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La poesia come "nido" che protegge dal mondo

Per Pascoli la poesia ha natura irrazionale e con essa si può giungere alla verità di ogni cosa; il poeta deve
essere un poeta-fanciullo che arriva a questa verità mediante l'irrazionalità e l'intuizione. Rifiuta quindi la
ragione e, di conseguenza, rifiuta il Positivismo, che era l'esaltazione della ragione stessa e del progresso,
approdando così al decadentismo. La poesia diventa così analogica, cioè senza apparente connessione tra
due o più realtà che vengono rappresentate; ma in realtà una connessione, a volte anche un po' forzata, è
presente tra i concetti, e il poeta spesso e volentieri è costretto a voli vertiginosi per mettere in
comunicazione questi concetti. La poesia irrazionale o analogica è una poesia di svelamento o di scoperta e
non di invenzione. I motivi principali di questa poesia devono essere "umili cose": cose della vita
quotidiana, cose modeste o familiari. A questo si unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui presenze
aleggiano continuamente nel “nido”, riproponendo il passato di lutti e di dolori e inibendo al poeta ogni
rapporto con la realtà esterna, ogni vita di relazione, che viene sentita come un tradimento nei confronti
dei legami oscuri, viscerali del “nido”. Il "nido" è simbolo della famiglia e degli affetti, rifugio dalla violenza
del mondo e della storia.

Il duomo, al cui suono della campana si fa riferimento ne L'ora di Barga

Nella vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché costantemente la contrapposizione
problematica tra mondo cittadino e mondo agreste, intesi come portatori di valori opposti: mentre la
campagna appare sempre più come il "paradiso perduto" dei valori morali e culturali, la città diviene
simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della degradazione morale causata da un
ideale di progresso puramente materiale. Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce
dell'arretratezza economica e culturale di gran parte dell'Italia rispetto all'evoluzione industriale delle
grandi nazioni europee, sia come conseguenza della divisione politica e della mancanza di una grande
metropoli unificante come erano Parigi per la Francia e Londra per l'Inghilterra. I "luoghi" poetici della
"terra", del "borgo", dell'"umile popolo" che ricorrono fino agli anni del primo dopoguerra non fanno che
ripetere il sogno di una piccola patria lontana, che l'ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai
del tutto.

Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli
tipicamente ideologici degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive. Nel 1899
scrisse al pittore De Witt: «C'è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e
familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è gran consolazione, la quale
pure non basta a liberarci dall'immutabile destino».[30]

In questa contrapposizione tra l'esteriorità della vita sociale (e cittadina) e l'interiorità dell'esistenza
familiare (e agreste) si racchiude l'idea dominante - accanto a quella della morte - della poesia pascoliana.
Dalla casa di Castelvecchio, dolcemente protetta dai boschi della Media Valle del Serchio, Pascoli non "uscì"
più (psicologicamente parlando) fino alla morte. Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni
poetiche e saggistiche, e accettando nel 1905 di succedere a Carducci sulla cattedra dell'Università di
Bologna, egli ci ha lasciato del mondo una visione univocamente ristretta attorno ad un "centro",
rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.
Fu come se, sopraffatto da un'angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento
intellettuale del componimento poetico l'unico mezzo per costringere le paure e i fantasmi dell'esistenza in
un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane.
A questo "recinto" poetico egli lavorò con straordinario impegno creativo, costruendo una raccolta di versi
e di forme che la letteratura italiana non vedeva, per complessità e varietà, dai tempi di Chiabrera.[senza
fonte] La ricercatezza quasi sofisticata, e artificiosa nella sua eleganza, delle strutture metriche scelte da
Pascoli - mescolanza di novenari, quinari e quaternari nello stesso componimento, e così via - è stata
interpretata come un paziente e attento lavoro di organizzazione razionale della forma poetica attorno a
contenuti psicologici informi e incontrollabili che premevano dall'inconscio. Insomma, esattamente il
contrario di quanto i simbolisti francesi e le altre avanguardie artistiche del primo Novecento proclamavano
nei confronti della spontaneità espressiva.

Frontespizio di un'edizione del discorso socialista e nazionalista di Pascoli La Grande Proletaria si è mossa,
in favore della guerra di Libia.

Anche se l'ultima fase della produzione pascoliana è ricca di tematiche socio-politiche (Odi e inni del 1906,
comprendenti gli inni Ad Antonio Fratti, Al re Umberto, Al Duca degli Abruzzi e ai suoi compagni, Andrée,
nonché l'ode, aggiunta nella terza edizione, Chavez; Poemi italici del 1911; Poemi del Risorgimento,
postumi; nonché il celebre discorso La grande Proletaria si è mossa, tenuto nel 1911 in occasione di una
manifestazione a favore dei feriti della guerra di Libia), non c'è dubbio che la sua opera più significativa è
rappresentata dai volumi poetici che comprendono le raccolte di Myricae e dei Canti di Castelvecchio
(1903), nei quali il poeta trae spunto dall'ambiente a lui familiare come la Ferrovia Lucca-Aulla ("In
viaggio"), nonché parte dei Poemetti. Il "mondo" di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell'anima dal
quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati.

«Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci
distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D'altra parte queste
poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c'è visione che più campeggi o sul bianco della gran nave o
sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non
c'è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle
cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie. Crescano e fioriscano intorno all'antica tomba della mia
giovane madre queste myricae (diciamo cesti o stipe) autunnali.»

(Dalla Prefazione di Pascoli ai Canti di Castelvecchio)

Il poeta e il fanciullino

«Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o
demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro Giosuè Carducci, un
artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli
l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il
modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra [...]»

