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S0REN KIERKEGAARD

E L'ANTROPOLOGIA ESISTENZIALE

S0ren Kierkegaard è un pensatore profondamente e radicalmente an-


timoderno: ed è anche un avversario dichiarato di Hegel, colui in cui la
modernità aveva raggiunto la sua espressione più completa: la soggetti-
vità aveva inghiottito !‫׳‬oggettività, la ragione forte aveva eliminato la fe-
de, l'angoscia del peccato era scomparsa, l'uomo aveva preso il posto di
Dio. Contro Hegel Kierkegaard afferma il primato della fede sulla ra-
gione, l'angoscia insopprimibile del peccato, l'assoluta gratuità della
grazia, l'infinita differenza qualitativa tra l'uomo e Dio.
Ai suoi tempi Kierkegaard fu una figura isolata e incompresa; una
specie di profeta che grida nel deserto. Solo nel secolo XX il suo messag-
gio fu compreso e apprezzato. A partire dagli anni venti le sue opere
furono lette avidamente e vennero tradotte in moltissime lingue, e così in
breve tempo, Kierkegaard divenne la figura dominante sia nel mondo
dei filosofi che in quello dei teologi, e si guadagnò il titolo di padre sia
dell'esistenzialismo filosofico (Heidegger, Jaspers, Sartre, Marcel ecc.) che
dell'esistenzialismo teologico (Barth, Brunner, Tillich, Gogarten ecc.).

Vita e opere
S0ren Kierkegaard è nato a Copenhagen nel 1813, ultimo di sette figli,
da un padre vecchio e malinconico, angosciato dal pensiero dei propri
peccati. Così il piccolo S0ren trascorre un'infanzia priva di spensieratez-
za e sana vitalità. Nel 1830 si iscrive all'università di Copenhagen, nella
facoltà di teologia e si interessa vivamente anche di filosofia e di lettera-
tura. Solo nel 1840 sostiene gli esami di teologia per diventare pastore.
Nello stesso anno si fidanza con Regina Olsen, ma dopo poco tempo in-
terrompe il fidanzamento, forse per essere più libero di adempiere la
missione religiosa a cui si sentiva chiamato. Nel 1841 è a Berlino, dove
ascolta le lezioni di Schelling, che da principio lo entusiasmano ma poi
lo deludono.
Durante gli ultimi anni della sua breve esistenza Kierkegaard lotta a
fondo contro la Chiesa ufficiale, colpevole, a suo dire, di aver tradito il
cristianesimo riducendolo a mero convenzionalismo e a formalismo
104 Kierkegaard

ritualistico. Ovviamente «religiosamente Kierkegaard era dentro la


Chiesa, ma come critico della Chiesa egli fu forse ancora più radicale di
Marx e Nietzsche messi insieme» (P. Tillich).
Kierkegaard muore Γ11 novembre 1855. Prima di morire gli è stato
chiesto se le sue speranze fossero riposte nella grazia di Dio, in Gesù
Cristo, ed egli ha risposto: «Naturalmente, in chi altro?».
La sua produzione letteraria, brillante e amante del paradosso, è
piuttosto vasta. Dopo la pubblicazione, nel 1841, della tesi per il dottora-
to in filosofia, Sul concetto di ironia, seguirono a breve distanza di tempo
tutte le altre opere: nel 1843 Aut-Aut, negli anni 184445‫ ־‬Timore e Tremore,
La ripetizione, Il Concetto di angoscia, Briciole filosofiche, Stadi sul cammino
della vita, I discorsi edificanti. Nel 1846 uscì con Io pseudonimo di Joannes
Climacus la Postilla conclusiva non scientifica alle "Briciole filosofiche'', che è
la sua opera filosoficamente più impegnata e più profonda. Nel 1849
uscirono La malattia mortale ed Esercizio del cristianesimo. Postumo è usci-
to il suo vastissimo Diario (in dodici volumi).

