismo. In ambedue i casi il discernimento dei valori
si presenta come un’esigenza primaria e irrinunciabile. Per il
tradizionalismo, il problema è quello di discernere la tradi-
zione autentica e pura da quella manipolata o travisata. Per
il giusnaturalismo, il problema è quello di leggere in modo
filosoficamente e teologicamente corretto la natura e di de-
durre correttamente da essa i principi a partire dai quali orien-
tare e vincolare le pratiche sociali degli uomini” 39.
Mal si comprende come un fondamento assoluto di caratte-
re valoriale possa poi rimaner tale passando al vaglio d’un di-
scernimento – inevitabilmente affidato a esseri umani in carne
e ossa – che non potrà non reintrodurre la relatività e il conflit-
to delle sue interpretazioni. In ogni caso, anche in una conce-
zione rigorosamente ontologica dell’oggettività del diritto, la
questione della legittimità non può fare a meno d’un rimando
decisivo alla responsabilità umana: non c’è fondazione ontolo-
gica che non sia in fin dei conti affidata – attraverso l’inevi-
tabile discernimento valoriale – ai condizionamenti sociali e
storici che necessariamente ne caratterizzano l’espressione.
Orfani dell’origine, dobbiamo assumerci la responsabilità
storico-sociale di farne a meno e di sostituire alla presunta
autoesibizione ontologica dell’oggettività del senso, l’elabo-
razione responsabile dei significati storico-sociali che fanno
umana la vita. Non basta l’avvertimento della sua mancanza
per conferire all’intimità dell’origine lo statuto ontologico di
 

39
Ivi, p. 380.
La tragedia del nomos 81

precedente dimenticato che fonda la dispersione delle espe-


rienze storiche e del loro presunto significato universale. Alla
base di queste ultime, non c’è un’originaria natura umana che
le precederebbe e a cui si potrebbe e magari dovrebbe ritorna-
re: in realtà, anche coloro che ritengono di doverne asserire
l’irriducibile oggettività, non possono poi esimersi dal compi-
to, inevitabilmente soggettivo, di discernere i valori che ne
discendono. In altri termini, non esiste un’anticamera della
storicità nella quale avrebbero preso automaticamente avvio
le forme e le condizioni della vita storico-culturale. La nostra
unica dimora è proprio la mancanza di un’origine necessitan-
te, descritta da Calasso e D’Agostino come una sorta di ma-
laugurata e dolorosa deprivazione: ma, checché ne sia di que-
sto giudizio, in ogni caso è esattamente una tale mancanza a
costituire l’insuperabile storicità della condizione umana –
una storicità inaggirabile e altamente problematica al cui in-
terno soltanto è immaginabile e acquista senso un dramma
come quello messo in scena nell’Antigone.

La tragedia attica e il ruolo attivo dei cittadini-spet-


tatori.

L’impossibilità d’esibire un’unica soluzione, universale e


necessaria, dell’estrema contrapposizione tra deliberazione
dell’eroina e comando politico del potere sovrano deriva dal
carattere drastico e incomponibile del loro contrasto. Sulla
scena del teatro, così come nello spazio pubblico della polis,
le collisioni decisive, anziché contrapporre una ragione e un
torto, hanno luogo tra ragioni diverse, la cui convivenza si ri-
vela al tempo stesso indispensabile ma impossibile. E in que-
sto dissidio radicale, molto più problematico d’un bisticcio
logico, consiste il nucleo propriamente tragico dell’Antigone.
L’essenza di quest’ultima sta tutta nell’insolubilità del dissi-

 
82 Il dilemma di Antigone

dio per l’impossibilità di rendere giustizia a ciascuna delle


due ragioni attraverso una relazione e una misura adeguate, in
grado di tener conto delle aspettative di entrambe. Il carattere
drastico e distruttivo del contrasto esclude che vi sia un’unica
via d’uscita praticabile. Perciò non soltanto sulla scena non
viene rappresentata alcuna soluzione del conflitto, ma i ter-
mini di quest’ultima non sono neanche ricavabili in maniera
controfattuale dallo svolgimento della tragedia.
Antigone mette in scena l’eccesso e la catastrofe distruttiva
cui giunge l’unilaterale e irremovibile determinazione delle
ragioni o dei sistemi di valori incarnati nei personaggi che si
contrappongono: ma Sofocle non indica la via da seguire per
essere in grado di evitare la conclusione mortifera; in altri
termini, nella messinscena tragica non è adombrata, neanche
in negativo, alcuna sintesi capace di far convivere le ragioni
antitetiche di Antigone e Creonte, dal momento che il testo
non esibisce alcuna misura universale o criterio oggettivo che
garantisca una via d’uscita praticabile al conflitto tra coscien-
za e potere. La “saggezza pratica” a più riprese evocata dal
Coro è cosa ben diversa da una presa di posizione individuale
ricavabile per via deduttiva da premesse universali e necessa-
rie, ma potrà solo, eventualmente, emergere da una nuova
mediazione tra le ragioni in conflitto. La grande abilità arti-
stica di Sofocle sta nel farne acutamente avvertire l’esigenza,
lasciando agli spettatori – cioè alla pluralità dei cittadini – il
compito di concretizzarla, senza però indicarne una volta per
tutte gli ingredienti, la ricetta e le modalità di realizzazione.
Il fatto più volte notato che l’Antigone ponga una serie di
problemi senza indicare le loro soluzioni, che faccia emergere
esigenze etiche, politiche e giuridiche che vengono formulate
solo in negativo senza esplicitare le forme concrete che po-
trebbero soddisfarle, va perciò ricondotto al contesto teatrale
della sua origine, a patto di tenere ben presente che i destina-
tari dell’opera non sono spettatori in cerca d’intrattenimento
La tragedia del nomos 83

ed evasione: sono invece cittadini d’una democrazia diretta,


per la quale il teatro tragico è una forma istituzionalizzata di
“arte politica” 40. Perciò sarà compito dei cittadini cercare le
soluzioni che la scena non offre, rielaborando le esigenze che
l’opera pone, senza però indicare una volta per tutte il modo
in cui possano essere soddisfatte. In questo suo rivolgersi al-
l’insieme dei cittadini per coinvolgerne e mobilitarne la ri-
flessione, consiste il significato propriamente politico della
tragedia attica, impensabile al di fuori della democrazia. “La
tragedia è certamente fornita d’una pluralità di livelli di signi-
ficato, e non avrebbe senso ridurla ad una funzione ‘politica’
stretta. Ma, senza dubbio, c’è una dimensione politica cardi-
nale della tragedia, che bisogna ben guardarsi dal confondere
con le ‘posizioni politiche’ prese dai poeti, o anche con le ar-
ringhe eschilee, tanto commentate (a giusto titolo, seppur in
maniera insufficiente), che per esempio nell’Oresteia elogia-
no la giustizia pubblica e attaccano la violenza privata. La
dimensione politica della tragedia dipende, prima di tutto e
soprattutto, dalla sua base ontologica. Quel che la tragedia dà
a vedere a tutti, non ‘discorsivamente’ ma mediante presenta-
zione, è che l’Essere è Caos” 41.
Più precisamente, il modo stesso con cui l’Antigone af-
fronta il problema dell’azione politica assume la sua rilevan-
za esclusivamente nell’orizzonte della democrazia. “L’opera
mette in evidenza l’incertezza sempre presente in questo
campo, fa emergere a tutto tondo il carattere impuro dei mo-
venti, mostra la natura poco concludente su cui si fondano le
nostre decisioni. E mostra che la hybris […] può prendere la
forma d’una volontà inflessibile d’applicare le norme e na-

40
C. MEIER, L’arte politica della tragedia greca, trad. D. Zuffella-
to, Einaudi, Torino 2000.
41
C. CASTORIADIS, L’enigma del soggetto, cit., pp. 218-219.

 
84 Il dilemma di Antigone

scondersi dietro motivazioni nobili e degne, siano esse pura-


mente razionali o connesse alla pietà religiosa. Proprio attra-
verso la sua denuncia del monos phronein [v. 707: Emone ac-
cusa suo padre di voler ‘essere saggio da solo’] l’Antigone
formula la massima fondamentale della politica democrati-
ca” 42. Scrive al riguardo C. Meier: “Quanto si deve aver re-
spirato l’aria della democrazia ed essere stati internamente
esposti a tutte le sue difficoltà, se si riesce ad affermare che
sia vuoto chi crede a un’unica idea! Questi infatti non riesce a
contenere in sé stesso la moltitudine delle possibili opinioni,
perché la sua apertura interiore non corrisponde a quella della
democrazia” 43.
In questo senso, si può a buon diritto sostenere che gli
Ateniesi “avevano bisogno” della tragedia, la cui “funzione
politica” era essenziale alla formazione della “struttura intel-
lettuale” d’una cittadinanza caratterizzata dalla temerarietà di
autogovernarsi 44. Da qui, nell’Antigone, la centralità nevral-
gica del “problema di chi garantisce la saggezza della deci-
sione, per la quale sussiste un margine di scelta eccezional-
mente ampio” 45. La messinscena tragica, invece d’elaborarne
una risposta teoretica conclusiva, affida quel problema e la
ricerca delle sue soluzioni ai cittadini di Atene che Sofocle ha
il grande merito di mettere a confronto con sé stessi, “in parte
con la loro realtà, ma ancor più con la loro possibilità” 46, evi-
tando in ogni caso di presentar loro conclusioni teoretiche,
deresponsabilizzanti e preconfezionate.

42
C. CASTORIADIS, L’enigma del soggetto, cit., p. 221.
43
C. MEIER, op. cit., p. 258.
44
Ivi, pp. 3-4 (ma si veda tutto il primo capitolo, intitolato “Perché
i cittadini attici avevano bisogno della tragedia”, pp. 3-10).
45
Ivi, p. 257.
46
Ivi, p. 260.
La tragedia del nomos 85

Giustizia senza ontologia.

Dall’Antigone emerge dunque l’esigenza d’una mediazio-


ne tra due contrapposte unilateralità, ciascuna delle quali si
vive e si autorappresenta come assolutamente ‘giusta’. Una
simile esigenza, tuttavia, resta non soltanto insoddisfatta, ma
– cosa che si rivela ancora più significativa – sprovvista di
indicazioni sui modi concreti del suo possibile soddisfaci-
mento. Questa carenza, riconducibile, come s’è appena visto,
al significato civile e politico del teatro tragico nella demo-
crazia ateniese, acquista un significato ancor più rilevante, se
si presta attenzione al fatto che proprio nell’indicare e mo-
strare consiste il senso originario del termine da cui, nella
mitologia greca, prende il nome Dikē, dea della giustizia, fi-
glia di Zeus e Themis, alla quale si richiama Antigone nei
versi più volte richiamati della sua replica a Creonte. Nel-
l’analisi storica ed etimologica del vocabolo dikē, contenuta
nel suo grande libro sulle “istituzioni” indoeuropee, Benveni-
ste lo riconduce a un’antica radice indoeuropea *deik- che in
greco dà il verbo deiknymi, il quale significa appunto indicare
o mostrare 47: ma in questo caso non si tratta tanto di indicare
una cosa visibile o un oggetto esistente; si tratta invece di
mostrare con la parola ciò che è e che perciò si deve fare. In
questo modo dikē assume il senso di giustizia. Ciò che resta-
va implicito in *deik- viene man mano esplicitato, fino al
punto che – scrive Benveniste – le “dikai sono proprio le for-
mule di diritto che si trasmettono e che il giudice è incaricato
di conservare e di applicare” 48. In tal modo, attraverso l’eti-

47
Cfr. E. BENVENISTE, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee,
vol. II, Potere, diritto, religione, a cura di M. LIBORIO, Einaudi, Tori-
no 2001, p. 363.
48
Ivi, p. 365.

 
86 Il dilemma di Antigone

mologia, l’analisi di Benveniste evoca una mitica unità di mi-


sura universale. Quest’ultima si situa, per dir così, nella prei-
storia dell’intervento istituzionale del giudice, il quale, dal
canto suo, attraverso le sue sentenze, “diventa l’espressione
della giustizia stessa” 49.
La dimensione storica dell’esperienza politica e giuridica
ha dunque dovuto abbandonare lo sfondo mitologico-religio-
so dell’ordine cosmico. Grazie a questa transizione, al termi-
ne dikē, che indica ormai la procedura giudiziale attraverso
cui si separa il giusto dall’ingiusto, s’accompagna il termine
dikaiosynē, che indica invece la giustizia come ‘virtù’ umana,
cioè come eccellenza dell’agire, tanto nella sua dimensione
individuale quanto soprattutto nella sua dimensione colletti-
va, cioè politica. In questo senso, si può concludere che “dikē
è simmetria nel rapporto tra le parti, dikaiosynē è pratica della
misura” 50. Perciò Aristotele può dire all’inizio della Politica:
“hē de dikaiosynē politikon” (“ma la giustizia è un che di po-
litico”) 51.
Una volta abbandonato il contesto mitologico dell’ordine
cosmico, l’indicazione sui modi di realizzazione dell’esigen-
za di giustizia non può che perdere la sua universalità. Sprov-
vista d’evidenza immediata, essa non può che rimettersi alle
circostanze e ai contesti in cui quell’esigenza di volta in volta
rinasce nella vita concreta della polis. Dall’ontologia in quan-
to intelligenza della realtà nelle sue connessioni necessarie si
passa all’etica come autoregolazione della prassi. Tra dikaio-
synē, dikē e dikaion si realizza un intreccio che gli scritti eti-
co-politici di Aristotele provano pazientemente a sciogliere.

49
Ivi, p. 366.
50
A. JELLAMO, Il cammino di Dike: l’idea di giustizia da Omero a
Eschilo, Donzelli, Roma 2005, p. 100.
51
ARISTOTELE, Politica, 1253 a 37.
La tragedia del nomos 87

Come ha chiarito C.A.Viano, per Aristotele, infatti, dikaio-


synē è “la virtù della giustizia che costituisce il vero fonda-
mento della comunità politica; dikē è la giustizia positiva,
cioè quale risulta dai giudizi degli organi della comunità e
dalle sue norme positive; to dikaion è quel che spetta a cia-
scuno in base al pronunciamento della comunità. Perciò la
virtù della giustizia si può realizzare in atti di giustizia, cioè
in leggi e sentenze, che determinano ciò che è giusto per cia-
scuno” 52.
La giustizia, intesa aristotelicamente come “virtù pratica”,
s’esercita nella polis e consiste nella transizione dalla simme-
tria oggettiva e universale, che sul piano mitologico si racco-
glie nel mostrare originario di Dikē, alla pratica umana della
misura istituita. L’attività giudiziale svolge un ruolo decisivo
in questa transizione. Perciò subito dopo aver sostenuto, nel
passo della Politica appena citato, che la giustizia come “vir-
tù” è un che di politico (in quanto si esercita nella polis), Ari-
stotele aggiunge un chiarimento fondamentale: “infatti dikē
(intendiamo: la giustizia positiva) è l’ordine [taxis] della co-
munità politica” 53. Nel libro quinto dell’Etica Nicomachea,
Aristotele aveva già detto che dikē è “il discernimento [krisis]
del giusto e dell’ingiusto” 54. Nei due casi, dikē non è più una
nozione mitologica ma il giudizio umano che stabilisce ciò
che è giusto separandolo da ciò che è ingiusto, e producendo
in tal modo all’interno della polis un ordine convenzionale o
istituito, una taxis, analogamente a ciò che fa uno stratega che
dispone ordinatamente le sue truppe in battaglia, tenendo
conto del contesto concreto, senza però poter dedurre auto-

52
ARISTOTELE, Politica, Introduzione, traduzione e note di C.A.
Viano, testo greco a fronte, Bur, Milano 2002, pp. 78-79 (in nota).
53
ARISTOTELE, Politica, 1253 a37-39.
54
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, 1134 a 31.

 
88 Il dilemma di Antigone

maticamente dal sapere scientifico o dall’intelligenza concet-


tuale della natura del suolo – o da qualunque altro modello
preliminare, teoreticamente accessibile – ciò che viceversa
sarà lui a dover porre in essere. In ultima analisi, nella nozio-
ne di taxis come ordine artificiale, cioè posto per convenzio-
ne e perciò istituito, la responsabilità umana nell’istituirlo è
decisiva e ineludibile, e non può esser ricondotta all’applica-
zione automatica di cognizioni preliminari, fornite di eviden-
za immediata.
Alla base della giustizia non c’è dunque l’ontologia, l’in-
telligenza della necessità e universalità dell’essere, cioè del
suo ordine cosmico da cui dedurre l’ordine della città, ma l’e-
laborazione storico-culturale di significati e valori capaci di
aggregare un gruppo umano, di rispettarne le articolazioni, di
mantenerne – o farne diventare – pacifica la convivenza. Solo
su questi risultati – e non sull’ipotetica conformità a un inesi-
stente modello universale – i significati culturali, nella loro
particolarità e contingenza istituite, dovranno essere di volta
in volta valutati, cioè valorizzati o svalorizzati, ritenuti degni
di conservazione e tutela o viceversa bisognosi di più o meno
radicali alterazioni.
CAPITOLO QUARTO
LA HYBRIS E LA NATURALIZZAZIONE
DELLA LEGALITÀ ISTITUITA

La singolarità dell’azione tragica


La paradossale somiglianza di Antigone e Creonte
Il senso e i limiti della philia familiare a cui si richiama Antigone
Si deve cercare nell’Antigone una “lezione di morale”?
Legge particolare e legge comune in Aristotele
L’azione umana disarticola le componenti fondamentali della phy-
sis aristotelica
Antigone: la hybris della nuda azione
La singolarità dell’azione tragica.

Come sappiamo, la peculiarità di Antigone non consiste


affatto nel rendersi accettabile né tantomeno nell’inscrivere il
proprio gesto all’interno d’una regola universale, per farne un
modello o un paradigma. Perciò, se da un lato non intende in
alcun modo nascondere la sua disobbedienza, di cui s’assume
fino in fondo la responsabilità, dall’altro si rifiuta di smorzare
lo scandalo del suo anticonformismo attraverso una qualun-
que forma di generalizzazione logica della propria iniziativa.
Come ha scritto Paul Mazon, “l’Antigone di Sofocle non è
una ragionatrice. La si può a stento definire una ribelle [une
révoltée]. Al potere costituito non oppone un no sistematico,
le prerogative di Creonte non sono da lei contestate. Solo una
cosa le sta a cuore: i propri legami familiari. Le sue prime pa-
role sono emblematiche: nei primissimi versi del dramma si
rivolge a Ismene perché le è ‘sorella e consanguinea’, inoltre
perché la sventura si sta dirigendo verso i suoi, infine perché
lei intende muovere in loro aiuto. ‘Creonte non ha il diritto di
separarmi dai miei’ (v. 49). Difendere la sua famiglia: ecco
l’unico scopo della sua vita” 1.
Costruire ragionamenti sui propri atti, provarsi a raziona-
lizzarli è il primo modo per universalizzarli, sminuendo il ca-
rattere inedito e innovativo della loro singolarità. Ed è esat-
tamente ciò che Antigone si rifiuta di fare, sottraendosi alla
logica delle spiegazioni che l’allontanerebbero dalla muta
eloquenza del gesto in cui si riassume e manifesta la sua uni-
 

1
P. MAZON, “Notice”, in SOPHOCLE, Tragédies. Tome 1, Les Tra-
chiniennes – Antigone, cit., pp. 65-66.
92 Il dilemma di Antigone

ca ragione di vita: l’estremo saluto all’amato fratello, evitan-


dogli la disumana offesa prevista dalla punizione inflittagli da
Creonte.
Ciò non significa che Antigone agisca d’impulso, senza ri-
flettere sulla sua azione, senza conoscerne le conseguenze.
Significa al contrario che l’attaccamento a Polinice, la salva-
guardia della sua identità attraverso l’atto umanizzante della
sepoltura, è riconosciuto da lei, con piena cognizione di cau-
sa, come il movente più alto della sua azione, l’unico per cui
valga la pena vivere e morire. In questa singolarità refrattaria
alla logica generalizzante di qualunque giustificazione, riluce
l’unicità del gesto, e di conseguenza quella del personaggio
che vi si identifica.
In tal modo, sottraendosi alla spirale delle argomentazioni
e dei ragionamenti, rifiutandosi soprattutto di collegare la
propria azione e la propria deliberazione all’approvazione
preliminare di chiunque, Antigone è fedele sino in fondo e
con coerenza estrema agli affetti familiari. Il nucleo dell’Anti-
gone sta tutto in questo primato del radicamento pre-politico
della sua singolarità: e solo attraverso questa sua estraneità
alla politica, risulta densissimo di risvolti politici.
Perciò si sbaglierebbe a vedere in questo suo gesto che si
sottrae all’universalizzazione l’emblema d’una generale ri-
volta contro l’autoritarismo o il potere dispotico del sovra-
no 2. Ci si ingannerebbe, perché ad Antigone non interessa af-

2
Sull’irriducibilità della posizione di Antigone alla “disobbedienza
civile”, pur qua e là rivendicata da alcuni interpreti (come per esempio
F. OST, op. cit., pp. 212-216), cfr. G. CARILLO, “‘Bia(i) politon’. Sulla
disobbedienza di Antigone”, in Filosofia politica, 22, 2009, pp. 5-29.
Il tema della disobbedienza di Antigone e del suo significato è stato al
centro di un lungo e stratificato dibattito all’interno del pensiero fem-
minile, su cui rimando all’aggiornata mappatura di, B. CASALINI, “Nel
segno di Antigone: disobbedienza femminista e queer”, in Genesis
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 93

fatto contrapporsi all’eventuale dispotismo di Creonte e


neanche alla sua misoginia. Scrive al riguardo Meier: “Anti-
gone non mette in questione il dominio o addirittura l’esisten-
za del sovrano con cui entra in conflitto. Non medita l’assas-
sinio o la vendetta. […] Solo in un punto si rifiuta di ubbidire
a Creonte, e anche qui nemmeno lei è sicura di avere ragione.
Comunque non può fare altrimenti, deve seppellire il fratel-
lo” 3. Se non ci fosse stata la minaccia alla dignità e in defini-
tiva all’essenza umana di Polinice, che Creonte, lasciandone
il cadavere insepolto in balia di cani randagi e uccelli rapaci,
vorrebbe uccidere una seconda volta; se non ci fosse stata
questa inaudita ‘emergenza’, Antigone non si sarebbe espo-
sta, non sarebbe scesa in campo, non avrebbe dato alla sua in-
crollabile fedeltà ai legami familiari – cioè, in definitiva, alla
sua intimità più intima – un’espressione pubblica.

XIV, 1, 2015, leggibile online: https://www.academia.edu/10100969/


Nel_segno_di_Antigone (consultato il 12 novembre 2016). Il testo di
Brunella Casalini, che risale a una relazione tenuta nel 2014, non ana-
lizza quella che potremmo considerare l’ultima espressione di questa
costellazione di pensiero, e cioè la forte rivendicazione del ruolo poli-
tico di Antigone, contenuta nell’interpretazione di B. HONIG, Antigo-
ne, interrupetd, Cambridge University Press, Cambridge 2013, ispira-
ta a una rivisitazione fortemente ‘agonistica’ del femminismo post-
strutturalista. Attraverso una molteplicità di chiavi di lettura, Bonnie
Honig intende sottrarre il gesto di Antigone al rischio d’una sua ridu-
zione umanistica e ‘maternalistica’, che a suo parere s’insinua nella
stessa tradizione del pensiero femminile. Perciò insiste decisamente
sulla dimensione ‘cospirativa’ dell’eroina, che supera di gran lunga la
sfera del lutto e del lamento per assumere consapevolmente la portata
conflittuale e divisiva – perfino “sgradevole, violenta, difficile” (p. 46) –
della contestazione politica. Una discussione adeguata delle sue posi-
zioni – e dei loro pluridisciplinari presupposti – eccede di gran lunga i
limiti spaziali e contenutistici del presente testo.
3
C. MEIER, op. cit., p. 254.

 
94 Il dilemma di Antigone

È perciò da escludere che ci si trovi di fronte a un’eroina


della rivolta politica. Le sue “ragioni” sono assolutamente
private, rimandano a un’iniziativa individuale non riconduci-
bile ad alcuna necessità oggettiva o intersoggettiva, tanto che
non le condivide neanche la persona a lei più vicina, cioè sua
sorella Ismene. Questo radicamento in una singolarità che
non può esser considerata premessa automatica di nessuna
azione collettiva, svincola l’eroina dalla logica coinvolgente e
virtualmente totalizzante d’ogni militanza politica. Anzi, il
gesto di Antigone costituisce una potente denuncia morale, il
cui contenuto è riconducibile all’osservazione generale di
Emmanuel Levinas, secondo il quale “la politica lasciata a sé
stessa porta in sé una tirannia” 4.
In realtà, una decisione politica come quella di Creonte,
anche se “presa su basi molto solide”, non riesce a legittimar-
si da sola, cioè in modo puramente autoreferenziale. Infatti,
come sostiene Castoriadis, “le più solide basi politiche pos-
sono rivelarsi traballanti se non son altro che ‘politiche’. Per
dirla altrimenti, è proprio a motivo del carattere totale del-
l’ambito del politico (comprese, in questo caso, le decisioni
sulla sepoltura nonché quelle relative alla vita e alla morte),
che una decisione politica corretta deve farsi carico di tutti i
fattori, di là da quelli ‘politici’ in senso stretto. E quand’an-
che pensiamo, per i motivi più razionali, che abbiamo preso
la decisione buona, questa può rivelarsi cattiva, addirittura
catastrofica. Nessuno può garantire a priori la giustezza d’un
atto, nemmeno la ragione. Ed è soprattutto cosa folle preten-
dere ad ogni costo di ‘esser saggio da solo’, monos phronein
(v. 707)” 5. L’insegnamento che si può ricavare dalla messin-
 

4
E. LEVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. A.
Dall’Asta, Jaca Book, Milano 1980, p. 308.
5
C. CASTORIADIS, “La polis greca e la creazione della democrazia”,
in ID., L’enigma del soggetto, cit., pp. 220-221.
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 95

scena sofoclea riguarda esattamente l’insostenibilità d’un si-


mile monismo e quindi l’esigenza etica d’una mediazione tra
posizioni che, chiuse nella loro assolutezza, conducono sol-
tanto alla distruzione reciproca.
Contrapponendo ai proclami e alle argomentazioni di
Creonte la debolezza risoluta e intransigente d’una singola
decisione irremovibile, Sofocle mostra il carattere smisurato
e catastrofico della pretesa politica mirante a totalizzare l’esi-
stenza umana, disconoscendo e calpestando lo spazio privato
d’una singolarità indomita che, seguendo la terminologia di
Eugenio Ripepe 6, si rifiuta all’obbligo politico – cioè si rifiu-
ta di obbedire all’editto del sovrano – pur sottomettendosi al-
l’obbligo giuridico e quindi non sottraendosi al castigo. “Che
si tratti di obblighi distinti, anche se paralleli, è perfettamente
chiaro, se non a Creonte (che tende a farne un tutt’uno al fine
evidente di bollare ogni rifiuto di obbedienza all’autorità po-
litica come violazione dell’obbligo giuridico), certamente a
Sofocle, che proprio da Creonte fa distinguere, ricorrendo al-
la congiunzione disgiuntiva ‘o’ per giustapporle, due diverse
categorie di sovversivi a lui invisi: da una parte, chi viola le
leggi, e, dall’altra, chi pretende di imporsi ai governanti [cfr.
vv. 663-664: ‘chi trasgredisce e viola le leggi, o presume di
dare ordine ai capi’]: che è come dire, appunto, da una parte,
chi non rispetta l’obbligo giuridico, e, dall’altra, chi non ri-
spetta l’obbligo politico” 7. L’obbligo giuridico comporta dun-
que il dovere di obbedire alle leggi, perciò, come nel caso di
Antigone, può configurarsi “anche nei termini di un volonta-
rio assoggettamento alle sanzioni previste in caso di inosser-
vanza” 8. La denuncia sofoclea della pretesa tirannica, secon-
 

6
Cfr. E. RIPEPE, op. cit., p. 695 ss.
7
E. RIPEPE, op. cit., p. 701.
8
E. RIPEPE, op. cit., p. 702.

 
96 Il dilemma di Antigone

do la quale il rispetto del diritto si ridurrebbe senza residui al-


l’ubbidienza cieca al potere politico, mette in discussione
“un’interpretazione dell’obbligo giuridico come dovere di
uniformare acriticamente la propria condotta a ogni singolo
precetto, anche se ingiusto, non certo l’obbligo giuridico in
quanto tale, cioè il dovere del cittadino di riconoscersi sog-
getto alla legge della polis” 9.
La disobbedienza di Antigone vale come testimonianza
d’un limite interno che la decisione politica dovrebbe inter-
dirsi di superare e calpestare, testimonianza imposta da un’esi-
genza morale che perciò non si cura di tradurre l’estrema sin-
golarità del proprio gesto in un linguaggio accettabile dal co-
dice politico. Se così facesse, il comportamento di Antigone
rientrerebbe in quella logica politica dei compromessi e delle
provvisorie ricomposizioni dei conflitti, che viceversa tanto
la sua denuncia morale quanto il suo ritrarsi dalla scena pub-
blica mirano a smontare. Insomma, non spetta a lei ‘risolvere’
lo scandalo della sua singolarità, rendendola compatibile con
la vita pubblica all’interno della polis.
Di questa doverosa compatibilità, di cui tuttavia il sublime
disinteresse di Antigone non si cura, l’arte di Sofocle, come
sappiamo, si limita a presentare in modo toccante e coinvol-
gente l’esigenza, forse addirittura l’urgenza, senza tuttavia
indicare i modi concreti, o, se si vuole, le ‘ricette’, della sua
possibile realizzazione. Nel suo svolgimento, il dramma si
limita a mettere in scena l’egemonia totalizzante del politico,
che, riuscendo a occupare l’intera estensione del sociale, cal-
pesta e sottomette alla propria logica la dimensione privata
degli affetti e degli obblighi che essi comportano. Ne emerge
in primo piano il ruolo degli spettatori, che nella messinscena
teatrale sono i destinatari della rappresentazione drammatica,

9
E. RIPEPE, op. cit., p. 705.
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 97

ma che nella realtà della polis sono i cittadini, ossia i titolari


dell’azione democratica e perciò i responsabili della sua auto-
limitazione. Spetterà a loro e solo a loro – in stretta continuità
con i commenti poetici del Coro – il compito di vigilare al-
l’istituzione e alla salvaguardia di un’autolimitazione del-
l’agire politico, che, garantendo il rispetto della singolarità,
eviti di ricadere nel dispotismo e nella tirannide, ma eviti an-
che di opporvisi con autolesionistica inflessibilità.

La paradossale somiglianza di Antigone e Creonte.

Come ha sostenuto Martha Nussbaum, tanto Antigone quan-


to Creonte realizzano “una spietata semplificazione del mondo
dei valori” 10. Questa vera e propria reductio ad unum para-
dossalmente li accomuna, e perciò poi spiega la virulenza del
loro conflitto. Cominciamo da Creonte: egli ha una visione
della città come di un “bene semplice” affidato unicamente
alla sua custodia e responsabilità. Al bene della città – bene
comune e collettivo – e soprattutto all’interpretazione di esso
ch’egli ne dà in quanto autorità suprema, deve essere subor-
dinato ogni affetto, ogni valore, ogni esperienza.
Ma se ora passiamo ad analizzare l’atteggiamento di Anti-
gone, vediamo che anche lei, nel corso dell’intero dramma, è
animata e motivata dalla difesa e salvaguardia d’un unico be-
ne. Anzi, proprio a questo proposito, va ribadito che il mo-
vente fondamentale, anzi esclusivo, del suo gesto non è di na-
tura universalistica.
“Antigone si richiama sempre ad un principio al quale
qualsiasi altro, obbligo politico compreso, non può a suo av-
viso non cedere: ma un principio che si radica in una tavola

10
M. NUSSBAUM, op. cit., p. 151.

 
98 Il dilemma di Antigone

di valori al cui centro è il sacro vincolo che unisce gli appar-


tenenti ad uno stesso ceppo familiare, i ‘nati dalle stesse vi-
scere’, appunto, e non in una presunta etica di amore e di pie-
tà, basata sul principio della dignità dell’uomo. E che le cose
stiano così è confermato come meglio non si potrebbe dal fat-
to che, mentre il divieto di sepoltura riguarda non solo il ca-
davere dello sventurato Polinice, ma tutti i morti lasciati sul
campo dagli eserciti che avevano cinto d’assedio la città di
Tebe, i cui corpi giacciono abbandonati a uccelli, cani e fiere
(vv. 1080 ss.), Antigone non è mai sfiorata dal pensiero di
dover infrangere quel divieto per dare sepoltura anche a loro.
Non a superiori doveri di rispetto e di pietà imposti a chiun-
que nei confronti di chiunque dalla comune appartenenza al
genere umano, come si dà per scontato nell’anacronistica vul-
gata corrente, Antigone subordina insomma gli obblighi che
le derivano dall’appartenenza alla comunità politica, ma a
quelli, da lei ritenuti prioritari, che le derivano dall’apparte-
nenza a una comunità parentale” 11.
C’è insomma nella figura di Antigone, così come viene
messa in scena da Sofocle, la sottolineatura d’una vera e pro-
pria unidimensionalità monocorde, centrata esclusivamente
sui legami di sangue, in nome della quale “la sua relazione
con le persone di questo mondo risulta sempre caratterizzata
da straordinaria freddezza” 12.
Anche in questo caso, colpisce la somiglianza con Creon-
te. Né l’una né l’altro, come osserva la Nussbaum, “sono es-
seri appassionati […]. Nessun dio, nessun essere umano
sfugge al potere dell’erōs, sostiene il Coro (vv. 787-790), ma
questi due strani esseri inumani, apparentemente, ci riescono.
Creonte vede le persone amate in funzione del bene della cit-

11
E. RIPEPE, op. cit., pp. 692-693.
12
M. NUSSBAUM, op. cit., p. 154.
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 99

tà, per produrre cittadini equivalenti l’uno all’altro. Per Anti-


gone i cari sono morti o servi dei morti oppure oggetti assolu-
tamente indifferenti. Nessun essere vivente è amato per le sue
qualità personali, amato con l’amore che Emone prova e che
Ismene loda” 13.
Nonostante tutto, però, questa freddezza colpisce in modo
particolare in Antigone, la cui opposizione alla totalizzazione
politica di Creonte farebbe pensare a una maggiore apertura
allo spazio relazionale.

Il senso e i limiti della philia familiare a cui si richiama


Antigone.

