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-NAGARJUNA***

Il valore del pensiero di Nāgārjuna risiede nell’oltrepassare l’idea che la


predicazione (pensiero, linguaggio) debba avere un corrispettivo ontologico
(essere – non essere) che la fonda. Una realtà c’è, ed è il linguaggio, nella sua veste
però eminentemente pragmatica, che nulla ha da rendere conto a nessun fondamento,
se non alla predicazione stessa. La nozione di esistenza è ridotta da Nāgārjuna alla
possibilità della predicazione, e poi della predicazione stessa è mostrata la
fallacia logica.

Se si pensa che una cosa esiste, si ha, come conseguenza, la dottrina dell’eternità; se
si pensa che una cosa non esiste, si ha, come conseguenza, la dottrina
dell’annientamento. L’intenditore, perciò, si studi di evitare l’idea dell’esistenza e
della non-esistenza.

Non ha posizioni da difendere e si limita solo a far emergere le contraddizioni e la


relatività di ogni dharma, dimostrando la natura vuota del reale e dimostrando che
su ogni cosa sarebbe opportuno fare silenzio (epochè greca?).

Per un mādhyamika il senso principale di essere un seguace della via di mezzo è per
eccellenza la comprensione della vacuità come termine mediano tra eternalismo e
nichilismo. Dunque la nozione di originazione dipendente (interdipendenza) come
intermedia tra coloro che sostengono l’eternità di un Sé immutabile e i sostenitori del
totale annichilimento alla morte.

Pensiero, Essere e Linguaggio sono in stretta relazione, sono logos, sono


chiasma, sono plesso, sono l'avvolto che avvolge. Questo almeno per il pensiero
occidentale. Per Nagarjuna, invece, al linguaggio non è richiesto di parlare
dell’essere, bensì di testimoniare, attraverso la propria inconsistenza, dell’assoluta
coincidenza di essere e non-essere. Nel buddhismo non è corretto parlare di essere e
di non-essere nei termini dell’originaria contrapposizione occidentale tra essere
eterno ed immutabile (eternalismo) e non-essere altrettanto assoluto (nichilismo). Si
può comunque parlare di essere, cioè di modalità di esistenza delle cose, facendo
riferimento alla nozione di relazione. Si introduce qui il secondo elemento portante
del pensiero buddhista, l’idea che tutto ciò che esiste lo faccia come prodotto e
condizionato, originato in dipendenza da una serie complessa e ramificata di
interazioni.
LE COSE SONO RELAZIONI
Nagarjuna raccontato da Rovelli

Capita poche volte di incontrare un libro capace di influenzare nettamente il nostro