La critica dell'hegelismo
Il punto di partenza del pensiero di Kierkegaard è la filosofia siste-
matica di Hegel, una filosofia in cui il singolo, l'individuo è preso e di-
vorato da quell'idra ingorda e vorace che è il sistema onnicomprensivo
di Hegel. Il sistema hegeliano è il bersaglio costante delle critiche acute,
miste di ironia e di dialettica pungente, di Kierkegaard.
Le critiche alla speculazione sistematica hegeliana sono più compiu-
tamente espresse da Kierkegaard nella Postilla conclusiva non scientifica,
cioè nell'opera che ha più scopertamente l'ambizione di erigersi a difesa
della grande Logica di Hegel. Da questo punto di vista, le proposizioni
fondamentali e fondamentalmente antihegeliane della Postilla possono
sintetizzarsi in due tesi: a) speculazione è astrazione; b) l'esistenza è il
Primum: l'inizio è il salto. L'astrattività del sistema hegeliano come spe-
culativo fa capo, infatti, secondo Kierkegaard, al suo iniziare-esaurirsi
nel pensiero puro, il postulato della filosofia che pretende di costituirsi
nel suo rigore come autonomia da ogni postulato, mentre il postulato
della filosofia è !'esistenza, prima e al di là della possibilità per la filoso-
fia di costituirsi come filosofia:
«per il fatto che il pensare e !'esistere sono coesistenti nell'esistenza,
in quanto un soggetto esistente è un soggetto pensante, esistono allo-
ra due medi: l'astrazione e la realtà. Ma il pensiero puro è qui un
terzo medio e costituisce un'invenzione nuova. Esso comincia in
seguito all'astrazione più spossante. Circa il rapporto che l'astrazione
Kierkegaard 105

mantiene sempre con ciò da cui astrae, il pensiero puro, non ne sa


nulla. Questo pensiero puro è la tranquillità da tutti i dubbi, è !'eterna
verità positiva o quanto altro piaccia di dire. Insomma il pensiero
puro è un fantasma. E se la filosofia hegeliana si è sbarazzata di tutti i
postulati, essa vi è riuscita mediante questo postulato pazzesco, d'ini-
ziare col pensiero puro. L'esistere è per !'esistente il suo supremo inte-
resse e !‫׳‬interessamento all'esistere è la sua realtà. Ciò in cui consiste
la realtà non può essere esposto nel linguaggio dell'astrazione».1

Hegel si è di fatto avventurato in uno sforzo grandioso destinato al


fallimento. Il risultato della sua opera è stato la prova più evidente della
radicale intraducibilità del pensiero esistenziale nel movimento dialetti-
co dei concetti. Lo svilupparsi di questi nella totalità conclusa del siste-
ma lascia fuori di sé inevitabilmente la meraviglia e il rischio, il para-
dosso e l'impegno dell'esistenza come riflessione interiore a una prò-
spettiva singolare e temporale. O a dir più precisamente, in quel proces-
so dialettico il filosofo finisce con l'alienarsi dalla propria individualità
di esistente, deformando in una specie di parodia le motivazioni segrete
e imprevedibili, le incertezze e le scelte del proprio pensiero reale. La
condanna del filosofo speculativo o sistematico è di essere la caricatura
di se medesimo, la contraffazione di quanto c'è di singolare, di qualitati-
vo e di semplicemente umano nella sua propria personalità. Sia esso
obiettivamente vero oppure no, il sistema, nel suo porsi come "una cur-
va che si chiude", secondo l'espressione di Hegel, è la maschera comica
di un "povero uomo esistente" travagliato dalle miserie della sua vita
quotidiana.
Così il destino della filosofia sistematica è l'alienazione dalle condì-
Zioni reali del pensatore soggettivo e insieme il suo isolamento da un
rapporto diretto con le cose e dalla possibilità di comunicare con i singo-
li esistenti. È il destino di Hegel, il quale «cominciò soltanto dal punto
dove Carlo V finì (...): in un chiostro a regolare orologi»;2 l'isolamento
della razionalità pura e inutile, «la follia della scienza umana e della filo-
sofia», come direbbe Pascal. «Un filosofo, osserva Kierkegaard, è diven-
tato oggi a poco a poco un essere così fantastico, che appena la fantasia
più sbrigliata ha mai inventato qualcosa di così favoloso».3

1j S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle "Briciole filosofiche", tr. it.,
O Bologna 1962, p. 122.
2) Diario II, A 678.
3) Postilla conclusiva non scientifica..., cit. p. 321.
106 Kierkegaard