(Da Il fanciullino)
Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del
fanciullino, da lui stesso esplicitata nello scritto omonimo apparso sulla rivista Il Marzocco nel 1897. In tale
scritto Pascoli, influenzato dal manuale di psicologia infantile di James Sully e da La filosofia dell'inconscio di
Eduard von Hartmann, dà una definizione assolutamente compiuta - almeno secondo il suo punto di vista -
della poesia (dichiarazione poetica). Si tratta di un testo di 20 capitoli, in cui si svolge il dialogo fra il poeta e
la sua anima di fanciullino, simbolo:

dei margini di purezza e candore, che sopravvivono nell'uomo adulto;

della poesia e delle potenzialità latenti di scrittura poetica nel fondo dell'animo umano.

Caratteristiche del fanciullino:

"Rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo tinnulo
squillo come di campanella".

"Piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione".

"Guarda tutte le cose con stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causa - effetto, ma
intuisce".

"Scopre nelle cose le relazioni più ingegnose".

"Riempie ogni oggetto della propria immaginazione e dei propri ricordi (soggettivazione), trasformandolo in
simbolo".

Una rondine. Gli uccelli e la natura, con precisione del lessico zoologico e botanico ma anche con
semplicità, sono stati spesso cantati da Giovanni Pascoli

Il poeta allora mantiene una razionalità di fondo, organizzatrice della metrica poetica, ma:

Possiede una sensibilità speciale, che gli consente di caricare di significati ulteriori e misteriosi anche gli
oggetti più comuni;

Comunica verità latenti agli uomini: è "Adamo", che mette nome a tutto ciò che vede e sente (secondo il
proprio personale modo di sentire, che tuttavia ha portata universale).

Deve saper combinare il talento della fanciullezza (saper vedere), con quello della vecchiaia (saper dire);

Percepisce l'essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica.

La poesia, quindi, è tale solo quando riesce a parlare con la voce del fanciullo ed è vista come la perenne
capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell'uomo anche
quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa. È una
realtà ontologica. Ha scarso rilievo per Pascoli la dimensione storica (egli trova suoi interlocutori in Omero,
Virgilio, come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo): la poesia vive fuori dal tempo ed esiste in quanto
tale. Nel fare poesia una realtà ontologica (il poeta-microcosmo) si interroga su un'altra realtà ontologica (il
mondo-macrocosmo); ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà circostante senza che il
proprio punto di vista personale e preciso interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di se stesso,
tranne in poche poesie, in cui esplicitamente parla della sua vicenda personale. È vero che la vicenda
autobiografica dell'autore caratterizza la sua poesia, ma con connotazioni di portata universale: ad esempio
la morte del padre viene percepita come l'esempio principe della descrizione dell'universo, di conseguenza
gli elementi autenticamente autobiografici sono scarsi, in quanto raffigura il male del mondo in generale.
Tuttavia, nel passo XI de "Il fanciullino", Pascoli dichiara che un vero poeta è, più che altro, il suo
sentimento e la sua visione che cerca di trasmettere agli altri. Per cui il poeta Pascoli rifiuta:

il Classicismo, che si qualifica per la centralità ed unicità del punto di vista del poeta, che narra la sua opera
ed esprime le proprie sensazioni.

il Romanticismo, dove il poeta fa di sé stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita, poesia.

La poesia, così definita, è naturalmente buona ed è occasione di consolazione per l'uomo e il poeta. Pascoli
fu anche commentatore e critico dell'opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale "Biblioteca dei
Popoli". Il limite della poesia del Pascoli è costituito dall'ostentata pateticità e dall'eccessiva ricerca
dell'effetto commovente. D'altro canto, il merito maggiore attribuibile al Pascoli fu quello di essere riuscito
nell'impresa di far uscire la poesia italiana dall'eccessiva aulicità e retoricità non solo del Carducci e del
Leopardi, ma anche del suo contemporaneo D'Annunzio. In altre parole, fu in grado di creare finalmente un
legame diretto con la poesia d'Oltralpe e di respiro europeo. La lingua pascoliana è profondamente
innovativa: essa perde il proprio tradizionale supporto logico, procede per simboli e immagini, con brevi
frasi, musicali e suggestive.

La poesia cosmica

L'ammasso aperto delle Pleiadi (M45), nella costellazione del Toro. Pascoli lo cita col nome dialettale di
"Chioccetta" ne Il gelsomino notturno. La visione dello spazio buio e stellato è uno dei temi ricorrenti nella
sua poesia

Fanno parte di questa produzione pascoliana liriche come Il bolide (Canti di Castelvecchio) e La vertigine
(Nuovi Poemetti). Il poeta scrive nei versi conclusivi de Il bolide: "E la terra sentii nell'Universo. / Sentii,
fremendo, ch'è del cielo anch'ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella". Si
tratta di componimenti permeati di spiritualismo e di panteismo ( La Vertigine). La Terra è errante nel
vuoto, non più qualcosa di certo; lo spazio aperto è la vera dimora dell'uomo rapito come da un vento
cosmico. Scrive il critico Giovanni Getto: " È questo il modo nuovo, autenticamente pascoliano, di avvertire
la realtà cosmica: al geocentrismo praticamente ancora operante nell'emozione fantastica, nonostante la
chiara nozione copernicana sul piano intellettuale, del Leopardi, il Pascoli sostituisce una visione
eliocentrica o addirittura galassiocentrica: o meglio ancora, una visione in cui non si dà più un centro di
sorta, ma soltanto sussistono voragini misteriose di spazio, di buio e di fuoco. Di qui quel sentimento di
smarrita solitudine che nessuno ancora prima del Pascoli aveva saputo consegnare alla poesia".[31][32]

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