modo di pensare. Ancora più raramente di incontrarne uno di cui non sapevamo nulla.
Mi è capitato. Non è un testo sconosciuto: al contrario è famosissimo, commentato da
secoli da generazioni di studiosi, addirittura venerato. Io non lo conoscevo, e penso
che molti dei miei connazionali italiani, come me, non lo conoscano. L’autore si
chiama Nagarjuna.
È un breve e asciutto testo filosofico scritto 18 secoli fa in India e divenuto classico
di riferimento della filosofia buddhista. Il titolo è una di quelle interminabili parole
indiane, Mulamadhyamakakarika, reso in vari modi, per esempio I versi
fondamentali del cammino di mezzo. L’ho letto nella traduzione inglese di un
filosofo, Jay Garfield, accompagnata da un ottimo commento che aiuta a penetrarne il
linguaggio. Garfield conosce a fondo la tradizione orientale, ma viene dalla filosofia
analitica anglosassone, e presenta le idee di Nagarjuna con la chiarezza e la
concretezza che caratterizzano questa scuola, mettendole in relazione con il pensiero
occidentale.
Non sono capitato su questo libro per caso. Persone disparate mi chiedevano: «Hai
letto Nagarjuna?», soprattutto a seguito di discussioni sulla meccanica quantistica, o
altri argomenti di fondamenti della fisica. Io non ho mai guardato con simpatia ai
tentativi di legare scienza moderna e pensiero orientale antico: mi sono sempre
sembrati tirati per i capelli, riduttivi da entrambi i lati. Ma all’ennesimo: «Hai letto
Nagarjuna?», ho deciso di farlo, ed è stata una scoperta stupefacente.
Il pensiero di Nagarjuna è centrato sull’idea che nulla abbia esistenza in sé.
Tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa
d’altro. Il termine usato da Nagarjuna per descrivere questa mancanza di essenza
propria è «vacuità» (sunyata): le cose sono «vuote» nel senso che non hanno realtà
autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di, qualcosa
d’altro.
Se guardo un cielo nuvoloso — per fare un esempio ingenuo — posso vedervi un
castello e un drago. Esistono veramente là nel cielo un drago e un castello? No,
ovviamente: nascono dall’incontro fra l’apparenza delle nubi e sensazioni e pensieri
nella mia testa, di per sé sono entità vuote, non ci sono. Fin qui è facile. Ma
Nagarjuna suggerisce che anche le nubi, il cielo, le sensazioni, i pensieri, e la mia
testa stessa, siano egualmente null’altro che cose che nascono dall’incontro fra altre
cose: entità vuote.
E io che vedo una stella? Esisto? No, neppure io. Chi vede la stella allora?
Nessuno, dice Nagarjuna. Vedere la stella è una componente di quell’insieme che
convenzionalmente chiamo il mio essere io. «Quello che esprime il linguaggio non
esiste. Il cerchio dei pensieri non esiste» (XVIII, 7). Non c’è nessuna essenza ultima
o misteriosa da comprendere, che sia l’essenza vera del nostro essere. «Io» non è
altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono,
ciascuno dipendente da qualcosa d’altro. Secoli di concentrazione occidentale
sul soggetto svaniscono nell’aria come brina la mattina.
Nagarjuna distingue due livelli, come fanno tanta filosofia e scienza: la realtà
convenzionale, apparente, con i suoi aspetti illusori o prospettici, e la realtà ultima.
Ma porta questa distinzione in una direzione sorprendente: la realtà ultima,
l’essenza, è assenza, vacuità. Non c’è. Ogni metafisica cerca una sostanza prima,
un’essenza da cui tutto il resto possa dipendere: il punto di partenza può essere la
materia, Dio, lo spirito, le forme platoniche, il soggetto, i momenti elementari di
coscienza, energia, esperienza, linguaggio, circoli ermeneutici o quant’altro.
Nagarjuna suggerisce che semplicemente la sostanza ultima … non c’è.
Ci sono intuizioni più o meno simili nella filosofia occidentale che vanno da
Eraclito alla contemporanea metafisica delle relazioni, toccando Nietzsche,
Whitehead, Heidegger, Nancy, Putnam… Ma quella di Nagarjuna è una
prospettiva radicalmente relazionale. L’esistenza convenzionale quotidiana non è
negata, è affermata in tutta la sua complessità, con i suoi livelli e sfaccettature. Può