Le linee fondamentali
di un'antropologia esistenziale cristiana
Alla pars destruens Kierkegaard associa la pars construens dove presen-
ta la sua filosofia dell'esistente nella sua concretezza e individualità.
I cardini su cui si regge la sua antropologia esistenziale cristiana sono
cinque: il Singolo, !'esistenza, la libertà, l'angoscia (il peccato), la fede.
Vediamoli uno per uno.
Anzitutto viene il Singolo, e per "Singolo" Kierkegaard non intende
l'uomo in quanto animale ragionevole, come individuo dotato di anima
e corpo, come membro della famiglia umana, ma il credente che ha ope-
rato, nella fede, la sua scelta per Dio, ottenendo così la salvezza del suo
essere - della sua libertà - con l'inserzione dell'onnipotente che salva.
II Singolo è la specificazione "positiva" di quello che Kierkegaard chia-
ma anche «l'uomo essenziale» in quanto ogni uomo ha, nel fondo onto-
logico della sua natura ragionevole, la capacità di scelta dell‫׳‬Assoluto e
di rivolgersi a Dio per divenire "spirito". Quella del Singolo non è una
categoria elitaria, ma è la condizione comune di tutti gli uomini. È ima
dottrina imparziale che
«non offende nessuno, neppure uno, che non fa distinzione neppure
per uno. La moltitudine è formata di singoli: deve quindi essere in
potere di ognuno di divenire ciò che egli è: un Singolo. Dall'essere un
singolo, nessuno, nessunissimo è escluso, se non colui che si esclude
da sé - col divenire molti».4

Nel Singolo, ciò che conta per Kierkegaard non è l'essenza, che egli
ritiene una categoria astratta, vuota, ma l'esistenza: è proprio grazie albe-
sistenza che egli diviene singolo. L'esistenza è intesa sia in senso ontolo-
gico, come collocazione nel mondo della storia; sia in senso teologico
come inserimento nel mondo della fede. L'essenza costituisce la sfera del
necessario nella quale nulla diviene, ma tutto è e in esso la scienza cerca
le sue leggi. L'esistenza è invece la sfera del divenire e del contingente e
quindi della storia. L'esistenza riguarda la realtà di fatto, ovvero la sfera
delle cose che possono non essere e tuttavia esistono, dove la possibilità
ha preceduto la realtà. Per Kierkegaard fra possibilità e realtà non c'è
rapporto di causa, ma esse indicano due "stati" dell'essere stesso che
sono separati come non-essere ed essere e quindi dall'infinito. In questa
incommensurabilità di possibilità e realtà che il divenire "trascende"
nell'attuazione della storia consiste l'originalità della "fede".

4) Diario VII, A 176.


Kierkegaard 107

Decisiva per la realizzazione del Singolo come Singolo è la libertà.


Questa, la libertà, è prerogativa dello spirito, e perciò anche dell'uomo
in quanto spirito. Ma contrariamente a Kant e a Hegel che conferivano
allo spirito dell'uomo un potere infinito e che gli accreditavano un'asso‫־‬
luta autonomia in ogni sua decisione, Kierkegaard sottolinea il carattere
fallibile della libertà del Singolo, in quanto egli è uno spirito finito. Tutto
il destino dell'uomo, il Singolo, viene deciso dall'uso della sua libertà:
se si decide per la propria finitudine e sceglie se stesso, è perduto; se si
decide per !'infinito, Dio è salvo. Kierkegaard ha concepito la libertà
dello spirito finito solo sul fondamento di una trascendenza teologica
che è Dio stesso. «La struttura del suo spiritualismo teologico è decisamen-
te teoretica, e sta agli antipodi delle teorie del Glaube di derivazione kan-
tiana, che egli critica espressamente, come delle teorie vitalistiche e irra-
zionalistiche proliferate dopo di lui dalle varie filosofie della vita, del-
!'intuizione e consimili».56
La libertà che Kierkegaard intende difendere non è una "funzione
assoluta" né dell'intelletto né della vita universale, ma scaturisce dalla
decisione del Singolo che si fonda in Dio. Egli critica risolutamente la
"morale autonoma" di Kant come illusione e cosa poco seria, «alla stregua
delle frustate che Sancio Panza si dava da se stesso sulla schiena»/ Infatti
il fondamento della libertà finita - argomenta lucidamente Kierkegaard
nel suo Diario - può essere soltanto la «divina onnipotenza», perché
«soltanto un essere onnipotente può riprendere completamente se stesso
mentre si dona e questo rapporto costituisce appunto l'indipendenza di
colui che riceve».7

L'angoscia e la fede
Dalla presa di coscienza della propria fallibile libertà nasce nel Singolo
]'angoscia circa le sorti del proprio essere e del proprio destino. In tale
angoscia - che può essere eliminata soltanto dalla fede - Kierkegaard
fa consistere !'essenza del peccato, la malattia mortale.
Kierkegaard distingue l'angoscia dalla paura: diversamente da que-
sta, quella non ha un oggetto determinato esterno a se stessa. NeU'ango-
scia l'uomo teme per se stesso. L'angoscia è strettamente legata alla li-
bertà: essa esplode proprio nel momento in cui l'uomo scopre di essere
arbitro di se stesso e si rende conto del rìschio tremendo che tale privile­

5) C. Fabro, Antologia kierkegaardiana, Torino 1952, p. XIX.