Nell’Antigone sofoclea, nella sua inflessibilità, nella sua


ferrea coerenza, balza agli occhi una singolare durezza, che
l’allontana da ogni coinvolgimento emotivo, e la riconduce
inflessibilmente al suo unico compito: proteggere la memoria
di Polinice, evitargli l’estremo oltraggio cui lo condanna
l’editto di Creonte. In parte, nel suo già richiamato addio alla
vita (vv. 891-943), la fanciulla sembrerà sciogliersi, fino a
rimpiangere quel che ha perduto, mostrandone la consapevo-
lezza e l’apprezzamento. “Il tono struggente del suo accorato
addio alla vita che sta per perdere vale ad escludere che il
comportamento di Antigone possa essere ricondotto (solo) a
quell’oscura pulsione di morte che aleggia nelle tragedie del
ciclo tebano” 14.
Per l’essenziale, però, Antigone sembra situarsi in una
prospettiva estranea ad ogni effusione sentimentale, ma anche
ad ogni forma di affettività, ad ogni amor della vita. La sua

13
Ivi, pp. 154-155.
14
E. RIPEPE, op. cit., p. 710.

 
100 Il dilemma di Antigone

fedeltà al compito cui la costringe la sua ribellione all’editto


di Creonte è da lei vissuta come un compito cui non può sot-
trarsi, una vocazione che egemonizza la sua affettività e che
di conseguenza le impone il sacrificio di ogni altro desiderio.
Perciò “il termine preferito da Antigone è philia, l’amore per
i suoi; non erōs, che presuppone l’alterità del desiderio” 15.
Questa philia – “che ella sceglie per ‘natura’ e per ‘nascita’”
come “amore esclusivo per ciò che è uguale a lei” – diventa
“l’ossessione di un autos, di un ‘sé stesso’ identitario che si
ripete in ogni membro della famiglia” 16. Ciò non esclude, tut-
tavia, che anche nei confronti dei suoi, ella sappia essere
d’una durezza spietata, tanto da trattare e apostrofare come
“nemica [echtharē]” (v. 93) 17 la sorella Ismene che la scon-
giura di desistere dal suo fermo proposito.
Uno dei versi più famosi del dramma è senza dubbio il
verso 523, in cui Antigone dice: “Io sono fatta per condivide-
re l’amore [symphilein], non l’odio”. Eppure anche in questo
caso Antigone “non esprime una generale inclinazione al-
l’amore, ma la devozione alla philia della famiglia. E, per la
propria natura, i vincoli di questa philia, si impongono sugli
impegni e sulle azioni di una persona indipendentemente da
ciò che essa veramente desidera. Questo amore non è qualco-
sa che si possa decidere; le relazioni che esso implica posso-

15
F. OST, op. cit., p. 174. Sul punto, cfr. F. BREZZI, Antigone e la
Philia. Le passioni tra etica e politica, Franco Angeli, Milano 2004.
16
D. SUSANETTI, “Di ciò che nasce morto”, cit., pp. 34-35.
17
Più efficace in questo caso la traduzione di Cacciari (SOFOCLE,
Antigone, a cura di M. CACCIARI, cit., p. 7), secondo la quale, quando
Ismene le dice: “È fin dall’inizio che non conviene andare a caccia
dell’impossibile [tamēchana]”, Antigone replica: “Dillo e mi sarai
nemica, e odiosa al morto quando gli giacerai accanto secondo giusti-
zia” (vv. 92-94).
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 101

no anche aver poco a che fare con la simpatia o con la tene-


rezza” 18.
Questa freddezza, questo rigore si sciolgono solo nei con-
fronti di Polinice, il fratello “dilettissimo” (v. 82), col quale
Antigone sembra avere un rapporto privilegiato, che, come è
stato scritto da qualche interprete, sembra incrociare “una
passione incestuosa” 19. Certo, Antigone è figlia d’un incesto
e su di lei pesa questo destino irredimibile, riguardo al quale,
però, Sofocle non dice altro. Di conseguenza, su questo punto
sembrano più convincenti ed equilibrate le osservazioni di
Castoriadis, che scrive: “Inutile andare all’estremo della so-
vra-interpretazione e invocare qualche attrazione incestuosa,
ma non è certo superfluo ricordare che questa tragedia non
sarebbe stata in alcun modo il capolavoro che è se Antigone e
Creonte fossero stati soltanto pallidi rappresentanti di principi
e non esseri umani animati da passioni poderose – l’amore
per il fratello in Antigone, l’amore per la città e per il proprio
potere in Creonte – passioni innanzi alle quali gli argomenti
dei protagonisti appaiono anche razionalizzazioni” 20.
In realtà, il legame d’Antigone con Polinice è presentato
nel testo come una responsabilità imprescrittibile nei riguardi
del fratello morto, il cui cadavere è minacciato da una puni-
zione terribile che, impedendone la sepoltura e la memoria,
finirebbe col farne diventare il trapasso un evento meramente
naturale. A questa naturalizzazione della morte, che avrebbe

18
M. NUSSBAUM, op. cit., p. 152.
19
Di questa passione incestuosa “il testo mantiene qua e là il so-
spetto: al verso 74 Antigone si prepara a riposare accanto a lui: ‘Cara
giacerò insieme a lui che mi è caro’ e il verso 891 le fa eco, parlando
del ‘sepolcro, camera nuziale’”, F. OST, op. cit., p. 176 (trad. modifi-
cata).
20
C. CASTORIADIS, L’enigma del soggetto, cit., pp. 219-220.

 
102 Il dilemma di Antigone

come sua conseguenza terribile la disumanizzazione del pro-


prio fratello, s’oppone Antigone con tutte le sue forze. L’at-
taccamento a Polinice appare perciò esclusivamente finaliz-
zato a salvaguardarne la dignità, l’unicità e dunque la memo-
ria propriamente umane nell’ora dell’estremo pericolo. È
questa la sua unica linea di condotta, alla quale va di conse-
guenza totalmente subordinata ogni declinazione affettiva,
sentimentale e finanche sessuale della philia auto-delfica che
egemonizza i suoi comportamenti.

Si deve cercare nell’Antigone una “lezione di morale”?

Nel suo seminario dedicato a L’etica della psicoanalisi,


Jacques Lacan fa precedere il suo lungo e articolato commen-
to all’Antigone di Sofocle da queste parole: “Eccoci ora in
dovere di entrare in questo testo di Antigone cercandovi qual-
cos’altro da una lezione di morale” 21.
Quest’osservazione iniziale del grande psicoanalista fran-
cese, a prescindere dalla sua interpretazione complessiva del-
la tragedia, discussa in seguito 22, invita a evitare l’inscrizione
frettolosa del conflitto mortale tra Antigone e Creonte al regi-
stro d’una presunta morale universale che, in quanto tale, sa-
rebbe opposta allo statuto inevitabilmente particolare dell’or-
dine giuridico e politico, di volta in volta istituito così e non
altrimenti.
Non c’è dubbio che questa sia una diffusa impostazione
del problema tra gli stessi sostenitori del positivismo giuridi-
co, assai singolarmente propensi a riservare alle sole direttive

21
J. LACAN, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi
1959-1960, a cura di A. DI CIACCIA, Einaudi, Torino 2008, p. 292.
22
Cfr. infra, capitolo sesto.
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 103

giuridiche lo statuto di deliberazioni convenzionali, e perciò


contingenti, come se la ‘morale’ dovesse avere (o potesse
continuare ad avere, in linea con la tradizione metafisica) uno
statuto ‘naturale’ o ‘razionale’ e perciò universale e necessa-
rio. Ogni volta che la differenza tra diritto e morale si ricon-
duce a uno schema del genere, si finisce ingenuamente con
l’attribuire solo al diritto un carattere ‘positivo’, cioè social-
mente e storicamente determinato, miracolosamente esclu-
dendo le norme morali dallo spazio del positum o dell’insti-
tutum.
Si prenda Kelsen. Com’è noto, nei suoi Lineamenti di dot-
trina pura del diritto, egli assimila le norme della morale a
quelle del “così detto diritto naturale” in quanto ugualmente
“dedotte da una norma fondamentale che si considera imme-
diatamente evidente in forza del suo contenuto come emana-
zione della volontà divina, della natura o della pura ragio-
ne” 23. Morale e “diritto naturale” sono quindi ritenuti sistemi
normativi d’una medesima specie, sicché a entrambi va pre-
supposta una “norma fondamentale” di tipo statico e materia-
le, a differenza di quella che funge da presupposto degli ordi-
namenti giuridici, che è invece dinamica e formale.
A una simile determinazione, che finisce col disconoscere
il carattere convenzionale e istituito della morale, s’attiene
anche Uberto Scarpelli nelle sue già citate considerazioni sul-
la “logica del discorso morale, del discorso giuridico e del di-
scorso politico” e sulle “corrispondenti, fondamentali catego-
rie di qualificazione del comportamento”, da lui definite “do-
vere morale, obbligo giuridico e impegno politico”. Seguendo
Richard Hare, Scarpelli sostiene che “caratteristica essenziale
delle direttive morali è la universalizzabilità”, e poi aggiunge:

23
H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934), trad.
R. Treves, Einaudi, Torino 2000, pp. 96-97.

 
104 Il dilemma di Antigone

“le direttive morali si combinano in sistemi coerenti […] ed


una ricostruzione razionale di tali sistemi ne mostra la fonda-
zione su principi morali a carattere materiale” 24. Di conse-
guenza, una singola norma morale – una “direttiva particola-
re” – è tale solo se è possibile giustificarla per via deduttiva,
mostrandone la derivazione logica da “direttive superiori nel
sistema e, in ultimo, da principi materiali fondamentali” 25.
La pretesa che questi principi fondamentali nella loro stes-
sa universalità siano ‘materiali’, abbiano cioè un contenuto
determinato, accomuna implicitamente anche in Scarpelli la
morale al ‘così detto diritto naturale’. Tale assimilazione, per
quanto implicita, ha come diretta conseguenza il fatto che il
carattere convenzionale, e perciò socialmente istituito, vada
attribuito esclusivamente alle norme giuridiche, con ciò ne-
gando – anzi, più precisamente, disconoscendo – l’autodeter-
minazione morale delle azioni umane. Ne risulterebbe con-
fermata l’appartenenza immediata della ‘morale’ all’ordine
universale e necessario della ‘natura’ o della ‘ragione’.
È esattamente la logica d’un simile presupposto che l’os-
servazione di Lacan invita fin dall’inizio della sua interpreta-
 

24
U. SCARPELLI, “Dovere morale, obbligo giuridico, impegno poli-
tico”, in Rivista di filosofia, 1972, n. 4, pp. 291-299, qui pp. 291-2.
Sull’universalizzabilità delle direttive morali si veda cfr. R.M. HARE,
Libertà e ragione, trad. it. di M. Borioni, Il Saggiatore, Milano 1990².
25
U. SCARPELLI, op. cit., p. 292. Per ciò che riguarda la determina-
zione dell’obbligo giuridico, Scarpelli si richiama ai ben noti schemi
teorici di Kelsen e “alla sua contrapposizione fra il modello di un or-
dinamento statico-materiale e il modello di un ordinamento dinamico-
formale”; nella logica di quest’ultimo, che è poi la logica del diritto, le
direttive particolari (cioè le concrete disposizioni normative) risultano
giustificate, non più solo in nome della universalizzabilità razionale
propria della morale o del così detto diritto naturale, ma esclusivamen-
te “per la loro provenienza da un’autorità costituita” (ibid.). Ne risulta
confermata l’esclusione della morale dall’ambito dell’istituito.
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 105

zione dell’Antigone a mettere in discussione, perché solo così


si può render giustizia all’accanito rifiuto dell’eroina di sot-
toporre la propria azione alla procedura dell’universalizza-
bilità.

Legge particolare e legge comune in Aristotele.

Bisogna tuttavia riconoscere che non è cosa facile prende-


re le distanze da una lettura dell’Antigone desiderōsa di rica-
varne una “lezione di morale”, la cui posta in gioco sarebbe
la subordinazione del nomos – sempre socialmente determi-
nato così e non altrimenti, e perciò sempre particolare – a
contenuti di senso fissati una volta per tutte in modo univer-
sale e necessario, subordinazione ritenuta indispensabile per
eludere i rischi di arbitrio e ingiustizia che sempre incombono
e minacciano la particolarità delle decisioni umane. Lo sche-
ma che regge una simile lettura classica s’impone quasi spon-
taneamente a causa della tradizione venerabile a cui risale:
infatti, lo si ritrova già in un passo della Retorica di Aristote-
le, in cui lo statuto specifico del nomos particolare, cioè di
quello che viene di volta in volta posto nelle diverse società
umane, va tenuto distinto dello statuto del nomos comune a
tutti i popoli. Solo quest’ultimo può corrispondere al “giusto
per natura”, a prescindere da ogni istituzione o convenzione
umana. Ecco il passo di Aristotele, che si conclude con un ri-
ferimento ad Antigone: “Col termine legge [nomon] voglio
dire tanto quella particolare [idion] quanto quella comune
[koinon]. Con legge ‘particolare’ intendo quella che ogni sin-
golo popolo ha fissato per sé stesso, e questa può essere non
scritta o scritta, con legge comune intendo quella che è con-
forme a natura [ton kata physin]. Infatti, vi è un comune con-
cetto di giusto e di ingiusto secondo natura [physei koinon di-

 
106 Il dilemma di Antigone

kaion kai adikon], su cui tutti fanno delle congetture [man-


teuontai pantes], anche quando non vi sia alcun contatto reci-
proco né un accordo: in Sofocle ad esempio Antigone dice
che è giusto seppellire Polinice, anche se è vietato, in quanto
ciò è giusto per natura [ōs physei on touto dikaion]:
Non da oggi infatti né dai ieri, ma da sempre vive questa
legge, e nessuno sa quando sia apparsa (Antigone, vv. 456-
7)” 26.
Nel solco di questa impostazione aristotelica, tutta una
corrente della filosofia speculativa ha innalzato Antigone –
come ha scritto in maniera solenne e paradigmatica uno stu-
dioso d’orientamento tomistico del rilievo di Jacques Mari-
tain – allo statuto di “eterna eroina del diritto naturale, che gli
antichi chiamavano legge non scritta, ed è il nome che più gli
si addice” 27.
A dire il vero, una simile impostazione, che suggerisce
implicitamente una sorta d’equivalenza tra ius naturale e lex
naturalis, è stata criticata e confutata, all’interno della stessa
tradizione tomistica, da un filosofo e storico del diritto come
Michel Villey per il quale è a rigore impossibile basare su
Antigone – la cui rivolta contro l’editto del tiranno fa sempre
appello alla coscienza o alla religione, ma giammai alla natu-
ra – un autentico riferimento al diritto naturale 28. Da qui il
 

26
ARISTOTELE, Retorica I, 13, 1373, b 4-13 trad. di M. Dorati, con
testo greco a fronte, Mondadori, Milano 1996, p. 107 (trad. legger-
mente modificata).
27
J. MARITAIN, “Les droits de l’homme et la loi naturelle”, in J. ET
R. MARITAIN, Œuvres complètes 1939-1943, vol. VII, Editions Uni-
versitaires, Fribourg-Paris 1988, p. 657.
28
Ma si leggano al riguardo le riserve di John Finnis: “Sfortunata-
mente la trattazione che di ius fa Villey è viziata da una esagerata di-
stinzione tra ius e lex (che sono naturalmente nozioni distinte, ma
strettamente correlate) che lo porta ad equivocare le distinzioni tra il
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 107

suo accanito rifiuto di fare d’Antigone una sacerdotessa del


giusnaturalismo: “Perché tanti retori, a proposito di diritto na-
turale, si ritengono in dovere di citare Antigone? Contro gli
ordini del tiranno, i versi di Antigone fanno appello a Zeus e
alla Dike, alla coscienza, alla legge non scritta: e in nessun
caso alla natura. Se qualcuno in questa tragedia rappresenta il
diritto naturale, sarebbe la dolce Ismene che rimprovera a sua
sorella di opporsi alla natura, alla natura femminile, volendo-
si ergere da sola contro la forza del destino” 29. E tuttavia,
queste stesse riserve di Villey, che vanno ricondotte essen-
zialmente ad una polemica interna al tomismo 30, malgrado la
diversa valutazione che propongono della figura d’Antigone,
s’astengono completamente da ogni messa in discussione del-
l’“idea classica di diritto naturale”, dal momento che conti-
nuano a presupporre “l’esistenza d’un dato naturale proto-
giuridico, strettamente oggettivo, anteriore e superiore ad
ogni costruzione umana” e di conseguenza “ontologicamente
primo” 31.
È però proprio la radicale messa in discussione del diritto

diritto e la morale, e tra la giustizia e i principi della ragionevolezza


pratica”, J.M. FINNIS, Legge naturale e diritti naturali, a cura di F.
VIOLA, Giappichelli, Torino 1996, p. 247.
29
M. VILLEY, Leçons d’histoire de la philosophie du droit, Dalloz,
Paris 1962, p. 123; cfr. S. BAUZON, Le métier de juriste: du droit poli-
tique selon Michel Villey, Les Presses de l’Université Laval, Québec
2003, pp. 110-111.
30
Per un’informata panoramica sui presupposti filosofico-giuridici
del tomismo, si veda L. MILAZZO, Legge, ragione, volontà. Sul fon-
damento teologico del diritto in Tommaso d’Aquino, Giappichelli, To-
rino 2009.
31
D. DE BECHILLON, “Retour sur la nature. Critique d’une idée clas-
sique de droit naturel”, in Michel Villey et le droit naturel en question, a
cura di J.-F. NIORT-G. VANNIER, L’Harmattan, Paris 1994, p. 54.

 
108 Il dilemma di Antigone

naturale e delle sue pretese, analoghe a quelle d’una morale


basata su principi materiali a priori, cioè universali e necessa-
ri, che si rivela necessaria tanto per cogliere lo specifico della
tragedia in quanto istituzione centrale nella polis democrati-
ca, quanto soprattutto per rendere giustizia alla resistenza ac-
canita ma radicalmente singola di Antigone, la cui disobbe-
dienza al potere costituito esclude ogni subordinazione a una
qualunque istanza universale.
In un passo di poco successivo, Aristotele cita di nuovo gli
stessi versi, “ma questa volta – come chiarisce Claudio Pac-
chiani – ci dice qualcosa di più: ci fa intendere a che cosa può
essere utile il riferimento al giusto naturale” 32. Ecco dunque
il secondo riferimento di Aristotele ad Antigone, contenuto
nel medesimo trattato in cui si discorre di retorica, cioè, di-
remmo oggi, di argomentazione, e quindi anche di argomen-
tazione giuridica: “È lampante che, qualora la legge risulti
contraria alla causa, ci si debba servire della legge comune e
dei criteri di equità [epieikesterois] in quanto più giusti [di-
kaioterois]. E servirsi ‘della migliore facoltà di giudizio
[gnōmē tēi aristēi]’ vuol dir questo: attenersi non totalmente
alle leggi scritte. E l’equo [epieikès] resta sempre uguale a sé
stesso e non cambia mai, e neppure cambia la legge comune
(giacché è secondo natura), mentre le leggi scritte lo fanno
spesso: ed è questa la ragione per cui sono stati scritti i versi
che si trovano nell’Antigone di Sofolce, etc.” 33. Commenta
Pacchiani: “Com’è noto, uno dei generi della retorica è il
giudiziario. Ora può capitare che in un processo davanti ad un
tribunale popolare chi deve difendersi da qualche accusa si
accorga che la legge scritta è contro la sua causa: in questo
 

32
C. PACCHIANI, “Aristotele: la giustizia virtù politica”, in Filoso-
fia politica, XX, 2001, n. 1, pp. 29-49, qui p. 35.
33
ARISTOTELE, Retorica, I 15, 1375 a 27 ss.
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 109

caso egli comprende che conviene fare riferimento alla legge


comune, sostenendo che è più equa e più giusta della legge
della polis. Un artificio retorico evidentemente, nulla perciò
che possa interessare seriamente la scienza politica” 34.
Intorno al giusto per natura, quindi, come dice Aristotele
nel passo della Retorica precedentemente citato, “tutti fanno
congetture [manteuontai pantes]”, perché gli esseri umani ne
hanno percezioni indeterminate, sulla base delle quali non si
può elaborare un discorso rigoroso, né tantomeno fondare una
dimostrazione conoscitiva, benché quelle congetture e quelle
percezioni, per quanto vaghe, possano utilmente dare spunto
all’eloquenza forense, basata sull’argomentazione.
Facciamo un salto di più di due millenni. Nel campo delle
scienze umane e sociali, perlomeno dalla seconda metà del
Novecento in poi, la centralità dell’argomentazione è stata ri-
conosciuta e teorizzata esattamente per la sua capacità di sa-
persi districare nello spazio intermedio, ma sempre molto af-
follato, che s’interpone tra le dimostrazioni oggettive delle
scienze sperimentali e l’adesione personale a credenze e valo-
ri. L’antitesi tra il carattere pubblico e razionale del rigore
scientifico e la privatezza delle convinzioni soggettive rin-
chiude coloro che sostengono esclusivamente uno solo dei
due diversi approcci in cittadelle contrapposte e autoreferen-
ziali. Distinguendo rigorosamente e pazientemente le caratte-
ristiche delle dimostrazioni da quelle della persuasione, la
teoria dell’argomentazione “mostra che tra la verità assoluta e
la non verità c’è posto per la verità da sottoporsi a continua
revisione mercé la tecnica dell’addurre ragioni pro e contro.
 

34
C. PACCHIANI, art. cit., p. 36. Anche Leo Strauss interpreta que-
sto riferimento alla legge comune come qualcosa di limitato alla reto-
rica forense: cfr. L. STRAUSS, “Legge naturale e diritto naturale”, in
ID., Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente,
trad. it., Einaudi, Torino, 1998, p. 309.

 
110 Il dilemma di Antigone

Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ra-


gioni, comincia la violenza” 35.
Nell’Occidente secolarizzato e liberal-democratico, venuta
meno ogni autorità e tradizione da tutti ritenute capaci di ga-
rantire insindacabilmente l’accesso immediato a una verità
oggettiva, l’esercizio del potere ottiene legittimità solo se ac-
compagnato da una sua giustificazione controllabile attraver-
so criteri sottoposti ad un pubblico scrutinio. Ne consegue la
possibilità di rileggere la totalità del diritto come fenomeno
sociale e storico a partire dalla centralità dell’argomentazio-
ne 36. Tutta la vita concreta del diritto (tanto nella fase della
produzione legislativa, quanto in quella della sua esecuzione
giurisdizionale), nelle nostre democrazie costituzionali, è
permeata dalla struttura dell’argomentazione, in modo parti-
colare dall’esigenza di ricercare ed esibire pubblicamente
giustificazioni ragionevoli delle proprie decisioni. Nessun
operatore del diritto può sottrarsi a questa esigenza, che in
una società pluralistica come la nostra fa assurgere la pratica
dell’argomentazione e la sua logica al rango di forma privile-
giata e ormai imprescindibile di legittimazione dell’ordina-
mento giuridico 37.

35
N. BOBBIO, Prefazione a C. PERELMAN-L. OLBERECHTS-TYTECA,
Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, trad. C. Schick et
al., Einaudi, Torino 1966, p. XIX.
36
Cfr. M. ATIENZA, Diritto come argomentazione, trad. V. Nitrato
Izzo, a cura di A. Abignente, Editoriale Scientifica, Napoli 2012.
37
Cfr. A. ABIGNENTE, “Argomentazione giuridica”, in Atlante di fi-
losofia del diritto, a cura di U. POMARICI, vol. II, Giappichelli, Torino
2012, pp. 1-36.
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 111

L’azione umana disarticola le componenti fondamentali


della physis aristotelica.

Quanto alla determinazione ontologica del fondamento del


nomos e ai suoi rapporti con la physis, la posizione di Aristo-
tele resta, se non altro implicitamente, molto problematica. In
un celebre passo del quinto libro dell’Etica nicomachea, egli
dice che c’è una pluralità di politeiai – qui, nel senso genera-
le di costituzioni politiche – “ma solo una è dovunque la mi-
gliore per natura [alla mia monon pantochu kata physei ē
aristē]” 38. Questa aggiunta avversativa, a prenderla sul serio,
mostra che nell’ambito dell’esperienza umana le componenti
fondamentali della physis aristotelica si disarticolano.
Infatti è proprio la “creazione più originale” del pensiero
aristotelico, quella che Hans Welzel nel suo libro sul diritto
naturale, scritto negli anni d’ora della rinascita post-bellica
del giusnaturalismo, chiamava la “metafisica teleologica”,
nella quale egli riconosceva uno “schema eccellente per la
teoria ideale del diritto naturale” 39, è proprio questa curvatura
finalistica che Aristotele riconosce nella struttura ontologica
dell’ente naturale a rivelarsi inadeguata alla comprensione
dell’azione umana.
Precisiamo che per Aristotele la physis comporta una di-
mensione teleologica e normativa, che ne caratterizza neces-
sariamente l’esperienza effettiva. Perciò la physis dell’ente
naturale definisce anche la sua ‘normalità’: il che significa
che ogni ente naturale realizza normativamente il suo scopo
(telos); se e quando ciò non accade, siamo di fronte a ente a-
normale o a-nomalo. La regolarità della physis è dunque l’ef-

38
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, 1135 a 5.
39
H. WELZEL, Diritto naturale e giustizia materiale (1951; 1962),
trad. G. De Stefano, Giuffrè, Milano 1965, p. 43.

 
112 Il dilemma di Antigone

fettività predominante in essa. Ebbene, proprio su questo pia-


no, l’attività umana costituisce un’eccezione. Aristotele ne
distingue due aspetti: l’azione [praxis] e la produzione
[poiēsis]. Quest’ultima è regolamentata da un modello ideale
che la precede, che può essere appreso e conosciuto dalla
theōria e di cui la produzione costituisce l’effettuazione o
messa in opera; al contrario, l’azione non ha alcun eidos o
modello preliminare che possa ispirarla e alcun telos esterno
che essa dovrebbe realizzare. Ne consegue che nell’ambito
umano la realizzazione ben riuscita della prassi non è ontolo-
gicamente fondata né conoscitivamente controllabile e preve-
dibile. Ed è esattamente questa accezione della praxis, nella
sua irriducibilità alla poiēsis, che fa vacillare la “metafisica
teleologica”, cioè la concezione finalistica e normativa della
physis, caratterizzata dalla presenza di capisaldi determinati e
incrollabili, che viceversa mancano alle azioni degli esseri
umani che vivono nella polis.
Sul piano politico c’è una sola costituzione o politeia che
“secondo natura (kata physei)” risulta essere dappertutto la
migliore: e tuttavia, dal momento che nessuno ha mai cono-
sciuto la politeia che realizzerebbe la sua essenza naturale,
l’unica costituzione dappertutto migliore è tanto poco “natu-
rale” da mancare di effettività. Infatti, come negare che tutte
le poleis esistenti sono piene di difetti? Proprio perché una
sola costituzione è dappertutto la migliore e perché ogni co-
stituzione effettiva deve inevitabilmente esistere da qualche
parte, la sola che secondo natura sarebbe la migliore, non esi-
ste da nessuna parte 40.
Ragionare in questi termini a proposito di un qualunque
ente naturale non avrebbe alcun senso: la dimensione teleolo-

40
Cfr. C. CASTORIADIS, Les carrefours du Labyrinthe, Seuil, Paris
1978, pp. 277-8.
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 113

gica e normativa degli enti naturali è quella e solo quella che


si realizza nella loro esistenza effettiva. Sostenere di poterli
definire ontologicamente sulla base d’una determinazione na-
turale ma inesistente sarebbe un puro e semplice non senso.
Eppure è esattamente questo che Aristotele dice della costitu-
zione migliore per natura: è una sola dappertutto, ma non ri-
sulta esistente da nessuna parte. Sembra evidente, come sug-
gerisce Pacchiani, il parallelismo tra questa ricerca della co-
stituzione migliore e le congetture che tutti fanno [manteuon-
tai pantes], non potendo ricorrere a dimostrazioni conosciti-
ve, circa il “giusto per natura” 41.
L’unica conseguenza che se ne deve ricavare riguarda la
differenza radicale tra l’esperienza concreta della prassi uma-
na nella città e la determinatezza preliminare e universale
che, secondo l’ontologia aristotelica, presiede al modo di es-
sere dell’ente naturale. La polis è dunque una realtà irriduci-
bile a tutte le altre realtà naturali, che si possono ricondurre
alla regolarità della physis: queste ultime, eccetto i mostri che
sono “contro natura (para physin)” (come per esempio un ca-
vallo con cinque zampe), nel loro proprio esercizio d’essere,
realizzano la dimensione al tempo stesso normativa e teleolo-
gica che costituisce la loro “natura”. La polis democratica,
invece, è vero che non potrebbe esistere senza legge, ma è es-
sa stessa che pone – e si dà – le sue leggi; e per farlo, nella
sua attività istituente, non ha da imitare alcun modello preli-
minarmente dato, che sarebbe ontologicamente primo (ecco
perché Platone, che viceversa postula la necessità di questa
imitazione, è un accanito avversario della democrazia). Tut-
tavia, una volta che la polis sia stata istituita, il tenore della
sua costituzione politica (politeia) e di conseguenza il dato di

41
“Io credo che proprio la costituzione migliore costituisca il giu-
sto per natura”, C. PACCHIANI, art. cit., p. 39.

 
114 Il dilemma di Antigone

fatto della sua legalità, possono e debbono venir valutati: ma


il criterio di giudizio che presiede a questa valutazione, nel-
l’impossibilità di riferirsi a una qualche unità di misura onto-
logica preliminarmente data, è costretto ad acquisire lo statu-
to d’un progetto umano: ed è qui che interviene il riferimento
alla sola costituzione politica che dappertutto è la migliore,
ma che non s’incontra da nessuna parte.
Se vi fosse – prima dell’azione – un universo di regole già
date e predeterminate che gli esseri umani, agendo, dovessero
limitarsi a mettere-in-opera, allora non vi sarebbe più praxis.
In quel caso, la poiēsis (la produzione o fabbricazione) sareb-
be la sola forma di attività umana, e di conseguenza la trage-
dia sarebbe superflua e pericolosa. Quest’esclusione congiun-
ta della praxis (che costituisce l’attività umana fondamentale
del bios politikos) e della tragedia (in quanto istituzione fon-
damentale della polis democratica) è al centro della prima
forma storica di filosofia politica, quella di Platone. Nella
Città platonica della Repubblica e ancor più nella Città delle
Leggi, l’esclusione della fragilità della praxis a vantaggio
d’una fabbricazione concertata s’accompagna alla messa al
bando dei poeti tragici. Ma per Aristotele, più vicino all’espe-
rienza della democrazia che alla filosofia politica di Platone,
nata per prenderne il posto, la polis non è il prodotto d’una
fabbricazione collettiva: essa è l’esito delle interazioni uma-
ne, perciò non potrà mai avere nella finalità normativa della
physis il modello compiuto e realizzato della propria eccel-
lenza.

Antigone: la hybris della nuda azione.

Torniamo all’Antigone. La hybris (la dismisura) di cui si


macchiano Antigone e Creonte, e che più di tutto li accomu-
na, sta nella loro autoreferenzialità, nella loro incapacità di
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 115

relativizzare la propria presa di posizione, di riconoscerla


come una decisione e non come una deduzione logica. In
questo senso, sia l’una sia l’altro, eliminando “le obbligazioni
conflittuali” 42, propendono per l’applicazione immediata e
automatica di ciò che ciascuno dei due vive come legge indi-
scutibile e insindacabile. La transizione dall’universalità ca-
tegorica della legge alla situazione particolare avviene per en-
trambi in modo puramente deduttivo, evitando accuratamente
il confronto con la concretezza e le esigenze delle singolarità
coinvolte nella prassi.
Il maggior limite di Creonte, aspramente denunciato dalla
messinscena sofoclea, è costituito, come ha sostenuto C.
Meier, dalla sua categorica esclusione del fatto che possano
esistere “ragioni per pensare in maniera diversa dalla sua” 43.
A pensarci bene, tuttavia, qualcosa di analogo, anzi di identi-
co, si può e deve dire di Antigone. Certo, non avendo né l’au-
torità né il potere del capo, l’autoreferenzialità della fanciulla
non dà luogo ad atti di arbitrio dispotico, ma diventa soltanto
la premessa del suo sacrificio personale. Resta fermo però
che, anche per lei, è del tutto escluso che esistano buone ra-
gioni per agire diversamente da come a lei pare giusto. Il co-
gnitivismo morale o il monismo assiologico, professato in
modo totale e senza alcuna incrinatura da entrambi, impone
categoricamente un’unica transizione dall’astratto al concreto
o dal generale al particolare: l’applicazione automatica della
premessa considerata evidente e insindacabile. Il momento
della decisione culminante nell’azione è sprovvisto di qua-
lunque autonomia, non è accompagnato da nessun ragiona-
mento, esclude ogni esitazione: e perciò va semplicemente
inteso come la messa in opera di una verità cristallina, resa

42
M. NUSSBAUM, op. cit., p. 151.
43
C. MEIER, op. cit., p. 252.

 
116 Il dilemma di Antigone

incontrovertibile dalla sua visibilità immediata e perciò poi


messa in opera in modo automatico e diretto.
Sia Antigone sia Creonte finiscono perciò per subordinare
le proprie azioni e inter-azioni a quella che Hannah Arendt
chiama “la tirannia del vero” 44, attraverso la quale, nella me-
tafisica occidentale, il potere costrittivo della verità universa-
le e necessaria s’impone come un’evidenza, coinvolgendo e
reclamando l’adesione spontanea di ciascuno 45.
Nella pretesa che da una simile presupposizione ontologi-
co-speculativa debba deduttivamente discendere una ed una
sola corretta conseguenza pratica, consiste una delle più illu-
sorie e pericolose declinazioni della hybris. Il fatto che, nel
caso di Antigone, il combinato disposto di illusione teoretica
e pericolo giuridico-politico abbia soltanto un effetto autodi-
struttivo e autolesionistico, non esclude che anch’ella, come
Creonte, sia preda della dismisura o dell’eccesso, cioè del fal-
limento nell’autolimitazione del proprio agire. Se quella di
Creonte è la hybris del potere assoluto (la stessa istanza che
ha emesso il comando politico s’arroga il diritto della sua oc-
chiuta e categorica applicazione), la dismisura di Antigone –
secondo una felice espressione di Susanetti, uno dei pochi
specialisti ad averla esplicitata con chiarezza – è la “hybris
della nuda azione” 46. Non occorre aderire all’interpretazione
hegeliana per riconoscere che anche Creonte ha le sue ragioni
e che Antigone, secondo il commento sbalordito del Coro, è
preda d’una vera e propria follia (aphrosynē, v. 383). Qualco-
sa del genere ammette anche la lettura femminista di Judith

44
Cfr. H. ARENDT, Socrate, a cura di I. POSSENTI, Cortina, Milano
2015, p. 31.
45
Cfr. H. ARENDT, La vita della mente, a cura di A. DAL LAGO, Il
Mulino, Bologna 1987, p. 434.
46
D. SUSANETTI, “Di ciò che nasce morto”, cit., p. 42.
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 117

Butler, secondo la quale, almeno nella misura in cui “agisce


nel linguaggio”, la stessa “Antigone è coinvolta nell’eccesso
maschile detto hybris” 47.
Nel capitolo precedente abbiamo citato un passo di Cac-
ciari sulla “dismisura” di Antigone, prontamente rilevata dal
Coro, cioè dall’opinione comune dei cittadini, che, d’altra
parte, non manca in più occasioni di solidarizzare con lei, ri-
tenendo la punizione inflittale da Creonte crudele ed eccessi-
va. Il Coro, quindi, non è prevenuto contro Antigone, e per-
ciò, restando, come già si diceva, in precario equilibrio su di
un crinale scivoloso, nel mentre soffre con lei, non manca di
denunciarne gli eccessi. Ed è proprio il Coro che con maggior
precisione esprime il contenuto della hybris di Antigone,
quando esclama: “Ti ha perduto il tuo carattere inflessibile”
(v. 875). In questo verso risuona l’aggettivo raro autognōtos
associato al sostantivo orgē. Commenta Susanetti: “Tale
espressione è spiegata dallo scolio come ‘carattere indipen-
dente con giudizio proprio’. Più precisamente, si tratta di
‘impulso che decide per sé stesso’, inclinazione ad autode-

47
“L’atto di Antigone è, in realtà, ambiguo sin dall’inizio: non si
tratta soltanto del gesto ardito di seppellire il fratello, ma dell’atto ver-
bale nel momento in cui risponde alla domanda di Creonte. Perciò il
suo è un atto nella sfera del linguaggio. Rendere pubblico un atto nel
linguaggio è in un certo senso il compimento dell’atto stesso, ma è an-
che il momento in cui Antigone è coinvolta nell’eccesso maschile det-
to hybris. Così, quando Antigone comincia ad agire nella sfera del lin-
guaggio, si allontana anche da sé. Il suo atto non è mai pienamente
suo, e sebbene essa usi il linguaggio per rivendicarlo, per affermare
un’autonomia ‘maschile’ e insolente, può compiere l’atto soltanto in-
carnando le norme del potere al quale si oppone. In verità, ciò che
conferisce forza a questi atti verbali è l’operazione normativa di potere
che essi incarnano senza compiersi pienamente” (J. BUTLER, La riven-
dicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, trad. I. Ne-
gri, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 24).