essere studiata, esplorata, analizzata, ma non ha senso cercarne il sostrato ultimo.
L’illusorietà del mondo, il Samsara, è tema generale del buddhismo; riconoscerla
è raggiungere il Nirvana, la liberazione e la beatitudine. Ma per
Nagarjuna Samsara e Nirvana sono la stessa cosa: entrambi vuoti. Non esistenti.
Allora l’unica realtà è la vacuità? È questa la realtà ultima? No, scrive
Nagarjuna, ogni prospettiva esiste solo in dipendenza da altro, non è mai realtà
ultima, compresa la prospettiva di Nagarjuna: anche la vacuità è vuota di essenza: è
convenzionale. Nessuna metafisica sopravvive. La vacuità è vuota.
Non prendete alla lettera questo mio impacciato tentativo di sintetizzare
Nagarjuna. Ci mancherebbe. Ma da parte mia ho trovato questa prospettiva
straordinaria e sorprendentemente efficace, e continuo a ripensarci.
In primo luogo perché aiuta a dare forma ai tentativi di pensare coerentemente la
meccanica quantistica, dove gli oggetti sembrano misteriosamente esistere solo
influenzando altri oggetti. Nagarjuna non sapeva nulla di quanti, ovviamente, ma
nulla vieta che la sua filosofia possa offrire pinze utili per fare ordine in scoperte
moderne. La meccanica quantistica non quadra con un realismo ingenuo,
materialista o altro; ancora meno con ogni forma di idealismo. Come
comprenderla? Nagarjuna offre uno strumento: si può pensare l’interdipendenza
senza essenze autonome. Anzi l’interdipendenza — questo è il suo argomentare
chiave — richiede di dimenticare essenze autonome. La fisica moderna pullula di
nozioni relazionali, non solo nei quanti: la velocità di un oggetto non esiste in sé,
esiste solo rispetto a un altro oggetto; un campo in sé non è elettrico o magnetico, lo è
solo rispetto ad altro, e così via. La lunga ricerca della «sostanza ultima» della
fisica è naufragata nella complessità relazionale della teoria quantistica dei
campi e della relatività generale … Forse un antico pensatore indiano ci offre
qualche strumento concettuale in più per districarci … È sempre dagli altri che si
impara, dal diverso; e nonostante millenni di dialogo ininterrotto, Oriente e Occidente
hanno ancora cose da dirsi. Come nei migliori matrimoni.
Ma il fascino di questo pensiero va al di là dei problemi della fisica moderna. La
prospettiva di Nagarjuna ha qualcosa di vertiginoso. Sembra risuonare con il meglio
di tanta filosofia occidentale, classica e recente. Con lo scetticismo radicale di Hume,
con la dissoluzione delle domande mal poste di Wittgenstein. Nagarjuna non cade
nelle trappole in cui si impiglia tanta filosofia postulando punti di partenza che
finiscono sempre per rivelarsi a lungo andare insoddisfacenti. Parla della realtà e
della sua complessità, schermandoci dalla trappola concettuale di volerne trovare il
fondamento. È un linguaggio vicino all’anti-fondazionalismo contemporaneo. La sua
non è stravaganza metafisica: è semplicemente sobrietà. E nutre un atteggiamento
etico profondamente rasserenante: è comprendere che non esistiamo che ci può
liberare dall’attaccamento e dalla sofferenza; è proprio per la sua impermanenza,
per l’assenza di ogni assoluto, che la vita ha senso.
Questo è il Nagarjuna filtrato da Garfield. Esistono interpretazioni diverse del testo,
commentato da secoli. Oggi se ne discutono di kantiane, pragmatiste, neoplatoniche,
misticheggianti, zen … La molteplicità di possibili letture non è una debolezza del
libro. Al contrario, è la testimonianza della vitalità e della capacità di parlare che può
avere uno straordinario testo antico. Quello che davvero ci interessa non è cosa
effettivamente pensasse il priore di un monastero nel Sud dell’India di quasi due
millenni or sono — quelli sono affari suoi; ciò che ci interessa è la forza di idee che
emana oggi dalle righe che lui ha scritto, e quanto queste, intersecandosi con
la nostra cultura e il nostro sapere, possano aprirci spazi di pensieri nuovi. Perché
questa è la cultura: un dialogo interminabile che ci arricchisce continuando a nutrirsi
di esperienze, sapere e soprattutto scambi.