6) S. Kierkegaard, Diario, X2, A 396.
7) Ibid., VII, A171.
108 Kierkegaard

gio comporta. L'uomo viene descritto da Kierkegaard come sintesi di fi-


nitudine (corpo) e infinitudine (spirito), di tempo e di eternità, che vive
nell'angoscia dal momento in cui si avvede deH'importanza rispetto a
tale compito. La sintesi tra finitudine e infinitudine nell'io si pone come
«compito... di diventare se stessi, qualcosa che si può realizzare soltanto
nel rapporto con Dio».8 Dato però che l'uomo, con la sua libertà, deve
realizzare qualcosa mediante le proprie forze, si profila quella situazione
esistenziale contraddittoria che sfocia necessariamente nell'angoscia del-
l'uomo peccatore, il quale o vuole disperatamente essere se stesso, cioè
rimanere legato ai limiti dell'umano, o vuole disperatamente non essere
se stesso, misconoscendo la dimensione eterna che si porta dentro.
Peccato e angoscia sono la stessa cosa: il tentativo di basarsi su se
stessi anziché su Dio. Si tratta infatti di un tentativo insubordinato e di-
sperato, perché in tal modo l'uomo, invece di conseguirla, smarrisce la
sua identità, «quel Sé che egli disperatamente vuole essere, è un Sé che
egli non è (...); egli vuole cioè strappare il proprio Sé da quel potere che
lo ha posto».9
Per Kierkegaard l'angoscia (la disperazione) non è tanto un peccato
quanto il peccato: il peccato coincide con la stessa disperazione.10 Preci-
samente esso consiste nel «disperatamente voler essere se stesso»
(disperazione nella "debolezza") o nel «disperatamente non voler essere
se stesso» (disperazione nella "ostinazione"), in quanto però si è disperati
(= deboli oppure ostinati) davanti a Dio. La precisazione davanti a Dio è
della massima importanza, perché designa l'elemento formale del pec-
calo: essa esprime ciò per cui il peccato è tale. È infatti semplicemente
contraddittorio parlare di peccato astraendo da Dio: se Dio non c'è, non
c'è peccato, e se c'è peccato, c'è Dio.
Per quanto concerne l'idea di peccato, Kierkegaard dà ragione alla
«dogmatica antica»,11 che ne aveva colto la vera essenza: se è tale, il pec-
cato non può non essere davanti a Dio. Ed esprimendo la clausola davanti
a Dio come costitutivo formale del peccato, ogni peccato la implica
necessariamente e universalmente. Inoltre, poiché il terminus ad quem del
peccato è Dio che è infinito, il peccato in quanto commesso «contro Dio,
ovvero davanti a Dio»,12 assume il valore di un'offesa infinita.

8) Id., Il concetto di angoscia - La malattia mortale, Firenze 1953, p. 25.


9) Ibid.
10) Cf. M. Gigante, Religiosità in Kierkegaard, Napoli 1982, cap. IX.
u) S. Kierkegaard, Il concetto di angoscia, cit, p. 298.
12) Ibid.
Kierkegaard 109