 
118 Il dilemma di Antigone

terminarsi, che si rivela tanto profondamente soggettiva


quanto rovinosa” 48, perché chiude l’eroina nel recinto della
propria decisione, isolandovela e sottraendola alla stessa pos-
sibilità del confronto con gli altrui punti di vista.
Poco prima il Coro aveva definito Antigone autonomos
(“tu sola fra tutti i mortali, per tua decisione, viva discenderai
nel regno dei morti”, v. 821). Anche in questo caso, l’osser-
vazione del Coro denuncia l’autoreferenzialità dell’atteggia-
mento di Antigone. Scrive ancora Susanetti: “L’aggettivo au-
tonomos – di cui il dramma offre una delle più antiche atte-
stazioni – è stato variamente reso. La soluzione più diffusa è
‘da te stessa’, ‘di tua volontà’. Ma, dando rilievo al tema cen-
trale del nomos e intendendo il termine come un composto
possessivo, si può più efficacemente tradurre ‘ponendo la
legge da te stessa’, ‘secondo la tua stessa legge’; il che signi-
fica che Antigone si costituisce da sola, con movimento in-
contenibile e idiosincratico, come città, come comunità poli-
tica” 49.
L’isolamento di Antigone finisce col determinare il conte-
nuto della sua hybris perché, inducendola ad un’illusoria au-
tosufficienza, la allontana dagli scambi sociali ma soprattutto
le impedisce di acquisire e soprattutto coltivare ciò che, nella
Critica della capacità di giudicare, Kant chiamava “mentali-
tà allargata”, consistente nell’attitudine a tener conto anche
del punto di vista dei propri interlocutori. La dismisura di
Antigone consiste allora nel ricostruire sul piano immaginario
una dimensione pubblica fittizia, limitata ai confini della pro-
pria vita privata. Tutto finisce con l’essere esclusivamente ri-
portato a una simile esperienza solitaria, che perciò risulta ra-
dicalmente incompatibile non solo con ogni mediazione ne-

48
D. SUSANETTI, “Commento”, cit., p. 328.
49
D. SUSANETTI, “Commento”, cit., p. 318.
La hybris e la naturalizzazione della legalità istituita 119

cessaria alla vita sociale, ma addirittura con la propria so-


pravvivenza.
Non stupisce che, in un contesto caratterizzato dall’isola-
mento e dall’autoreferenzialità, che ovviamente caratterizza-
no altrettanto radicalmente il comportamento di Creonte, il
riferimento alla supremazia venga impostato in una maniera
così astratta e assoluta che in fin dei conti manda in rovina la
stessa polis. La messinscena sofoclea mette in guardia dall’e-
sito mortifero della hybris che finisce col rendere sclerotica e
alienante la relazione – la subordinazione totale – del singolo
alla legge.
La presenza predominante della dismisura nel vissuto dei
due protagonisti, sottraendo l’agire alla responsabilità della
sua autolimitazione, ha effetti disastrosi nella polis perché co-
lonizza lo statuto stesso della legge, che finisce per essere in-
tesa solo sulla base della hybris, cioè esclusivamente nella
forma d’una sua preminenza che non ammette alcuna media-
zione nella transizione automatica dall’universale al partico-
lare. In tal modo, la dimensione della legalità perde o rimuo-
ve il suo carattere istituito e subisce una sorta di naturalizza-
zione. Anziché indicare l’istituzione d’una misura comune
quale regola e modello di comportamento delle azioni, diven-
ta la spiegazione delle loro occasionali occorrenze; in tal mo-
do la legge finisce con l’essere stesso di ciò che è, pretende di
esibirne la struttura necessaria e di prevederne lo stato futuro.
Il problema della democrazia, in cui la hybris è sempre in
agguato, è il rischio che la legge – misura istituita in vista
della vita in comune – si trasformi in premessa inflessibile
d’una sua rigorosa messa in opera, acquisendo una declina-
zione spietata e distruttiva. È esattamente questa attenzione
alle ricadute dell’ambiguità della legge sulla tenuta della de-
mocrazia che risulta del tutto estranea alle interpretazioni del
dramma da parte di Hegel e Lacan; nei loro discorsi essa vie-
ne soppiantata da una vera e propria ontologizzazione della

 
120 Il dilemma di Antigone

legge – riconducibile, in Hegel, alla struttura dello spirito


come storia, in Lacan, alla struttura del desiderio inconscio –
nella quale, viceversa, alla luce dell’Antigone, andrebbe visto
l’effetto devastante della hybris sul nomos.
CAPITOLO QUINTO
L’ANTIGONE DI HEGEL

Il rapporto tra “carattere” e “azione”


Antigone tradita?
L’armonia della polis e la repubblica platonica
Il doppio movimento sotteso all’analisi hegeliana del mondo greco
La lettura della tragedia greca come documento ontologico-meta-
fisico
La rivalutazione di Creonte e il ruolo dei “grandi caratteri”
L’eroe tragico e la sua contraddittorietà ontologica
L’affacciarsi dell’individualità e la sua esclusione speculativa
La colpa tragica come difettività ontologica
La differenza naturale come limite dello spirito etico
Il privilegio speculativo della scena e la resistenza del Coro alla fi-
losofia della storia
Il rapporto tra “carattere” e “azione”.

Per introdurre l’analisi critica dell’interpretazione hegelia-


na dell’Antigone, partirò da un passo di Giorgio Agamben,
tratto da un suo recente scritto “ilare e scherzevole”, ma non
per questo meno denso e laborioso, dedicato inopinatamente
a Pulcinella 1.
“Nella Poetica Aristotele fornisce una definizione della
tragedia, da cui si può desumere, per converso, quella defini-
zione della commedia che manca nel libro. ‘La tragedia’, egli
scrive, ‘è imitazione non di uomini, ma di azioni [praxeōn] e
di modo di vita [biou] e felicità e infelicità consistono nel-
l’azione, poiché il fine è una certa azione e non una qualità
[poiotēs]. Gli uomini hanno certe qualità secondo il carattere
[ēthos], ma sono felici o il contrario secondo le azioni. Non
agiscono, dunque, per imitare i caratteri [opōs ta ēthē mimē-
sonthai], ma assumono i caratteri [ta ēthē symperilambanou-
sin] attraverso le azioni [dia tas praxein]. Le azioni compiute
[pragmata] sono pertanto il fine delle tragedie […]. Senza
azioni non potrebbe esservi tragedia, ma senza caratteri sì’
(50a, 14-20). Per comprendere la definizione della tragedia
che è in questione in questo passo, si immagini per un attimo

1
G. AGAMBEN, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi in
quattro scene, Nottetempo, Roma 2015. Va solo aggiunto che Diver-
timento per li regazzi è il titolo dell’album di centoquattro tavole in
cui, varcata la soglia dei settant’anni all’indomani del crollo della Re-
pubblica di Venezia, Giandomenico Tiepolo illustrò la vita e le avven-
ture della celebre maschera napoletana (tavole che nel lavoro di
Agamben sono riprodotte e commentate).
124 Il dilemma di Antigone

che, nel dramma sofocleo, Antigone agisca come agisce solo


perché ha un certo carattere (ad esempio, perché è un’attacca-
brighe, un bastian contrario o qualsiasi altro dei caratteri
elencati da Teofrasto): la tragedia non sarebbe più tale e si
convertirebbe immediatamente in commedia. Nella tragedia,
infatti, decisive sono le azioni e non i caratteri: nelle parole di
Aristotele, l’eroe tragico non agisce per imitare il suo ēthos,
ma al contrario il carattere è un risultato secondario delle sue
azioni – e, pertanto, potrebbe anche mancare. Per questo – in
quanto, cioè, è definito e vincolato dalle sue azioni, che non
può in alcun modo disdire – l’eroe tragico, pur non essendo
né malvagio né vizioso, può cadere, per un errore [hamartia],
nel dolore e nella sventura” 2.
Il primato delle azioni rispetto ai caratteri, che sulla scia di
Aristotele è qui rivendicato da Agamben, ha un tono implici-
tamente ma decisamente antihegeliano; la sua posta in gioco
concerne radicalmente l’esigenze d’una lettura prasseologica
della tragedia greca, in opposizione alla lettura al tempo stes-
so ontologica e speculativa propostane da Hegel, in stretta
continuità con la diffidenza platonica nei confronti dei poeti
tragici.
Al riguardo, nel suo importante lavoro sul “teatro dei filo-
sofi” al quale ci si riferirà molto spesso nelle pagine seguenti,
Jacques Taminiaux precisa che la nozione aristotelica di ca-
rattere, in greco ēthos, “non dipende affatto da una psicologia
ma al contrario da una prasseologia”. Aristotele, infatti, defi-
nisce il “carattere” in riferimento alla praxis: più precisamen-
te, in riferimento all’eccellenza di quest’ultima. Continua
Taminiaux: “L’ēthos fa parte delle condizioni della praxis e
dipende, senza però ridursi ad essa, dall’abitudine (ethos),
acquisita e non innata o naturale, di tener ferma un’opzione

2
G. AGAMBEN, Pulcinella, cit., pp. 50-51.
L’Antigone di Hegel 125

(proairesis) in vista del ben-agire. Il buon ēthos è valutato in


rapporto alle azioni capaci di diffondere il proprio splendore,
come per esempio gli atti di coraggio, i gesti di liberalità, i
comportamenti dettati dalla moderazione. […] In questo con-
testo, l’uso aristotelico del sintagma ta ēthē kai ta pathē (Eth.
Nic. 1155 b 10) è altamente significativo, perché sta a indica-
re che il carattere non è qualcosa che si subisca e a cui si sia
costretti, ma invece qualcosa che si smarca attivamente dal
registro del patire” 3. Nelle parole d’un grande ellenista, “per
Aristotele, il carattere (ēthos) non è che un insieme di abitu-
dini (ethē), le quali non sono mai garantite totalmente, quan-
do si tratta di buone abitudini, ma non sono neanche total-
mente irrevocabili, quando si tratta di cattive abitudini” 4.
Dal canto suo, situandosi agli antipodi dell’interpretazione
aristotelica, Hegel costruisce il suo approccio alla tragedia
greca, come tra poco si vedrà in dettaglio, intorno al primato
dei caratteri rispetto alle azioni; in tal modo, la sua lettura fi-
nisce col subordinare l’agire umano alla staticità di determi-
nazioni ontologiche che i comportamenti degli individui do-
vranno limitarsi a subire passivamente.
Attraverso un simile diniego del primato della praxis in
nome della posizione normativa della theōria, la grande que-
stione filosofica che solleva l’interpretazione hegeliana del-
l’Antigone riguarda esattamente la pretesa fondamentale della
dimensione teoretico-speculativa che, da Platone in poi, mira
a realizzare ciò che Hannah Arendt chiamava la “tradizionale
sostituzione del fare all’agire” 5, cioè della poiēsis alla praxis,

3
J. TAMINIAUX, Le théâtre des philosophes. La tragédie, l’être,
l’action, Jérôme Millon, Grenoble 1995, p. 43.
4
P. AUBENQUE, La prudence chez Aristote, cit., pp. 130-131.
5
H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, trad. S. Finzi, In-
troduzione di A. Dal Lago, Bompiani, Milano 1988², pp. 161-169.

 
126 Il dilemma di Antigone

trasformando quest’ultima in una serie di comportamenti con-


formi a regole. Gioca qui un ruolo fondamentale il discono-
scimento della contingenza e fragilità delle “faccende umane”
[ta tōn anthrōpōn pragmata] alla luce d’una necessità onto-
logica che dovrebbe fondarle dall’esterno, rendendone l’auto-
determinazione al tempo stesso impossibile e superflua. Una
simile pretesa non soltanto impedisce di cogliere lo specifico
del mondo greco, ma più radicalmente annulla l’autonomia
della prassi. In questo senso, l’interpretazione hegeliana del-
l’Antigone, contrariamente a quanto lascia intendere Paul Ri-
cœur 6, subordinando radicalmente l’agire umano alla teleo-
logia speculativa, conferma la dipendenza della filosofia del
diritto rispetto alla filosofia della storia, che non ne costitui-

6
“Se in qualche modo si deve ‘rinunciare a Hegel’, non è il caso di
farlo in occasione del suo trattamento della tragedia: infatti la ‘sintesi’
che a buon diritto gli si rimprovera d’imporre a tutte le divisioni che la
sua filosofia genialmente scopre e inventa, non è esattamente nella
tragedia ch’egli la trova” (P. RICŒUR, Soi-même comme un autre, cit.,
p. 288). La formula “rinunciare a Hegel” è qui posta tra virgolette,
poiché costituiva il titolo d’un importante capitolo di P. RICŒUR, Tem-
ps et récit., III, Le temps raconté, Seuil 1985, pp. 280-299, in cui l’au-
tore enunciava programmaticamente il suo congedo da Hegel a causa
dell’improponibilità della filosofia hegeliana della storia. Il riavvici-
namento a Hegel in Soi-même comme un autre non sarebbe in contra-
sto con la precedente “rinuncia” perché, almeno secondo Ricœur, “il
progetto filosofico di Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto” si
svincolerebbe dalla filosofica hegeliana della storia (p. 296). Sulla let-
tura ricœuriana dell’Antigone, cfr. E. FERRARIO, “Le ‘Antigoni’ di
Paul Ricœur et Jacques Derrida”, in Antigone e la filosofia, a cura di
P. MONTANI, Donzelli, Roma, 2001, pp. 297-334. Più in generale, sul
pensiero etico-politico del Ricœur di Soi-même comme un autre, cfr.
F. CIARAMELLI, “Ipseità, alterità, pluralità. Nota sull’ultimo Ricœur”,
in Aut aut, XXXI, 1991, n. 242, pp. 91-103 e ID., Lo spazio simbolico
della democrazia, Città Aperta, Troina 2003, pp. 97-112
L’Antigone di Hegel 127

sce soltanto il compimento testuale 7 ma ne esibisce il fonda-


mento speculativo 8.

Antigone tradita?

La collocazione significativa eppur marginale e di conse-


guenza il ruolo transitorio dell’Antigone all’interno del siste-
ma hegeliano hanno indotto Franco Voltaggio, autore d’una
appassionata monografia sul tema 9, a considerare l’intera
opera di Hegel, e soprattutto la sua filosofia del diritto e dello
Stato, come un “tradimento” della dedizione radicale alla
causa della giustizia da parte di Antigone, della quale il gran-
de filosofo sarebbe stato da studente liceale precocemente
“innamorato”, ma che poi avrebbe “abbandonata” e in qual-
che modo “tradita” in occasione della trasformazione in si-
stema filosofico dell’“ideale degli anni giovanili” 10.
 

7
G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G.
MARINI, Laterza, Roma-Bari 1987, “La storia del mondo [Weltgeschi-
chte]”, §§ 341-360, pp. 265-273.
8
Come può sostenersi a partire dalla rigorosa ricostruzione di E.
WEIL, “La ‘Filosofia del diritto’ e la filosofia hegeliana della storia”,
in E. WEIL, Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani, a cura di A. BUR-
GIO, Guerini, Milano 1988, pp. 231-249.
9
Cfr. F. VOLTAGGIO, Antigone tradita. Una contraddizione della
modernità: libertà e Stato nazionale, Editori Internazionali Riuniti,
Roma 2013. Benché nel titolo non compaia il nome di Hegel, in realtà
il libro costituisce un’interpretazione complessiva della filosofia hege-
liana dello spirito oggettivo, vista come “tradimento” della giustizia in
nome della quale aveva lottato ed era morta l’eroina di cui il filosofo
s’era appassionato negli anni della prima giovinezza.
10
“Nella mia formazione scientifica, che è partita dai bisogni più
subordinati degli uomini, dovevo essere sospinto verso la scienza, e
nello stesso tempo l’ideale degli anni giovanili doveva mutarsi, in for-

 
128 Il dilemma di Antigone

Non v’è dubbio che nel pensiero di Hegel la centralità di


Antigone sia soltanto passeggera, anzi intrinsecamente desti-
nata a tramontare: ma questa sua caducità non deriva dal
semplice abbandono d’un amore giovanile; essa deriva invece
dalla complessità e dalla coerenza teoretico-speculativa della
concezione hegeliana della razionalità del reale (ove per reale
deve intendersi la Wirklichkeit: la “realtà effettiva” o – come
traduce E. De Negri – l’“effettualità”), il che indusse il gran-
de filosofo, nell’elaborazione del sistema, a riposizionarsi ri-
spetto agli ideali di giustizia universale entusiasticamente ab-
bracciati nella prima giovinezza. Non è dunque in primo luo-
go attraverso una riflessione sull’azione umana, e sulle impli-
cazioni etiche e politiche di quest’ultima, che Hegel prende le
distanze da Antigone: è viceversa sul piano ontologico – sul
piano dell’intelligenza della realtà effettiva e della sua intrin-
 

ma riflessiva, in un sistema”. Così Hegel in una celebre lettera a Schel-


ling del novembre 1800: G.W.F. HEGEL, Epistolario, a cura di P. MAN-
GANARO, I (1785-1808), Guida, Napoli 1983, p. 156. – L’inter-
pretazione di F. Voltaggio, cui ci si riferisce nel testo, s’oppone alla
tesi dominante nella letteratura critica, che viceversa insiste sulla so-
stanziale continuità del percorso che conduce Hegel “dal mondo stori-
co alla filosofia”, per riprendere il perspicuo titolo della classica mo-
nografia di Leo Lugarini (Hegel dal mondo storico alla filosofia, Ar-
mando Armando, Roma 1973; riedizione aggiornata con tre nuove ap-
pendici, Guerini, Milano 2000); nella stessa direzione si muove la
puntuale ricostruzione di G. CANTILLO, “Hegel a Jena: dall’‘ideale de-
gli anni giovanili’ all’elaborazione del ‘Gesamtsystem’”, in ID., Le
forme dell’umano. Studi su Hegel, Presentazione di A. Masullo, ESI,
Napoli 1996, pp. 61-118. Nello stesso volume (ivi, pp. 177-187) si ve-
da anche il saggio su Filosofia e sapere tragico, in cui, discutendo un
importante scritto di Otto Pöggeler, (“Hegel e la tragedia greca”, in O.
PÖGGELER, Hegel. L’idea di una fenomenologia dello spirio, a cura di
A. DE CIERI, Presentazione di V. Verra, Guida, Napoli 1986, pp. 11-
134), Cantillo ribadisce la tesi della continuità fra eredità speculativa
della tragedia greca e contenuto sistematico della filosofia hegeliana.
L’Antigone di Hegel 129

seca razionalità – che la vicenda dell’eroina greca si rivela ai


suoi occhi necessariamente transitoria. L’ontologia, in quanto
comprensione di ciò che effettivamente è nella sua totalità e
quindi con particolare riguardo al suo sviluppo storico, costi-
tuisce infatti per Hegel un sapere oggettivo e universale, ri-
spetto a cui vanno ridimensionate tutte le aspirazioni sogget-
tive, che restano unilaterali e particolaristiche, per quanto no-
bili e generose.
La marginalità di Antigone entro il sistema hegeliano di-
pende perciò da ragioni che attengono all’ambito teoretico-
speculativo della filosofia della storia anziché alla dimensio-
ne etico-politica della filosofia del diritto, o per meglio dire,
che attengono soprattutto alla subordinazione speculativa del
“diritto” – e di tutto quanto rinvia alla comprensione del-
l’agire umano – alla (presunta) logica del processo storico. Di
quest’ultimo, solo la conoscenza teoretica, secondo le pretese
della dialettica, riesce a enucleare l’intima razionalità, in
quanto vi mostra in opera il divenire effettivo dello spirito.
Nella prospettiva hegeliana la vicenda di Antigone, con la
sua indomita difesa d’una giustizia universale, acquista un’in-
discutibile e affascinante centralità unicamente nel contesto
storicamente e culturalmente delimitato del mondo classico.
Più precisamente, la centralità di Antigone si riferisce esclu-
sivamente alla “eticità” (Sittlichkeit) dei Greci, alla loro “li-
bertà” certamente da Hegel ritenuta “bella e felice” 11, ma al-

11
“Questa è la bella [e] felice libertà dei Greci […] Il popolo è dis-
solto nei cittadini e nello stesso tempo è un unico individuo, il gover-
no – esso sta in interazione solo con sé […] È il regno dell’eticità […]
qui non ha luogo alcun protestare; ognuno si sa immediatamente come
universale; cioè ognuno rinuncia alla sua particolarità […] Nell’età
antica la bella vita pubblica era l’ethos di tutti – bellezza, unità imme-
diata dell’universale e del singolo, un’opera d’arte, in cui nessuna par-
te si separa dall’intero”, G.W.F. HEGEL, Filosofia dello spirito jenese

 
130 Il dilemma di Antigone

trettanto certamente considerata sempre già sul punto di dile-


guarsi, dovendo cedere il passo all’incombente avvento del-
l’impero romano e del cristianesimo 12. Perciò la figura di
Antigone risulta al tempo stesso centrale e marginale. In altri
termini, Antigone dà voce alla pretesa privata – potente e
suggestiva, ma fatalmente parziale e perdente – della co-
scienza singola di contro alle esigenze storiche, politiche e
concettuali del potere pubblico. La sua tragedia compendia –
ed esibisce nelle sue dinamiche profonde – l’intima contrad-
dizione della vita etica dei Greci, che proprio per questo si ri-
 

(1805-1806), a cura di G. CANTILLO, II ed., Laterza, Roma-Bari 1984,


pp. 149-151.
12
Questo carattere necessariamente transitorio della “vita etica” dei
Greci è ribadito all’inizio della sezione della Fenomenologia dedicata
allo “Spirito” (in cui Hegel fornisce la sua interpretazione filosofica
dell’Antigone): “In quanto è la verità immediata, lo spirito è la vita
etica [das sittliche Leben] di un popolo: l’individuo che è un mondo.
Lo spirito deve giungere alla coscienza di ciò che esso è immediata-
mente, deve togliere [aufheben] la bella vita etica, e, attraverso una
serie di figure, riuscire al sapere di se stesso”. Il passaggio necessario
a ciò che Hegel chiama Rechtzustand (De Negri traduce “stato di dirit-
to”, che però va inteso come la situazione [Zustand] giuridica in cui
vengono a trovarsi gli individui all’epoca dell’impero romano e del
cristianesimo) è alluso dalla frase seguente: “Il vivente mondo etico è
lo spirito nella sua verità; tosto ch’esso giunga all’astratto sapere della
sua essenza, l’eticità tramonta nella formale universalità del diritto. Lo
spirito, scisso ormai in se stesso, inscrive nel proprio elemento sogget-
tivo, come in un’effettualità rigida, l’uno dei suoi mondi, il regno del-
la cultura, e di contro ad esso, nell’elemento del pensiero, il mondo
della fede”, G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., a
cura di E. DE NEGRI, II ed., La Nuova Italia, Firenze 1960, vol. II, p. 4.
Si citerà da questa edizione, più volte ristampata, che contiene la clas-
sica traduzione di Enrico De Negri. L’edizione Rusconi, del 1995, con
la traduzione di Vincenzo Cicero, è utile soprattutto perché arricchita
dalla pubblicazione del testo tedesco a fronte.
L’Antigone di Hegel 131

vela per essenza destinata a scomparire. Ed è questa convin-


zione teoretica, basata sulla concezione ontologico-speculati-
va del processo storico, a motivare l’abbandono hegeliano
della pretesa di giustizia avanzata da Antigone.
Dal momento però che la “rivendicazione [claim]” di An-
tigone, per usare il termine che dà titolo al già citato lavoro di
Judith Butler 13, in termini hegeliani risulta solo soggettiva, e
quindi unilaterale e incompleta, ciò che prima facie può ap-
parire come un suo abbandono o tradimento da parte di He-
gel, costituisce invece l’unica realizzazione possibile del pun-
to di vista dell’eroina, ottenuta però attraverso la negazione di
quest’ultimo, ossia mediante l’oltrepassamento della sua par-
zialità. Il sacrificio di Antigone assurge così a simbolo del sa-
crificio necessario d’una opposizione o rivolta puramente
soggettiva, la cui aspirazione fondamentale potrà essere sod-
disfatta nella sua positività se e soltanto se collocata nella
prospettiva della totalità storica.
Fin dall’inizio, quindi, l’interesse di Hegel per l’infelice
figlia e sorella di Edipo si colloca entro una considerazione al
tempo stesso storica e filosofica della tragedia greca, che
s’inscrive coerentemente entro la sua concezione della realtà
effettiva come spirito e dello spirito come totalità, cioè come
articolazione unitaria e necessaria di differenze, che non po-
tranno mai aver senso e consistenza se avulse dall’insieme.
Nella tragedia greca s’esprime dunque una contraddizione
ontologica che incide sulla struttura stessa della totalità, mi-
nacciandone l’equilibrio. L’unico modo per risolvere o scio-
gliere il conflitto tragico è per Hegel la sua Aufhebung: un
movimento dialettico, al tempo stesso logico e storico (che
quindi stringe in unità il pensiero filosofico e il processo rea-
le), capace di “togliere”, “superare” o “oltrepassare” l’opposi-

13
Cfr. J. BUTLER, La rivendicazione di Antigone, cit.

 
132 Il dilemma di Antigone

zione, in modo da negare la parzialità dei suoi momenti. Il


prezzo da pagare all’Aufhebung è esattamente il dileguare nel
passato dell’eticità greca, il che ne conferma il carattere tran-
sitorio 14.
 

14
Così J. Taminiaux riassume i termini della questione: “Come fi-
gura dello Spirito, questa vita etica greca è una sostanza di fronte alla
quale si trova una molteplicità di individui singoli che ne prende co-
scienza. Ma questa coscienza che li anima non è opposta a quella so-
stanza: è unita a quest’ultima che è il loro scopo e la loro essenza uni-
versale. Attraverso l’azione etica che essi compiono, la loro unifica-
zione alla sostanza diventa per-sé, accede all’autocoscienza, sicché la
sostanza non è per loro uno scopo semplicemente pensato ma uno
scopo da essi compiuto e nel quale consiste la loro opera, sicché di
converso essi stessi sono l’effettività singolarizzata di un’essenza uni-
versale. Tuttavia, nella misura in cui questa figura dello Spirito è im-
mediata, la sostanza vi si ripartisce in due leggi o potenze, la legge
umana che è la legge dell’universalità, e la legge divina che è la legge
della singolarità. Ugualmente, di fronte a questa sostanza, gli individui
che la mettono in opera sanno che essi appartengono all’una o all’altra
di queste due potenze in relazione al loro essere uomini o donne. Di
conseguenza, poiché l’autocoscienza distribuita tra i singoli esecutori
della sostanza etica dipende sempre in loro dall’appartenere a una sola
potenza – o la Città o la famiglia – con l’esclusione dell’altra, il sapere
in possesso di questi esecutori, senza i quali non vi sarebbe vita etica,
è accompagnato da altrettanta ignoranza. L’azione attraverso cui essi
realizzano ciò che sanno è dunque l’esperienza d’una doppia contrad-
dizione: tra queste potenze e anche tra il sapere etico posseduto dagli
individui fra i quali si distribuisce l’autocoscienza, da un lato, e ciò
che è etico in sé e per sé, dall’altro. La dimostrazione intende così sta-
bilire il necessario tracollo del bios politikos greco a causa d’una con-
traddizione teorica o speculativa, dovuta al fatto che questa forma di
vita resta impigliata nella natura e nell’eredità di usi e costumi che la
natura le impone. E il risultato di questo tracollo è l’emersione d’un
principio non più sostanziale ma soggettivo: l’individuo in quanto
questo sé che non si decide più in funzione d’un rapporto sostanziale a
un’eredità naturale ma per convinzione propria. Sennonché, l’emersio-
L’Antigone di Hegel 133

L’armonia della polis e la repubblica platonica.

A proposito dell’Antigone, scrive Hegel nelle sue lezioni


di Estetica (pubblicate postume dai suoi allievi): “Tutto in
questa tragedia è conseguente; la legge pubblica dello Stato è
in aperto conflitto con l’intimo amore familiare ed il dovere
verso il fratello; l’interesse familiare ha come pathos la don-
na, Antigone, la salute della comunità Creonte, l’uomo. Poli-
nice, combattendo contro la propria città natale, era caduto di
fronte alle porte di Tebe; Creonte, il sovrano, minaccia di
morte, con una legge pubblicamente bandita, chiunque dia
l’onore della sepoltura a quel nemico della città. Ma di que-
st’ordine che riguarda solo il bene pubblico dello Stato, Anti-
gone non si cura, e come sorella adempie al sacro dovere del-
la sepoltura, per la pietà del suo amore per il fratello. Ella in-
voca in tal caso la legge degli dei; ma gli dei che onora sono
gli dei inferi dell’Ade (Sofocle, Antigone, v. 451), quelli in-
terni del sentimento, dell’amore del sangue, non gli dei della
luce, della libera e autocosciente vita statale e popolare” 15.
Fra le tragedie greche che ci sono rimaste, quella di Anti-
gone è privilegiata da Hegel perché, attraverso il contrasto
con Creonte, in cui si mostra la collisione tra la legge della
Città [polis] e quella della Casa [oikos], diventa esemplar-
mente visibile il movimento centrifugo che fa vacillare
l’equilibrio della vita etica del popolo greco, e ne costituisce
l’iniziale principio di dissolvimento. La funzione destabiliz-
zante di Antigone manifesta plasticamente l’opposizione on-
tologica tra due principi contrapposti, l’uno d’origine umana,
 

ne di questo nuovo principio segna la fine della vita etica e il passag-


gio a un’altra figura spirituale”, J. TAMINIAUX, Le théâtre des philoso-
phes, cit., pp. 89-90.
15
G.W.F. HEGEL, Estetica, a cura di N. MERKER, Einaudi, Torino
1976, 2 voll.; vol. I, p. 522.

 
134 Il dilemma di Antigone

l’altro invece di natura divina o ctonia, in ogni caso sottratto


alla deliberazione umana: nessuno dei due, però, può essere
abolito, perché ciascuno di essi è un’espressione immediata
della totalità costituita dalla polis in quanto realizzazione
concreta – ma in sé stessa spaccata in due – dell’unica so-
stanza etica.
L’essenza dello spirito allo stato nascente, cioè nella greci-
tà classica, è per Hegel l’“eticità”, in cui lo spirito trova la
sua verità nella forma ideale dell’armonia e dell’equilibrio
sostanziale e spontaneo tra essere e dover essere, tra indivi-
duale e universale, tra fatto e diritto. E tuttavia si sbagliereb-
be a concludere che la prospettiva hegeliana faccia sua una
visione statica e conciliante della Grecia classica. In realtà, la
polis greca costituisce una totalità etica la cui armonia si rive-
la solo apparente e provvisoria, attraversata com’è dalla sua
scissione ontologica in due leggi contrapposte, quella privata
della Casa (o della Famiglia) e quella pubblica della Città, di
cui la tragedia, e segnatamente l’Antigone, costituisce la mes-
sinscena.
Come scrive Paolo Vinci, “l’armonia regna nella polis
prima dell’agire tragico. Questa è la tesi di partenza della trat-
tazione hegeliana, che fa scaturire dall’azione quel movimen-
to che si concluderà con l’autoaffermazione dell’individuo
moderno autocosciente e padrone dei suoi atti” 16.
Va subito precisato che l’armonia della polis “prima” della
sua destabilizzazione tragica è quella descritta da Platone. È
questo un punto fondamentale, ben chiarito da Hegel nei suoi
diversi rimandi a Platone, ma non sempre sufficientemente
sottolineato nelle presentazioni dell’interpretazione hegeliana
del mondo greco. La Città platonica, retta dal sapere teoreti-
 

16
P. VINCI, “L’Antigone di Hegel. Alle radici tragiche della sog-
gettività”, in Antigone e la filosofia. Un seminario a cura di P. Monta-
ni, cit., pp. 31-46; la citazione è a p. 33.
L’Antigone di Hegel 135

co, non è per Hegel l’espressione di uno stato ideale, astratto


e vuoto, ma al contrario corrisponde in modo essenziale al
concetto greco della vita etica o eticità. Basti ricordare quanto
egli ne dice nei Lineamenti di filosofia del diritto: “Platone
nel suo stato rappresenta l’eticità sostanziale nella di lei es-
senziale bellezza e verità” 17. E nella celebre Prefazione a
questa stessa opera, Hegel è forse ancora più esplicito: “Per-
fino la repubblica platonica, la quale passa per l’espressione
proverbiale di un vuoto ideale, essenzialmente non ha conce-
pito nient’altro che la natura dell’eticità greca” 18.
In questo senso, si può ben dire che la repubblica di Plato-
ne sia letta da Hegel “come consapevole tentativo di restaura-
zione dell’eticità morente e non come utopia per il futuro” 19.
Caratteristica della vita etica dei Greci sarebbe dunque, tanto
per Hegel quanto per Platone, la prevalenza del bios theōrēti-
cos sul bios politikos, la prevalenza cioè dell’epistēmē sulla
doxa, con la conseguente emarginazione tanto della praxis
quanto della poesia tragica, entrambe viceversa essenziali
nella Città democratica (e di conseguenza pre-filosofica).

17
G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 185, p.
156.
18
G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 13. Che
la Città ideale di Platone descriva l’eticità greca sviluppatasi nella po-
lis secondo il suo modo sostanziale è ribadito in G.W.F. HEGEL, Le-
zioni su Platone (1825-26), Introduzione di J.-L. Vieillard-Baron,
Guerini & associati, Milano 1995.
19
G. BONACINA, Storia universale e filosofia del diritto. Commento
a Hegel, Guerini, Milano 1989, p. 218.

 
136 Il dilemma di Antigone

Il doppio movimento sotteso all’analisi hegeliana del


mondo greco.