Nāgārjuna è il fondatore della scuola Madhyamika (la via di mezzo fra diverse
credenze). Figura ai confini della leggenda. Fu mistico e logico del III° secolo in
India (fu una sola persona?). Demolisce logicamente le categorie illusorie, che per
convenzione chiamiamo realtà, alla ricerca di quell’assoluto inaccessibile. Per prima
cosa dimostra la vacuità della mente polemizzando con le posizioni idealiste secondo
cui il mondo è una creazione illusoria dei nostri processi mentali. Dice infatti che se
non esiste un mondo esterno non può esistere neppure un mondo interno
(autocoscienza) visto che senza oggetti vengono meno anche i soggetti: esiste solo il
vuoto (però la vacuità è inaccessibile concettualmente)! Di consguenza la realtà che
ci appare è fatta solo di relazioni, di profonde ma momentanee interrelazioni: pratitya
samutpada. La natura vuota è relazionale e la natura relazionale è vuota: questa è la
sostanza, questi sono i fenomeni transitori, tutti solo transitori. La realtà ha un valore
relazionale: si tiene in piedi solo grazie alle relazioni.

L’assoluto è assoluto quando non è pensato perché se pensato viene reificato.

Nāgārjuna non vede la realta, e quindi l’esistenza, nei termini di una opposizione tra
essere e non-essere. Egli, al contrario, afferma che è proprio tale opposizione ad
essere fittizia, perche si fonda su una erronea comprensione del rapporto tra essere e
predicazione.

Nāgārjuna afferma che non possiamo dire che il sé “è” immutabile (eternalismo), ma
nemmeno che “non-e” del tutto (nichilismo). Infatti il sé c’e, pero muta, ma questo
mutamento e pur sempre “qualcosa”, anche se indefinibile con le categorie della
logica tradizionale che, ricordiamolo, e autoreferente e non descrive che se
stessa.
Nāgārjuna usa il termine ‘vacuita’ (śūnyatā), ovvero: assenza di natura propria (in
continuita con la definizione presente gia nei discorsi del Buddha). Tale definizione si
chiarisce ulteriormente se la si intende come: impossibilita di definire il reale come
esistente o non-esistente dal punto di vista della visione classica basata
sull’essere/non-essere. Tale mancanza di definizione rende il reale ‘vuoto’ (śūnya)
di esistenza, cioe impossibile da definire nel momento in cui si cerca di
attribuirgli una ‘natura propria’.

La vacuità come termine mediano tra eternalismo e nichilismo.

Nagarjuna è pensatore e filosofo della sunyata (termine inventato dallo stesso


Nagarjuna). Lui afferma che è l'esperienza esistenziale a dimostrare che le cose sono
universalmente sottomesse alle leggi dell'impermanenza (anicca) e della mutua
interdipendenza. Nulla sussiste di incondizionato, stabile, separato (anatta); né la
personalità, né gli elementi di coscienza, né gli eventi e gli oggetti del mondo
naturale, né i sentimenti, né i concetti e i sistemi di idee con cui il reale viene
descritto.

"Queste mie parole", - dice Nagarjuna, - "sono prive di natura propria e perciò io
non vengo meno al mio assunto, né mi si può imputare parzialità alcuna né debbo
addurre nessuna ragione per giustificare questa parzialità"

Pratica la negazione senza alcuna implicazione assertoria: "Se io avessi una qualche
tesi, allora sarei soggetto alla possibilità del controsenso, ma io non ho una mia tesi e
quindi non sono soggetto ad alcun controsenso".

Le cose, tutte le cose e tutti gli eventi, non solo non sono così, ma non sono neppure
il contrario di così.

La critica di Nagarjuna non lascia trasparire la possibilità di attingimento di una


presunta realtà assoluta. L'assoluto è, per Nagarjuna, il ricettacolo capitale della
contraddizione, la proiezione eccellente dell'io e della sua sete di permanenza.

Nagarjuna però mette in discussione la possibilità stessa che si dia relazione


alcuna, laddove la legge dell'universale interdipendenza fa dileguare la realtà stessa
dei relati. Infatti, se concepiamo i termini della relazione come inesistenti in sé
(come vuole l'ortodossia dottrinale buddista) dobbiamo anche ammettere che diventa
incongruente relazionare cose inesistenti. Questo scrive Pasqualotto. Gli si può
obiettare che la relazione intrinseca non ha bisogno dei relati per esistere
essendo essa stessa il senso del tutto.