La perfetta coincidenza tra peccato e disperazione Kierkegaard la


ribadisce esplorando la radice ultima del peccato che egli colloca nella
disubbidienza, cioè nella difformità dalla volontà di Dio. Ora, tutto ciò è
precisamente la disperazione, perché questa consiste proprio nel voler
essere se stessi non come vuole Dio, o nel non voler essere come Dio
vorrebbe che si fosse.13 La disperazione, perciò, in quanto peccato, si ri-
duce alla disubbidienza: la disperazione (= peccato) è il non conformarsi
alla volontà di Dio. Secondo Kierkegaard, l'interpretazione del peccato
come disubbidienza è l'unica che corrisponde alla Scrittura che definisce
sempre il peccato come disubbidienza.14
Dal peccato (l'angoscia, la disperazione) il Singolo esce soltanto
mediante la fede, riponendo cioè tutta la propria fiducia in Dio. In
Kierkegaard la fede svolge lo stesso ruolo centrale che questa categoria
svolge nella teologia di Lutero. Justus ex fide vivit è il cardine che sorregge
tutto !‫׳‬edificio teologico sia di Kierkegaard sia di Lutero. In II concetto di
angoscia leggiamo: «Il contrario del peccato è la fede, come si dice nella Lettera
ai Romani: "Tutto ciò che non è dalla fede è peccato" (Rm 14,23)».15
La fede di cui parla Kierkegaard si riferisce ovviamente alla fede
soprannaturale. Il suo oggetto è V inverosimile16 La fede non è una possi-
bilità che si schiude all'uomo in forza della sua libertà, ma è sempre
attesa come dono di Dio. Per l'uomo disperato l'unica salvezza è credere
che tutto è possibile: «Credere vuol dire perdere !'intelletto, onde con-
quietare Dio».17 Per alcune situazioni si può delineare una soluzione; ma
quando ci si dibatte in un labirinto senza via di scampo, o quando si
ritorna sempre sui propri passi come in un vicolo cieco, è allora che si
presenta la fede come unica possibilità. Occorrerà decidere se credere e
guarire o non credere e inabissarsi nei gorghi della disperazione. Questa
è la lotta per la fede.

«Così è la serietà della fede, la cui vera lotta è lottare con Dio; la lotta
col mondo, i suoi dolori e le sue gioie, sono come imo scherzo. Per
questo la fede è la vittoria che vince il mondo; anzi fa più che vincere,
perché riduce questa lotta a qualcosa di trascurabile».18

13) Cf. ibid., p. 299.


14) Cf. ibid., p. 300.
15) Ibid., p. 302.
16) Cf. Diario VII, A 203.
17) Il concetto di angoscia, cit., p. 246.
18) Diario VII, A 207.
110 Kierkegaard

«Se colui che è impegnato in questa lotta debba soccombere, ciò


dipende esclusivamente dalla questione se riuscirà a trovare la possi-
bilità, cioè se egli vuole credere. Eppure egli comprende che, umana-
mente parlando, la sua rovina è sicurissima. Questo è il momento dia-
lettico della fede».19

E cioè se si voglia credere o meno:


«Credere nella propria rovina è impossibile; ma comprendere di tro-
varsi, umanamente, di fronte alla propria rovina e credere tuttavia
nella possibilità, è credere. E allora Dio aiuta l'uomo, forse facendogli
scampare l'orrore, forse per mezzo dell'orrore stesso, il quale in modo
miracoloso (...) si presenta per aiuto. Se un uomo sia stato aiutato con
un miracolo, ciò dipende essenzialmente dalla passione della ragione
con la quale ha compreso che l'aiuto era impossibile, e poi dal conte-
gno onesto che egli dimostra verso la potenza che l'ha aiutato. Ma di
solito gli uomini non fanno né l'uno né l'altro; si mettono a gridare
che l'aiuto è impossibile, senza avere una sola volta impiegato la loro
intelligenza per trovare l'aiuto e poi, eccoli questi ingrati che si metto-
no a dir bugie. II credente possiede il contravveleno eternamente
sicuro contro la disperazione: la possibilità, perché a Dio tutto è pos-
sibile in qualsiasi momento. Questa è la sanità della fede che risolve
le contraddizioni».20

La fede è concepita da Kierkegaard come un salto dal mondo delle cer-


tezze razionali a un mondo senza prove e senza garanzie. La mancanza
di garanzie oggettive fa sì che la fede sia vissuta come un rischio, ma, se-
condo Kierkegaard, la sua accettazione non è irrazionale, bensì semplice-
mente paradossale. La fede è un rischio perché il suo oggetto è il paradosso,
una verità che oltrepassa gli schemi della ragione umana, una verità
priva di evidenza oggettiva. Scrive Kierkegaard nella Postilla conclusiva:

«Il credente non solo possiede ma usa la ragione... Per quello che
riguarda la religione cristiana egli crede contro la ragione e in questo
caso usa la ragione per accertarsi che crede contro la ragione... Il cri-
stiano non può accettare l'assurdo contro la ragione perché questa si
accorgerebbe che è assurdo e lo respingerebbe. Egli adopera quindi la
ragione, per diventare consapevole deU'incomprensibile e poi si at-
tacca ad esso e crede anche contro ragione».21

19) Il concetto di angoscia, cit., p. 247.