Ribadiamo, dunque, a titolo di breve ricapitolazione, che


nella sua interpretazione dell’Antigone, Hegel ha inteso de-
scrivere la polis greca, in quanto realizzazione immediata del-
la “vita etica”, negli stessi termini che, almeno secondo la sua
lettura, erano stato utilizzati da Platone per raffigurare la Cit-
tà ideale. Hegel finisce così per subordinare l’insieme del-
l’azione umana al paradigma della produzione, intesa come
messa in opera di un modello preesistente, di cui la cono-
scenza teoretica sarebbe in grado di cogliere a priori le carat-
teristiche fondamentali. Sennonché, per Hegel, la “vita etica”,
all’interno della Città greca, ha ancora un radicamento natu-
rale, il che vuol dire che non è mediatizzata come una con-
quista dello spirito. Ovviamente, un’affermazione del genere
è possibile solo sulla base della teleologia speculativa, su cui
si basa l’intera analisi hegeliana, cioè su una visione finalisti-
ca del processo storico, che presume d’averne colto l’essenza
razionale, universale e necessaria. In fin dei conti, perciò, i
numerosi riferimenti di Hegel all’Antigone intendono dimo-
strare l’intrinseca deficienza d’una eticità solo immediata,
dalla quale, per questo motivo, lo spirito deve allontanarsi per
riuscire a superarla. Il che conferma che la filosofia della sto-
ria costituisce, nell’impianto hegeliano, il fondamento onto-
logico e al tempo stesso l’esito speculativo della filosofia del
diritto.
Più precisamente, secondo Hegel, la tragedia greca mette
in scena la dissoluzione della dimensione sostanziale dell’eti-
cità greca, di cui la repubblica platonica rappresenta la de-
scrizione compiuta. È necessario prestare attenzione al dop-
pio movimento sotteso alla presentazione hegeliana del mon-
do greco, la cui armonia e il cui equilibrio si rivelano solo
apparenti, in quanto sempre già minacciati dall’interno da una
L’Antigone di Hegel 137

complicazione originaria che solo attraverso la teleologia


speculativa può diventare esplicita.
Il doppio movimento sotteso alla sua analisi conduce He-
gel dapprima ad affermare che “nel suo sussistere [Bestehen]
il regno etico è un mondo non macchiato da scissione alcu-
na” 20; e in seguito ad aggiungere: “Ma l’essenza etica si è di-
rotta in due leggi, e la coscienza, come indiviso comporta-
mento verso la legge, è ora assegnata soltanto a Uno” 21. Le
due osservazioni non si escludono ma si completano. L’ar-
monia del regno etico, che ne costituisce la determinazione
ideale, non esclude il fatto che, al suo interno, due leggi con-
trapposte presiedano all’individuazione dei singoli. In altri
termini, l’assenza di scissione caratterizza la struttura essen-
ziale della totalità etica; ma la sua Wirklichkeit, cioè l’effet-
tualità o messa in opera della sostanza etica 22, non può aver

20
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 21.
21
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 26.
22
Hegel definisce lo spirito come “l’essenza in sé e per sé essente,
la quale in pari tempo è a sé effettuale [wirklich] come coscienza e
rappresenta sé a sé stessa”: la dimensione che risulta qui decisiva è
quella della Wirklichkeit, da intendersi come messa in opera dell’es-
senza. Non a caso subito dopo, riguardo al medesimo spirito, Hegel
precisa: “La sua essenza spirituale è già stata definita come la sostanza
etica; ma lo spirito è l’effettualità [Wirklichkeit] etica” (G.W.F. HE-
GEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 2). In questa sezione,
dunque, è in gioco esattamente la realizzazione dell’essenza dello spi-
rito: e tale realizzazione si compie come messa in opera della sostanza
etica. “Questa sostanza – continua il testo – è anche l’opera (Werk)
universale, la quale mediante l’operare (Tun) di tutti e di ciascuno, si
produce come loro unità o uguaglianza: questa sostanza è infatti l’es-
sere-per-sé, il Sé, l’operare. […] Di conseguenza, lo spirito è l’asso-
luta, reale essenza che sostiene se stessa. Tutte le figure della coscien-
za fin qui apparse sono astrazioni di questo spirito medesimo”
(G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., pp. 2-3). Ne

 
138 Il dilemma di Antigone

luogo senza la spaccatura dell’intero in due leggi parallele, il


che mette in crisi il suo quieto ma astratto sussistere, asse-
gnando la coscienza singola – e l’operare di quest’ultima – a
una sola delle due leggi e mettendola in una situazione di
contrasto insolubile con l’altra.
L’armonia o compiutezza che appartiene al concetto so-
stanziale dell’eticità greca si rivela, sul piano della sua realiz-
zazione concreta, solo apparente e quindi provvisoria. Ma
non è tutto. Le linee di forza del movimento spirituale che
tiene in vita la polis come totalità etica emergono in piena lu-
ce solo a partire da un’attenta analisi delle sue linee di frattu-
ra. Poiché è la tragedia che esprime queste ultime nel modo
più esplicito, è attraverso l’analisi della tragedia che Hegel
scopre la verità del mondo greco, cioè la necessità del suo ol-
trepassamento. Più precisamente, anziché esprimere la strut-
tura ideale della vita etica (cioè la sua capacità di sorreggere e
sostenere la vita di un popolo, facendone una totalità), la tra-
gedia ne mette in scena l’esecuzione: cioè esattamente il mo-
mento in cui, grazie alla collisione dei due principi in cui s’è
scissa la sostanza, l’eticità, proprio mentre si realizza concre-
tamente, finisce inevitabilmente per collassare. E così l’Anti-
gone mostra il crepuscolo della vita etica dei Greci, ma con-
sente a quest’ultima di emergere in controluce nelle sue com-
ponenti fondamentali.
 

risulta confermato, nel caso della vita etica del popolo, il carattere de-
cisivo del nesso fra sostanza ed effettualità: ciò che sostiene, fonda,
sorregge e stabilizza la polis come totalità etica è l’effettualità, la Wir-
klichkeit, cioè la messa in opera dello spirito attraverso l’operare di
tutti e di ciascuno; ma al tempo stesso questa effettualità etica è un sa-
pere, un sapersi, una manifestazione dell’essere come spirito. Per que-
sto motivo la vita etica è una “figura” dello spirito, e quest’ultimo può
intuire e riconoscere che la ragione è in lui effettuale, cioè prodotta dal
suo proprio operare, benché in questa fase, cioè nel mondo etico, essa
resti gravata dall’immediatezza del suo radicamento nella natura.
L’Antigone di Hegel 139

La lettura della tragedia greca come documento ontolo-


gico-metafisico.

Prima di approfondire l’analisi hegeliana del tracollo della


polis greca messo in scena dalla tragedia, occorre ora farne
emergere il presupposto speculativo. Come è stato messo in
luce da Jacques Taminiaux, nell’importanza che i filosofi te-
deschi – da Schelling fino a Heidegger – hanno attribuito alla
tragedia greca, si rivela decisivo, benché ancora insufficien-
temente esplorato nelle sue implicazioni teoriche, il fatto che
tutti questi filosofi “vedessero nell’opera tragica non già un
documento relativo ai pericoli incombenti sull’interazione
umana ma un documento relativo all’essere dell’ente in tota-
lità. A prescindere dalle loro divergenze nel caratterizzare
questo essere – Identità natura-libertà in Schelling e nel gio-
vane Hölderlin, Spirito in Hegel, Volontà in Nietzsche, Alē-
theia in Heidegger – tutti questi filosofi tedeschi s’accorda-
vano nel considerare la tragedia greca non già un documento
prasseologico ma un documento metafisico” 23.
Vedere nella tragedia greca un documento prasseologico
significa scorgervi una forma di “arte politica”, come recita il
titolo dell’importante e già ricordato libro di Christian Meier
sulla tragedia attica 24, o una istituzione di autolimitazione in-
terna alla polis democratica, secondo quanto ha messo in luce
Castoriadis 25.
Nella considerazione della tragedia come documento me-
tafisico c’è invece una ripresa ambigua, ma non per questo

23
J. TAMINIAUX, “Poétique et Politique. La mimèsis tragique come
imitation de l’action”, in ID., Maillons herméneutiques. Études de poé-
tique, de phénoménologie et de politique, Puf, Paris 2009, p. 13.
24
Cfr. C. MEIER, op. cit.
25
Cfr. C. CASTORIADIS, L’enigma del soggetto, cit., pp. 217-219.

 
140 Il dilemma di Antigone

meno decisiva, della censura rivolta da Platone ai poeti tragi-


ci e della conseguente esclusione della tragedia dalla Città
della Repubblica e delle Leggi. Ripresa ambigua, perché nelle
letture germaniche della tragedia greca, l’esclusione platonica
si trasforma in esaltazione della tragedia; ma una tale esalta-
zione, almeno nel caso di Hegel, ha luogo all’interno d’una
concezione che resta profondamente fedele alla subordina-
zione platonica del bios politikos – forma di vita fondamenta-
le all’interno della democrazia ateniese, la quale ultima fu
l’unico terreno di coltura della tragedia – al bios theōrētikos o
vita contemplativa, cioè alla teoresi filosofica. Con ciò Hegel
si allontana da Aristotele, la cui Poetica valorizzava la
mimēsis tragica per la sua capacità di imitare la prassi e ve-
deva in quest’ultima l’elemento centrale del bios politikos,
forma di vita sottratta al predominio della theōria e portata a
compimento dalla polis democratica. In Hegel, viceversa,
prevale la diffidenza platonica per una forma di vita impli-
cante la centralità della prassi, intesa come azione distinta
dalla poiēsis (produzione o fabbricazione) e perciò sprovvista
d’un modello ontologico preesistente alla produzione e di
conseguenza suscettibile di diventarne l’unità di misura 26. La
 

26
La demarcazione aristotelica di praxis e poiēsis, con la conse-
guente subordinazione della seconda ad una preliminare theōria che si
tratterebbe soltanto di mettere-in-opera, è il filo conduttore della co-
siddetta riabilitazione della filosofia pratica nella seconda metà del
Novecento (cfr. Tradizione e attualità della filosofia pratica, a cura di
E. BERTI, Marietti, Genova 1988), a cui può essere ricondotta l’ori-
ginale e per certi versi innovativa tematizzazione della vita activa da
parte di Hannah Arendt (cfr. H. ARENDT, Vita activa. La condizione
umana, cit.). È abbastanza strano che nel saggio di A. SPEIGHT,
“Arendt and Hegel on the Tragic Nature of Action”, in Philosophy
and Social Criticism, 28, n. 5, 2002, pp. 523-536, correttamente si in-
sista sull’imprevedibilità degli esiti, che per H. Arendt costituisce una
delle caratteristiche fondamentali dell’azione, ma si tralasci comple-
L’Antigone di Hegel 141

Città platonica è costruita sul primato della poiēsis, che, go-


vernata e sorretta dalla teoresi, costituisce la messa-in-opera –
la realizzazione effettiva – d’un modello ideale. Grazie al
privilegio attribuito da Platone al sapere teoretico in quanto
appannaggio esclusivo dei filosofi, questi ultimi sarebbero i
soli in grado di guidare la vita politica attraverso la cono-
scenza preliminare del suo modello ideale, di cui la polis, col
contributo attivo di tutti i suoi membri, dovrebbe limitarsi ad
assicurare l’effettuazione. La messa al bando dei poeti tragici
si rivela strumentale a questo processo di cooperazione fun-
zionale, consistente nell’esecuzione o messa in opera guidata
dalla visione (theōria) d’un modello preliminare, processo
che i poeti tragici disturberebbero e minaccerebbero col loro
riferimento mimetico a un’attività, la prassi, sprovvista di ei-
dos e rimessa soltanto all’autoregolazione della phronēsis.
L’argomento principale della denuncia parallela di demo-
crazia e tragedia da parte di Platone è “l’invocazione del
principio della specializzazione artigianale” 27, che regge la
convivenza funzionalmente adeguata dei cittadini all’interno
della Città. Nel settimo libro delle Leggi la replica ai poeti
tragici da parte del vecchio Ateniese (in cui è da riconoscere
lo stesso Platone) lo ribadisce senza mezzi termini. Commen-
ta Taminiaux: “Ciò che la replica del vecchio Ateniese non
dice ma che invece a colpo sicuro presuppone è anzitutto che
la tragedia, così come essa esisteva dai tempi di Eschilo, è per
lui divenuta superflua esattamente perché imitava la praxis,
che per sua natura oppone resistenza alle procedure della fab-
bricazione, mentre queste ultime nella Città delle Leggi reg-
 

tamente di metterla in connessione con la pluralità umana e soprattutto


di distinguerla dalla poiēsis e dalle due forme di quest’ultima (labor e
work, Arbeit e Herstellung), il che avrebbe reso il confronto con Hegel
più interessante e problematico.
27
J. TAMINIAUX, Le théâtre des philosophes, cit., p. 28.

 
142 Il dilemma di Antigone

gono l’intera esistenza, di modo che la praxis interlocutoria e


plurale, e la sua profonda fragilità, vi sono state puramente e
semplicemente eliminate: l’azione in essa è abolita e trasfor-
mata in comportamenti conformi a regole” 28.
All’emarginazione della praxis corrisponde la sottovaluta-
zione della hybris, che viceversa costituisce il vero tema delle
tragedie, e di conseguenza anche dell’Antigone. La hybris è la
dismisura o la tracotanza, che sempre incombe sull’intera-
zione e sull’interlocuzione degli esseri umani, sulla loro fra-
gilità sprovvista d’unità di misura ontologica, sprovvista cioè
di quei punti di riferimento evidenti, ai quali invece secondo
Platone avrebbe accesso la chiaroveggenza del filosofo, che
perciò dovrebbe diventare l’unico reggitore autorizzato della
polis. Il solo rimedio possibile contro la hybris è la phronēsis
(la saggezza pratica, la capacità di discernimento), virtù che
si radica nell’avvertimento vissuto della pluralità umana. Scri-
ve ancora Taminiaux: “Se è certo che nella phronēsis sono in
causa l’agente stesso e il suo ben-vivere, è altrettanto certo
che non si tratta di lui solo, in quanto individuo isolato, ma
dell’agente in quanto connesso a una pluralità. Per questo
Aristotele (Eth. Nic. 1140 b 8-9) dice che Pericle, pur critica-
to dal Socrate platonico, è a buon diritto considerato phroni-
mos perché era capace di vedere (theōrein) ciò che era bene
non solo per lui ma per i suoi concittadini” 29.
Ebbene, di simili implicazioni pratico-politiche della tra-
gedia greca, Hegel semplicemente non si cura. La sua analisi
subordina il senso etico, giuridico e politico dell’Antigone ad
una considerazione ontologico-speculativa consistente nel
mostrare, in una tappa storicamente originaria del manifestar-
si dello spirito, la crisi della coincidenza o concordanza per-

28
J. TAMINIAUX, Le théâtre des philosophes, cit., p. 30.
29
J. TAMINIAUX, Le théâtre des philosophes, cit., pp. 65-66.
L’Antigone di Hegel 143

fetta tra particolare e universale. Nel conflitto tragico fra An-


tigone e Creonte, attraverso la catastrofe che esso testimonia,
Hegel ritiene possibile e necessario scorgere in filigrana i se-
gni di un’armonia perduta, di un equilibrio divenuto instabile,
di una totalità che già incomincia a decomporsi ma di cui
s’annuncia la metamorfosi e la rinascita in una fase successi-
va dello sviluppo storico.

La rivalutazione di Creonte e il ruolo dei “grandi carat-


teri”.

La lettura ontologico-speculativa della tragedia greca pre-


suppone dunque una visione della polis come totalità o so-
stanza etica dalla quale sia stata espunta l’azione. Siamo fin
dall’inizio rinviati a una specifica interpretazione della polis,
che ne riconduce il carattere transitorio al modo singolare in
cui, al suo interno, si produce o mette in opera la totalità eti-
ca. Si tratta infatti di una messa in opera che non riesce con-
cretamente a realizzarsi se non scindendosi rovinosamente in
due potenze spirituali, contrapposte ma irrinunciabili, che alla
fine conducono alla rovina l’armonia o l’equilibrio sostanzia-
le che caratterizza, ma solo nel suo sussistere ideale, la vita
etica dei Greci.
Il privilegiamento della lettura ontologica della sostanza
etica conduce Hegel a tralasciare, nella sua interpretazione
dell’Antigone, il ruolo degli altri personaggi, concentrandosi
esclusivamente sul conflitto essenziale tra l’eroina e Creonte.
Qui Hegel ha il merito di discostarsi dalla ricorrente demo-
nizzazione di Creonte, spesso dipinto come despota arbitra-
rio, spietato e politicamente irresponsabile, che si compiace-
rebbe di perseguitare l’innocente eroina. A questo cliché era-
no rimaste fedeli rilevanti riletture dell’opera sofoclea in età
moderna, da Racine a Vittorio Alfieri fino, almeno per certi

 
144 Il dilemma di Antigone

versi, allo stesso Goethe 30. La rivalutazione di Creonte, alla


quale Hegel è sempre molto attento, è una delle ragioni prin-
cipali che consente alla sua interpretazione di situarsi all’al-
tezza del dramma sofocleo, la cui ‘riuscita’ deve moltissimo
alla complessità e ricchezza umana del personaggio che
s’identifica con la legge umana o legge della città. “Il contra-
sto al centro della tragedia non riguarda dunque due perso-
naggi o due caratteri, ma due principi o valori, o meglio, due
sistemi di valori, e si esprime nella contrapposizione non tra
la nobiltà d’animo di una eroina del Bene e la malvagia pro-
tervia di un’incarnazione del Male, ma tra un dovere avverti-
to come sacro e una ‘legge pubblicamente bandita’” 31.
Questi due sistemi di valori entrano necessariamente in
rotta di collisione, senza però coinvolgere le responsabilità
morali o personali degli individui in cui s’incarnano, i quali
non fanno altro che essere fedeli al proprio carattere. “La
forza dei grandi caratteri – precisa con estrema chiarezza He-
gel – sta proprio in ciò, che essi non scelgono, ma interamen-
te per loro natura sono ciò che vogliono e compiono” 32.
Quindi Creonte e Antigone, in quanto “caratteri”, anzi “gran-
di caratteri”, non sono singole individualità che interagiscono
e che magari s’interrogano sul senso delle proprie azioni, ma

30
Se ne veda l’attento resoconto nella prima parte del saggio di E.
RIPEPE, op. cit., pp. 679-683.
31
E. RIPEPE, op. cit., p. 685. Per Martha Nussbaum, tuttavia, Hegel
sbaglierebbe “nel non sottolineare che la scelta di Antigone è chiara-
mente superiore a quella di Creonte”, M. NUSSBAUM, La fragilità del
bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, a cura di
G. ZANETTI, Il Mulino, Bologna 1996, p. 157. Al riguardo si vedano le
osservazioni critiche di D. GUASTINI, “L’Antigone di Martha Nus-
sbaum. La tragedia della phronēsis”, in Antigone e la filosofia, cit., pp.
261-277, soprattutto a p. 263.
32
G.W.F. HEGEL, Estetica, cit., p. 1357.
L’Antigone di Hegel 145

personaggi già determinati dalla loro natura a svolgere un


certo ruolo, al quale ontologicamente appartengono e col qua-
le perciò intrinsecamente si identificano.

L’eroe tragico e la sua contraddittorietà ontologica.

In questa subordinazione all’universale, di cui i “caratteri”


diventano semplici esecutori, alla stregua delle membra di un
organismo 33, prevale fortemente il momento dell’immedia-
tezza. Ogni “carattere” è mosso da un pathos che lo domina e
che si rivela totalizzante. Ed è proprio questa coincidenza
immediata col suo pathos che fa del carattere tragico un che
di unilaterale. Sennonché, questa unilateralità non è un difetto
morale o una caratteristica psicologica, bensì una determina-
zione ontologica, che affonda le proprie radici nella coinci-
denza immediata di carattere e pathos. Per Hegel, infatti, “es-
sere carattere vuol dire avere la sostanza come unico pathos e
considerare superfluo tutto il resto” 34.
Poiché però l’unilateralità totalizzante appartiene per natu-
ra a ciascuno dei due caratteri, l’analisi condotta da Hegel
 

33
“Nella messa a punto collettiva di un’opera coloro che vi contri-
buiscono non hanno motivo di dibatterne ma devono solo compiere
efficacemente, ciascuno al suo posto, il compito particolare prescritto
dal costruttore. Quanto all’organismo, la sua salute si riconosce, come
diceva Bergson, dal silenzio dei suoi organi. In realtà, è proprio in
questi due registri, inaugurati da Platone, quello della messa-in-opera
e quello della vita organica, che la Fenomenologia descrive la vita eti-
ca. È una simile ispirazione platonica che spiega il fatto che la Città
greca, in senso hegeliano, sia composta di governanti dotati di sapere
e di cittadini che obbediscono alle loro direttive, divisione che mal si
vede a che cosa possa corrispondere in un regime di democrazia diret-
ta”, J. TAMINIAUX, Le théâtre des philosophes, cit., p. 99.
34
P. VINCI, L’Antigone di Hegel, cit., p. 35.

 
146 Il dilemma di Antigone

nell’Estetica vede nell’Antigone il raggiungimento d’una


“superiore riconciliazione tragica” attraverso un superamento
della collisione tra le potenze spirituali che non si limita, co-
me “la giustizia epica”, al “semplice ristabilimento dell’equi-
librio”, ma che invece comporta la soppressione delle due
unilateralità. Infatti, continua Hegel, “se l’unilateralità deve
essere superata, è dunque questo individuo che, nella misura
in cui ha agito come l’unico pathos, deve essere soppresso e
sacrificato. Infatti l’individuo è solo quest’unica vita, e se
questa non vale saldamente per sé come tale, l’individuo è
infranto” 35.
Il valore esemplare della tragedia sta proprio nel mostrare
in concreto la subordinazione immediata dei comportamenti
individuali al “carattere”, in quanto determinazione naturale,
che precede l’operare dell’eroe e l’intrappola in una contrad-
dizione insolubile, costringendolo, per obbedire alla sua natu-
ra, a porre in atto comportamenti che invece finiscono per
contrastarla. Proprio a questo riguardo, Hegel si riferisce di
nuovo all’Antigone per esemplificare una simile contradditto-
rietà – ontologica e non prasseologica – dell’eroe tragico.
“Il genere più compiuto di questo sviluppo è possibile al-
lorquando gli individui in conflitto si presentano, secondo la
loro concreta esistenza, ognuno in sé stesso come totalità, co-
 

35
G.W.F. HEGEL, Estetica, cit., p. 1360. Va detto che la prospettiva
dell’Estetica, di molti anni posteriore, non è la stessa della Fenomeno-
logia, nella quale l’Antigone, attraverso la messa in scena del tramonto
degli individui che incarnano le due potenze etiche, dimostrava il ne-
cessario tracollo del regno etico e la transizione a una figura ulteriore.
Sulla differenza e complementarietà dei due diversi aspetti della teoria
hegeliana della tragedia, si trovano interessanti considerazioni in J.
PETERS, “A Theory of Tragic Experience According to Hegel”, in Eu-
ropean Journal of Philosophy, 19, n. 1, 2009, pp. 85-106, che tuttavia
trascura completamente il ruolo decisivo della teleologia speculativa
nell’interpretazione hegeliana del mondo greco.
L’Antigone di Hegel 147

sicché in sé stessi si trovano in potere di ciò che combattono,


violando ciò che, conformemente alla loro esistenza, dovreb-
bero onorare. Così, per esempio, Antigone vive sotto il potere
statale di Creonte; ella stessa è figlia di re e promessa di
Emone, cosicché dovrebbe obbedienza al comando del prin-
cipe. Ma anche Creonte, che è dal canto suo padre e sposo,
dovrebbe rispettare la santità del sangue e non comandare ciò
che è contrario a questa pietà. Così in entrambi è immanente
ciò contro cui si ergono rispettivamente, ed essi vengono pre-
si ed infranti da ciò che appartiene alla cerchia stessa della
loro esistenza. Antigone subisce la morte prima di avere gioi-
to della danza nuziale, ma anche Creonte viene punito nel fi-
glio e nella moglie, che si danno la morte. Di tutti i capolavo-
ri del mondo antico e moderno – li conosco più o meno tutti
ed ognuno dovrebbe e potrebbe conoscerli – l’Antigone mi
pare per quest’aspetto come l’opera d’arte più eccellente e
più soddisfacente” 36.
L’elemento che qui emerge e giustifica dal punto di vista
hegeliano il primato dell’Antigone come opera d’arte è il fatto
che la spaccatura della totalità si cali perfettamente nel con-
creto sentire umano. Lo sfondo ontologico della contraddi-
zione patita dai due personaggi in conflitto li porta a ignorare
e disconoscere ciò che non rientra nella propria natura, pur
facendo parte della totalità. Da questa situazione, ciascuno
dei due è spinto inesorabilmente ad andare anche contro sé
stesso. Opponendosi all’altro, ciascuno afferma la fedeltà o
l’ubbidienza alla legge con cui immediatamente, cioè per na-
tura, si identifica: ma con ciò afferma anche l’ignoranza e il
disconoscimento della legge opposta, che tuttavia risulta
egualmente espressiva della totalità. La spaccatura tragica di
quest’ultima si riverbera nell’insuperabile autoreferenzialità

36
G.W.F. HEGEL, Estetica, cit., pp. 1360-61.

 
148 Il dilemma di Antigone

di ciascun carattere. In questa impossibilità di adempiere il


proprio dovere senza tradire una parte di sé consiste lo specifi-
co della tragedia. Una tale impossibilità – aggiunta decisiva –
non è eticamente imputabile né ad Antigone né a Creonte 37,
che tuttavia ne pagano le conseguenze.

L’affacciarsi dell’individualità e la sua esclusione spe-


culativa.

Nell’economia della Fenomenologia hegeliana, il conflitto


tragico rappresenta l’introduzione di un’istanza radicale di sin-
golarità che mette in crisi la prima figura storica dello spirito,
cioè la “vita etica” dei Greci, la quale dal canto suo non poteva
riconoscerla e farle spazio, essendosi sviluppata entro la polis
unicamente secondo il suo modo sostanziale o naturale (e non
ancora secondo il suo modo soggettivo). Infatti, secondo He-
gel, nel mondo greco l’individuazione dei singoli è solo quella
imposta dall’opposizione ontologica o sostanziale tra la legge
dell’oikos e la legge della polis, il che di fatto esclude la praxis
come iniziativa individuale e la riduce a esecuzione o messa in
opera d’un modello preesistente. A questo predominio dello

37
“In tutti questi conflitti tragici, noi dobbiamo, però, anzitutto
scartare la falsa rappresentazione di colpa o innocenza: gli eroi tragici
sono sia colpevoli sia innocenti. Se vale l’idea che l’uomo sia colpe-
vole solo in quel determinato caso che gli si offra una scelta ed egli si
decida con libero arbitrio a fare ciò che fa, le antiche figure plastiche
sono innocenti; esse agiscono in base a questo carattere e a questo pa-
thos, proprio perché sono questo carattere, questo pathos […] Ma al
contempo il loro pathos pieno di collisioni li porta ad atti colpevoli,
offensivi. Di questi atti essi non vogliono però essere innocenti; al
contrario la loro gloria è avere realmente fatto ciò che hanno fatto”,
G.W.F. HEGEL, Estetica, cit., pp. 1357-8.
L’Antigone di Hegel 149

schema della poiēsis è da ricondurre la negligenza delle indi-


vidualità di Antigone e Creonte nel testo hegeliano che più vi
si riferisce, e cioè nella Fenomenologia dello spirito.
“Non c’è nessun’altra azione, ivi compresa l’azione politi-
ca, che non sia la produzione di un’opera alla luce d’un sape-
re preliminare di quel che quest’ultima deve essere: ecco il
principio incontestabilmente platonico che presiede alla de-
scrizione fenomenologica della vita etica. Alla luce di questo
principio si spiega il fatto che la descrizione hegeliana, pur
nutrita di quegli esempi individuali che portano il nome di
Antigone e Creonte, non solo non li nomini mai, ma soprat-
tutto releghi, da tutti i punti di vista, il singolo individuo
nell’ambito delle ombre. Va da sé, infatti, che l’attività di
produzione dipende da un sapere (da una technē) per defini-
zione generico; sennonché – cosa altrettanto scontata – chi vi
si dedica non potrà esibirvi la propria individuazione di sin-
golo, ma soltanto ben precise attitudini generiche, quelle che
richiede in generale questo o quel genere di produzione” 38.
Nel mondo greco, la totalità etica si riflette direttamente
nella coscienza singola 39, senza che quest’ultima abbia con-
quistato il diritto alla sua individuazione soggettiva. Perciò,
quando all’interno di quel mondo apparentemente coeso e so-
lo immediatamente armonico fa la sua comparsa un’indivi-
dualità come quella di Antigone, che non s’omologa alla tota-
lità, quel mondo crolla. Come scrive Paolo Vinci, “Hegel
sceglie l’azione tragica di Antigone come chiave di lettura del
mondo greco, per mettere in luce il venir meno al quale esso
è destinato nel momento in cui s’affaccia l’individualità” 40.

38
J. TAMINIAUX, Le théâtre des philosophes, cit., pp. 104-105.
39
“L’autocoscienza etica fa immediatamente uno con l’essenza”,
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia, vol. I, cit., p. 359.
40
P. VINCI, L’Antigone di Hegel, cit., p. 38.

 
150 Il dilemma di Antigone

Nella coincidenza di individuale e universale, s’esprime al


tempo stesso la grandezza della vita etica e il suo limite. La
coscienza etica, precisa Hegel, “ha tolto [aufgehobt] sé come
singola; questa mediazione è compiuta; e solo perché è com-
piuta, quella coscienza è immediata autocoscienza della so-
stanza etica” 41. Il compimento della mediazione – cioè il su-
peramento della singolarità chiusa nella sua natura immediata
– produce nel regno etico un’autocoscienza a sua volta im-
mediata, in quanto la sua adesione all’universale è un dato so-
lo naturale (una conseguenza inevitabile del “carattere”). In
questo senso, la polis greca realizza un’armonia sostanziale o
naturale, ma non ancora soggettiva (non ancora mediatizzata
da una riflessione dell’autocoscienza, il che tuttavia può dirsi
solo dall’esterno, in nome d’una teleologia speculativa).
In questo contesto, la Fenomenologia cita i celeberrimi
versi 456-7 dell’Antigone. Scrive Hegel: “Esse [sc. le leggi]
sono: non altro […] Esse valgono all’Antigone sofoclea come
diritto [Recht] degli dei, non scritto e infallibile:
Non oggi né ieri ma sempre.
Esso vive, e nessuno sa quando sia apparso.
Esse sono. Se chiedo del loro nascimento e le limito al
punto della loro origine, io sono già oltre di loro, ché io sono
ormai l’universale, ma esse il condizionato e limitato. Se
debbono legittimarsi al mio sguardo, io ho già smosso il loro
incrollabile essere-per-sé” 42.
A queste leggi, che non dipendono dalla volontà o dal-
l’adesione dei singoli, ma esclusivamente dall’oggettività del-
la sostanza etica, la coscienza singola si rapporta immediata-
mente e necessariamente. Questo vuol dire che queste stesse
leggi, anziché prescrivere obblighi e imporre divieti all’azio-

41
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia, vol. I, cit., p. 359.
42
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia, vol. I, cit., pp. 359-360.
L’Antigone di Hegel 151

ne umana, equivalgono a determinazioni ontologiche della


natura. Di conseguenza, esse non attengono all’ambito del
“dover essere”, al cui interno la dimensione della legge costi-
tuisce sempre e comunque l’interfaccia dell’azione in quanto
realizzazione d’una possibilità, che resta in sé stessa intrinse-
camente contingente e indefinita. Il “dover-essere”, infatti,
presuppone un “poter-essere-altrimenti”, che proprio per que-
sto richiede una regola. Viceversa, nell’orizzonte della so-
stanza etica non c’è spazio per il “dover essere”. Le leggi al
suo interno non prescrivono nulla all’azione, di cui non pre-
suppongono la contingenza. Esse sono soltanto un dato natu-
rale, in cui s’esprime o si riflette la struttura necessaria del-
l’essere che non è preceduta da nessun “poter-essere-altri-
menti” e che perciò non richiede alcuna regola. Perciò di que-
ste leggi che costituiscono l’esplicitazione ontologica del dato
di fatto, Hegel si limita a scrivere: “Sono: non altro”.
E tuttavia, a causa della scissione della sostanza etica, nel-
la polis greca queste leggi, per quanto oggettive, necessarie e
immediate, risultano esse stesse unilaterali. Sicché l’adesione
naturale a una sola delle due leggi da parte della coscienza
etica, invece di confermare l’armonia della polis, finisce col
distruggerla; infatti quell’adesione spontanea non può non
comportare l’altrettanto spontanea ignoranza e trasgressione
dell’altra legge in cui s’è scissa la totalità etica. Questa con-
temporaneità di adesione e trasgressione ricongiunge l’opera-
zione della coscienza etica alla spaccatura della totalità, che
in fin dei conti se ne rivela il fondamento ontologico.

La colpa tragica e il destino della sostanza etica.

La minaccia mortale che colpisce il regno etico e ne pro-


voca la dissoluzione non deriva da un qualcosa che il com-
portamento individuale avrebbe potuto evitare. Ciò che moti-

 
152 Il dilemma di Antigone

va il conflitto tragico e lo rende necessario non è dunque nes-


suna scelta soggettiva, ma la divaricazione della sostanza eti-
ca in due leggi. Questa scissione ontologica della totalità eti-
ca precede e fonda il “carattere”, almeno nell’accezione hege-
liana del termine, su cui ci siamo già soffermati 43, e ha come
conseguenza il fatto che l’azione, l’opzione, la deliberazione
dei singoli siano rese ineffettuali. Perciò nella tragedia “non
si assiste al brutto spettacolo di una collisione tra passione e
dovere, e nemmeno a quello comico di una collisione di do-
vere contro dovere”, che secondo il contenuto equivale alla
precedente: ma “la coscienza etica sa quel che fa ed è decisa
ad appartenere o alla legge divina o alla umana. Questa im-
mediatezza della sua decisione [… ] ha il significato di un es-
sere naturale” 44. Perciò l’attività della coscienza etica, in
quanto messa in opera della sua essenza, è caratterizzata dalla
necessità d’un automatismo ontologico. “Il diritto assoluto
della coscienza etica consiste dunque in questo, che l’opera-
zione [die Tat], la figura dell’effettualità di tale coscienza,
non sia altro da ciò ch’ella sa” 45.
Ma ciò che sa la coscienza, vincolata al carattere e alla na-
tura immediata del singolo, è fatalmente qualcosa di parziale,
ed è questa relatività del suo sapere, questo amalgama di sa-
pere e ignoranza, che la rende colpevole, nel senso che ne at-
testa la difettività ontologica.
La natura tragica dell’azione etica sta in questa colpevo-
lezza inevitabile della coscienza singola, strutturalmente in-
capace di riflettere se non unilateralmente la totalità etica. Ma

43
Nella sua decisione naturale e immediata per una delle due po-
tenze spirituali, “la coscienza etica […] è essenzialmente carattere”,
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia, vol. II, cit., p. 24.
44
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia, vol. II, cit., p. 23.
45
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia, vol. II, cit., p. 26.
L’Antigone di Hegel 153

in fin dei conti questa incapacità, anziché risultare imputabile


al singolo, si configura come l’assenza di quella dimensione
soggettiva, che sarà destinata ad emergere in una tappa ulte-
riore dell’itinerario fenomenologico. Il che presuppone lo
sguardo panoramico e retrospettivo del filosofo che, da un
angolo visuale privilegiato, osserva il processo storico com-
piuto e presume di coglierne insindacabilmente il senso. Solo
in questa prospettiva è possibile sostenere che nel mondo eti-
co “l’autocoscienza non è ancora sorta nel suo diritto come
individualità singola” 46. Qui l’autocoscienza, non ancora
consapevole del suo diritto come individualità singola, coin-
cide immediatamente con la sostanza etica; l’atto o l’opera-
zione da lei compiuta è solo l’esecuzione della legge unilate-
rale ma illusoriamente totalizzante alla quale naturalmente
aderisce. A differenza di ciò che accadrà nel teatro tragico dei
moderni, l’azione tragica nel teatro greco è l’esecuzione di
un’opera alla quale l’eroe è necessariamente indotto dalla
propria natura e non dalla deliberazione o dall’opzione a se-
guito d’un conflitto interiore o d’uno scambio di opinioni.
Nella coscienza etica si riverbera, in modo esclusivo ma tra-
gicamente unilaterale, l’effettualità sostanziale della totalità.