Spesso citato come "il secondo Buddha" dalle tradizioni asiatiche orientali del
Buddismo Tibetano e Mahayana (Grande Veicolo), il maestro Nagarjuna (nato
intorno al 150 d.C.) fece taglienti critiche alle filosofie Buddista e Brahmanica (pur
essendo quest'ultima la sua origine culturale) sul loro sostanzialismo, la loro teoria
della conoscenza, e gli approcci alla pratica. La filosofia di Nagarjuna (che fu
principalmente un filosofo scettico tipo Pirrone ma usò anche il metodo scettico
come Kant) non solo rappresenta uno spartiacque nella storia della filosofia Indiana,
ma nell'insieme di tutta la storia della filosofia, poiché affronta certi assunti filosofici
che ricorrono così facilmente nel nostro sforzo di comprendere il mondo. Fra questi
assunti vi sono l'esistenza di sostanze permanenti, il movimento lineare e uni-
direzionale della causalità, l'individualità atomica delle persone, la credenza in
un'identità fissa o ‘sé’, le rigide separazioni tra la buona e la cattiva condotta e la
vita benedetta o condizionata. Tutti questi assunti sono stati richiamati in una
questione fondamentale dalla visione unica di Nagarjuna che è radicata nella
intuizione della vacuità (shunyata, nuovo termine coniato da Nagarjuna stesso), un
concetto che non significa "non-esistenza" o "nichilismo" (abhava), ma piuttosto la
mancanza di una esistenza autonoma (nihsvabhava). Il rifiuto dell'autonomia
secondo Nagarjuna non ci lascia con un senso di privazione metafisica o
esistenziale, o la perdita di una qualche speranza per l'indipendenza e la libertà, ma ci
offre invece un senso di liberazione attraverso il suo dimostrare l'interconnessione di
tutte le cose, inclusi gli esseri umani e i modi in cui la vita umana si dispiega nei
mondi naturali e sociali. Il concetto centrale di Nagarjuna, della "vacuità (shunyata)
di tutte le cose (dhamma)", indirizzato all’incessante cambiamento e quindi ad una
natura di ogni fenomeno che non è mai fissa, servì da puntello terminologico del
successivo pensiero filosofico Buddista come vessazione degli opposti sistemi Vedici.
Il concetto aveva fondamentali implicazioni per i modelli filosofici Indiani della
causalità, l’ontologia della sostanza, l’epistemologia, le concettualizzazioni del
linguaggio, etiche e teorie di salvezza e liberazione del mondo, e si dimostrò seminale
perfino per le filosofie Buddiste in India, Tibet, Cina e Giappone, molto diverse da
quelle stesse di Nagarjuna. In realtà, non sarebbe esagerato dire che l’innovativo
concetto di vacuità di Nagarjuna, sebbene fosse ermeneuticamente appropriato in
molti diversi modi per i successivi filosofi sia nell’Asia del Sud che dell’Est, fu
capace di influenzare profondamente il carattere del pensiero Buddista.

La teoria, nella visione di Nagarjuna, era il nemico di tutte le forme di pratica


legittima, sociale, etica e religiosa. Egli fu antimetafisico. Si scaglia contro i
depositari di ogni visione ontologica dell'esistente, contro i tenaci sostenitori di
sostanze e essenze, contro i seguaci dell'idolo dell'identità. Bersaglio diventa
chiunque aderisca acriticamente a concezioni del mondo unilaterali e
assolutizzanti, a chiunque resti attaccato all'idea che le cose siano, di per se stesse,
stabili, autonome e fondate, e che possano essere fatte proprie da un Io stabile,
autonomo e fondante. Si deve invece cogliere la reciproca relazione condizionante
di tutti gli esseri e di tutti gli eventi.