20j Ibid., p. 248.
21) Postilla conclusiva..., cit., tr. ingl. (Concluding Unscientific PostScript') di S. Swenson.
Kierkegaard 111

L'infinita differenza qualitativa tra l'uomo e Dio


La fede, nonostante il grande rischio che essa comporta, fa fare al
Singolo il salto decisivo: dal mondo con tutte le sue sicurezze, i suoi
trionfi, le sue conquiste, verso Dio, Γinverosimile. Ma chi è Dio che chia-
ma l'uomo a rischiare tutto il temporale in vista dell'eterno, del finito in
vista dell'infinito?
Il principio primo, la verità fondamentale su cui poggia tutto l'edifi-
ciò teologico kierkegaardiano è che Dio è separato dall'uomo e da ogni
altra creatura da un'infinita differenza qualitativa. Scrive Kierkegaard:
«Fra l'uomo e Dio c'è una differenza eterna, essenziale, qualitativa,
tale che nessuno senza presunzione può permettersi di annullare
mediante l'asserzione blasfema che Dio e l'uomo sarebbero certamen-
te differenti nel momento transitorio dell'esistenza temporale, cosic-
ché in questa vita l'uomo dovrebbe obbedire e adorare Dio, ma nell'e-
temità la differenza si annullerebbe nell'eguaglianza essenziale, così
che Dio e l'uomo diventerebbero eguali, come avviene tra il re e il suo
servo. Ciò è impossibile perché tra Dio e l'uomo c'è una differenza
eterna essenziale e qualitativa».22

Con l'affermazione categorica dell'infinita differenza qualitativa Kierke-


gaard prende decisamente posizione contro Hegel e Schleiermacher,
i quali avevano entrambi eliminata la distanza infinita che separa Dio
dall'uomo, il primo con la teoria che l'uomo è l'automanifestazione del-
l'assoluto; il secondo con la tesi che il sentimento religioso è suscitato
immediatamente e necessariamente dal manifestarsi di Dio nella natura.
Tuttavia, !‫׳‬affermazione dell'infinita differenza qualitativa non impe-
disce a Kierkegaard di mantenere una relazione positiva fra Dio e Tuo-
ino. In effetti egli ammette che l'uomo, prima del peccato originale,
essendo stato creato ad immagine di Dio, aveva una somiglianza con
Dio; ma poi, seguendo Lutero e Calvino, sostiene che l'imago Dei è stata
corrotta dal peccato, che è la pretesa dell'uomo di innalzarsi fino a Dio.23
Invece di restare in relazione con Dio come adoratore, l'uomo ora divie-
ne un idolatra che crede in una relazione immediata con Dio. Il peccato
è proprio questo orgoglio di immediatezza, il cui frutto più amaro è il
fatto di scavare un nuovo abisso tra Dio e l'uomo, più profondo di quel-
lo della infinita differenza qualitativa.

22) Cf. On Authority and Revelation, tr. ingl. di Autorità e Rivelazione, Princeton 1955,
p. 112.
23I Cf. Postilla conclusiva non scientifica, cit, voi. II, p. 219.
112 Kierkegaard