La differenza naturale come limite dello spirito etico.

“L’azione etica ha in sé il momento del delinquere, giac-


ché non toglie [aufhebt] la naturale ripartizione delle leggi nei
due sessi” 47. L’opposizione tra il maschile e il femminile at-
testa il radicarsi dell’eticità greca in una differenza ricevuta

46
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 22 (il
primo corsivo è aggiunto).
47
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 27.

 
154 Il dilemma di Antigone

dalla natura e non mediatizzata dallo spirito. Se per Aristotele


l’hamartia rinviava alla praxis e attestava una mancanza di
misura da parte dell’eroe, la cui azione si rivelava incapace di
raggiungere il giusto mezzo, per Hegel l’errore alla base della
colpa tragica è platonicamente connesso a un’inevitabile
mancanza di sapere: dal momento che la totalità s’è scissa, la
coscienza degli individui può coglierne solo quella parte che
corrisponde alla propria determinazione naturale. Infatti, per
il semplice fatto di adempiere immediatamente il proprio
compito naturale, la coscienza etica mette in opera l’intero,
con ciò dimenticando la propria unilaterale particolarità. Ciò
che è in verità, la coscienza etica è incapace di scorgerlo, dal
momento che per natura aderisce solo a una dimensione della
totalità etica.
L’unilateralità della coscienza diventa qui il fondamento
della colpa: “la colpa di cogliere uno solo dei lati dell’essenza
e di comportarsi negativamente verso l’altro, ossia vulnerar-
lo” 48. In tal modo, l’immediata espressione etica della totalità
da parte della coscienza – rectius: di quella che a lei illuso-
riamente appare la totalità – minaccia l’equilibrio del regno
etico e lo conduce al suo tramonto. Per salvaguardare l’armo-
nia della totalità, la coscienza dovrebbe restare inoperosa: co-
sa impossibile perché contraria alla sua natura. Ma una volta
dedita all’operazione, in virtù dell’illusione che ontologica-
mente l’imprigiona nel regno delle apparenze, la coscienza
singola si contrappone a quella parte della totalità impersona-
ta dalla legge in cui, per natura, non s’identifica. Quest’oppo-
sizione è la sua colpa.
Può trattarsi d’una colpa oggettiva, di cui l’eroe tragico
(come nel caso di Edipo) è all’oscuro 49; ma quando il singo-

48
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 27.
49
“All’agire è palese soltanto l’un lato della scissione in generale;
L’Antigone di Hegel 155

lo, per fedeltà al proprio carattere, viola con cognizione di


causa la legge a lui estranea, il conflitto tragico raggiunge la
propria acme. A questo punto la coscienza etica arriva a rico-
noscere la propria deficienza, preludio alla transizione in una
figura successiva. Qui nella Fenomenologia dello spirito per
la seconda e ultima volta Hegel cita Antigone:
“La coscienza etica è più completa, la sua colpa è più pura
quando conosca in precedenza la legge e il potere cui si con-
trappone, quando la intenda come violenza e come torto, co-
me un’accidentalità etica, e scientemente, al pari di Antigone,
commetta il crimine. […] In forza del proprio operare [um
seines Tuns willen] la coscienza etica deve [muß] riconoscere
il suo opposto come l’effettualità sua; deve riconoscere la sua
colpa: ‘Soffrendo riconosciamo d’aver mancato’” 50.
Il verso 926 dell’Antigone che chiude la citazione hegelia-
na si riferisce a un riconoscimento che può aver luogo solo
situandosi idealmente oltre il tramonto della sostanza etica. Il
riconoscimento della propria colpa non è un dovere morale
[Sollen] che presupporrebbe un poter-essere-altrimenti, ma
una necessità logico-speculativa (non a caso Hegel usa il ver-
bo müssen). Questo riconoscimento necessario, senza di cui
la coscienza etica non sarebbe sé stessa, è intrinseco all’ope-
rare della coscienza: quest’ultima non può non riconoscere
tanto l’esecuzione d’una delle due leggi quanto la trasgres-
sione dell’altra come opera propria. Così facendo riconosce la
propria colpa, ossia la deficienza del suo operare in cui si ri-

ma la decisione è in sé il negativo; e il negativo contrappone a lei, che


è il sapere, un Altro, un estraneo. L’effettualità tien dunque nascosto
entro sé l’altro lato, quello estraneo al sapere, e non si mostra alla co-
scienza qual è in sé e per sé, – non mostra al figlio il padre nell’offen-
sore cui egli percuote, – non la madre nelle regina ch’egli prende in
moglie”, G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 28.
50
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 29.

 
156 Il dilemma di Antigone

flette la scissione ontologica. E questo riconoscimento non è


un atto teorico ma l’esperienza vissuta della sua sofferenza.
La colpa della coscienza agente è data dal fatto che è esat-
tamente la sua operazione a provocare la scissione tra ciò che
è saputo e ciò che è ignorato: e tuttavia, poiché questa opera-
zione è dettata necessariamente dalla sua natura, proprio per
questo non è individualizzante. Ne consegue che “non è que-
sto singolo ad agire e ad esser colpevole; egli infatti come
questo Sé è solo l’ombra ineffettuale, mentre è solo come Sé
universale che è” 51. Ciò che la coscienza singola fa, non lo fa
di propria iniziativa, ma con la sua operazione rende effettua-
le la struttura essenziale della totalità etica, di cui la teleolo-
gia speculativa esplicita l’intrinseca caducità.
Benché il significato filosofico del riferimento hegeliano
all’Antigone nel corso della Fenomenologia sia il tramonto
della polis, tuttavia non è l’iniziativa dell’eroina come indivi-
dualità singola che provoca la dissoluzione del regno etico.
Quest’ultima deriva dalla spaccatura ontologica della totalità,
e la collisione delle potenze etiche messa in scena dall’Anti-
gone si limita a mostrare che alla sua base c’è il prevalere
dell’immediatezza naturale.
“Questo tramonto della sostanza etica e il suo passaggio in
un’altra figura è dunque determinato dall’essere la coscienza
etica diretta alla legge essenzialmente in modo immediato; in
questa determinazione della immediatezza è implicito che la
natura in generale entri nell’azione dell’eticità. La sua effet-
tualità fa vedere soltanto la contraddizione e il germe del cor-
rompimento, di cui sono affètti la bella armonia del consenso
e il quieto equilibrio dello spirito etico proprio in questa quie-
te e bellezza” 52.

51
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 27.
52
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia, vol. II, cit., pp. 35-36.
L’Antigone di Hegel 157

In tal modo, secondo Hegel, l’Antigone attesta che il difet-


to del bios politikos ateniese risiedeva nella sua dipendenza
dall’immediatezza della natura. Le conseguenze conflittuali
di questa limitazione motivano la necessità inevitabile del suo
declino.
L’essenza del pensiero hegeliano sul tragico sembra dun-
que la seguente: “aver tolto, aufgehoben, la determinatezza
storica della tragedia greca nella forma del divenire dello spi-
rito”. Ed è propria questa interpretazione, nelle limpide paro-
le di Moroncini, che “tradisce l’essenza del tragico antico.
Giacché ciò che esso poneva all’ordine del giorno della storia
era proprio l’apertura del dissidio fra l’eroe e la cerchia etica
cui apparteneva. Nel suo essere parte in causa di un agone
giuridico-storico, l’eroe metteva propriamente in questione il
mandato del diritto sul cui terreno era cresciuto e di cui era
l’esecutore materiale. Lungi dall’essere il precipitato indivi-
duale dell’universale essenza etica, egli è al contrario il luogo
in cui l’opposizione si coagula e si dà a vedere. Mentre per
Hegel la tragedia è ciò che dissolve l’immediata vita etica,
essa invece è la messa in scena unitaria del conflitto che la
precede. È solo perché la polis è attraversata dalla differenza
e dal contrasto tra forme giuridiche, universi culturali, realtà
di classe, che la tragedia può divenire una istituzione statale
che, nello spazio del teatro, mostra questi conflitti e richiama
la città ai compiti che la storia le impone” 53.

53
B. MORONCINI, Il sorriso di Antigone. Frammenti per una storia
del tragico moderno (1982), Filema, Napoli 2004, p. 54.

 
158 Il dilemma di Antigone

Il privilegio speculativo della scena e la resistenza del


Coro alla filosofia della storia.

La Fenomenologia dello spirito torna ad analizzare la tra-


gedia greca nella sezione settima, dedicata alla religione, e
più precisamente in quella parte di questa sezione che ha per
tema la religione artistica, propria alla Grecia antica 54. Se
nelle pagine della sezione precedente, dedicate all’analisi del-
l’eticità greca, l’oggetto del discorso hegeliano era il contenu-
to della tragedia, cioè la messa in opera apparentemente ar-
moniosa ma in realtà contraddittoria della vita etica, lo speci-
fico della sezione settima è lo studio della modalità formale,
insieme religiosa e artistica, in cui quel contenuto prende
corpo. Rispetto alla totalità etica, “appesantita dalla natura e
dalla sostanzialità” che conducono la polis al tracollo, “l’ope-
ra della religione artistica s’alleggerisce di questo peso” gra-
zie “all’elevazione riflessiva” al di sopra della propria effet-
tualità 55, che consente allo spirito etico “il ritorno dalla sua
verità nel puro sapere di sé stesso” 56.
Nel momento in cui la tragedia come opera della religione
artistica esprime lo spirito etico, ne segna anche la scomparsa,
perché ne supera il radicamento sostanziale nella natura. Scri-
ve Hegel: “La religione dello spirito etico […] appare nella
sua perfezione soltanto nel distaccarsi dal suo sussistere” 57.

54
Cfr. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., pp.
217-252; sulla tragedia cfr. pp. 241-244. Un’utile introduzione genera-
le alla posta in gioco teorica della sezione può leggersi in A. PHILO-
NENKO, Commentaire de la “Phénoménologie” de Hegel. De la certi-
tude au savoir absolu, Vrin, Paris 2001, pp. 256-266.
55
J. TAMINIAUX, Le théâtre des philosodophes, cit., p. 107.
56
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 218.
57
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 218.
L’Antigone di Hegel 159

Commenta Taminiaux: “Nell’opera tragica, la produzione na-


turale e sostanziale dell’opera etica oscilla verso l’auto-
produzione del Concetto” 58.
Il vero tema di queste pagine è precisamente l’auto-pro-
duzione del Concetto, che progressivamente si fa strada nella
fenomenologia della tragedia come opera d’arte. Hegel vi
giunge attraverso l’analisi della transizione dall’epica alla
tragedia, capace pian piano di liberarsi dal linguaggio narrati-
vo della rappresentazione, per accedere finalmente al livello
del concetto. In realtà, anche nella tragedia, persistono forme
linguistiche primitive, ancora prigioniere della rappresenta-
zione e del “suo contenuto privo di Sé e lasciato alla disgre-
gazione. È il caso del basso popolo in genere la cui saggezza
s’esprime nel Coro” 59. Quest’ultimo, in quanto “effettualità
immediata dell’esserci vero e proprio”, è immagine di “una
folla di spettatori” 60, in cui Hegel riconosce e stigmatizza la
cecità ontologica che Platone attribuiva alla moltitudine
(plēthos), necessariamente prigioniera delle opinioni e delle
apparenze, e perciò incapace di innalzarsi alla conoscenza
della verità.
Il Coro parla il “linguaggio che nella vita effettuale accom-
pagna l’operare ordinario” 61. Questa quotidianità del senso co-
mune appare a Hegel l’espressione immediata di emozioni pri-
ve di concetto. La rappresentazione disordinata delle opinioni
della massa, espresse in maniera occasionale, s’attiene alla spe-
cificità disparata degli eventi, sprovvisti di ordine e senso unita-
rio. Inoltre “mancando della potenza del negativo” 62, il Coro
 

58
J. TAMINIAUX, Le théâtre des philosodophes, cit., pp. 108-109.
59
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 242.
60
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 243.
61
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 241.
62
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 242.

 
160 Il dilemma di Antigone

nelle sue esternazioni si rivela del tutto incapace di innalzarsi


all’universale.
Perciò la verità della tragedia come opera d’arte si coglie
secondo Hegel soltanto analizzando la scena. La messa in
opera del concetto ne è il privilegio esclusivo, il cui protago-
nista diretto è l’eroe tragico. Nei suoi gesti e nelle sue parole
le opposizioni discordanti delle opinioni dei più si superano
in una coerenza linguistica e razionale che ormai ha raggiunto
il “rigore del concetto” 63 e perciò può mettersi al servizio
dell’universale. Gli spettatori che sono al tempo stesso ascol-
tatori vedono agire e parlare sulla scena uomini autocoscienti
che, a differenza della massa disparata che veniva rappresen-
tata nel Coro, non sono più prigionieri della contingenza mu-
tevole delle rappresentazioni e delle apparenze, ma sono in
grado di avere accesso diretto alla verità.
“Quanto alla forma, la lingua, entrando nel contenuto, ces-
sa di essere narrativa, come il contenuto cessa di essere un
contenuto rappresentato. L’eroe è egli stesso colui che parla,
e la rappresentazione mostra all’ascoltatore che è in pari tem-
po spettatore, degli uomini autocoscienti i quali sanno e san-
no dire il loro diritto e il loro fine. Essi sono artisti che non
esprimono – come il linguaggio che nella vita effettuale ac-
compagna l’operare ordinario, – incoscientemente, natural-
mente e ingenuamente l’esteriorità delle loro decisioni e del-
le loro imprese; anzi manifestano l’intima essenza, dimostra-
no il diritto del loro agire e asseriscono pensatamente e de-
terminatamente esprimono il pathos cui sono soggetti, – libe-
ro da circostanze accidentali e dalla particolarità della perso-
nalità, – nella sua individualità universale” 64.
Appare qui evidente il disprezzo hegeliano del Coro,

63
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 242.
64
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. II, cit., p. 241.
L’Antigone di Hegel 161

espressione ordinaria d’una quotidianità accidentale e disor-


dinata, a tutto vantaggio della scena, in cui gli eroi-artisti si
sottraggono al linguaggio indiretto e impreciso del rimando
narrativo e riescono a manifestare direttamente la propria in-
tima essenza. Solo sulla scena Hegel vede realizzarsi il “lavo-
ro del concetto” che penetra dall’interno le faccende umane,
ne nega l’instabilità e le apparenze, e in tal modo attribuisce
loro consistenza ontologica. Il lavoro del concetto è fornito di
quella “potenza del negativo”, di cui Hegel, come abbiamo
visto, denunciava nel Coro la mancanza, e che ora consente
all’eroe di superare la contingenza e l’apparenza che inficiano
le faccende umane, per avere finalmente accesso al loro signi-
ficato universale: cioè in ultima istanza alla loro necessità.
In tal modo il lavoro del concetto libera gli spettatori dalla
dispersione in una quotidianità casuale e contingente, mo-
strando dietro di essa l’ordine necessario che la sorregge, le
dà unità e la guida verso il suo telos. “In questo processo ne
va d’una filosofia della storia, che segna il trionfo dell’homo
faber […] dal momento che ogni filosofia della storia consi-
ste nel considerare la sequenza delle faccende umane come le
tappe regolate d’una messa in opera che s’incammina verso
un termine prestabilito attraverso mezzi appropriati” 65.
L’annullamento della contingenza e del conflitto in nome
della necessità fatta valere dalla filosofia della storia è al
tempo stesso la posta in gioco e l’esito ultimo del privilegio
hegeliano della scena sul Coro. Come scrive Martha Nuss-
baum: “Dove Hegel coglie la speranza dell’armonia, il Coro
vede soltanto il terribile potere di un’illimitata contingen-
za” 66. Non è un caso che sia proprio il Coro, luogo in cui

65
J. TAMINIAUX, “Antigone dans la pensée allemande”, in ID.,
Maillons herméneutiques, cit., p. 45.
66
M. NUSSBAUM, La fragilità del bene, cit., p. 175. Qualche pagina

 
162 Il dilemma di Antigone

s’esprime nella sua quotidianità ordinaria la pluralità delle


opinioni non subordinata alla presunta universalità del sapere
incontrovertibile, a smentire il lavoro del concetto, l’ottimi-
smo dello sguardo speculativo, il determinismo della filosofia
della storia.
Le due costanti che strutturano la vita quotidiana della plu-
ralità umana, così come si riflettono nel linguaggio rappre-
sentativo e ordinario che Hegel si compiace di deridere nel
Coro, sono la centralità della dimensione conflittuale all’in-
terno della polis greca e l’ineliminabilità della contingenza e
del suo potere. In definitiva, la ragione profonda dell’avver-
sione hegeliana per il Coro sta nel fatto ciascuna di esse costi-
tuisce una messa in discussione radicale della filosofia della
storia. Quest’ultima ha la pretesa di esibire, al di sotto della
disparata congerie degli eventi che costellano le faccende
umane, il loro Significato ultimo e di conseguenza la loro
Necessità ontologica. Il ricorso alla teleologia speculativa
sottrae le vicende e le azioni umane alla riflessione critica e al
dibattito delle opinioni, subordinandole a uno schema filoso-
fico estrinseco, che conferma il seguente sospetto di Hannah
Arendt: “Non sarà forse che ai pensatori di professione […]
la libertà sia meno ‘gradita’ della necessità?” 67. Domanda
retorica. Dalla quale però deriva l’esigenza di congedarsi dal-

prima, a proposito dell’interpretazione hegeliana del conflitto tra An-


tigone e Creonte, Nussbaum aveva scritto: “Hegel giudica insufficienti
i protagonisti soltanto perché sono limitati o unidirezionali, non per-
ché si pongono l’obiettivo di evitare il conflitto”; un tale obiettivo, per
Hegel, sarebbe “un fine accettabile e plausibile in una concezione eti-
ca umana” (p. 157), mentre l’autrice sostiene che nel dramma sofocleo
la tensione e il conflitto tra differenti sfere di valori siano ineliminabili
e abbiano un valore positivo.
67
H. ARENDT, La vita della mente, a cura di A. DAL LAGO, Il Muli-
no, Bologna 1987, p. 347 (corsivo nel testo).
L’Antigone di Hegel 163

la lettura speculativa dell’Antigone, cessando di vedervi l’e-


spressione necessaria d’una scissione ontologica della totalità
e riconoscendovi invece il dilemma etico e politico radicale
che attraversa il nomos e lo restituisce alla libera responsabi-
lità dell’azione umana.

 
164 Il dilemma di Antigone
CAPITOLO SESTO
L’ANTIGONE DI LACAN

… εἰ καὶ δυνήσῃ γ’. ἀλλ’ἀμηχάνων ἐρᾷς.


… sempre che tu possa farlo. Ma tu desideri l’impossibile.
Ismene ad Antigone, Antigone, v. 90 1

Il fascino e il limite dell’interpretazione lacaniana dell’Antigone


Filosofia della storia e psicoanalisi del desiderio. Hegel e Lacan
La liberazione dalla diacronia operata dalla tragedia fa emergere
l’estraneità e la resistenza del desiderio inconscio alla sua socializ-
zazione
 

1
“In questa tragedia – nota Susanetti (Commento, cit., p. 178) –
l’erōs finisce in modo pressoché costante per identificarsi con l’ambi-
to della morte”. Queste parole, e soprattutto quelle citate in esergo,
sembrano la migliore introduzione all’interpretazione psicoanalitica
del dramma da parte di Lacan. Se poi queste stesse parole vengono
messe in rapporto alla definizione del “desiderio dell’analista”, consi-
stente secondo Lacan, come si vedrà meglio più avanti, nel non poter
desiderare l’impossibile, esse sembrano anche la migliore introduzio-
ne alle perplessità che alcuni interpreti, che saranno citati alla fine del
capitolo, hanno sollevato circa il carattere moralmente esemplare del
desiderio di Antigone.
166 Il dilemma di Antigone

Il desiderio puro come desiderio di morte e la sua sottomissione al-


la Legge
Il taglio significante e la sincronia del desiderio puro
Il patibolo e la Legge
Inafferrabilità dell’oggetto e scissione del soggetto
La solitudine di Antigone e il punto di mira del desiderio
La Cosa del desiderio e la mancanza originaria
Dalla possibilità della trasgressione al desiderio. La Cosa e la
Legge
L’obbedienza differita alla Legge originaria della socializzazione
Antigone e Creonte: la fermezza della fanciulla e il torto del sovra-
no nell’interpretazione anti-hegeliana di Lacan
La passione che trascina Antigone ha per oggetto una legalità che
precede il diritto
In che senso la passione che trascina Antigone è l’origine della sua
rovina?
L’ordine sociale e l’istituzione del simbolico
Il fascino e il limite dell’interpretazione lacaniana del-
l’Antigone.

Nel suo intenso commento all’Antigone – leggibile nella


trascrizione d’uno dei suoi seminari più famosi, intitolato
L’etica della psicoanalisi, tenutosi nel 1959-1960, ma pub-
blicato nell’edizione curata da Jacques-Alain Miller solo nel
1986 2 – Jacques Lacan analizza il dramma sofocleo propo-

2
Il commento all’Antigone di Sofocle, che occupa le sedute del 25
maggio, del 1°, dell’8 e del 15 giugno, costituisce la penultima sezione
dell’opera, intitolata “L’essenza della tragedia: Un commento all’Anti-
gone di Sofocle”: cfr. J. LACAN, Le séminaire. Livre VII. L’éthique de
la psychanalyse 1959-1960, texte établi par J.-A. Miller, Seuil, Paris
1986, pp. 285-333 (trad. it., Il seminario. Libro VII. L’etica della psi-
coanalisi 1959-1960, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008,
pp. 285-334). Su queste pagine lacaniane c’è una ricca letteratura cri-
tica. Oltre al recente volume di C. FREELAND, Antigone, in Her Unbe-
reable Splendor. New Essays on Jacques Lacan’s “The Ethics of Psy-
choanalysis”, SUNY Press, Albany 2013, utile soprattutto perché ri-
costruisce i presupposti teorici del seminario sull’etica, vanno fin dal-
l’inizio segnalati in lingua italiana almeno i seguenti lavori, che ho te-
nuto particolarmente presenti in quanto danno adeguato rilievo alle
implicazioni filosofiche del commento lacaniano alla tragedia: A.
LUCCHETTI, “L’Antigone di Lacan: il limite del desiderio”, in Antigo-
ne e la filosofia, a cura di P. MONTANI, Donzelli, Roma 2001, pp. 245-
260; B. MOROCINI-R. PETRILLO, L’etica del desiderio. Un commenta-
rio del seminario sull’etica di Jacques Lacan, Cronopio, Napoli 2007,
al cui interno, il capitolo sull’Antigone è steso da B. MOROCINI, e ha
per titolo “Antigone e l’essenza della tragedia”, ivi, pp. 207-235; dello
stesso Moroncini è da vedere anche il Post-scriptum, intitolato “Il le-
game della divisione”, aggiunto a B. MORONCINI, Il sorriso di Antigo-
168 Il dilemma di Antigone

nendone una rilettura originale e audace, che però, a dire il


vero, non può essere separata dal suo complessivo discorso
psicoanalitico, di cui il seminario in questione costituisce una
delle tappe fondamentali (sostanzialmente l’unica alla quale
ci si atterrà nelle pagine seguenti, che peraltro si limiteranno
a discutere alcune implicazioni filosofiche di un solo aspetto
dell’interpretazione lacaniana: il rapporto controverso tra de-
siderio e legge).
Nella solidarietà inscindibile fra il testo di Sofocle e la psi-
coanalisi lacaniana, che ne diventa prevalente se non esclusiva
chiave di lettura, consistono il fascino e al tempo stesso il limi-
te dell’interpretazione dell’Antigone proposta da Lacan. In
realtà, il suo commento alla tragedia, presentato con l’imme-
diatezza, il coinvolgimento e il tono brillante del discorso par-
lato – d’un parlato, però, sempre sorvegliato e documentato –
fa luce molto più sul pensiero del suo autore e sulla cultura no-
vecentesca cui esso appartiene, che sul dramma sofocleo.
Lo stesso Lacan riconosce che la sua interpretazione “ad al-
cuni sia potuta sembrare faticosa” 3, perché molto complessa e
perciò di difficile assimilazione. Difficoltà senza alcun dubbio
accresciuta dal fatto che il commento lacaniano, come ha os-
servato Alberto Lucchetti, risulta a rigore indissociabile da un
“pensiero programmaticamente antisistematico e refrattario a
essere trasmesso come un sapere già dato, per di più comuni-
cato oralmente e, conformemente alla sua stessa teoria, più at-
tento a dispiegarsi nel discorso che a ‘stabilire’ un senso” 4.
 

ne. Frammenti per una storia del tragico moderno (1986), Filema,
Napoli 2004, pp. 139-180, che contiene molti utili spunti sull’interpre-
tazione lacaniana della tragedia; P. LEMBO, “Il resto della Legge. An-
tigone nella psicoanalisi di Jacques Lacan”, in Heliopolis. Culture ci-
viltà politica, XI, 2013, n. 2, pp. 65-83.
3
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 331.
4
A. LUCCHETTI, op. cit., p. 245.
L’Antigone di Lacan 169

Di conseguenza, tutto ciò che Lacan articola sull’Antigo-


ne, nonostante il suo obiettivo dichiarato sia la “reinterpreta-
zione del messaggio sofocleo” 5, impone al lettore che voglia
comprenderne la portata teorica e l’estrema coerenza un sia
pur introduttivo attraversamento del pensiero psicoanalitico
del suo autore, almeno relativamente alle principali questioni
sollevate e presupposte dalla rilettura della tragedia.

Filosofia della storia e psicoanalisi del desiderio. Hegel


e Lacan.

Questo è senz’altro un dato comune a tutte le grandi inter-


pretazioni d’un classico. E, nella fattispecie, l’esempio prin-
cipale è proprio l’interpretazione hegeliana dell’Antigone, da
cui lo stesso Lacan non manca di prendere decisamente le di-
stanze fin dalle battute finali della seduta seminariale che
precede e annuncia il suo commento al dramma sofocleo:
“Ciò che ha dato più problemi nel corso dei secoli, da Aristo-
tele fino a Hegel, fino a Goethe, è una tragedia che Hegel
considerava come la più perfetta, per le ragioni peggiori: An-
tigone” 6.
Nei due casi, la “precomprensione” dell’interprete svolge
la parte del leone: dal momento che per Hegel la realtà è spiri-
to e lo spirito è storia, l’Antigone hegeliana rappresenta una
tappa – centrale ma inevitabilmente transitoria – del processo
storico, e corrisponde all’avvento e alla crisi della “vita etica
[Sittlichkeit]”, di cui il mondo greco, secondo la filosofia della
storia hegeliana, fu, come s’è visto, al tempo stesso il crogiuo-
lo e la tomba. Viceversa, dal momento che per Lacan l’essen-

5
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 331.
6
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., pp. 281-2.

 
170 Il dilemma di Antigone

za della realtà è il desiderio 7, l’Antigone lacaniana diventa la


più cristallina illustrazione del desiderio inconscio nel suo
rapporto ineludibile con la legge, sicché lo specifico significa-
to storico del conflitto messo in scena dal poeta tragico viene
subordinato all’intelligenza psicoanalitica della struttura atem-
porale del desiderio in quanto essenza della realtà.

La liberazione dalla diacronia operata dalla tragedia fa


emergere l’estraneità e la resistenza del desiderio in-
conscio alla sua socializzazione.

Per Lacan – che su questo punto si riferisce alle analisi di


Karl Reinhardt sulla “solitudine particolare degli eroi di So-
focle” contenute nel suo libro su Sofocle precedentemente ci-
tato 8 – “in fin dei conti l’eroe della tragedia è sempre caratte-
rizzato dall’isolamento, è sempre fuori dai limiti, sempre
proiettato in avanti e, di conseguenza, per qualche verso sra-
dicato dalla struttura [arraché par quelque côté à la structu-
re]” 9. Riferendo l’autorevole avviso di Claude Lévi-Strauss,
Lacan precisa in seguito che “Antigone, di fronte a Creonte,
si pone come la sincronia contrapposta alla diacronia” 10. Di
conseguenza, ciò da cui nel suo isolamento si sradica Antigo-
ne, in quanto eroina tragica per eccellenza, è esattamente il
verso o il lato diacronico della struttura 11.

7
Cfr. C. MELMAN, “Le désir est l’essence de la réalité”, in ID., Une
enquête sur Lacan. Interrogations sur son enseignement menées de
l’intérieur, Érès, Toulouse 2011, pp. 11-27.
8
Cfr. K. REINHARDT, Sofocle, cit., pp. 12-13.
9
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 316.
10
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 332.
11
Su questo punto si troveranno interessanti indicazioni in M. ZA-
L’Antigone di Lacan 171

Possiamo concluderne che, nella lettura lacaniana, se


Creonte rappresenta la sfera del potere politico con le sue
esigenze diacroniche, connesse alle mutevoli circostanze sto-
riche e sociali, Antigone, in quanto “incarnazione strutturale
della sincronia” 12, simboleggia la solitudine e l’atemporalità
del desiderio, cioè in fin dei conti l’originaria resistenza del
desiderio inconscio alla sua socializzazione, la quale ultima
tuttavia costituisce una costante necessaria della vita umana e
della sua tragicità. In questo senso, la dimensione storica del-
la tragedia classica, il suo significato all’interno della demo-
crazia ateniese, il suo radicamento nella praxis e il suo inag-
girabile rapporto con quella singolarissima forma di vita che
fu il bios politikos sono assai meno rilevanti, agli occhi di
Lacan, del fatto che la tragedia, in quanto opera d’arte, strap-
pi il soggetto “dai suoi ormeggi psico-sociali” 13.
Questa liberazione dalla diacronia, propria della poesia

FIROPOULOS, “Lacan l’helléniste”, in Recherches en psychanalyse,


2010, n. 1, pp. 46-54, in particolare p. 52: “E se si chiede a Lacan, ma
da quale verso [côté] l’eroe tragico è dunque ‘sradicato dalla struttu-
ra’?, ebbene egli risponderà che, incarnando il taglio significante
[coupure signifiante], il soggetto si situa in una pura sincronia. E, dal
momento che il lettore conosce meglio di noi lo strutturalismo, ne
dedurrà che se il soggetto incarna totalmente la sincronia nella sua
purezza, allora è proprio al verso [côté] diacronico della struttura che
l’eroe tragico si sottrae, come d’altronde secondo Lacan l’insieme
della tragedia che avvolge il suo essere [enveloppe son être]. L’essere
liberato dalle sue catene significanti è dunque un essere liberato dalla
diacronia, liberato dagli obblighi mondani e dall’ordine dei beni al
cui interno prolifera l’attività sociale tanto dei mediocri quanto dei
tiranni”. Sulla nozione lacaniana di “taglio significante”, qui rapida-
mente evocata da Zafiropoulos, si tornerà più ampiamente nel seguito
del testo.
12
M. ZAFIROPOULOS, op. cit., p. 52.
13
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 237.

 
172 Il dilemma di Antigone

tragica, consente secondo Lacan all’Antigone di far emerge-


re in tutta la sua radicalità la struttura ambigua del desiderio
come asse portante dell’esistenza umana nella sua singola-
rità.

Il desiderio puro come desiderio di morte e la sua sot-


tomissione alla Legge.

L’interpretazione lacaniana del dramma trova la sua acme


nel seguente passo riassuntivo, lapidario ed icastico: “[…]
Antigone porta fino al limite il compimento di ciò che si può
chiamare il desiderio puro, il puro e semplice desiderio di
morte come tale. Questo desiderio, ella lo incarna” 14. Siamo
verso la fine dell’ultima seduta dedicata all’Antigone, e subito
dopo le parole appena citate, Lacan aggiunge: “Pensateci be-
ne – che ne è del suo desiderio? Non deve forse essere il de-
siderio dell’Altro e innestarsi sul desiderio della madre? […]
Nessuna mediazione è possibile qui, tranne questo desiderio,
il suo carattere radicalmente distruttivo” 15.
Tralasciamo per un istante un simile intento – distruttivo e,
in fin dei conti, autodistruttivo – del desiderio puro nella sua
immediatezza, il cui compimento è il desiderio di morte. Pre-
cisiamo anzitutto che, nella misura in cui Antigone incarna il
desiderio nella sua radicalità e purezza, l’incarna in quanto
 

14
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 329. Sul “desiderio
puro” si veda essenzialmente B. BAAS, Le désir pur. Parcours philo-
sophiques dans les parages de J. Lacan, Peeters, Louvain 1992 e il
più breve ma assai denso contributo di R. BERNET, “Le sujet devant la
Loi (Lacan et Kant)”, in S.G. LOFT-P. MOYAERT (a cura di), La pensée
de Jacques Lacan. Questions historiques – Problèmes théoriques,
Peeters, Louvain 1994, pp. 22-44.
15
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 329.
L’Antigone di Lacan 173

“metonimia della mancanza ad essere” 16. Come ricorda Luc-


chetti, “in questo seminario sull’etica si segna il passaggio,
nella teorizzazione lacaniana, dal desiderio come desiderio
dell’Altro e del riconoscimento dell’Altro al desiderio come
metonimia della mancanza ad essere […]. La svolta […] con-
siste nell’affermazione di una radicale incompatibilità del de-
siderio con la parola e nel profilarsi, al di là del desiderio e
dell’Altro (del significante), di un reale muto, di una mancan-
za irriducibile sia all’immaginario sia al simbolico: un buco
interno al linguaggio che, pur non potendo trovare rappresen-
tazione e significazione in esso, è tuttavia effetto dell’azione
del significante” 17.
L’interfaccia del desiderio è dunque questa mancanza ori-
ginaria, questa radicale separazione dall’immediatezza della
presenza piena che – possiamo già anticiparlo – costituirà, al
tempo stesso, il contenuto della Legge e la possibilità della
sua trasgressione. Solo il détour, la deviazione attraverso il
vuoto o il buco di questa assenza produce la sottomissione del
desiderio alla legge 18. E per chiudere il cerchio, annotiamo
ciò che sarà precisato nell’ultima seduta d’un seminario di po-
chi anni successivo a quello sull’Etica della psicoanalisi: “La
legge morale non è altro che il desiderio allo stato puro” 19.
Ciò che occorre chiarire è, dunque, lo specifico della rela-
zione tra desiderio e legge; ma per giungervi, s’impone pre-
liminarmente un maggior approfondimento dello statuto del
 

16
J. LACAN, Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 623 (trad. it., Scritti, a cura
di G.B. Contri, vol. II, Einaudi, Torino 2002, p. 618).
17
A. LUCCHETTI, op. cit., pp. 250-1.
18
“Il desiderio è desiderio di desiderio, desiderio dell’Altro, ab-
biamo detto, cioè sottomesso alla Legge”, Scritti, vol. II, cit., p. 856.
19
J. LACAN, Le séminaire. Livre XI, Les quatre concepts fonda-
mentaux de la psychanalyse, texte établi par J.-A. Miller, Seuil, Paris
1973, p. 247.

