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Il contenuto del subconscio può divenire accessibile attraverso un’attenta analisi dei
pensieri, dei sentimenti, delle motivazioni profonde: per quanto si tratti di un processo
assai difficile, è tuttavia possibile portare alla coscienza ciò che si muove nel
subconscio. Tra conscio e inconscio vi è invece una barriera impenetrabile: ciò che si
agita nell’inconscio è ciò che per la coscienza è assolutamente inaccettabile ed è
stato quindi rimosso. La piena consapevolezza dei materiali inconsci può essere
raggiunta solo attraverso la più grande resistenza. Occorrono uno sforzo e una
determinazione concentrati e un duro lavoro intellettuale per penetrare la barriera che
separa la coscienza dall’inconscio e, in molti casi, questo è possibile solo fino a un
certo punto, se non addirittura del tutto impossibile.
Tornando al nostro esempio, l’idea che vi sia un parallelo tra l’assemblaggio delle
funzioni di una macchina e il funzionamento di un bambino (e ci si comporti poi di
conseguenza), potrebbe essere per alcuni genitori un pensiero talmente aberrante
che essi semplicemente non lo accettano. Per loro, tale parallelo, che pure determina
i loro pensieri e le loro motivazioni, rimane inconscio. Altri genitori, riflettendoci sopra
e sforzandosi seriamente di analizzare i propri pensieri e le proprie motivazioni,
riescono a riconoscere che, sia pure senza esserne consapevoli, essi avevano
effettivamente stabilito un parallelo tra il funzionamento del figlio e quello di una
macchina. In questo caso, il parallelo non era stato rimosso nell’inconscio, ma era
rimasto, fino al momento della sua riscoperta, nel subconscio.
In entrambi i casi, molti ne parlano nello stesso modo, dicendo per esempio che
vorrebbero che il loro bambino desse delle “prestazioni” migliori, o “rendesse” di più a
scuola (uno dei motivi più diffusi per cui ci si rivolge agli specialisti). Se invece a un
genitore sta a cuore soprattutto che suo figlio abbia una vita soddisfacente e sia
felice, è poco probabile che ne parli in questo modo. Anzi, è il parallelo operato nel
subconscio tra due fenomeni assolutamente non paragonabili, come una macchina
ben funzionante e una vita vissuta bene, che suscita nei genitori, quando i loro sforzi
non riescono a “produrre” esattamente i risultati previsti, quel senso di intima
insoddisfazione nei confronti propri e del figlio. Ne deducono allora che ci deve
essere qualcosa che non va nelle loro “tecniche” educative, che devono avere
applicato un “sistema scorretto”, perché altrimenti avrebbero ottenuto i risultati giusti.
È questo tipo di mentalità che induce i genitori a ricorrere ai manuali per imparare
“come fare” a fare i genitori, quando il problema vero non è “fare” ma essere dei bravi
genitori.
Con questo non voglio dire che un genitore non debba preoccuparsi di fare del suo
meglio con i figli, o che bisogna lasciare tutto al caso. È compito dei genitori offrire
una guida ai figli, attraverso il loro comportamento e i valori sui quali impostano la
loro vita. Ma bisogna liberarsi dall’idea che esistano dei metodi infallibili che, se
applicati correttamente, produrranno automaticamente risultati determinati e
prevedibili. Qualunque cosa facciamo con e per i nostri figli dovrebbe scaturire
naturalmente dalla nostra comprensione, comprensione anche emotiva, delle singole
situazioni e del particolare rapporto che vorremmo avere con i nostri figli.
Nel suo libro Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Robert Pirsig
dimostra che persino quando montiamo un congegno meccanico il fatto di ubbidire
alle istruzioni ci priva della sensazione di essere creativi nel nostro lavoro. E questa,
per un essere umano, è una perdita molto più grande del vantaggio che otteniamo
quando seguire correttamente le istruzioni ci permette di montare facilmente i pezzi di
un meccanismo; sicché persino nel caso di una macchina da montare i sentimenti
che investiamo nel nostro lavoro sono determinanti per la soddisfazione che ne
possiamo trarre. È raro sentirsi davvero contenti di noi stessi e di nostro figlio quando
nei nostri rapporti applichiamo consigli pensati da qualcun altro: questo toglie al
rapporto quella spontaneità che lo rende un’esperienza umanamente significativa e
quindi realmente soddisfacente.
Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 33
Abbiamo tutti una forte propensione a comportarci come Mary Wortley Montagu, che
scrisse in una lettera alla Contessa di Mar: “A volte do a me stessa consigli
ammirevoli, ma sono incapace di seguirli.”
Dunque i consigli che non intaccano la tranquillità dei genitori o le loro idee vengono
seguiti più facilmente, a dispetto del parere contrario espresso da altri “specialisti”.
Questo spiega come mai venga tuttora seguito da molti il consiglio di lasciar piangere
i neonati invece di prenderli in braccio e coccolarli. Qui non si tratta tanto del fatto che
questa linea di condotta sia più comoda per i genitori, perché i vagiti di un lattante
danno fastidio; il problema è più sottile: tutti ci irritiamo con chi ci provoca un disagio,
e inconsciamente il genitore prova risentimento per il pianto prolungato di suo figlio. E
se, benché sia irritato, lo prende in braccio ugualmente (come, altrettanto
frequentemente, gli viene consigliato di fare), si può star certi che il rimedio non
funzionerà, perché tutto il suo modo di fare sarà nervoso e irritato. Ecco dunque
confermato che prendere in braccio i bambini quando piangono non serve! Infatti,
mentre compiere i gesti richiesti è abbastanza facile, molto difficile è dare vero
conforto alle persone verso le quali proviamo risentimento, anche se si tratta dei
nostri figli. Perciò, se un consiglio viene seguito controvoglia, il più delle volte si
rivelerà controproducente.
Mi è capitato spesso di parlare con genitori che ricorrevano a sistemi alquanto
bizzarri nell’educare i figli; e quando domandavo loro come gli fosse venuta l’idea di
agire in quel modo, quasi tutti rispondevano di aver letto, o sentito dire, che quello era
il sistema migliore. Quasi sempre risultava inoltre che gli era stato dato anche il
consiglio opposto, ma, siccome seguirlo era sembrato scomodo o inadatto al loro
caso, avevano spulciato la letteratura esistente fino a che avevano trovato
un suggerimento che confermasse la loro valutazione della situazione.
In altre parole, è difficile leggere dei consigli su come dovrebbe comportarsi un
genitore senza avere intense reazioni personali, reazioni che interferiscono nella
comprensione dei consigli stessi, per non parlare dell’obiettività necessaria per
evitare di proiettarvi elementi che essi non contengono affatto. D’altro canto, visto che
il consiglio lo abbiamo cercato, diventa difficile ignorarlo: dobbiamo farci i conti,
accettarlo, rifiutarlo, del tutto o in parte; dobbiamo comunque continuare a rifletterci
sopra. Tuttavia, dato che, se abbiamo chiesto consiglio, è perché ci troviamo in un
momento di crisi acuta (per esempio perché nostro figlio è violentemente geloso del
fratellino, o ha paura dei cani, o non vuole andare a scuola, o bagna ancora il letto,
oppure mangia troppo o non vuole mangiare nulla), ci mancano il tempo e l’agio di
esaminare il consiglio ricevuto con quella equanimità che ci consentirebbe di compie-
re una scelta oculata. L’urgenza è troppo grande, perché davvero nostro figlio si
rifiuta di andare a scuola, continua ad avere il terrore dei cani, continua a mangiare
troppo o a non mangiare, a fare cose pericolose, o ad avere incubi dai quali ci chiede
di proteggerlo. E se anche non ci chiede esplicitamente di “fare qualcosa”, noi ci
sentiamo in obbligo di aiutarlo, il che non ci facilita certo nell’assumere un
atteggiamento obiettivo. E se per caso il problema dovesse momentaneamente
recedere, noi continuiamo a domandarci preoccupati quale potrebbe esserne stata la
causa, perché sappiamo fin troppo bene per esperienza che la tregua non durerà, o
che il problema rispunterà sotto altra forma. Sicché non possiamo evitare di conti-
nuare a rimuginare sul consiglio ricevuto, sui suoi vantaggi e svantaggi, il che il più
delle volte ci impedisce di valutare obiettivamente se e in quale misura sia adatto a
risolvere il nostro problema.
Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 39
Se un bambino che possiede le abilità necessarie per riuscire bene a scuola invece
va male, devono esistere dei motivi che spieghino il suo fallimento, dei motivi che, per
quel bambino, devono evidentemente essere più pressanti del desiderio di ottenere
tutte quelle gratificazioni.
Per poter comprendere tali motivi dobbiamo scoprire da quale prospettiva il fallimento
scolastico può apparire più desiderabile del successo. Solo la convinzione
aprioristica dei genitori che non possa esistere una simile prospettiva impedisce loro
di capire come mai il figlio abbia scelto il fallimento invece del successo. Se solo si
sforzassero di vedere le cose da un’angolatura che renda intelligibile la scelta del
figlio, allora il suo modo di ragionare apparirebbe anche a loro comprensibile e del
tutto logico; e, quel che più conta, il conflitto si risolverebbe ed essi saprebbero come
indurre il bambino a modificare la sua scelta in modo che si conformi maggiormente
alla loro.
Il caso di Emma può servire a illustrare questo punto. Emma era una ragazzina i cui
genitori si erano sempre distinti in campo intellettuale e attribuivano la massima
importanza al successo scolastico. Tuttavia Emma aveva un rendimento mediocre,
diversamente dal fratello maggiore, che, con evidente soddisfazione dei genitori, era
sempre stato il primo della classe. Comunque la ragazza se l’era sempre cavata in
tutte le materie, se non che, improvvisamente, incominciò a prendere insufficienze in
tutto. Ovviamente, questo angustiò molto la madre, che da sempre era preoccupata
per lo scarso entusiasmo di Emma per lo studio; aveva provato a ridurre la quantità di
tempo che la figlia passava davanti al televisore, e a indurla a leggere “libri validi”, ma
tutto era stato vano. Né erano serviti a chiarire l’enigma i colloqui con gli insegnanti:
anch’essi erano sconcertati dall’improvviso calo del rendimento di Emma.
La madre, infelice e confusa, si rivolse allora allo psicologo perché le consigliasse
come fare a indurre la figlia a leggere buoni libri e a fare meglio a scuola. La donna
diede sfogo alla sua preoccupazione per il disinteresse della ragazza per la lettura,
per la sua abitudine di andarsene a zonzo con gli amici o rimanere per ore davanti al
televisore; e non fece mistero della propria esplicita e severa disapprovazione nei
confronti della figlia. L’unico dato al quale non fece cenno, finché non le venne
chiesto direttamente di descrivere la situazione familiare, fu che diversi mesi prima il
marito se n’era andato di casa.
La separazione evidentemente era così dolorosa per lei che preferiva non parlarne e
non pensarci, benché si rendesse conto di come avesse creato gravi difficoltà per
tutti in famiglia. Dal canto suo, ora sentiva più forte di prima l’obbligo morale di
vigilare a che i figli non si sbandassero. Aveva dunque insistito perché Emma
studiasse con maggiore impegno, ottenendo però l’effetto opposto.
Alla donna non era neppure venuto in mente che potessero esistere validi motivi per
il comportamento della figlia; l’indolenza e la ricerca di piaceri insulsi le erano parsi
una spiegazione sufficiente.