Tutto nell'uomo è stato contaminato dal peccato. A causa del peccato


si stabilisce fra Dio e l'uomo un'assoluta eterogenità non solo a livello
ontologico ma anche epistemologico: «!,interiorità del peccato... è la di-
stanza più grande possibile e più dolorosa dalla verità, quando la verità
è interiorità».24 Dopo la caduta, la ragione non è più in grado di raggiun-
gere la vera conoscenza di Dio; al più essa può dare una definizione
astratta di Lui, come quando lo chiama «il primo motore immobile».25 In
breve, dopo la caduta, l'uomo si trova in una relazione puramente nega-
tiva con Dio sia sul piano ontologico sia su quello epistemologico, e di
conseguenza anche su quello semantico e linguistico: non esistono più
nel linguaggio umano espressioni atte a significare degnamente Dio,
perché sono state tutte insozzate dal peccato.
Ma con la Redenzione Dio stabilisce nuovamente con l'uomo una
relazione positiva. Per opera di Gesù Cristo l'uomo è ricreato da Dio,
«il quale annulla la dissomiglianza che esiste fra di loro»,26 offrendosi al-
l'uomo come oggetto di conoscenza e d'amore. Specialmente nell'amore
si realizza una nuova analogia fra Dio e l'uomo, perché «la natura di Dio
è amore».27
«È per amore che Dio si è deciso fin dall'eternità a rivelarsi; ma come
il suo amore è la causa, parimenti l'amore deve essere il fine; perché
sarebbe veramente una contraddizione che Dio avesse una causa di
movimento ed un fine che non fosse ad essa corrispondente. Bisogna
allora che l'amore si indirizzi al discepolo e il fine sia quello di guada-
gnarselo; perché solo nell'amore il diverso diventa eguale, solo nell'u-
guaglianza ovvero nell'unità c'è comprensione; ma senza la perfetta
comprensione Dio non è il Maestro, a meno che la causa sia da cerca-
re da parte del discepolo che non vuole ciò che è stato reso possibile
per lui».28

Kierkegaard distingue due tipi di religiosità: A e B. Alla prima si acce-


de con la ragione, alla seconda con la fede. La religiosità A non è in gra-
do di vincere il dubbio, l'angoscia e il peccato. Il massimo a cui può arri-
vare è il "pentimento" del peccato e !'"aspirazione" all'ideale. Solo nella
religiosità B l'uomo ottiene la salvezza per la fede nelTUomo-Dio, Gesù
Cristo. L'oggetto della fede è questo "paradosso assoluto": la persona
deH'Uomo-Dio in quanto presenta Dio che è entrato nel tempo e si è
fatto storia.

24) Ibid., p. 78.


25) Diario, voi. I, p. 184.
26) Postilla conclusiva non scientifica, cit., voi. I, p. 115.
27) Ibid., p. 331.
28) Ibid., p. 115.
Kierkegaard 113

Questa verità paradossale, che Cristo è allo stesso tempo Uomo e


Dio, va presa alla lettera senza sotterfugi e senza inganni. Kierkegaard
non ama né apprezza le complesse argomentazioni con cui i Padri e gli
scolastici hanno cercato di spiegare il mistero di Cristo e ha parole molto
severe nei confronti delle speculazioni teologiche dei propri contempo-
ranei. Ecco un brano significativo di L'esercizio del cristianesimo, a questo
riguardo:
«La speculazione ha naturalmente creduto di poter "concepire"
!'Uomo-Dio e, si intende, perché la speculazione lo spoglia delle
determinazioni di temporalità, di contemporaneità, di realtà. Insom-
ma non si esagera a dire che ciò significa semplicemente abbandonar-
si a deEe buffonate e farsi beffe della gente: è triste e terribile vedere
che quest'atteggiamento è stato celebrato come profondità apparte-
nente aU'Uomo-Dio. No, è la situazione, quella situazione in cui l'in-
dividuo che ti sta a lato è l'Uomo-Dio. L'Uomo-Dio non è l'unità di
Dio e dell'uomo, una simile terminologia è una profonda illusione
ottica. L'Uomo-Dio è l'unità di Dio e di un individuo particolare. Che
il genere umano sia o debba essere imparentato con Dio è concezione
del paganesimo antico; ma che un uomo particolare sia Dio è dottrina
del cristianesimo, e quest'uomo particolare è l'Uomo-Dio. Né in cielo,
né in terra, né all'inferno, né nei traviamenti del pensiero più fantasti-
co si incontra la possibilità di una associazione così pazzesca per la
nostra ragione. Lo si riconosce quando si è nella situazione della con-
temporaneità, e non c'è possibilità di rapporto con l'Uomo-Dio senza
mettersi prima in questa situazione».29

Il Cristo di Kierkegaard non ha nulla a che vedere con i Cristi roman-


tici ed edulcorati dei quali è prodigo !‫׳‬immaginario del XIX secolo. Egli
possiede l'austerità e l'integrità del profondo Medio Evo. «Π Cristo di
Kierkegaard risente dei rudi assalti condotti contro la Chiesa stabilita.
Ma Kierkegaard non è unilaterale, è anche capace di tenerezza; sa, lui
camminatore solitario, camminare con il Cristo che si commuove per i
gigli dei campi e gli uccelli del cielo».30

29) L'esercizio del cristianesimo, in Antologia kierkegaardiana, a cura di C. Fabro, Torino