 
174 Il dilemma di Antigone

già richiamato “desiderio puro”. A questo scopo, è opportuno


leggere i capoversi immediatamente precedenti la breve cita-
zione su Antigone come realizzazione compiuta di questo
stesso “desiderio puro”. Eccoli:
“Antigone si presenta come autonomos, puro e semplice
rapporto dell’essere umano con ciò di cui si trova a essere mi-
racolosamente portatore, cioè il taglio significante [coupure
signifiante] che gli conferisce il potere insormontabile di es-
sere, a dispetto di tutto e di tutti, ciò che esso è”.
Tutto si può invocare intorno a questo, ed è quel che fa il
Coro nel quinto atto, invocando il dio salvatore.
Questo dio è Dioniso, altrimenti perché mai interverrebbe
qui? Niente di meno dionisiaco dell’atto e della figura di An-
tigone. Ma Antigone porta fino al limite il compimento di ciò
che si può chiamare il desiderio puro […]” 20.
Emerge qui la correlazione decisiva tra la dimensione
nient’affatto dionisiaca (cioè nient’affatto vitalistica) del de-
siderio puro, che infatti non a caso Antigone incarna come
desiderio di morte, e la coupure, cioè il taglio significante che
caratterizza l’umano come tale. Solo a partire dal presentarsi
di Antigone come puro e semplice rapporto dell’essere uma-
no al “taglio significante”, si potrà successivamente articolare
il rapporto del desiderio alla Legge.

Il taglio significante e la sincronia del desiderio puro.

Ma in che consiste il “taglio significante”?


Scrive Lacan: “Questa purezza, questa separazione del-
l’essere da tutte le caratteristiche del dramma storico che ha
attraversato, è proprio questo il limite, l’ex nihilo intorno a

20
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 329.
L’Antigone di Lacan 175

cui Antigone si mantiene. Non è altro che il taglio che la pre-


senza del linguaggio instaura nella vita dell’uomo” 21.
Il linguaggio realizza qui la funzione che in Hegel, stando
all’interpretazione di Kojève, era adempiuta dalla “compren-
sione concettuale della realtà empirica”: tale funzione consi-
steva nell’uccisione o nell’assassinio [meurtre] di quest’ulti-
ma 22. Una delle prime interpreti del pensiero di Lacan, co-
glieva chiaramente questa filiazione, quando scriveva: “Co-
m’è stato detto che il vocabolo genera l’uccisione della cosa
[le mot engendre le meurtre de la chose], che la cosa deve
sparire per essere rappresentata, così diciamo che il soggetto
nominandomi nel suo discorso o essendo nominato dalla pa-
rola dell’altro, si perde nella sua realtà o verità” 23, e poche
pagine dopo precisava: “Infatti, sappiamo che la parola ucci-

21
Cfr. J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 326, corsivo ag-
giunto.
22
A. KOJEVE, Introduction à la lecture de Hegel. Leçons sur la
“Phénoménologie de l’esprit” professées de 1933 à 1939, a cura di R.
QUENEAU, Gallimard, Paris 1947, pp. 372-3: “Hegel ha detto che ogni
comprensione-concettuale (Begreifen) equivale a un assassinio
[meurtre]. Ricordiamo dunque ciò che egli prendeva di mira. Finché il
Senso […] è incarnato in un’entità esistente empiricamente, questo
Senso o Essenza tanto quanto questa entità – vivono. Per esempio, fin-
ché il Senso (o l’Essenza) ‘cane’ è incarnato in un’entità sensibile,
questo Senso (Essenza) vive: è il cane reale, il cane vivente che corre,
beve e mangia. Ma quando il Senso (l’Essenza) ‘cane’ passa nel voca-
bolo [mot] ‘cane’, cioè quando diventa Concetto astratto che è diffe-
rente dalla realtà sensibile che rivela attraverso il suo Senso, il Senso
(l’Essenza) muore: il vocabolo ‘cane’ non corre, non beve e non man-
gia. In lui il Senso smette di vivere, cioè l’Essenza muore. Ed è per
questo che la comprensione concettuale equivale a un assassinio”.
23
A. RIFFLET-LEMAIRE, Introduzione a Jacques Lacan, con una
Prefazione di J. Lacan, trad. R. Eynard, rivista da L. Agresti, Astrola-
bio, Roma 1972, p. 110.

 
176 Il dilemma di Antigone

de la cosa e che questa morte è la condizione del simbolo” 24.


Alla luce di queste precisazioni, possiamo dire che la no-
zione di “taglio significante” allude al fatto che il soggetto
umano, proprio in quanto essere di linguaggio, ha originaria-
mente subìto l’azione di un taglio, che lo allontana una volta
per tutte dalla presenza piena dell’essere, separandolo radi-
calmente da ogni immediatezza: quindi tanto dall’adesione
diretta a un ambiente storico-culturale determinato, quanto
dalla pretesa filosofico-speculativa d’un accesso altrettanto
diretto e scontato all’essere in sé. Si delinea qui un’esperien-
za del limite, uno spazio di estraneità liminale, dunque una
vera e propria soglia che, secondo Lacan, svincola il nucleo
fondamentale del soggetto da ogni appartenenza immediata,
sia essa storica o ontologica, per consegnarlo originariamente
alla dimensione inconscia del desiderio. Abitare lo spazio del
linguaggio significa allora per ogni soggetto poter accedere
all’ambito extra-soggettivo solo ed esclusivamente attraverso
la mediazione dei segni linguistici.
Che la lingua sia un sistema di segni era stato già detto da
Saussure, fondatore della linguistica moderna. Ma il segno
linguistico, nell’algoritmo saussuriano, era caratterizzato da
un rimando costituivo e necessario dal significante al signifi-
cato, grazie al quale alla dimensione materiale del significan-
te corrispondeva sempre un significato, cioè un contenuto de-
terminato e identificabile concettualmente. In conseguenza di
ciò, il senso, attraverso la transizione dal significante materia-
le al significato mentale, poteva nonostante tutto mantenere
una sua idealità intelligibile, in stretta continuità rispetto alla
tradizione ontologica della metafisica occidentale.
Per Lacan, invece, il senso non nasce se non dal rapporto
tra i significanti, dal momento che oltre la sfera dei signifi-

24
Ivi, p. 118.
L’Antigone di Lacan 177

canti non c’è alcun significato puro come loro origine ideale,
che secondo l’impostazione ontologica prevalente nella meta-
fisica classica si lascerebbe cogliere in maniera immediata e
diretta, e quindi intuitiva, dal soggetto desiderante. Ciò che
prende il posto della presenza piena dell’essere, non più in-
tuibile nella sua idealità pura, è l’ordine simbolico, costituito
dal rimando incessante dei significanti ad altri significanti, in
una catena o deriva indeterminata e interminabile. Non c’è,
dunque, alcuna transizione necessaria dall’ordine superficiale
e derivato dei significanti a quello – che la metafisica presu-
meva ontologicamente più profondo e più originario – del si-
gnificato in sé. Il senso circola all’interno della catena dei si-
gnificanti, senza poter postulare al di là di essi e come loro
principio e fondamento l’esistenza ideale del significato puro.
Quest’ultimo non ha alcuna sostanza intelligibile, ma “scivo-
la” sempre sotto il significante 25.
Questo mancato accesso diretto alla realtà extrasoggettiva
provoca la refente del soggetto, la sua spaccatura o scissione,
in cui va riconosciuta l’indispensabile premessa della Legge,
che non avrebbe alcun senso se soggetto ed essere si sovrap-
ponessero senza residui. Perciò per Lacan, la “bipolarità per
cui s’instaura la Legge morale [la bipolarità dont s’instaure
la Loi morale]” non è altro “che quella scissione [refente] del
soggetto che si opera per ogni intervento del significante: la
scissione del soggetto dell’enunciazione dal soggetto del-
l’enunciato” 26. In altri termini, l’intervento del significante –
 

25
P. LEMBO, op. cit., p. 67 riporta questo passo di Lacan: “Si può
dire che è nella catena significante che il senso insiste, ma che nessu-
no degli elementi della catena consiste nella significazione di cui è ca-
pace in quello stesso momento. Si impone dunque la nozione di uno
scivolamento incessante del significato sotto il significante”, J. LA-
CAN, Scritti, vol. I, cit., p. 497.
26
J. LACAN, Scritti, cit., p. 770.

 
178 Il dilemma di Antigone

l’accesso all’ordine simbolico – produce uno scarto incolma-


bile che rende impossibile la piena coincidenza del soggetto
con l’essere (e, dunque, innanzitutto con sé stesso). Commen-
ta R. Bernet: “Parlando e parlando di sé stesso, il soggetto
della parola si ritrova solo parzialmente in ciò che dice. Ciò
che dice, anche ciò che dice di sé stesso, ha un senso che lo
oltrepassa. In quanto soggetto dell’enunciato, esso è preso
nell’universo dei significanti che ha le sue regole specifiche
[…]. Il modo in cui è esso stesso significato da un significan-
te è sempre tributario del modo in cui questo significante ri-
manda ad altri significanti. Non c’è nessun significante su-
scettibile di rimandare direttamente ed esclusivamente a que-
sto soggetto, e perciò il soggetto dell’enunciato non coincide
mai con il soggetto dell’enunciazione” 27.
Attraverso l’intervento del significante che dissolve la
coincidenza con sé del soggetto, l’impossibile accesso diretto
alla presunta presenza piena del reale sottomette il desiderio
alla Legge, ma al tempo stesso, come si vedrà a breve, ne
rende anche perlomeno possibile la trasgressione.

Il patibolo e la Legge.

Nel contesto del commento lacaniano all’Antigone, balza


agli occhi la centralità della legge. Ma il testo nel quale si ri-
scontra il dato d’una sua vera e propria duplicità è “Kant con
Sade”, datato settembre 1962 28, in cui il grande psicoanalista
francese propone la sua originale e per certi versi sorprenden-
te lettura della Filosofia nel boudoir di Sade come “verità”

27
R. BERNET, op. cit., p. 33.
28
J. LACAN, “Kant avec Sade”, in ID., Écrits, cit., pp. 765-790 (cfr.
ID., Scritti, vol. II, cit., pp. 764-791).
L’Antigone di Lacan 179

della Critica della ragione pratica di Kant 29. Ebbene, in que-


sto ricchissimo scritto, dopo aver citato il noto apologo kan-
tiano del patibolo (secondo cui il lussurioso preferirebbe, al-
meno secondo Kant, rinunciare al proprio desiderio trasgres-
sivo, anziché esaudirlo a costo d’esser subito dopo appeso al-
la forca 30), Lacan evoca per due volte la “Legge” (scritta con
la maiuscola) e subito dopo nomina Antigone. Leggiamo:
“Ma potrebbe accadere che un partigiano della passione,
che fosse abbastanza cieco da farne un punto d’onore, facesse
problema a Kant, costringendolo a constatare che nessuna oc-
casione più sicuramente fa precipitare certi individui verso il
loro scopo, del vedere quest’ultimo esposto alla sfida o al di-
sprezzo del patibolo.
Giacché il patibolo non è la Legge, né può esser da essa
veicolato. Furgone è solo di polizia, e questa può ben essere
lo Stato, come si dice dalla parte di Hegel. Ma la Legge è
un’altra cosa, come si sa da Antigone in poi” 31.
 

29
J. LACAN, Scritti, cit., p. 765: “La filosofia nel boudoir viene otto
anni dopo la Critica della ragion pratica. Se, dopo aver visto che le si
accorda, dimostreremo che la completa, diremo che offre la verità del-
la Critica”. Sull’interpretazione lacaniana di Sade come “attuazione
rovesciata” del kantismo, cfr. S. MORETTI, Jacques Lacan e la filoso-
fia, Mimesis, Milano 2008, p. 44 ss.
30
Vale la pena riportare il passo di Kant citato da Lacan: “Suppo-
nete che qualcuno pretendesse che la sua inclinazione libidinosa sa-
rebbe per lui irresistibile, qualora gli si presentassero l’oggetto amato
e l’occasione relativa, e di chiedergli se non reprimerebbe la propria
inclinazione, se, davanti alla casa dove si trovasse tale occasione, fos-
se installata una forca dove impiccarlo subito dopo che avesse soddi-
sfatto il suo appetito; non è difficile indovinare che cosa rispondereb-
be”, I. KANT, Critica della ragione pratica, a cura di A.M. MARIETTI,
con testo tedesco a fronte, Bur, Milano 1992, pp. 161-163.
31
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 782. La dicotomia empirico/tra-
scendentale d’origine kantiana è ovviamente la prima a venir in mente

 
180 Il dilemma di Antigone

A differenza della Legge con la maiuscola, il cui senso è


per ora determinato solo per via negativa, il patibolo corri-
sponde alla legge con la minuscola, esplicitamente chiamata
in causa poche righe dopo. È infatti la legge con la minuscola
che, nella sua funzione repressiva, regolamenta ciò che Hegel
chiamava il “sistema dei bisogni” 32, e lo regolamenta attra-
verso l’intervento della polizia 33 che garantisce la sicurezza
sociale, cioè la libertà di ciascuno di soddisfare i propri inte-
ressi senza ledere i diritti altrui. In tal modo, la legge con la
minuscola, all’interno della bürgerliche Gesellschaft (lette-
ralmente la “società borghese”, ma si sa che Hegel pensava la
“società civile” sul suo modello) svolge la necessaria funzio-
ne di regolazione sociale dei desideri individuali attraverso la
repressione delle trasgressioni che minacciano l’ordine costi-
tuito.
Lacan continua:
“Col suo apologo d’altronde, Kant non dice il contrario: il
patibolo interviene solo perché egli possa appendervi, col
soggetto, il suo amore per la vita.
Orbene, è a questo che, nella massima: Et non propter vi-
tam vivendi perdere causas, il desiderio può passare in un es-
sere morale, e appunto perché è morale, passare al rango

al lettore che – nella sua ansia di sistematizzare un pensiero refrattario


alla sistematizzazione, eppure estremamente coerente, come quello di
Lacan – voglia comprendere la duplicità lacaniana della legge (e del
desiderio che vi corrisponde). Ma si dà il caso che in questo saggio,
pur infarcito di riferimenti a Kant, il ricorso al trascendentale brilli per
la sua assenza. Perciò, per cogliere la specificità dell’intenzione laca-
niana, credo preferibile provarsi a entrare nella logica del testo spo-
sandone le scelte terminologiche e concettuali.
32
Cfr. G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di
G. MARINI, Laterza, Roma 1987, §§ 189-208, pp. 159-169.
33
Cfr., ivi, §§ 230-249, pp. 183-190.
L’Antigone di Lacan 181

d’imperativo categorico, per poco che sia spalle al muro. Do-


ve appunto in questo caso si trova spinto.
Il desiderio, ciò che si chiama il desiderio basta a far sì che
la vita non abbia senso se si fa un vile [n’ait pas de sens à
faire un lâche]. E quando la legge è veramente lì, il desiderio
non tiene, ma per la ragione che la legge e il desiderio rimos-
so sono una sola cosa [une seule et même chose], il che è an-
che ciò che Freud ha scoperto” 34.
Dura lex sed lex. Nella durezza della legge morale kantia-
na che reprime i desideri trasgressivi e che, in quanto Super-
io, costituisce il nucleo della “coscienza morale che agisce
nell’Io”, Freud aveva visto una forza crudele e inesorabile:
“L’imperativo categorico di Kant si rivela così il diretto erede
del complesso edipico” 35. Il riferimento freudiano al com-
plesso edipico allude all’origine della socializzazione. Ed è
esattamente a questa dimensione originaria o primordiale che
appartiene la Legge con la maiuscola, che può guadagnarsi
soltanto una “obbedienza posteriore [o differita, ritardata: na-
chträglich Gehorsam]” 36, dal momento che in questo caso la

34
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 782. Avendo leggermente modi-
ficato la traduzione italiana del capoverso contenente la citazione lati-
na, tratta com’è noto da Giovenale, è il caso di riportare qui di seguito
l’originale lacaniano: “Or c’est à quoi le désir peut dans la maxime: Et
non propter vitam vivendi perdere causas, passer chez un être moral,
et justement de ce qu’il est moral, passer au rang d’impératif catégori-
que, pour peu qu’il soit au pied du mur. Ce qui est justement où on le
pousse ici” (J. LACAN, Écrits, cit., p. 782).
35
S. FREUD, “Il problema economico del masochismo (1924)”, in
Opere di Sigmund Freud (d’ora in poi OSF), a cura di C. MUSATTI,
Bollati Boringhieri, Torino 1966 ss., vol. X, p. 13.
36
S. FREUD, “Totem e tabù (1913)”, in OSF, VII, pp. 147 (cfr. S.
FREUD, “Totem und Tabu”, in Gesammelte Werke, vol. IX, Fischer,
Frankfurt a.M. 1999, p. 175).

 
182 Il dilemma di Antigone

Legge non precede ma segue la sua trasgressione. A una si-


mile complicazione originaria della temporalità, che rende
impossibile la linearità della diacronia, Lacan è particolar-
mente sensibile, come si evince dagli Scritti: “Il nachträglich
(ricordiamo che siamo stati i primi a estrarlo dal testo di
Freud), il nachträglich o après-coup, il dipoi secondo cui il
trauma si implica nel sintomo, mostra una struttura temporale
di ordine più elevato” 37. È qui in gioco una retroazione del-
l’efficacia che vale in modo eminente nel caso dell’istituzio-
ne socio-culturale, al cui interno ha luogo, per un “essere mo-
rale”, la transizione possibile dalla Legge con la maiuscola
all’imperativo categorico e alla morale super-egoica (che in
Lacan corrispondono alla legge con la minuscola). Perciò
Freud può dire che l’imperativo categorico è “il diretto erede
del complesso edipico”: cioè che esso discende dalla Legge
che inaugura la socializzazione della psiche, senza però iden-
tificarsi con essa. Ciò che Lacan chiama la legge (con la mi-
nuscola) si limita attraverso la vigile guardia del Super-io alla
repressione dei desideri rivolti agli oggetti proibiti, interdi-
cendone l’appagamento con la minaccia della punizione. In
tal modo, il patibolo come deterrente, quindi la paura del pa-
tibolo, allontana dal soggetto gli oggetti del desiderio di cui è
vietato soddisfarsi. Il riferimento lacaniano alla polizia nel
passo citato allude alla funzione deterrente della legge con la
minuscola, che perciò – come si legge nello stesso luogo –
viene a coincidere con la rimozione dei desideri trasgressivi.

37
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 842.
L’Antigone di Lacan 183

La solitudine di Antigone e il punto di mira del deside-


rio.

Attraverso il gioco dei significanti, l’accesso all’ordine


simbolico svincola il soggetto dalla subordinazione ontologi-
ca alla stabilità dell’essere e alla trasparenza ideale del signi-
ficato. “C’è identità – precisa Lacan – tra il modellamento
[façonnement] del significante e l’introduzione nel reale di
un’apertura beante [béance], di un buco” 38. E tuttavia, prima
dell’azione di taglio effettuata dallo spazio simbolico non c’è
alcun rapporto “naturale” o immediato con la realtà extrasog-
gettiva. Il senso emerge solo dall’intervento del significante
che rende impossibile l’accesso diretto alla presunta presenza
piena di ciò che Platone chiamava l’ontōs on (il realmente es-
sente, cioè quella realtà in cui l’esistenza e la significazione
beatamente coincidono).
Ma è proprio una simile impossibilità che costituisce il
pungolo fondamentale del desiderio, il quale, pur senza poter
attingere l’appagamento immediato, non cessa d’inseguirlo,
con ciò, di fatto, prendendo di mira il proprio annientamento,
come accade nel caso di Antigone, “vittima così terribilmente
volontaria”, che “ci fa vedere il punto di mira [le point de vi-
sée] che definisce il desiderio” 39. Lasciato a sé stesso, cioè al
suo isolamento che resiste alla socializzazione, il desiderio
puro si realizza come desiderio di morte.
La legge esclusiva della condotta di Antigone emerge di-
rettamente da questo suo desiderio. E poiché, come sappia-
mo, caratteristica essenziale dell’eroe tragico è per Lacan
l’isolamento, è proprio questa dimensione solitaria e isolata,
in cui si radica il suo desiderio, quella che l’orienta sovrana-

38
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 144.
39
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 290.

 
184 Il dilemma di Antigone

mente anche nelle relazioni intersoggettive e sociali. In quan-


to soggetto che grazie al “taglio significante” si affranca dalle
costrizioni della diacronia storico-sociale e costituisce “l’in-
carnazione strutturale della sincronia”, Antigone si presenta
come autonomos anche nelle dimensioni relazionali della sua
esistenza, al cui interno il suo desiderio solitario continua ad
essere la sua unica legge.

Inafferrabilità dell’oggetto e scissione del soggetto.

Scrive Lacan: “In un’epoca che precede l’elaborazione eti-


ca di Socrate, Platone e Aristotele, Sofocle ci presenta l’uomo
e l’interroga sulle vie della solitudine, e situa l’eroe in una
zona di sconfinamento della morte nella vita, nel suo rapporto
con ciò che qui ho chiamato la seconda morte. Questo rappor-
to con l’essere sospende tutto ciò che è correlato alla trasfor-
mazione, al ciclo delle generazioni e delle degenerazioni, alla
storia stessa, e ci porta a un livello più radicale di qualsiasi
altro, in quanto come tale è sospeso al linguaggio” 40. L’im-
postazione sofoclea, secondo la prospettiva lacaniana, non sa-
rebbe dunque orientata alla vita civile e sociale, come le eti-
che fondamentalmente politiche di Socrate, Platone e Aristo-
tele. Ciò che preme a Lacan è scorgere nell’attenzione del
poeta tragico alla solitudine umana l’intervento del signifi-
cante che introduce la morte nella vita perché sospende
l’appartenenza immediata dell’essere umano alla realtà ester-
na, sia essa storica o ontologica, senza tuttavia ricondurlo ad
una mitica naturalità preumana.
Per Antigone diventa ragione di vita e di morte la sincro-
nia d’un desiderio isolato e assoluto, che non desidera più
nulla se non la propria realizzazione compiuta, il che final-
 

40
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 332.
L’Antigone di Lacan 185

mente viene a coincidere col suo annullamento. In tal modo,


liberato dalla diacronia, strappato dai suoi ormeggi psico-
sociali, l’eccesso originario del desiderio puro mira a ciò che
precede e rende possibili gli oggetti della catena significante,
ma che a sua volta è reso strutturalmente impossibile dalla
“mancanza per cui il desiderio si istituisce [le maque dont
s’institue le désir]” 41. Qui l’oggetto del desiderio “vacilla in
modo complementare al soggetto. Ecco perché è altrettanto
inafferrabile quanto secondo Kant l’oggetto della Legge” 42.
E Lacan aggiunge: “Spunta allora il sospetto imposto da que-
sto accostamento: la legge morale non rappresenta forse il de-
siderio nel caso in cui non è più il soggetto, ma l’oggetto a
venir meno?” 43.
Qui i piani del discorso s’intersecano ed è necessario fare
molta attenzione per districarne i fili. Il venir meno dell’og-
getto e il venir meno (o la refente) del soggetto sono sicura-
mente complementari, ma presi separatamente hanno effetti
diversi, perciò vanno disgiunti. Allorché s’analizza esclusi-
vamente il venir meno dell’oggetto, come accade in Kant, il
soggetto incontra la legge con la minuscola. Allorché invece,
attraverso “l’intervento del significante” – che, come s’è vi-
sto, provoca la scissione del soggetto – non ci si limita al ve-
nir meno dell’oggetto fenomenico, solo allora emerge la rela-
zione del soggetto alla Legge. Nel primo caso, analizzato da
Kant, l’oggetto viene meno, ma il soggetto resiste integro; nel
secondo caso, al centro della riflessione di Lacan, vengono
meno entrambi, quindi al venir meno dell’oggetto s’aggiunge
la scissione del soggetto.
Già all’inizio di “Kant con Sade”, Lacan aveva accennato

41
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 853.
42
J. LACAN, Scritti, cit., p. 781.
43
J. LACAN, Scritti, cit., p. 781.

 
186 Il dilemma di Antigone

al “rimpianto” espresso da Kant per il fatto che “nessuna in-


tuizione offra all’esperienza della legge morale un oggetto
fenomenico”. E, aggiungeva Lacan, “lungo tutta la Critica
quell’oggetto viene meno” 44. Al venir meno dell’oggetto del-
l’esperienza morale, impossibile da determinare attraverso
l’intuizione sensibile, corrispondeva la legge con la minusco-
la. Al riguardo, infatti, Lacan non mancava di segnalare “il
paradosso per cui il soggetto incontra una legge proprio nel
momento in cui non ha più davanti a sé alcun oggetto” 45.
Nonostante il “rimpianto”, spia d’una superstite nostalgia
metafisica, si tratta d’un conseguimento importante del kanti-
smo. Infatti, se anche in sede pratica, cioè sul piano dell’azio-
ne, la presenza piena dell’oggetto fenomenico si potesse con-
segnare allo sguardo diretto dell’intuizione, il soggetto agente
sarebbe sottomesso allo stesso concatenamento fenomenico
che sul piano della conoscenza determina i suoi oggetti 46.
Con ciò risulterebbe abolita la differenza tra la conoscenza
(necessariamente determinata dal darsi del suo oggetto) e
l’azione autonoma, in quanto capace di dare a sé stessa delle
massime universalizzabili. In altri termini, se esistesse anche
sul piano dell’agire l’accesso diretto all’oggetto in grado di
orientarlo necessariamente, come accade nel caso dell’intui-
zione, allora verrebbe meno l’autonomia della ragione pratica.
L’impossibilità di un’intuizione diretta dell’oggetto etico,
che per la tradizione filosofica è il bene in sé, rende quest’ul-
timo irriducibile alla verità conoscitiva, e perciò apre lo spa-
 

44
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 767 (Cfr. J. LACAN, Écrits, cit.,
p. 768: “On retrouve ce qui fonde Kant à exprimer le regret qu’à
l’expérience de la loi morale, nulle intuition n’offre d’objet phénomé-
nal. Nous conviendrons que tout au long de la Critique cet objet se dé-
robe”).
45
J. LACAN, Scritti, cit., p. 766.
46
Cfr. J. LACAN, Scritti, p. 765.
L’Antigone di Lacan 187

zio dell’etica come ininterrotta ricerca non più del bene asso-
luto ma dell’autonomia razionale. La legge morale per Kant
non è sostenuta da nessuno sguardo intuitivo o speculativo
capace di coglierne il fondamento, ma deve essa stessa pro-
durre la possibilità originaria del bene, che il soggetto non
saprà mai d’aver indubitabilmente raggiunto (come Kant af-
ferma nel saggio sul male radicale).
Nonostante ciò, tuttavia, la legge morale kantiana, che cor-
risponde al venir meno dell’oggetto fenomenico, coincide
soltanto col desiderio rimosso e si lascia sfuggire il “desiderio
puro”, cui corrisponde la Legge con la maiuscola. Alla luce
di questa precisazione sembra doversi leggere l’avvertenza
lacaniana: “Torniamo a dire che desiderio non è soggetto,
non essendo indicabile in alcun dove un significante della
domanda quale che sia, perché non è articolabile in essa ben-
ché vi sia articolato” 47.
La demande che costituisce il soggetto, la sua richiesta
fondamentale, ciò che il soggetto chiede non per sapere ma
per ottenere, sfugge alla catena significante. Il luogo in cui
desiderio e soggetto coincidono non è dunque nel loro rap-
porto all’oggetto fenomenico che “lungo tutta la [seconda]
Critica viene meno” ma di fronte a ciò che eccede la catena
significante e che fa venir meno il soggetto stesso, cioè che
ne provoca la scissione. La Legge con la maiuscola, dice La-
can, non ha altro principio, e perciò si situa in rapporto a ciò
che eccede ogni oggetto del desiderio. Questo eccesso inog-
gettivabile – sprovvisto cioè d’un significante reperibile entro
l’ordine simbolico – si dimostrerà articolato al soggetto/de-
siderio che ne procede ma al tempo stesso non articolabile da
quest’ultimo che non potrà mai afferrarlo, possederlo, intuirlo
o goderne.

47
J. LACAN, Scritti, cit., p. 773.

 
188 Il dilemma di Antigone

La Cosa del desiderio e la mancanza originaria.

Ciò a cui mira il desiderio allo stato puro in vista del suo
appagamento pieno e immediato, reso strutturalmente impos-
sibile dalla mancanza originaria, eccede la catena significan-
te, eccede cioè la concatenazione degli oggetti di esperienza
suscettibili di venir rappresentati, scambiati, usati e posseduti.
Riferendosi alla terminologia cui il giovane Freud ricorreva
in un testo del 1895 (il Progetto di una psicologia 48, rimasto
a lungo inedito e pubblicato postumo), e raccogliendo altresì
qualche suggestione kantiana (la demarcazione tra fenomeno
e “cosa in sé”) e heideggeriana (la differenza tra l’ontico e
l’ontologico, tra la reificabilità delle “cose che sono” e la tra-
scendenza del loro essere), Lacan sostiene che l’interfaccia
inoggettivabile del desiderio nella sua radicalità sia “das
Ding”, la Cosa 49.
Das Ding non è un oggetto desiderato, non ha un contenu-
to determinabile. Ciò a cui la Cosa si riferisce non è mai stato
rappresentato, non ha potuto aver accesso allo spazio psichi-
co, e perciò essa, precisa Lacan, è “il fuori significato [le
hors-signifié]” 50. Non appartiene allo spazio del simbolico,
inaugurato dal linguaggio, ma a quello del “reale” 51. Della
Cosa non esiste né può darsi alcun fenomeno né alcuna rap-
presentazione, giacché la Cosa non è un oggetto: di essa è so-
 

48
Cfr. S. FREUD, “Progetto di una psicologia”, in OSF, vol. II, pp.
201-284; cfr. in particolare p. 235.
49
Cfr. J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., pp. 51-83 e l’illu-
minante commento di R. Petrillo in B. MORONCINI-R. PETRILLO, op.
cit., pp. 79-117.
50
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 64.
51
Sulla differenza dei tre registri – immaginario, simbolico e reale –
buona sintesi in V. CLAVURIER, “Réel, symbolique, imaginaire: du repè-
re au nœud”, in Essaim (Érès, Toulouse) 25, 2010, n. 2, pp. 83-96.
L’Antigone di Lacan 189

lo possibile una Vorstellungsrepräsentanz (termine che in


genere viene tradotto ‘rappresentanza ideativa’) 52, in quanto
intorno ad essa si struttura la catena dei significanti, sotto i
quali scivola sempre il significato, che non può fissarsi ad al-
cuna realtà oggettiva, universale, esterna. Il fatto che ci sia un
significante primo, quello che consente l’accesso all’ordine
simbolico, cioè alla deriva dei significanti, non vuol dire che
questo significante primo ne costituisca l’origine: esso è solo
“l’operatore centrale del linguaggio” 53, che nasce esattamen-
te dall’impossibilità di accedere al regno della Cosa.
Se il rapporto tra il soggetto e gli oggetti d’esperienza si
svolge sul piano della coscienza, viceversa si situa sul piano
dell’inconscio la tensione o l’aspirazione del desiderio origi-
nario che prende di mira la dimensione inoggettivabile, in
quanto non meramente ontica ma squisitamente ontologica,
di das Ding (che, come in Kant, resta “in sé”, e quindi non
diventa mai fenomeno).
Lacan fa inoltre riferimento al saggio di Heidegger su “La
cosa” 54, secondo cui, ad una cosa come una brocca, è essen-
ziale il vuoto intorno a cui è costruita affinché possa contene-
re acqua, vino o altra bevanda; ed è appunto l’idea di quel
vuoto che nel processo di fabbricazione guida il vasaio, anche
se quest’ultimo produce la brocca, cioè un oggetto determina-
to, e non il vuoto. Lacan paragona la Cosa del desiderio al
vuoto all’interno della brocca, che certo le appartiene, senza
però essere un qualcosa di oggettivo che il vasaio abbia potu-
to toccare o maneggiare; eppure senza prenderlo di mira nella

52
Cfr. J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 72 ss.
53
Cfr. P. LEMBO, op. cit., p. 67.
54
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., pp. 142-143 (cfr. M.
HEIDEGGER, Saggi e discorsi, a cura di G. VATTIMO, Mursia, Milano
1976, pp. 109-124).

 
190 Il dilemma di Antigone

sua inoggettivabilità, il vasaio non avrebbe potuto fabbricare


la brocca 55. Analogamente, la Cosa non preesiste al desiderio
anche se ne costituisce l’interfaccia, verso cui esso si rivolge
senza poterla mai afferrare e possedere – cioè senza poterne
godere. Anche in questo caso, dunque, vale la dialettica “arti-
colato/ma non-articolabile”.
Perciò per Lacan il desiderio, se inteso come volontà di
godimento, “così facendo parte battuto, promesso all’impo-
tenza” 56. Questo fallimento del desiderio è dovuto alla sua
subordinazione al piacere “la cui legge è di farlo sempre in-
terrompere nella sua mira” 57. Qui la funzione repressiva della
legge con la minuscola è complice d’una frustrazione del de-
siderio, mentre la Legge che interdice al desiderio il suo ap-
pagamento immediato, rendendogli la Cosa non-articolabile,
è anche quella da cui esso procede (e quindi a cui è articola-
to), tanto che è proprio essa che lo spinge a divampare, come
Lacan sostiene secondo l’insegnamento di san Paolo.
Ciò conferma che quando vien meno l’oggetto del deside-
rio, emerge la legge con la minuscola, mentre la Legge con la
maiuscola, la Legge primordiale e inaugurale, che corrispon-
de al “desiderio essenziale” in cui la psicoanalisi riconosce
“la verità del soggetto” 58, emerge solo dal venir meno di que-
st’ultimo, dalla sua refente. “La Legge morale non ha altro
principio” 59, asserisce Lacan.
Questa figura della Legge articolata al desiderio puro – irri-
ducibile dunque alla forca o al patibolo, cioè alla legge coinci-
dente col desiderio rimosso – è quella con cui si confronta An-
 

55
Cfr. R. BERNET, op. cit., pp. 34-35.
56
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 773.
57
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 773.
58
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 785.
59
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 770.
L’Antigone di Lacan 191

tigone. Sade invece s’arresta “nel punto in cui il desiderio


s’annoda [se noue] alla legge. Se in lui qualcosa s’è lasciato
tenere legato alla legge [s’est laissé retenir à la loi], per tro-
varvi l’occasione di cui parla san Paolo di essere smisurata-
mente peccatore, chi potrebbe scagliargli la prima pietra?” 60.
Senza legge non c’è peccato e quindi non c’è neanche de-
siderio. E solo attraverso la legge (con la minuscola) il desi-
derio trasgressivo può venire rimosso. Invece la Legge pri-
mordiale, che enuncia l’impossibilità dell’accesso alla pie-
nezza ontologica – dice Lacan nel passo già citato in cui no-
mina Antigone 61 –, quella “è un’altra cosa”. Ma, dal momen-
to che “l’Altra cosa è essenzialmente la Cosa” 62, è giocoforza
chiedersi se vi sia identità tra la Legge e la Cosa.
Occorre analizzare più dettagliatamente questa ambiguità.
Attraverso l’intervento del significante, l’ordine simbolico
produce la mancanza originaria ma, poiché esso funziona al-
tresì come interdetto, al tempo stesso sollecita l’illusione del-
la pienezza: d’una pienezza impossibile e mortifera, ma pur
sempre vagheggiata. In tal senso, la Cosa è il vuoto che gene-
ra la possibilità e quindi il desiderio del pieno, nella sua stes-
sa portata autodistruttiva. Senza questo vuoto o questa man-
canza originaria, cioè senza l’impossibilità della presenza
piena, che costituisce il contenuto della Legge – ciò che essa
impone attraverso la proibizione che formula –, non vi sareb-
be neanche la Cosa; ma la Legge che vieta l’accesso diretto
alla presunta immediatezza originaria dell’essere è parados-
salmente ciò stesso che ne produce la tentazione, facendone
divampare l’incontenibile desiderio, che perciò diviene desi-
derio di morte. In realtà, come sostiene Lacan, le proibizioni

60
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 790.
61
Cfr. J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 782 (vide supra).
62
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 141.