Se invece fosse partita dalla convinzione che la figlia doveva avere per le proprie
azioni motivi altrettanto validi di quelli che aveva lei per desiderare che invece
leggesse buoni libri e si impegnasse negli studi, allora forse le sarebbe venuto in
mente di porsi la seguente domanda: come mai Emma, che pure aveva sempre
ottenuto la sufficienza, ora improvvisamente era stata bocciata in tutte le materie, e
non solo in una o due? La donna svolgeva lavoro di ricerca in campo scientifico ed
era quindi abituata a prendere in attenta considerazione tutti i dati concomitanti prima
di giungere a una conclusione circa le cause di un fenomeno. Eppure, quando il
problema riguardava sua figlia, non si era posta domande del tipo: quale importante
fattore potrebbe spiegare un cambiamento così radicale del rendimento scolastico di
mia figlia? Oppure: quali altri eventi significativi hanno avuto luogo più o meno
contemporaneamente al fallimento scolastico di Emma? Se avesse riflettuto su questi
interrogativi, le sarebbe apparso evidente che, in concomitanza con il peggioramento
a scuola, si era verificato un grosso cambiamento nella vita della ragazza: la partenza
del padre molto amato. E la connessione tra i due eventi le sarebbe parsa quanto
meno ipotizzabile.
Il timore che il fallimento del suo matrimonio potesse avere conseguenze distruttive
sulla vita dei figli, e il ferreo proposito di evitare che questo avvenisse, avevano
impedito alla donna di percepire le vere intenzioni della figlia, tanto più che le sue
emozioni personali si erano innestate sulla convinzione di fondo che non potessero
esistere motivi validi per andare a scuola. Il suo giudizio negativo sulle motivazioni
della che attribuiva a pigrizia, superficialità, gusto per i piascadenti, e il dispiacere che
ne provava, le avevano impedito di cercare una spiegazione più generosa del
comportamento della ragazza. Essendo sicura della correttezza del proprio giudizio,
le era semplicemente impossibile capire come Emma volesse quello che voleva lei:
riportare il padre in seno alla famiglia.
Contrariamente all’idea della madre che il suo insuccesso scolastico fosse una prova
della scarsa importanza attribuita allo studio, in realtà la ragazza aveva assimilato la
convinzione dei suoi genitori che lo studio potesse cambiare la vita di una persona e
conseguire risultati importanti. Tant’è vero che aveva deciso di fare leva appunto sui
sentimenti di suo padre verso il rendimento scolastico dei figli per conseguire il
risultato che in quel momento per lei contava più di qualsiasi altra cosa: il ritorno del
padre in seno alla famiglia. Emma era abbastanza intelligente da rendersi conto che,
se avesse continuato a essere promossa, suo padre l’avrebbe interpretato come un
segno che tutto andava bene nonostante la sua assenza e dunque non c’era bisogno
di lui. La sua inaspettata e imprevedibile bocciatura, invece, l’avrebbe forse
preoccupato al punto da farlo tornare: allora tutto sarebbe tornato come prima,
compresi i suoi voti a scuola. Prendere l’insufficienza in tutte le materie, dunque, era
stato una specie di stratagemma per far tornare a casa il padre, anche se,
naturalmente, a livello di coscienza, la ragazzina avvertiva soltanto la vaga
sensazione che, senza l’aiuto dei padre, non riusciva a studiare. Sua madre, tutta
presa dai propri problemi, si limitava a sperare che non ci fossero conseguenze più
gravi, ma Emma era più ottimista: era convinta che la rottura fosse reversibile, e si
dispose a fare quanto in suo potere per ricomporre la famiglia. Per quanto riguardava
il valore dello studio, l’accordo con la madre non poteva essere più totale, anche se la
madre non lo poteva capire.
Dunque un comportamento che apparentemente indica una divergenza tra genitori e
figli, può in realtà essere motivato dal medesimo scopo; solo che i mezzi usati per
raggiungerlo sono molto diversi. Emma, è vero, si era comportata in modo ingenuo e
immaturo, senza tener conto delle conseguenze lontane delle sue azioni. Ma, alla
sua età, come avrebbe potuto essere altrimenti? E inoltre, considerando le cose
realisticamente, che altro avrebbe potuto fare per scuotere veramente suo padre?