1952, p. 103.
30) X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo, Brescia 1991, p. 213.
114 Kierkegaard

Conclusione
Kierkegaard è l'antimoderno per antonomasia, ed è sicuramente per
questo motivo che egli non fu né compreso né accettato dai suoi contem-
poranei. Egli è antimoderno in modo non meno radicale di Nietzsche,
ma mentre questi combatte la modernità in nome di Dioniso e dell'Anti-
cristo, Kierkegaard la combatte in nome di Cristo.
La passione per l'uomo collega il geniale pensatore danese alla mo-
demità, ma allo stesso tempo fa di lui il critico più severo, il nemico più
irriducibile della modernità. Mentre infatti il vessillo della modernità è
!'immanenza, il vessillo di Kierkegaard è la trascendenza; la bandiera
della modernità è la secolarizzazione, la bandiera di Kierkegaard è il cri-
stianesimo. La modernità è l'esaltazione esasperata dell'uomo "senza
Dio"; Kierkegaard è la meditazione incessante e profonda dell'uomo da-
vanti a Dio.
Kierkegaard è stato definito il padre dell'esistenzialismo sia filosofico
che teologico, ma questo titolo non rende pienamente giustizia al suo
pensiero, perché il suo esistenzialismo è estraneo sia alla sistematicità
dell'esistenzialismo teologico di Barth e Tillich, ed anche alla laicità del-
!‫׳‬esistenzialismo filosofico di Heidegger e Sartre. L'esistente, il Singolo
di cui si occupa Kierkegaard con tanta passione in tutti i suoi scritti è
l'uomo, il Singolo davanti a Dio. Per questo il suo uomo non ha nulla a
che vedere con l'uomo della modernità. L'uomo di cui si occupa il filo-
sofo danese non è l'uomo della soggettività e dell'immanenza, l'uomo
sovrano di se stesso e del mondo (il microcosmo) degli umanisti, l'uomo
miscredente degli illuministi, l'uomo maturo e autonomo di Kant. Que-
sto per Kierkegaard non è il vero uomo, ma l'uomo decaduto, l'uomo
peccatore. Su questo punto la sua dissociazione da Schleiermacher e dal-
la teologia liberale del suo tempo è totale. La loro preoccupazione era
identica: rendere comprensibile il rinnovamento dell'uomo per opera di
Dio ai propri contemporanei. Ma mentre Schleiermacher cerca di conse-
guire questo risultato percorrendo la strada dell'armonia, Kierkegaard
lo fa percorrendo la strada del conflitto.
La dialettica di Kierkegaard non è una dialettica pasticciata come
quella di Hegel, dove presto o tardi tutti finiscono per trovarsi d'accordo
grazie ad una sintesi superiore. Quello di Kierkegaard è un autentico
Aut-Aut: o fede o ragione, o filosofia o cristianesimo. Per Kierkegaard è
impossibile servire due padroni: Dio e il mondo, la verità e la menzogna,
Cristo e Hegel. E la sua scelta rischiosa e coraggiosa, in un mondo che
aveva già abbandonato Cristo e che si avviava alla "morte di Dio", è sta-
ta per la via «che è Cristo, questa via stretta: essa è stretta sin dall'inizio».
Così la sua è una antropologia esistenziale radicalmente cristiana.

-li
Kierkegaard 115

Suggerimenti bibliografici
f. Colette, Histoire et absolu. Essai sur Kierkegaard, Paris 1962.
C. Fabro, Kierkegaard critico di Hegel, in Incidenza di Hegel, a cura di E Tessi-
tore, Napoli 1970, pp. 497-563.
M. Gigante, Religiosità di Kierkegaard, Napoli 1972.
D. J. Gouwens, Kierkegaard as a religious Thinker, Cambridge, New York 1996.
M. Heymel, Das Humane Lernen. Glaube und Erziehung bei S. Kierkegaard,
1 Gottingen 1988.
R. Jolivet, Aux sources de l'existentialisme chrétien. Kierkegaard, Paris 1958.
J. Kelleberger, Kierkegaard and Nietzsche. Faith and eternai acceptance,
f New York 1997.
M. Nicoletti, La dialettica dell'incarnazione. Soggettività e storia nel pensiero
di Kierkegaard, Bologna 1983.
S. Spera, Introduzione a Kierkegaard, Bari 1983.
J. Wahl, Etudes kierkegaardiennes, Paris 1938.

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