 
192 Il dilemma di Antigone

e gli interdetti, proprio in quanto espressione della legge mo-


rale, mostrano il rapporto intimo tra legge e desiderio, come
accade esemplarmente nel caso del comandamento che vieta
la menzogna e la falsa testimonianza: “In questo Tu non men-
tirai come legge, è inclusa la possibilità della menzogna co-
me il più fondamentale dei desideri” 63. La formulazione del
divieto in cui si materializza la legge è quindi al tempo stesso
ciò che dà l’abbrivio al desiderio a partire dalla possibilità
della trasgressione della legge.
Parafrasando un celebre passo del capitolo settimo della
Lettera ai Romani, Lacan scrive: “La Legge è forse la Cosa?
Questo no. Tuttavia io non ho potuto prender conoscenza del-
la Cosa se non attraverso la Legge. Non avrei infatti avuto
l’idea di bramarla [la coinvoiter] se la Legge non avesse det-
to: non la bramerai. Ma la Cosa, trovando l’occasione, suscita
in me ogni sorta di bramosie grazie al comandamento; infatti
senza la Legge la Cosa è morta. Ora, io un tempo ero vivo,
senza la Legge. Ma quando è intervenuto il comandamento,
la Cosa è divampata, mentre io trovavo la morte. E il coman-
damento che doveva darmi la vita è diventato per me causa di
morte; la Cosa infatti, trovata l’occasione per mezzo del co-
mandamento, mi ha sedotto e attraverso di esso mi ha fatto
desiderio di morte” 64.
Lacan fa integralmente suo questo passo di san Paolo, in
cui però ha sostituito la Cosa al posto del peccato [hamartia],
e poi aggiunge: “Il rapporto dialettico tra il desiderio e la
Legge fa sì che il nostro desiderio divampi solo nel rapporto
con la Legge, attraverso cui diventa desiderio di morte” 65.
Da un lato, dunque la Legge non è la Cosa. D’altra parte,

63
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 97.
64
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., pp. 98-99.
65
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 99.
L’Antigone di Lacan 193

però, poiché negli Scritti si legge che “il detto [la sentence]: è
la legge a fare il peccato, resta vero fuori dalla prospettiva
escatologica della Grazia in cui san Paolo l’ha formulato” 66,
potremmo concluderne che senza la legge con la minuscola
non ci sarebbe il peccato, mentre senza la Legge con la maiu-
scola non ci sarebbe la Cosa.

Dalla possibilità della trasgressione al desiderio. La


Cosa e la Legge.

In tal modo, il nesso tra la questione della Cosa e l’ordine


simbolico della Legge si rivela decisivo. In altri termini, pro-
prio dall’impossibilità strutturale dell’ontologia (impossibilità
d’un accesso immediato alla presenza piena dell’essere, alla
sua realtà oggettiva e universale data una volta per tutte e in
maniera del tutto non-equivoca, il che comporta di conse-
guenza l’impossibilità d’un oggetto capace di assicurare al
soggetto desiderante una felicità piena e compiuta) emerge lo
spazio del simbolico come luogo della divisione del soggetto.
In questo senso la Cosa, come l’Assoluto, si distacca da
tutte le rappresentazioni con le quali non ha nulla in comune
ed è possibile evocarla solo attraverso questo movimento di
rottura, di dissociazione, di presa di distanza. Ciò che della
Cosa può venirci incontro a partire da questo suo aldilà è solo
un vuoto, una mancanza, un’assenza, in cui non è riconosci-
bile alcun oggetto e non è neanche riconoscibile alcuna di-
mensione costitutivamente umana.
La Cosa è oltre ogni oggetto desiderato e oltre la legge su-
per-egoica che, all’occorrenza, potrebbe proibirlo. Dal lato
della Cosa c’è solo la Legge della mancanza originaria, che

66
Cfr. J. LACAN, Scritti, vol. I, cit., p. 120.

 
194 Il dilemma di Antigone

ne vieta l’oggettivazione, proibisce cioè di confonderla con


un qualunque oggetto del desiderio. Ma in questo divieto ori-
ginario, in questo rapporto tra la Cosa e la Legge primordiale,
s’inserisce l’ambigua possibilità della trasgressione, in cui va
riconosciuta la ‘nascita latente’ del desiderio.
Nel gesto stesso che interdice l’accesso all’immediatezza
impossibile della Cosa, c’è anche la tentazione o la seduzione
della sua presenza piena, il che conduce il desiderio all’auto-
distruzione. Nel desiderio di morte, incarnato dalla figura di
Antigone, consiste “l’immagine limite attorno alla quale ruo-
ta l’asse del dramma” 67. Ma proprio questa immagine, cioè la
figura di Antigone, riesce, secondo Lacan, a produrre la ca-
tarsi tragica, cioè la “purificazione del desiderio”, ossia la
scoperta che “per colui che avanza fino all’estremo del suo
desiderio, non sono tutte rose” 68.

L’obbedienza differita alla Legge originaria della socia-


lizzazione.

Finora il rapporto tra desiderio e Legge è stato analizzato


dal lato del desiderio psichico come istanza radicale di sin-
golarità. Occorre ora svolgerlo dal lato della Legge freudia-
namente intesa come Kulturarbeit, come operazione civiliz-
zatrice mirante alla socializzazione del desiderio.
 

67
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 313.
68
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., pp. 374-5. Commenta
Bruno Moroncini: “Se la mimesi tragica ha il potere sia di farci prova-
re pietà e paura sia di purificarci da tutto ciò che è di quest’ordine è
perché essa, nell’atto in cui scatena l’immaginario, lo esaurisce anche.
[…]. Il punto centrale della tragedia, quindi, è che un’immagine, quel-
la di Antigone, ci purifica dalle passioni immaginarie”, B. MORONCINI-
R. PETRILLO, L’etica del desiderio, cit., p. 211.
L’Antigone di Lacan 195

Spaziando tra psicoanalisi e antropologia, Lacan dice della


Legge che essa “opera nell’ordine della cultura”, al cui inter-
no ha “come conseguenza di escludere sempre l’incesto fon-
damentale, l’incesto figlio-madre, che è quello su cui Freud
mette l’accento” 69.
Si tocca qui un punto decisivo, tanto più in relazione alla
figura di Antigone in quanto figlia d’un incesto. Oltre che a
Freud, Lacan si ispira a Lévi-Strauss. Nelle Strutture elemen-
tari della parentela, la proibizione dell’incesto, in quanto
“istituzione universale”, presenta “due caratteri” contrapposti,
nei quali occorre riconoscere “gli attributi contraddittori di
due ordini esclusivi”: si tratta infatti di una norma o regola
che, “unica fra tutte le regole sociali, possiede contempora-
neamente un carattere di universalità” 70. La proibizione del-
l’incesto è dunque “un fenomeno che rappresenta la caratteri-
stica distintiva dei fatti di natura, e contemporaneamente la
caratteristica distintiva – che teoricamente contraddice la pre-
cedente – dei fatti di cultura” 71.
Tanto tra natura e cultura, quanto tra desiderio e legge,
non c’è una connessione di causa ed effetto che possa essere
delineata e identificata in una scansione linearmente tempora-
le. Nessuna spiegazione diacronica può render conto del loro
intreccio. Lacan cita a più riprese Lévi-Strauss nel corso del
seminario sull’etica della psicoanalisi, e insiste sul fatto che il
nucleo della proibizione dell’incesto, benché si tratti di una
proibizione universale, non ha alcuna motivazione biologica.
Lévi-Strauss, dice Lacan, “fa piazza pulita delle spiegazioni

69
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 79.
70
C. LÉVI-STRAUSS, Le strutture elementari della parentela (1947),
a cura di A.M. CIRESE, Feltrinelli, Milano 2003, p. 47.
71
C. LÉVI-STRAUSS, Le strutture elementari della parentela, cit., p.
49.

 
196 Il dilemma di Antigone

che si basano sulla pretesa pericolosità di incroci troppo stret-


ti” 72. Il significato del divieto dell’incesto è dunque simboli-
co, le sue ragioni attengono all’impossibilità di confondere il
desiderio con il possesso immediato del suo presunto oggetto
naturale. Questa impossibilità deriva dal fatto strutturale che
il desiderio inconscio non ha alcun complemento naturale che
potrebbe pienamente riempirlo e immediatamente appagarlo.
Qui emerge il punto più irriducibile della relazione tra natura
e cultura, cioè la necessaria ma enigmatica socializzazione
del desiderio.
Scrive Lacan: “Ciò che troviamo nella legge dell’incesto si
situa come tale a livello del rapporto inconscio con das Ding,
la Cosa. Il desiderio per la madre non può essere soddisfatto
perché sarebbe la fine, il termine, l’abolizione di tutto l’uni-
verso della domanda, che è quello che struttura più profon-
damente l’inconscio dell’uomo” 73.
Decisivo è ancora una volta il riferimento all’ordine sim-
bolico, cioè all’introduzione del significante in quanto origi-
nario sostituto – o nella terminologia del primo Derrida, in
quanto “supplemento” 74 – che prende il posto del rapporto
impossibile con la presenza piena dell’essere in sé, immedia-
tamente ma fantasmaticamente padroneggiata nell’inconscio.
Ciò che qui Lacan chiama “universo della domanda” – reso
possibile dalla proibizione dell’incesto in quanto rimozione
originaria dell’immediatezza – non avrebbe senso se la ragio-
ne umana, come postula la tradizione ontologica della metafi-
sica occidentale, fosse per natura a contatto con la pienezza
del reale. Se quest’ultima potesse rendersi, nella sua intrinse-

72
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., pp. 79.
73
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 80.
74
Cfr. F. CIARAMELLI, “Jacques Derrida et le supplément d’origi-
ne”, in Études phénoménologiques, nn. 27-28, 1998, pp. 237-263.
L’Antigone di Lacan 197

ca intelligibilità, pienamente accessibile all’intuizione diretta,


non vi sarebbe altro che coincidenza immediata tra pensiero
ed essere. La presenza piena della stabilità dell’essere riempi-
rebbe nell’evidenza dell’apriori lo sguardo della mente.
Le scoperta psicoanalitica dell’inconscio smentisce queste
pretese speculative poiché mostra che il desiderio umano, la
sua inquietudine vissuta, la sua creatività e la sua stessa im-
prevedibilità si radicano in una ontologia irriducibile alla spe-
culazione metafisica, la quale ultima illusoriamente presup-
pone e celebra la coincidenza originaria e immediata di pen-
siero razionale e presenza pienamente intelligibile dell’essere.
Per questa ragione, la psicoanalisi, che, secondo quanto af-
ferma Lacan, “riconosce nel desiderio la verità del sogget-
to” 75, costituisce, come recita il titolo d’un interessante sag-
gio di A.Vergote, “un limite interno della filosofia” 76.

Antigone e Creonte: la fermezza della fanciulla e il torto


del sovrano nell’interpretazione anti-hegeliana di Lacan.

Abbiamo già accennato alla presa di distanza di Lacan ri-


spetto all’interpretazione hegeliana dell’Antigone. È ora il ca-
so di ritornarvi più in dettaglio. Scrive Lacan:
“Di certo, non c’è campo in cui Hegel mi sembri più debo-
le di quello della sua poetica, e specialmente per quanto ri-
guarda ciò che egli articola attorno ad Antigone. Secondo lui
c’è qui un conflitto di discorsi, nel senso che i discorsi com-

75
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 785.
76
A. VERGOTE, “La psychanalyse, limite interne de la philoso-
phie”, in Savoir, faire, espérer. Les limites de la raison, Hommage à
Mgr H. Van Camp, Facultés Universitaires Sain-Louis, Bruxelles
1976, vol. II, pp. 479-504.

 
198 Il dilemma di Antigone

portano la posta in gioco essenziale e, quel che più conta,


vanno sempre verso una qualche conciliazione. Io mi chiedo
per l’appunto quale possa essere la conciliazione alla fine di
Antigone. Per giunta leggiamo non senza stupore che tale
conciliazione viene detta soggettiva” 77. Poco più avanti, con-
dividendo le critiche di Goethe alla lettura hegeliana della
tragedia 78, Lacan ritiene improponibile contrapporre “Anti-
gone e Creonte come due principi della legge, del discorso”,
e continua così: mentre per Hegel “il conflitto dipenderebbe
dalle strutture, Goethe dimostra al contrario come Creonte,
spinto dal suo desiderio, esca palesemente dalla sua strada e
cerchi di abbattere la barriera, prendendo di mira il proprio
nemico Polinice al di là dei limiti entro i quali gli è consentito
colpirlo: vuole infatti colpirlo con quella seconda morte che
non ha alcun diritto di infliggergli” 79. Per Lacan, dunque – ed
è questo l’elemento decisivo –, il conflitto non concerne i di-
scorsi né dipende dalle strutture, ma ha luogo tra il desiderio
di Creonte e quello di Antigone.
L’angolo visuale lacaniano, incentrato sul movente pro-
fondo dei comportamenti soggettivi, sul loro radicarsi nel de-
siderio inconscio, esclude non solo l’orizzonte della concilia-
zione, la cui verità, nella prospettiva di Hegel, come s’è visto
nel capitolo precedente, va ben oltre Antigone e si rende in-

77
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 82. Oltre che da que-
sta presa di distanza rispetto a Hegel, l’interpretazione lacaniana della
tragedia è caratterizzata da una discussione critica della teoria aristote-
lica della mimesi tragica, su cui per ragioni di spazio non possiamo
soffermarci: cfr. B. MOROCINI-R. PETRILLO, L’etica del desiderio, cit.,
pp. 207-212.
78
Cfr. J.P. ECKERMANN, Colloqui con il Goethe, a cura di G.V.
AMORETTI, Utet, Torino 1957, I, p. 383 ss.
79
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 298.
L’Antigone di Lacan 199

telligibile solo alla luce della teleologia speculativa che ani-


ma la sua filosofia della storia, ma esclude soprattutto la tesi
hegeliana secondo la quale gli eroi tragici non sarebbero né
colpevoli né innocenti.
Viceversa Lacan, che come s’è visto condivide le critiche
di Goethe alla rivalutazione hegeliana di Creonte, prende ra-
dicalmente le parti di Antigone e, tra gli interpreti moderni, è
senza dubbio il più accanito e coerente accusatore di Creonte,
di cui sottolinea l’ingiustificata volubilità, contrapposta al-
l’insospettabile fermezza della ragazza (ē pais in Sofocle:
Lacan traduce colloquialmente la gosse, cioè “la fanciulla”,
secondo l’attuale edizione italiana 80, o forse meglio, “la bim-
ba”, secondo la precedente).
Dal conflitto che contrappone Antigone e Creonte è strut-
turalmente assente ogni prospettiva di conciliazione, sogget-
tiva o oggettiva che sia, dal momento che Antigone non cede
e il suo desiderio la conduce alla morte. Ma non si tratta, in
questo, d’una sua colpa. Al contrario. Dal momento che, per
Lacan, “la sola cosa di cui si possa esser colpevoli è aver ce-
duto sul proprio desiderio” 81, il merito di Antigone è la sua
fermezza intransigente, grazie alla quale rifugge tanto dal ti-
more quanto dalla pietà, sicché è lei il vero eroe 82, mentre
Creonte, che alla fine cede al timore e muta parere, è solo
l’antieroe o l’eroe secondario 83.
Il torto di Creonte consiste nel perseguire l’annientamento
radicale dell’umanità di Polinice al quale, in quanto traditore
e nemico della città, vorrebbe infliggere, oltre la morte fisica,
anche la distruzione della sua identità e dignità umana, in cui

80
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 293.
81
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 372.
82
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 301.
83
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 323.

 
200 Il dilemma di Antigone

appunto consiste ciò che, come s’è visto, Lacan chiama “se-
conda morte”, espressione desunta dalla tradizione cristiana,
ove essa designa la dannazione eterna. Con questa sua deci-
sione, Creonte varca un limite che avrebbe dovuto rispettare.
Non si tratta qui, precisa Lacan, “di un diritto che si contrap-
pone a un diritto, ma di un torto che si contrappone – a che
cosa? A qualcos’altro che è rappresentato da Antigone. Vi di-
rò, non è soltanto la difesa dei diritti sacri del morto e della
famiglia, e neppure quella che si è voluta rappresentare come
una santità di Antigone. Antigone è trascinata da una passio-
ne, e noi cercheremo di sapere quale” 84.
In pagine appassionate e generose era stata Simone Weil a
sostenere che “è solo per un singolare fraintendimento che è
stato possibile assimilare la legge non scritta di Antigone al
diritto naturale” 85, giungendo a vedere nell’esperienza del-
l’eroina greca una prefigurazione del sopra-naturale cristiano,
indicante l’amore universale come rispetto per ogni uomo 86.
Probabilmente è proprio da una simile rilettura anacronistica
e per certi versi edificante che Lacan intende prendere le di-
stanze.
Attraverso questo suo desiderio estremo e incontenibile,
Antigone entra davvero nel campo della seconda morte, oltre
il limite consentito al desiderio umano: sennonché, nel caso
di Antigone, l’accesso al campo in cui si tratta di non sconfi-
nare non ha luogo per un errore di giudizio [hamartia] 87, co-
 

84
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 298.
85
S. WEIL, Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris
1957, p. 25, citato da E. GABELLIERI, Être et don: Simone Weil et la
philosophie, Peeters, Louvain 2003, p. 459.
86
Cfr. S. WEIL, Pagine scelte, a cura di G. GAETA, Marietti, Geno-
va 2009, pp. 226-227.
87
La parola, come sappiamo, è la stessa usata qualche secolo dopo
da San Paolo per designare il peccato, ma il suo senso nel greco clas-
L’Antigone di Lacan 201

me sarà il caso per Creonte, ma per hybris, dismisura e – in


senso etimologico – ‘oltraggio’ 88.
Ecco perché, come osserva Lacan, Antigone ci presenta
“l’enigma di un essere inumano” 89. Anche il lamento funebre
con cui la fanciulla prende commiato dalla vita, che pure
sembrerebbe contrastare questa disumanità e avvicinare
l’eroina a una forma corrente di amore per la vita, sia pur
nell’umanissimo rimpianto dell’imminente abbandono, viene
visto da Lacan come conferma del suo essere al di là del limi-
te: “Per Antigone la vita non può essere affrontata, non può
essere vissuta e pensata che da questo limite dove ella ha già
perso la vita, dove è già al di là della vita – ma da dove si può
vederla, viverla sotto forma di ciò che è perduto” 90.

sico, desumibile dalla Poetica di Aristotele, è completamente diverso:


Lacan qui lo rende con errore di giudizio o cantonata [bévue] (cfr. J.
LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 323).
88
“Se Creonte in nome della legge del bene vuole infliggere a Po-
linice la seconda morte, Antigone è costretta a sua volta a fare un pas-
so al di là, ad entrare nel campo dell’oltre, a situarsi sul fronte del-
l’origine della catena significante, origine assoluta e infondata del-
l’umano, per ‘riparare’ lo strappo provocato dall’editto del sovrano”,
B. MORONCINI-R. PETRILLO, op. cit., pp. 226-227.
89
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 307.
90
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 327. Qui, sia detto
solo di passaggio, in tutta la sua bellezza l’immagine di Antigone “ci
purifica dalle passioni immaginarie” (B. MORONCINI-R. PETRILLO, op.
cit., p. 211), il che consente a Lacan d’individuare “l’effetto del bello
sul desiderio” (J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 316), su
cui in questa sede non ci soffermeremo.

 
202 Il dilemma di Antigone

La passione che trascina Antigone ha per oggetto una


legalità che precede il diritto.

La “passione che trascina” Antigone e che la rende infles-


sibile, fredda, quasi disumana, non è tuttavia espressione di
un arbitrio sregolato e occasionale, ma ha una sua interna e
ferrea coerenza. Questa passione, che l’induce a disobbedire
all’autorità del sovrano, obbedisce a una costrizione singola-
rissima e perciò a propria volta non è estranea alla dimensio-
ne della legalità.
Commenta Moroncini: “Se Antigone abbraccia un deside-
rio che la condurrà alla morte non è, secondo Lacan, per ripa-
rare una lesione che un diritto ha prodotto su un altro diritto,
ma per risarcire un torto portato a quella ‘legalità’ che prece-
de il diritto, a quell’ordine significante della parentela senza
il quale nessun soggetto umano potrebbe mai venire al mon-
do. Tutto questo la isola, la scioglie da ogni forma di legame,
la rende quasi disumana” 91.
Per Antigone, sostiene Lacan commentando i ben noti ver-
si (450-458) della sua replica a Creonte, “nulla può far sì che
qualcuno che sia mortale possa yperdramein, passare al di là,
nomima, delle leggi. Non si parla delle leggi nomos, ma di
una certa legalità, conseguenza delle leggi agrapta – tradotto
sempre con non scritte, che è infatti quel che vuol dire – degli
dei. Si tratta qui dell’evocazione di ciò che è effettivamente
dell’ordine della legge, ma che non trova sviluppo in alcuna
catena significante, in niente” 92.
Di questa passione per una ‘legalità’ sprovvista di svilup-
po diacronico nella catena significante, è testimone Antigone,
emblema e incarnazione del desiderio allo stato puro. Ciò che

91
B. MORONCINI-R. PETRILLO, L’etica del desiderio, cit., p. 218.
92
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 324.
L’Antigone di Lacan 203

Lacan qui definisce “le leggi nomos” costituiscono la legisla-


zione in quanto comando politico di volta in volta concreto, il
cui oggetto è la regolazione dei desideri che rientrano nella
catena significante. Antigone, precisa Lacan, “non richiama
nessun altro diritto se non quello che sorge nel linguaggio dal
carattere incancellabile di ciò che è – incancellabile dal mo-
mento in cui il significante che sorge lo ferma come una cosa
fissa in mezzo a qualunque flusso di trasformazioni possibi-
li” 93. La rivendicazione dell’unicità di Polinice, alla quale
Antigone si attiene inflessibilmente, si basa dunque sul “valo-
re unico del suo essere”, che, pur precedendo il diritto, cioè
l’istituzione delle leggi, non si può considerare radicato nel-
l’immediatezza della natura, in quanto – specifica Lacan –
“questo valore è essenzialmente di linguaggio. Fuori dal lin-
guaggio non si potrebbe nemmeno concepirlo” 94.
La motivazione fondamentale di Antigone consiste dunque
nel “presentificare l’individualità assoluta”, come se lei di-
cesse: “mio fratello è tutto quel che volete, il criminale, che
ha voluto distruggere le mura della patria, trascinare i suoi
compatrioti in schiavitù, portare i nemici sul territorio della
città, insomma, lui è quello che è, ma qui si tratta di rendergli
le onoranze funebri. Cero, non ha lo stesso diritto dell’altro,
potere pure raccontarmi quello che volete, che uno è l’eroe e
l’amico, che l’altro è il nemico, ma io vi rispondo che poco
m’importa che ciò non abbia lo stesso valore laggiù. Per me
quest’ordine che voi osate intimarmi non conta niente, perché
per me, in ogni caso, mio fratello è mio fratello” 95.
Si badi bene, in questa singolarità di Polinice che Antigo-
ne intende salvaguardare a qualunque prezzo, c’è tutta la sua

93
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 325.
94
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, pp. 325-6.
95
J. LACAN, op. cit., pp. 324-5.

 
204 Il dilemma di Antigone

umanità, ma non c’è nulla di naturale o di immediato. Anzi la


‘naturalizzazione’ di Polinice è la punizione che vuole inflig-
gergli Creonte, lasciandone il cadavere in decomposizione
come quello di un qualunque altro ‘vivente non umano’. Se-
condo Lacan, Creonte è condotto ai suoi eccessi da un’inter-
pretazione radicale – e radicalmente erronea, miope, stupida –
del suo ruolo di capo, cioè di responsabile del bene comune.
Qui Lacan insiste su un tema che nel Novecento è stato di
grande e drammatica attualità: è proprio la pretesa di poter
raggiungere il bene di tutti, attraverso i conseguimenti della
politica, cioè mediante una vera e propria totalizzazione della
vita sociale 96, è proprio questa insipienza e mancanza di giu-
dizio che comporta un esito catastrofico, dal quale mette in
guardia la messinscena tragica. Quindi l’hamartia di Creonte
è il fatto “di voler fare il bene di tutti. Non dirò il Sommo
Bene – aggiunge Lacan –, ma la legge senza limiti, la legge
sovrana, la legge che deborda, passa il limite” 97. Al riguardo,
lo spettacolo tragico ci mostra l’obiezione fondamentale, su-
bito dopo riassunta da Lacan in questi termini: “Il bene non
può regnare su tutto senza che compaia un eccesso delle cui
conseguenze fatali la tragedia ci avverte” 98.
Creonte, in questa sua insana ricerca del bene, mira a “su-
perare la catena significante. Collocandosi aldilà, nell’ambito
della creatio ex nihilo, il sovrano di Tebe tenta un nuovo ini-
zio, un cominciamento in cui fare piazza pulita del male.
Creonte cerca di scrivere la storia ex novo, di modo da can-
cellare il nome di Polinice dalla catena delle generazioni: è

96
Per uno svolgimento narrativo di questo tema, rinvio all’interes-
sante romanzo di C. COMENCINI, L’illusione del bene, Feltrinelli, Mi-
lano 2007.
97
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 302.
98
Ibidem.
L’Antigone di Lacan 205

per questo che occorre rifiutare la degna sepoltura, ovvero


per cancellare le tracce del nemico dalla memoria storica” 99.
Antigone si vota a sua volta alla morte abbracciandone il de-
siderio – un desiderio infecondo – proprio per risarcire il tor-
to portato da Creonte alla catena simbolica.
Lacan ricorda che il Coro al v. 471 definisce Antigone
ōmos, e aggiunge che è tale come suo padre 100: aggettivo tra-
dotto generalmente inflessibile, ma Lacan lo assimila a una
condizione umana primitiva, giacché il vocabolo “letteral-
mente vuol dire qualcosa di non civilizzato, di crudo – il ter-
mine crudezza [crudité] è il più corrispondente, quando lo si
utilizza per parlare dei mangiatori di carne cruda” 101. Lo spe-
cifico di Antigone consiste per Lacan nell’assumere e nel
portare a compimento questa dimensione non civilizzata del
desiderio, nella sua estraneità alla socializzazione e di conse-
guenza nella sua ostilità al lutto imposto da quest’ultima 102.

99
P. LEMBO, op. cit., p. 76.
100
Generalmente Lacan – in questo di fatto solidale con il privilegio
hegeliano della scena – disprezza il Coro, in cui prevalgono le emozio-
ni (“il Coro è la gente che si commuove” (J. LACAN, L’etica della psi-
coanalisi, cit., p. 295) e che si dimostra spesso troppo accondiscenden-
te e “docile”, tanto che Lacan lo definisce “congrega dei signorsì” (ivi,
p. 311). Perciò il Coro sembra prevalentemente posizionarsi emotiva-
mente rispetto a questo o quell’evento, finendo col perdere di vista “il
livello dei rapporti dell’uomo con la dimensione della verità” (ivi, p.
310), che viceversa costituisce l’essenza della tragedia. Infatti, chiosa
Lacan, “non c’è, nella tragedia in generale, nessuna specie di vero e
proprio evento. L’eroe e ciò che lo circonda si situano rispetto al punto
cui tende il desiderio” (ibid.).
101
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 307.
102
Cfr. S. THANOPULOS, Il desiderio che ama il lutto, Quodlibet,
Macerata 2016.

 
206 Il dilemma di Antigone

In che senso la passione che trascina Antigone è l’origi-


ne della sua rovina?

La Legge con la maiuscola, coeva della rimozione origina-


ria, distingue il desiderio dall’immediatezza del godimento,
in cui esso potrebbe appagarsi in maniera piena e diretta del
suo oggetto totale. Una simile demarcazione originaria tra de-
siderio e appagamento immediato attraverso il possesso pieno
del suo presunto oggetto naturale, resa possibile dalla Legge,
consente forse ora di comprendere il senso dell’asserzione la-
caniana, secondo cui “il desiderio è il rovescio della Leg-
ge” 103, perché proibisce il godimento immediato dell’origine.
Nel caso di Antigone non si può certo dire che il suo desi-
derio, così come è descritto da Lacan, sia il rovescio della
Legge. Si direbbe, al contrario, che questo desiderio isolato e
solitario è diventato per lei l’unico contenuto della Legge. E
quest’ultima, anziché proibire al desiderio l’appagamento im-
mediato prescrivendogli interminabili détours all’interno del-
l’ordine simbolico, gli si consegna come oggetto immediato
di godimento. Un simile godimento – possibile solo nel fan-
tasma o nel mito – sarebbe allora il soddisfacimento diretto
del desiderio mortifero che procede dalla Cosa. All’opposto
di questo godimento impossibile e spaventoso c’è l’esperien-
za dell’analisi (Lacan parla essenzialmente dell’analisi didat-
tica) attraverso cui “il soggetto conquista […] la propria leg-
ge, di cui, per così dire, fa lo spoglio, lo scrutinio [Ce que le
sujet conquiert dans l’analyse … c’est sa propre loi, dont, si
je puis dire, le sujet dépouille le scrutin]” 104.
Il seminario sull’etica della psicoanalisi dedica solo poche

103
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 788.
104
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 348; cfr. J. LACAN,
L’éthique de la psychanalyse, cit., p. 347.
L’Antigone di Lacan 207

battute a questa figura della legge, appena abbozzata, che non


equivale né alla Legge primordiale che interdice il godimento
dell’origine né alla legge che coincide col desiderio rimosso.
Nell’analisi, infatti, il soggetto conquista la sua legge, la qua-
le comporta anzitutto l’accettazione di ciò che s’è articolato
nelle generazioni precedenti e che è per l’esattezza l’Atē, la
parola dell’Antigone che Lacan non si stanca di ripetere ma si
rifiuta di tradurre, e che vale normalmente sventura 105. Nel
corso della cura, tra il soggetto e l’analista si realizza uno
scambio, al cui interno, a differenza di ciò che accade nella
relazione d’amore, consistente nel dare ciò che non si ha
(cioè la propria mancanza), l’analista darà ciò che ha. “E ciò
che egli ha, spiega Lacan, come pure l’analizzato, non è
nient’altro che il suo desiderio, con la differenza che è un de-
siderio avveduto [averti]”, cioè un desiderio che “non può
desiderare l’impossibile” 106.
Il desiderio cui Antigone sacrifica sé stessa è tutto meno
che “avveduto”. L’intera rilettura lacaniana della tragedia è
incentrata su questa dimensione assolutizzante e autodistrut-
tiva del desiderio al quale si consegna e si subordina Antigo-
ne: un desiderio puro che diventa la sua unica regola di con-
dotta, il cui esito tragico sembra l’effetto inevitabile dell’iso-

105
“L’Atē, pur non giungendo sempre al tragico dell’Atē di Anti-
gone, è nondimeno parente della sventura”, J. LACAN, L’etica della
psicoanalisi, cit., p. 348. Utile al riguardo il chiarimento di Susanetti
(Commento, cit., p. 260): “Atē è il compiersi tangibile della ‘rovina’
che travolge la vita dei mortali, ma anche l’‘accecamento rovinoso’,
l’annebbiarsi e lo smarrirsi della mente che conduce a compiere un
errore fatale”. Esattamente in questo senso, R. Bernet scrive che il de-
siderio di Antigone è “contrassegnato da un accecamento (atē) e il suo
desiderio di morte la conduce direttamente verso una catastrofe finale
(atē)” (R. BERNET, “Le sujet devant la Loi”, cit., p. 42).
106
J. LACAN, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 348.

 
208 Il dilemma di Antigone

lamento dell’eroina, della sua chiusura autoreferenziale. In


questa direzione mi sembrano andare le osservazioni di due
interpreti di scuola lacaniana (Bernet e Recalcati), che, pur
senza appoggiarsi ad alcuna specifica citazione del maestro,
in fin dei conti contestano il carattere eticamente esemplare
dell’atteggiamento di Antigone. Scrive Bernet: “Tutte le leggi
scompaiono davanti alla Legge che Antigone s’è data a sé
stessa. Antigone è ‘al di là del limite’ perché, nel suo deside-
rio puro, non si lascia fermare da nulla e perché la sua azione
dipende solo dalle condizioni formali del suo desiderio. La
‘purezza’ del suo desiderio dipende dal fatto che lei non si le-
ga più a nessun oggetto e si dirige incondizionatamente verso
il ‘nulla assoluto’. Il suo desiderio è ‘senza pietà e senza ti-
more’, nulla può fermarlo nella sua corsa, e si precipita verso
quel sacrificio ultimo che è la morte del soggetto. Il desiderio
puro è desiderio di morte. Nel contesto di un’etica del deside-
rio, Antigone rappresenta dunque una forma dell’assolutismo
morale, del fanatismo eroico” 107. Gli fa eco Recalcati: “La
versione etica del desiderio che la psicoanalisi sostiene non
può coincidere con il desiderio puro di Antigone.[…] Resta la
domanda: Antigone è davvero l’emblema della realizzazione
etica dell’imperativo del desiderio? [...]. Lacan non ha inco-
raggiato questa lettura che altri suoi allievi hanno invece pro-
posto. L’esperienza dell’analisi educa effettivamente all’as-
sunzione del proprio desiderio ma, al tempo stesso, educa al-
l’impossibilità che il desiderio porta con sé” 108.
Antigone, in quanto eroe tragico – e, almeno secondo La-
can, unico eroe tragico del dramma – rappresenta la diacro-
nia, e quindi si svincola dal lato sincronico della struttura.

107
R. BERNET, op. cit., p. 42.
108
M. RECALCATI, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano,
2012, pp. 150-151.
L’Antigone di Lacan 209

Lacan enfatizza la condizione pre-civilizzata della sua “cru-


dezza”, cioè la sua refrattarietà alla socializzazione, la sua fe-
deltà immediata alla relazione familiare che precede i legami
politico-sociali e le istituzioni civili. Tutto ciò invita a pensa-
re che la deriva autodistruttiva del suo desiderio sia in fin dei
conti connessa al fatto che questo stesso desiderio, in quanto
metonimia della mancanza ad essere, cessa di essere deside-
rio dell’Altro, cioè sottomesso alla Legge che inaugura la so-
cializzazione, per compiersi nell’isolamento e nella gelosa
salvaguardia della sua singolarità assoluta. Il valore pre-giuri-
dico qui difeso dalla minaccia della “legge pubblicamente
bandita” si radica nella dimensione relazionale inter-umana –
soglia o luogo di passaggio dalla natura al diritto – che si co-
stituisce e s’esprime nel linguaggio. Non subordinandosi al
nomos come comando politico in nome della sua passione per
una legalità originaria che precede la diacronia storico-sociale
del diritto, Antigone è la testimone della dimensione relazio-
nale dell’umano, ma diventa al tempo stesso la vittima del-
l’isolamento pre-sociale in cui prende corpo il desiderio in-
conscio.
L’esito tragico della sua vicenda è allora la conseguenza
inevitabile del fatto che il desiderio isolato – e perciò anche
ostile al lutto imposto dalla socializzazione – sia divenuto per
lei l’unica legge di condotta, il che finisce con l’annullare
surrettiziamente la discontinuità o lo scarto necessari tra lo
spazio psico-corporeo del desiderio e l’ordine al tempo stesso
simbolico e istituito della legge 109.