Più spesso di quanto non si creda, i figli vogliono le stesse cose che vogliono i loro
genitori. Il bambino nutre un così profondo attaccamento per i genitori, la sua vita è
così inestricabilmente legata alla loro, che non può fare a meno di rispondere
istintivamente a quello che passa per la loro mente e per il loro cuore. Solo che i
bambini il più delle volte reagiscono ai contenuti dell’inconscio dei genitori, più che ai
contenuti presenti alla coscienza, giacché essi stessi sono molto più in contatto con
l’inconscio di quanto non lo siano gli adulti. Il bambino, dunque, reagisce soprattutto
all’inconscio del genitore.
Nel mondo infantile, dove il sole sorge e tramonta in virtù del padre e della madre,
dove non c’è nulla che sembri impossibile per loro, quella che noi chiameremmo
realtà oggettiva conta ben poco.
Per quanto ardentemente desiderasse che il marito tornasse da lei, la madre di
Emma, essendo vincolata alle leggi della realtà e ben conoscendo come funziona il
mondo, e soprattutto come funzionava il suo ex marito, si sentiva impotente a
cambiare quella situazione. Inoltre, poiché il suo abbandono l’aveva ferita
profondamente, ora nutriva sentimenti ambivalenti nei suoi confronti. Essendo
personalmente convinta che nulla avrebbe potuto farlo ritornare in famiglia, non le
venne in mente che la figlia potesse essere motivata dal desiderio che il padre
ritornasse a stare con loro.
Invece, i sentimenti di Emma verso il padre non erano ambivalenti, sicché la
ragazzina aveva reagito solo a una faccia dell’ambivalenza materna: a quella che
desiderava la ricostituzione della famiglia, quella che coincideva con i suoi stessi
desideri. Perciò si era buttata (inconsciamente, beninteso) con tanta decisione a
realizzarli, e le sembrava incomprensibile che la madre la criticasse. Emma, che
viveva nel presente, non poteva nutrire preoccupazioni circa il suo futuro, come
invece faceva la madre; quello che occupava tutto il suo animo era il dolore, reale e
presente, per la perdita del padre.
La ragazzina non conosceva il padre, per esperienza diretta, nella sua veste di marito
o di uomo adulto dai molteplici interessi fuori della famiglia. Per lei era
essenzialmente suo padre: gli altri aspetti della sua vita rivestivano scarsa realtà.
Ora che si era spezzato il rapporto per lei così importante tra padre e figlia, non
riusciva a pensare ad altro che al suo bisogno di ricostituirlo. Non era in grado di
vedere il rapporto tra i suoi genitori quale realmente era; lo vedeva come un bambino
desidera che sia. Visto da questa prospettiva, il ritorno del padre appariva molto più
possibile e molto più facilmente realizzabile di quanto non sembrasse a sua madre.
Perciò Emma si dispose a fare tutto quello che poteva perché il suo desiderio, che
nella sua percezione coincideva con quello della madre, si realizzasse.
Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 81
Forse i lettori si chiederanno che rapporto esiste tra il fatto di esserci formata un’idea
delle motivazioni di nostro figlio e quello di interrogarlo o meno al riguardo. Ebbene,
nel caso che approviamo le sue motivazioni, non c’è bisogno di fare domande. Per
esempio: supponiamo che per un lodevole impulso di generosità nostro figlio desideri
regalare uno dei suoi giocattoli preferiti, ma noi non possiamo permetterglielo. In tal
caso, basta che gli spieghiamo perché non può regalare quel particolare giocattolo,
esprimendogli contemporaneamente il nostro apprezzamento per l’impulso generoso.
E se pure ci sbagliamo nel valutare certe sfumature delle sue motivazioni, il bambino
stesso sarà probabilmente ben felice di correggerci, perché la nostra spontanea
approvazione gli farà sentire che lo capiamo. La sua fiducia in noi ne verrà
confermata e, cosa molto importante, lo indurrà a esser altrettanto aperto con noi in
occasioni future.