"Chi pensa che una cosa esiste, ha come conseguenza la dottrina dell'eternità. Chi
pensa che una cosa non esiste, ha come conseguenza la dottrina
dell'annientamento. Evitiamo quindi sia l'idea di esistenza che quella di non
esistenza". Oltre il dualismo. Nella relazione.
Nāgārjuna, paragonava la realtà (saṃsāra) ad un sogno (nirvāṇa). Il saṃsara è
in nulla differente dal nirvāna. Il nirvāna è in nulla differente dal saṃsara. I
confini del nirvāna sono i confini del saṃsara. La psicoanalisi, quella seria e non
quella ridicola pratica perpetrata dagli accademici, ha da tempo capito che il sogno
altro non è che una dimensione della realtà il cui unico plasmatore e creatore è
lʼindividuo che sogna. Così come il sogno è una realtà creata dal suo unico abitante,
il quale ha dunque pieni poteri creativi nella sua dimensione personale, la realtà
esterna è una dimensione creata dalla media di tutte le volontà dei suoi abitanti.
Se dunque la realtà esterna è fatta della stessa natura del sogno –come anche Jung ci
ha sempre fatto notare –significa che sogno e realtà sono la stessa cosa ed hanno le
stesse potenzialità. La realtà si manifesta per come la plasmiamo noi, su questo
non cʼè dubbio.

I logici brahminici ragionarono sul fatto che Nagarjuna ci ha detto che la vacuità è la
mancanza di natura fissa ed essenziale che esiste in tutte le cose. Ma se tutte le cose
sono prive di natura fissa, allora questo includerebbe, o no, la dichiarazione stessa
di Nagarjuna che tutte le cose sono vuote? Se uno dice che tutte le cose sono prive
di una natura fissa dovrebbe inoltre dire che nessuna asserzione, nessuna tesi, come
quella di Nagarjuna che tutte le cose sono vuote, potrebbe esigere il supporto di un
riferimento fisso. E se una tesi così fondamentale ed onni-comprensiva deve
ammettere di non avere in sé un significato né un riferimento fisso, allora perché
dovremmo credervi? Piuttosto, la tesi "tutte le cose sono prive di un'essenza fissa e
perciò sono vuote", poiché è una quantificazione universale e quindi riguarda tutte le
cose, inclusa la tesi, non confuta se stessa? I Logici qui non stanno tanto facendo
l’affermazione che necessariamente lo scetticismo abbandona la sua stessa posizione,
come quando una persona dicendo "Io non so niente" inconsciamente testimonia
almeno la conoscenza di due cose, e cioè, come usare il linguaggio e la sua stessa
ignoranza, come nel caso dell'Ironia Socratica e del Paradosso del Mentitore. È più il
peso diretto che una filosofia, che rifiuta di ammettere le essenze universali, debba
essere ugualmente auto-contraddittoria, poiché una negazione universale deve essa
stessa essere essenzialmente vera per tutte le cose.

Nagarjuna potrebbe rispondere che, in linea di principio, non c’è nulla che potrebbe
evitare che io presuma che qualsiasi prova che io uso per verificare un pezzo di
conoscenza sia essa stessa sicura oltre ogni dubbio. Così, conclude Nagarjuna, la
supposizione che qualcosa può essere dimostrata con riferimento (cioè in
relazione) a un certo altro fatto presunto, incorre nel problema che la serie di
prove non avrà mai conclusione, e ci lascia ad un regredire infinito. Se
c’impegnassimo alla giustificazione opposta e proponessimo di sapere che le cose
sono reali, perché sono manifeste ed auto-evidenti, allora Nagarjuna ribatterebbe che
noi staremmo facendo un’affermazione vuota. Il vero scopo dell’epistemologia è di
scoprire metodi attendibili di conoscenza, il che implica che dalla parte del mondo vi
siano i fatti e dalla parte del conoscitore vi siano le prove che rendono quei fatti
visibili alla coscienza umana. Se le cose fossero proprio auto-evidenti, ogni prova
sarebbe superflua, dovremmo conoscere proprio direttamente se qualcosa è tale
com’è oppure no. La pretesa dell’auto-evidenza distrugge, in un ironico modo che era
sempre gradito a Nagarjuna, l’esigenza stessa di una forte e ben radicata teoria della
vera e sicura conoscenza! 

La sferzante critica di Nagarjuna non si risolve a un livello superiore di una


verità ultima, non si può infatti parlare di risoluzione quanto piuttosto di
dissoluzione di qualsiasi volontà di risolvere.

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