109
Per maggiori ragguagli, mi sia consentito di rinviare a F. CIA-
RAMELLI, “La socializzazione del desiderio”, in F. CIARAMELLI-S.
THANOPULOS, Desiderio e legge, Mursia, Milano 2016, pp. 99-211.

 
210 Il dilemma di Antigone

L’ordine sociale e l’istituzione del simbolico.

Occorre chiedersi: che ne è dunque dell’oggetto del desi-


derio? Per rispondere a questa domanda, in “Kant con Sade”
Lacan richiama il suo insegnamento sul desiderio “da formu-
larsi come desiderio dell’Altro, perché per origine è desiderio
del suo desiderio” 110. Da questa formulazione, in cui è co-
munque riconoscibile la sottomissione del desiderio alla Leg-
ge 111 – e quindi al simbolico e alla necessità delle deviazioni
e dei rimandi che lo costituiscono – emerge la possibilità del-
l’ordine sociale e la necessità della sua istituzione politica.
Infatti, Lacan prosegue subito dopo: “Ciò rende concepibile
l’accordo dei desideri, ma non senza pericolo. Per la ragione
che essi si dispongono in una catena che assomiglia alla pro-
cessione dei ciechi di Brueghel, ciascuno dei quali, certo, ha
la mano nella mano di colui che lo precede, ma nessuno sa
dove tutti vanno” 112.
E così, dunque, Lacan mette in guardia dal rischio di un
ordine sociale pensato unicamente come regolazione funzio-
nale dei desideri soggettivi, giacché una prospettiva del gene-
re, come ha sostenuto Bernard Baas, “procede segretamente
da una spaventosa volontà di godimento” 113. L’unica possibi-
le regolazione funzionale dei desideri è la loro subordinazio-
ne a un principio di unità – il perseguimento del Bene – che
finirebbe per identificarli in una comunità fusionale, omolo-
gando i comportamenti individuali attraverso una sistematica

110
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 785.
111
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 856: “Il desiderio è desiderio di
desiderio, desiderio dell’Altro, abbiamo detto, cioè sottomesso alla
Legge”.
112
J. LACAN, Scritti, vol. II, cit., p. 785.
113
B. BAAS, Désir pur, cit., p. 217 e p. 146.
L’Antigone di Lacan 211

repressione dei desideri trasgressivi o eccedenti. In tal modo,


l’ordine simbolico, in quanto matrice della legalità, perdereb-
be il suo carattere inevitabilmente istituito trasformandosi in
una sorta di naturalizzazione della legge, culminante nel di-
niego della divisione e dell’articolazione costitutiva dello
spazio sociale. Questo diniego è in realtà orientato dal fanta-
sma del godimento, cioè dalla pretesa a un approccio imme-
diato e diretto di ciò la cui presenza piena e originaria appa-
gherebbe il desiderio illimitato dei soggetti. L’identificazione
di tutti nella comunità fusionale è solo una compensazione
fantasmatica dell’impossibilità di quella presenza che manca
a sé stessa e la cui assenza originaria e insuperabile impone la
deviazione attraverso l’ordine simbolico.
Al contrario, la specificità del sociale, la sua strutturale
istituzione politica, è costituita, per dirla con Claude Lefort,
dall’enigma di un’articolazione tra l’interno e l’esterno, da
una divisione che istituisce uno spazio comune, da una rottu-
ra che è simultaneamente una messa in rapporto. Il paradosso
del potere democratico rinvia al vuoto radicale e originario
che costituisce la mancanza pura, ciò che Lacan chiama la
Cosa, e che a sua volta si rivela articolata al desiderio che ne
procede, ma non articolabile al desiderio che non potrà mai
goderne. Il movimento di esteriorizzazione del sociale è per-
ciò parallelo a quello della sua interiorizzazione 114.
Sul piano giuridico-politico, la legge è sempre legge po-
sitiva, è sempre la legge vigente e perciò democraticamente
trasformabile, e quindi, in termini lacaniani, corrispondente
 

114
Cfr. C. LEFORT, Essais sur le politique. XIXe et XXe siècles,
Seuil, Paris 1986, p. 265. L’influenza di Lacan sulla filosofia politica
di Lefort è ben argomentata da B. FLYNN, The Philosophy of Claude
Lefort. Interpreting the Political, Northwestern University Press, Ev-
anston (Illinois) 2005, in modo particolare pp. 92-94, 124-126, 223-
224.

 
212 Il dilemma di Antigone

alla legge con la minuscola. E tuttavia essa non va confusa


con la fattualità del potere vigente, con il dato di fatto della
sua forza o violenza. Non va confusa con ciò, soprattutto
perché non vi si riduce. Il potere politico infatti non è che la
denaturalizzazione della forza. Il diritto lo limita e lo regola.
Perciò il simbolico non si riduce al funzionale e lo spazio
giuridico, pur essendo socialmente istituito, non si riduce ad
un artificio umano, manipolabile a piacimento. In questo
senso Lefort dice che la democrazia moderna lascia traspari-
re l’enigma dell’istituzione del sociale, nella misura in cui
pone il Diritto in modo interamente indipendente rispetto ad
ogni potere effettivo, facendo per la prima volta tacitamente
del luogo del potere un “luogo vuoto”, che in via di princi-
pio non appartiene a nessuno. Di conseguenza, il potere si
dimostra, per la prima volta, non localizzabile ma localizza-
to: non localizzabile, perché deriva dall’intera società che lo
fa emergere, ma necessariamente localizzato, in quanto ri-
condotto sul piano del sociale, cioè sprovvisto d’ogni garan-
zia trascendente 115.
Il luogo del potere come luogo vuoto – il paradosso d’un
potere illocalizzabile e localizzato – rinvia al vuoto radicale e
originario che costituisce la mancanza pura, la Cosa lacaniana
del desiderio, che a sua volta si rivela articolata al desiderio
che ne procede, ma non articolabile al desiderio che non potrà
mai goderne.
Ciò che è decisivo – e che viene offuscato dal disconosci-
mento del carattere istituito dell’ordine simbolico – è l’im-
possibilità di ricondurre a costanti universali e necessarie ciò
che appartiene alla sua costituzione di volta in volta data e
che perciò non deriva da alcuna identità strutturale dell’indi-

115
Cfr. C. LEFORT, Les formes de l’histoire. Essais d’anthropologie
politique, Gallimard, Paris 1978, p. 284.
L’Antigone di Lacan 213

viduale o del sociale. La necessità e la centralità di questa de-


viazione attraverso un ordine simbolico che, per poter funge-
re da matrice originaria della legge, dev’essere al tempo stes-
so istituito, costituisce a mio avviso l’impensato del testo la-
caniano.

 
214 Il dilemma di Antigone
CONCLUSIONE

1. Nella sua analisi del celeberrimo inno all’uomo contenuto


nel primo stasimo dell’Antigone (vv. 332-375), attribuendo al
Coro – espressione della pluralità dei cittadini – un ruolo che né
Hegel né Lacan erano disposti a riconoscergli, Martha Nuss-
baum sottolinea che la celebrazione d’ogni conquista umana è
sistematicamente accompagnata dall’indicazione d’una serie di
problemi che restano insoluti. “Più in particolare, ciascun ele-
mento rivela la varietà e pluralità dei valori umani e mette in
forse il tentativo di creare l’armonia attraverso la sintesi. Così
l’ode ci porta oltre la critica […] contro i protagonisti, verso
una critica generale all’ambizione di eliminare il conflitto” 1.
La radicalità del conflitto tragico – il cui oggetto è costituito
dai comportamenti umani e dal loro ispirarsi a valori contra-
stanti – esclude la saggezza del riccio che, a differenza della
volpe, secondo un verso del poeta greco Archiloco, reso ai
giorni nostri famoso da Isaiah Berlin, invece di intendersi ap-
prossimativamente di molte cose, ne conosce una sola, ma im-
portantissima: com’è noto, a questa conoscenza teoretica del-
l’unica cosa che davvero conta per una vita buona – il valore –
si richiama Richard Dworkin nella sua teoria del monismo va-
loriale o assiologico 2.

1
M. NUSSBAUM, op. cit., p. 167.
2
Cfr. R. DWORKIN, Giustizia per i ricci, trad. V. Ottonelli, Feltri-
216 Il dilemma di Antigone

Sennonché, alla luce della messinscena tragica, il conflitto


tra valori – che arriva ad essere mortale e finalmente deva-
stante non solo per i suoi contendenti ma per l’intera polis –
non risulta in alcun modo suscettibile di un’unica soluzione
teoretico-conoscitiva. Alla sua base, prima ancora dell’unila-
teralità dei “caratteri”, alla quale s’arresta la lettura hegeliana,
è da riconoscere l’unilateralità “dei principi morali in con-
fronto alla complessità della vita” 3.
E tuttavia né i caratteri né tantomeno i principi morali o
valori potrebbero essere considerati e vissuti come unilaterali
e perciò in conflitto, se non fossero costretti a entrare – e in-
nanzitutto a essere – in un rapporto reciproco, cioè a costi-
tuirsi attraverso la loro relazione. Quel che emerge in manie-
ra mirabile e avvincente dall’intreccio del dramma è la ‘con-
danna’ alla dimensione relazionale che – situandosi al di qua
dell’istituzione particolare del nomos ma al di là della regola-
rità universale della natura – caratterizza l’umano in quanto
tale, la sua genesi. La messinscena tragica ne comunica il pa-
thos. Da questa originaria relazionalità dell’umano – dalla
“paradossale pluralità di esseri unici” 4 che ne costituisce la
trama – scaturisce il senso, che precede l’elaborazione con-
giunta di nomos e logos.
Sotto l’immagine mitologica della loro origine divina, i
nomima non scritti a cui si richiama Antigone alludono ad
una sensibilità originaria – ad una vera e propria “responsivi-
 

nelli, Milano 2013, che fa riferimento a I. BERLIN, Il riccio e la volpe e


altri saggi, trad. G. Forti, Adephi, Milano 1986.
3
P. RICŒUR, Soi-même comme un autre, p. 290.
4
L’espressione è di Hannah Arendt e merita di essere restituita al
suo contesto immediato: “Nell’uomo, l’alterità, che egli condivide con
tutte le altre cose e la distinzione, che condivide con gli esseri viventi,
diventano unicità, e la pluralità umana è la paradossale pluralità di es-
seri unici” (H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, cit., p. 128).
Conclusione 217

tà” 5 – nei riguardi delle relazioni con gli altri esseri umani: si
tratta d’una dimensione che precede l’ordine sociale istituito,
di cui costituisce un limite interno e una fonte inesauribile di
instabilità e alterazione. La phronēsis come ‘virtù’ intellettua-
le della praxis si radica in questo pathos della relazionalità
umana, e costituisce il solo antidoto possibile alla hybris e al
rischio di naturalizzazione del nomos che quest’ultima com-
porta.

2. Il conflitto si radica dunque nell’originarietà della di-


mensione relazionale. La singolarità di Antigone emerge dal
dramma e s’impone alla nostra attenzione con la sua pretesa
d’unicità che si pone come origine conflittuale del senso: al
tempo stesso, limite e risorsa istituente dell’ordine sociale.
Ritroviamo così il tema del desiderio, trattato in modo parti-
colare dall’interpretazione psicoanalitica di Lacan. Non c’è
dubbio che il rapporto fra desiderio e nomos sia un rapporto
antinomico, ma questo stesso rapporto è attraversato da strati-
ficazioni interne che delineano tra le due dimensioni contrap-
poste un congiungimento possibile (e di conseguenza neces-
sario, perché in sua assenza c’è solo l’esito autodistruttivo
dell’antinomia). Il rapporto tra desiderio e legge non prende
di mira il rifiuto dell’ordine della legge (da intendersi come
l’ordine simbolico in quanto di volta in volta istituito), cosa
che potrebbe solo condurre il desiderio al proprio annienta-

5
Questo termine, utilizzato da Kurt Goldstein che definiva la ma-
lattia come “carenza di Responsivität”, è stato ripreso da B. WALDEN-
FELS, in modo particolare nel suo Antwortregister, Suhrkamp, Frank-
furt a.M. 1994. In generale sulla fenomenologia ‘responsiva’ elaborata
da questo autore, cfr. F.G. MENGA, “La ‘passione’ della risposta. Sulla
fenomenologia dell’estraneo di Bernhard Waldenfels”, in Aut aut,
316-317, 2003, pp. 209-237.

 
218 Il dilemma di Antigone

mento, ma al contrario mira a un rapporto diverso e altro con


la dimensione della legalità: un rapporto attraverso cui il de-
siderio possa oltrepassare la sua originaria anomia, in modo
tale da non culminare nell’isolamento, ma da poter godere
della relazione salvaguardandone l’alterità. Alla luce delle
due dimensioni opposte ma costituenti della soggettività
umana, “la dimensione autoreferenziale fondata sull’anomia
del desiderio e quella che riconosce l’alterità e accetta i limiti
che comporta questo riconoscimento” 6, l’Antigone si precisa
come la tragedia di una normatività che, invece di operare
come ‘facilitazione’ del desiderio, si sclerotizza rendendo
impossibile la dimensione relazionale senza di cui il desiderio
non sopravvive.
La sclerosi della normatività che distrugge il desiderio è la
deriva sempre possibile della socializzazione. Ciò che l’Anti-
gone mette in scena è la carenza acuta – e perciò l’esigenza
che la tragica testimonianza dell’eroina non soddisfa – d’un
tipo di socializzazione che s’opponga al conformismo autori-
tario del potere, una socializzazione che resista alla costrizio-
ne della normalità/normatività e che accetti la forza destabi-
lizzante del desiderio 7.
 

6
S. THANOPULOS, “La relazione con l’altro e le radici soggettive,
psicologiche del senso di legalità”, in Psicoanalisi e legge, Lettera, n.
2, marzo 2012, p. 32.
7
In questo senso, Pierandrea Amato e Luca Salza hanno di recente
visto nella “figura concettuale” di Antigone un’espressione del “potere
destituente”: “La destituzione politica della politica pretende una deci-
sione, un gesto, una forma di ascesi rivoluzionaria. Non c’è politica,
una politica dell’impossibile, l’unica, cioè, in grado di trasformare la
fisionomia del mondo, senza un pensiero della sua destituzione e di-
sappropriazione. In altre parole, oggi un vero evento politico è quello
in grado di lasciare deragliare la politica fuori la logica della rappre-
sentanza politica. Per intenderci rapidamente, per questo movimento
di diserzione politica dalla politica, può essere strategico fare ricorso a
Conclusione 219

3. Vorrei ora riferirmi a una scena di vita vissuta, raccon-


tata da Hans Lindahl, all’inizio d’uno suo libro recente, un
libro a tutti gli effetti di taglio giuridico, che ricorre però al-
l’analisi fenomenologica. Il titolo di Lindahl è Fault Lines of
Globalization 8, possiamo tradurre “Linee di faglia della glo-
balizzazione” (sottotitolo: “Ordinamento giuridico e politica
della a-legalità”). Dunque la scena è la seguente. In un buon
ristorante olandese, inopinatamente entra un migrante: ha
l’aspetto del barbone, e nella sua lingua incerta dice al came-

una figura concettuale: Antigone. Il suo rifiuto di applicare la legge


sovrana, la politica che ci impone come vivere, la sua violenza della
non violenza, destituente e forte, scatena una metamorfosi politica del-
la polis, in grado di fare cadere il sovrano. La diserzione dall’ordine
del potere sprigiona una carica politica imprevedibile che fa del gesto
della figlia di Edipo un movimento che allude a una forma di potere
senza fondamento”, P. AMATO-L. SALZA, “Il potere destituente. Mate-
riali e frammenti sparsi”, pubblicato online http://www.doppiozero.
com/materiali/rivolte/il-potere-destituente (consultato il 10 novembre
2016). Il cenno ad Antigone è qui suggestivo e interessante, ma rischia
di lasciare in ombra la hybris di cui la stessa eroina si macchia; rischia
insomma di lasciare in ombra la dismisura fatale del suo gesto, la sua
autolesionistica attrazione per il sacrificio di sé, di cui – come s’è vi-
sto – anche in una prospettiva lacaniana va messa in discussione
l’esemplarità etica, ma che in ogni caso può ancor meno valere come
paradigma dell’azione politica.
8
H. LINDAHL, Fault Lines of Globalization. Legal Order and the
Politics of A-Legality, Odford University Press, Oxford 2014, su cui
mi permetto di rinviare a F. CIARAMELLI, “Vers une phénoménologie
de l’a-légalité”, in Etica & Politica, Ethics & Politics XVI, 2014, 2,
pp. 956-964 (http://www2.units.it/etica/2014_2/CIARAMELLI.pdf) e
in generale all’intero dossier sul libro di Lindahl pubblicato nel mede-
simo numero di Etica & Politica, Ethics & Politics e introdotto da un
illuminante dialogo tra Ferdinando G. Menga e lo stesso Lindahl: cfr.
F.G. MENGA, “A-Legality: Journey to the Borders of Law. In Dialogue
with Hans Lindahl”, ivi, pp. 919-939.

 
220 Il dilemma di Antigone

riere che ha fame e vuol mangiare. È evidente che non avreb-


be di che pagare. Il cameriere non sa che fare, si consulta col
maître, e alla fine lo fa entrare e sedere ad un tavolo ai mar-
gini della sala. Quindi lo strano avventore ordina. Quando gli
arriva la portata che ha ordinato, tocca la mano del cameriere
e gli dice: “Siediti, mangia con me”; in altri termini, spiaz-
zandolo completamente, lo invita a cena. Il gesto scompiglia
l’ordine della quotidianità, la coerenza delle regole. Eppure in
questo caso, l’estraneità del migrante, per quanto irriducibile
all’assetto ordinario e abituale della legalità, non è tuttavia
assimilabile ad un atto di illegalità. Quest’ultima, infatti, vio-
lando una legge determinata, è la negazione della legalità,
cioè ne è l’opposto o il contrario. E invece il barbone che en-
tra in un ristorante, chiede di mangiare, si siede a tavola, invi-
ta il cameriere a cenare con lui, sconvolge l’ordine stesso del-
la legalità, pur senza negarla e in ogni caso senza violarne
nessuna norma. Non mira a distruggere la legalità, neanche vi
si oppone, ma vi si sottrae. In questo suo sottrarsi all’ordine
istituito del nomos, in questo sfuggirvi, in questo svincolarsi,
l’a-legalità dimostra di essere non già l’altro dalla legalità
ma il suo estraneo.
Più precisamente, l’illegalità è ciò che l’ordinamento giu-
ridico considera come suo altro, perché si contrappone alle
regole istituite e perciò risulta esterna alle condotte ad esse
conformi che l’ordinamento stesso prevede e ratifica. Vice-
versa, l’estraneo che sopraggiunge nel proprio e che in tal
modo sconvolge l’ordine non è in quanto tale portatore di il-
legalità, ma di uno scompiglio che mette in discussione la re-
golarità normativamente prevista, non perché vi si opponga
con la trasgressione (nel qual caso si verificherebbe l’ille-
galità), ma perché si sottrae alle regole prestabilite, fuoriesce
dal loro ambito. A-legale non vuol dire illegale, come estra-
neo non vuol dire altro. A-legale vuol dire sottratto alla pre-
stabilita linearità normativa. E in questo modo l’a-legalità
Conclusione 221

dell’estraneo – di chi si sottrae all’ordine senza violarlo – ci


mette in contatto con la genealogia dell’ordinamento giuridi-
co o sistema legale. Infatti, le norme giuridiche, nel loro esse-
re istituite – cioè socialmente elaborate e prodotte – non sono
state originate a partire dal presupposto di una legalità preli-
minarmente già determinata, ma invece muovendo da un’as-
senza di legalità, da un’estraneità all’ordine e alla sua stabili-
tà, estraneità che proprio per questo può poi desiderare l’or-
dine e generarne la legalità.
La categoria ‘topologica’ che corrisponde alla a-legalità
nella sua estraneità all’ordine non è quella del confine o del
limite; in realtà, tanto il confine, che può essere spostato,
quanto il limite, che può essere oltrepassato, sono ciò che ca-
ratterizza il punto di passaggio – e che quindi rende possibile
la transizione – dalla legalità all’illegalità (cioè il capovolgi-
mento dell’una nell’altra che ne costituisce l’opposto). Vice-
versa, la reciproca estraneità tra legalità e a-legalità è, secon-
do Lindahl, espressa e salvaguardata dalla linea di faglia, o
linea di frattura, ossia da qualcosa che non si può spostare
perché si radica nelle radici o profondità ‘magmatiche’ del-
l’esperienza. La linea di faglia, come simbolo dell’a-legalità,
è al di sotto allo spazio nel quale ci muoviamo; rispetto ad es-
sa ci possiamo solo di volta in volta posizionare, ma è escluso
che riusciamo a spostarla perché essa costituisce il fondo a
partire da cui istituiamo le regole; e quindi non è mai la con-
seguenza di quelle che abbiamo istituito o trasgredito. La a-
legalità, in quanto “irruzione del magma sociale nell’ordina-
mento giuridico” 9, fa rivivere all’interno di quest’ultimo l’esi-
genza dell’alterazione radicale delle pretese normative.

9
H. LINDAHL, op. cit., p. 186.

 
222 Il dilemma di Antigone

4. A una simile a-legalità fa pensare la testimonianza di


Antigone. Certo Creonte vede in lei l’illegalità pura e sempli-
ce, e perciò la condanna senz’appello. E d’altra parte lei stes-
sa si autorappresenta come esecutrice d’una legge più alta,
che disconosce il divieto di Creonte. Di conseguenza, i punti
di vista contrapposti di Antigone e Creonte restano interni al-
la paralizzante antitesi legalità/illegalità, dalla quale è invece
opportuno liberarsi per cogliere il senso teatrale della messin-
scena e l’insegnamento che possiamo ricavarne.
Più che alla disastrosa opposizione di legalità e illegalità,
l’Antigone pone il problema – l’esigenza – della legittima-
zione di ciò che si sottrae alla legalità istituita, senza però
contrapporvisi producendo la sua negazione (cioè l’illega-
lità), ma interrompendola, cioè destituendone la struttura op-
positiva. Ciò esige un ripensamento dell’opposizione irrigi-
dita legalità/illegalità, per riuscire a farne emergere l’origine,
il momento istituente (ch’è al tempo stesso destituente).
L’interruzione è sempre anche una via d’uscita, la possibilità
d’una trasformazione radicale dell’ordine dato. Nel tenere
sempre aperta questa possibilità consiste l’unica plausibile
forma di legittimazione dell’ordine sociale: una forma di le-
gittimazione non illusoriamente ontologica, non astrattamen-
te protesa a una soluzione ultima e definitiva del dilemma
della democrazia, ma una legittimazione esplicitamente pras-
seologica, dove la legittimità è sempre soltanto l’esito prov-
visorio e quindi rinegoziabile delle interazioni e interlocu-
zioni capaci di riflettere su sé stesse e perciò sempre di nuo-
vo disposte a mettere in discussione i limiti del legittimo e
dell’illegittimo.
Anche in una prospettiva ontologica, secondo la quale
l’ordine della legge non istituisce il dover-essere, ma esibisce
la struttura necessaria dell’essere, la stessa stabilizzazione
giusnaturalistica o tradizionalistica dell’ordine, come s’è vi-
sto analizzando il saggio di D’Agostino sulla crisi dell’obbli-
Conclusione 223

go giuridico 10, non può fare a meno del discernimento dei va-
lori. In tal modo, viene reintrodotta, alla base del diritto nella
sua stessa pretesa universale di oggettività, una dimensione
riflessiva e valutativa, e quindi soggettiva, in una forma che
però rischia d’essere autoritaria, se sottratta a ogni ipotesi di
controllo intersoggettivo. Il che poi in definitiva conferma
che, nel mondo umano della prassi, il problema della legitti-
mazione resta e resterà sempre aperto, non potendo struttu-
ralmente venir mai risolto (e dissolto) una volta per tutte dal
sapere teoretico-speculativo.

5. In un suo saggio, al tempo stesso brillante e profondo,


scritto in punta di penna ma carico di intelligenza e di dottri-
na, un maestro di studi giuridici, quale senz’altro può esser
considerato Tullio Ascarelli, negli anni Cinquanta rileggeva
parallelamente le vicende di Antigone e Porzia, come figure
esemplari del contrasto rivoluzionario tra legge e coscienza
(dal lato di Antigone) e del riformismo interpretativo (dal lato
di Porzia) 11. Di conseguenza, al trionfante sacrificio della
prima faceva seguito nel saggio di Ascarelli l’analisi della
sottigliezza di Porzia, il finto dottore patavino che nel Mer-
cante di Venezia Shakespeare fa intervenire in tribunale a
salvare la vita di Antonio: dunque due casi analoghi, in cui è
drammatizzata la medesima relazione tra la norma e la vita,
ma che hanno avuto esiti contrapposti.
Dopo aver ripercorso i punti salienti del conflitto dramma-
tico tra la norma di diritto storicamente posta e le esigenze
morali della coscienza, attestato dalla tragedia antica, il gran-

10
Cfr. supra, capitolo terzo.
11
T. ASCARELLI, “Antigone e Porzia” (1955), in ID., Problemi giu-
ridici, Giuffrè, Milano 1959, pp. 3-15.

 
224 Il dilemma di Antigone

de giurista romano così introduceva l’originale accostamento:


“La dialettica del pensiero giuridico” che, come nell’opera di
Sofocle, “diviene drammatica quando il cozzo tra la norma
storicamente posta e la coscienza del singolo non può porsi
che come contrasto rivoluzionario”, è tuttavia la medesima
dialettica che “si svolge quotidianamente come che in tono
minore nel continuo lavorio dell’interpretazione. Perché, qua-
le poi è la portata della norma? Ed è qui che ci viene incon-
tro, mal nascondendo sotto la toga un ironico sorriso, la figu-
ra di Porzia” 12. Costei interviene in tribunale in difesa di An-
tonio, il quale, non avendo restituito in tempo una somma di
denaro all’usuraio ebreo Shylock, dovrebbe ripagarlo facen-
dosi tagliare una libbra di carne, secondo quanto stabilito nel
patto precedentemente sottoscritto dai due. Con la sua effica-
ce argomentazione, Porzia riesce a salvarlo. Scrive Ascarelli:
“Abile più che eroica; saggia ed esperta, anziché fanatica-
mente coraggiosa, e forse, nella sua raffigurazione poetica,
con un accento quasi che furbesco, accentuato e insieme no-
bilitato dalla figura muliebre, che fa spuntare il sorriso sotto
l’argomentazione del dottore patavino. A quello che potrebbe
dirsi il puritanismo calvinista di Antigone si contrappone
l’abilità di Porzia, con un che di probabilistico e magari mo-
ralmente persino di ambiguo. Alla morte di Antigone che so-
lo col proprio sacrificio afferma il trionfo della sua verità si
contrappone l’umano trionfo degli interessi, difesi attraverso
una interpretazione che riesce vittoriosa e che si presenta così
come rimunerabile attività professionale” 13.
Qui la nozione d’interesse va intesa anzitutto nel suo senso
etimologico e fa riferimento a ciò che sta nel mezzo, che si
frappone “tra” tra gli interlocutori. “L’umano trionfo degli

12
Ivi, pp. 9-10.
13
Ivi, p. 10.
Conclusione 225

interessi” è la salvaguardia della mediazione che nello spazio


pubblico consente la convivenza e lo scambio delle pretese
private.
Come riesce Porzia a cavare d’impaccio l’amico del suo
fidanzato? Nel suo intervento, essa si guarda bene dal conte-
stare il contenuto del patto, del terribile patto che condanne-
rebbe a morte Antonio. Ma pur concedendone la validità, os-
serva che nel patto si parla di carne e non di sangue, quindi
Shylock può tagliare una libbra di carne, ma non deve far
scorrere neanche una goccia di sangue. Poiché una cosa del
genere è impossibile, il patto, senza essere dichiarato invalido
o illegittimo, risulta irrealizzabile. In tal modo Antonio ha
salva la vita. Commenta Ascarelli: “Il deus ex machina di
questo dramma che finisce in letizia è così 1’artificio inter-
pretativo di Porzia. Porzia afferma la validità del patto; non si
ribella; non lo taccia di iniquo. Però lo interpreta e, interpre-
tandolo, lo riduce a nulla. La legge positiva è salva, ma pure
superata; il problema non verte sulla legittimità della legge,
ma sulla sua esatta portata; all’imperativo etico che condanna
la legge si sostituisce un gioco più sottile che assume invece
come premessa proprio la legittimità della legge positiva e
solo si preoccupa di determinarne la portata nell’intreccio di
un più complesso gioco di contrastanti interessi” 14.
Ascarelli riconosce che in questo caso oggetto dell’inter-
pretazione è un contratto, che però, ha valore di legge tra le
parti. Ai fini del discorso che egli vuol sviluppare, occorre
notare che “l’argomentazione di Porzia è, nel suo tipo, la co-
stante argomentazione di ogni interprete; il poeta ci indica
nell’argomentare del falso dottore patavino quello che è il
possibile argomentare di ogni dottore e in sostanza sembra
sorridere della tecnica curialesca della interpretazione, e in-

14
Ivi, p. 11.

 
226 Il dilemma di Antigone

sieme volere mostrare le sue infinite risorse […]. Il contrasto


tra il patto e un’esigenza morale che lo condanna non viene
risolto rivoluzionariamente negando il patto; viene, direbbe
qualcuno, aggirato attraverso l’interpretazione. L’interpreta-
zione appunto è e non è il dato interpretato; ne è una costru-
zione e una ricostruzione che spiega, sviluppa, restringe, so-
stanzialmente modifica; sempre riconducendosi al dato inter-
pretato eppur sempre modificandolo. Porzia sembra sorriderci
per ricordarci che ogni legge è alla fine quale interpretata;
ogni legge è quale la fa l’interpretazione che venga accolta e
questa interpretazione in realtà ricostruisce la legge e la può
fare diversa dalla sua prima intelligenza; la viene trasforman-
do col tempo; la adatta e modifica; la sviluppa o la riduce al
nulla” 15.
La centralità dell’interpretazione non può ovviamente oc-
cultare le convinzioni dell’interprete. In questo caso, tali con-
vinzioni comportano la condanna morale della norma. Ma
Porzia, da buon mediatore, non sceglie la strada della nega-
zione etica del patto, attraverso la denuncia della sua validità.
Il movente fondamentale della sua azione è l’esigenza morale
di salvare la vita ad Antonio. Ma anziché appellarsi alle ra-
gioni di principio, sceglie invece la strada dell’efficacia. E la
sua argomentazione ha successo.

6. Ascarelli conclude il suo ragionamento citando e com-


mentando un apologo talmudico 16. Il che indirettamente mi
 

15
Ivi, p. 12.
16
“Discutevano due rabbini sull’interpretazione della legge. E il
primo invocò a prova della sua interpretazione le acque del fiume per-
ché, a conforto della sua tesi, risalissero a monte. E poiché il secondo
negava la validità della prova, il primo invocò la stessa voce celeste
perché questa si facesse udire risolvendo la disputa. E la voce si fece
Conclusione 227

autorizza a fare qualcosa del genere, interrompendo l’analisi


condotta in queste pagine attraverso la citazione d’una lettura
talmudica di Emmanuel Levinas. Commentando un passo del
Talmud in cui si discorre della necessità, postulata dall’ebrai-
smo, d’una duplice adesione alla Legge – adesione alla Legge
scritta, ma anche adesione alla legge orale –, Levinas sostiene
che questa duplicità è resa necessaria dal fatto che la transi-
zione dalla prima alla seconda, cioè la concretizzazione della
legge, la sua applicazione al caso concreto, non è mai sempli-
cemente deduttiva, cioè non è mai solo un processo logico-
conoscitivo, perché fuoriesce dall’ambito ontologico-specula-
tivo e chiama in causa la dimensione etica dei giudizi di valo-
re, delle prese di posizione, delle decisioni. Se il passaggio
dalla generalità della norma alla concretezza del caso partico-
lare “fosse meramente deduttivo, la Legge, come legge parti-
colare, non avrebbe richiesto un’adesione a parte. Ma si dà il
caso – e in questo consiste la grande saggezza la cui consape-
volezza anima il Talmud – che i principi generali e generosi
possano capovolgersi nell’applicazione […]. La grande forza

udire e confermò l’interpretazione proposta. Ma ecco il secondo rab-


bino opporre superbamente: “E che c’entra Dio nelle dispute degli
uomini? Non è forse scritto che la legge è stata data agli uomini e sarà
interpretata secondo l’opinione della maggioranza?”. E quando il Si-
gnore udì la tracotante risposta sorrise e disse: “I miei figli mi hanno
vinto”! La creazione è continua e l’uomo ne è collaboratore”. Anche il
diritto, commenta subito dopo Ascarelli, “non è mai un dato, ma una
continua creazione della quale è continuo collaboratore l’interprete e
così ogni consociato ed appunto perciò vive nella storia ed anzi con la
storia. Il rapporto tra la legge e la sua interpretazione non è quello che
corre tra una realtà e il suo specchio, ma quello che corre tra il seme e
la pianta e perciò la legge vive solo con la sua interpretazione e appli-
cazione, che d’altra parte non è affatto mera sua dichiarazione, ma
creazione di diritto, tuttavia caratterizzata dalla sua continuità col dato
dal quale prende le mosse”, T. ASCARELLI, op. cit., p. 14.

 
228 Il dilemma di Antigone

della casuistica del Talmud consiste nell’essere la disciplina


specifica che nel particolare cerca il momento preciso in cui
il principio generale corre il pericolo di trasformarsi nel suo
contrario, la disciplina dunque che sorveglia il generale a par-
tire dal particolare” 17.
In quest’opera di vigilanza, in questo sorvegliare il genera-
le a partire dal particolare, cioè a partire dai diritti che que-
st’ultimo rivendica e che la ‘dismisura’ di un’applicazione
automatica della legge generale rischierebbe di mettere a re-
pentaglio, consiste il compito etico dell’interpretazione e del-
l’argomentazione giuridica, cioè la mediazione tra ragioni
contrapposte capaci di sottrarre la legge alla hybris: di tutto
questo l’Antigone sofoclea segnalava l’esigenza, lasciando
però agli spettatori la responsabilità creativa di soddisfarla.

17
E. LEVINAS, L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, a
cura di G. LISSA, Guida, Napoli 1986, p. 152 (si tratta d’un passo
estrapolato dal capitolo intitolato “Il patto”, in cui Levinas commenta
un estratto del trattato Sotà 37 a-37b). Sul punto, mi sia permesso di
rinviare a F. CIARAMELLI, La legge prima della legge. Levinas e il
problema della giustizia, Castelvecchi, Roma 2016.

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