Quando l’approvazione del genitore è impossibile, le cose cambiano. Allora diventa
ancora più importante soppesare bene le motivazioni di nostro figlio, ma va valutato
con la massima attenzione anche il grado di consapevolezza che egli stesso può
averne. Se non possiamo approvare le sue ragioni, dobbiamo domandarci: che
effetto avrà allora su di lui essere costretto a rivelarcele? Si sentirà a disagio? Si
sentirà indotto a mentirci? E quando, sentita la sua risposta, saremo costretti a
criticare quello che ci ha detto, questo fatto non lo indurrà a pensare che dire la verità
ha conseguenze negative per lui?
Un caso ancora diverso è quello in cui l’adulto, oltre a disapprovane il comportamento
del bambino, è incapace di immaginarsi le sue motivazioni. Se le nostre domande
portano a risposte chiarificatrici, tanto di guadagnato, a un certo livello; ma a un altro
livello nel bambino il bruciore per essere stato sottoposto a un interrogatorio rimane.
Ammettiamo pure che egli ritenga di essere stato ascoltato senza pregiudizi e di ave-
re avuto la possibilità di convincerci che aveva ragione, il che è un’ottima cosa; ma
nessuno gli può togliere la sensazione che non l’avevamo capito, prima: altrimenti
che bisogno avremmo avuto di porgli tante domande? Questo non accrescerà
certamente il Suo rispetto per un adulto che dà prova di così scarsa immaginazione
ed è così pronto ad attribuirgli motivazioni poco accettabili. Dunque, nella migliore
delle ipotesi, la reazione del bambino sarà ambivalente: i miei genitori sono giusti, ma
ci vuole una bella fatica da parte mia per farle mie ragioni; perché non si sono fidati
che fin dall’inizio io sapessi quello che stavo facendo?
E poi, naturalmente, esiste sempre la possibilità che egli non sappia il perché delle
sue azioni. Se le nostre domande obbligano nostro figlio ad ammettere di non sapere
perché ha fatto una certa cosa, la nostra reazione sarà probabilmente di non
credergli e di pensare che stia facendo dell’ostruzionismo. E il bambino scoprirà che il
suo comportamento è incomprensibile non solo a lui stesso, ma anche agli adulti alla
cui maggiore esperienza della vita è affidata la sua sicurezza. Risultato: una ulteriore
diminuzione del rispetto del bambino per i suoi genitori e una maggiore riluttanza ad
accettare la loro guida, dato che non sanno capirlo meglio di quanto egli stesso non
sappia fare.
Dover ammettere pubblicamente di non conoscere le proprie motivazioni, anziché
limitarsi a sospettarlo dentro di sé, è un’esperienza a dir poco imbarazzante per un
bambino o un ragazzo. Se è costretto a riconoscere una cosa del genere come un
dato di fatto, come potrà mai fidarsi di se stesso? Se ne sa così poco sulla propria
persona e se i suoi genitori ne sanno poco più di lui, che speranze può avere di
riuscire mai a comprendere se stesso e le proprie motivazioni? Come potrà
comportarsi in modo più avveduto in futuro? Essere costretto a guardare in faccia la
propria ignoranza circa se stesso incrina la fiducia in sé del bambino e inquina il
rapporto con l’adulto, le cui domande lo hanno costretto a una così avvilente ammis-
sione.
Inoltre, quando gli viene domandato perché ha compiuto una certa azione, il bambino
che non lo sa ha tuttavia l’impressione che dovrebbe saperlo. Perciò, oppure perché
non può ammettere con se stesso di non saperlo, le domande dell’adulto possono
indurlo a mentire. Come osservò Oliver Goldsmith, “Non fatemi domande, e non vi
dirò bugie”. Sentirsi costretto a mentire distrugge il rispetto di sé del bambino, lo fa
séntire un impostore, se non peggio; e lo allontana dall’adulto, che con le sue
domande l’ha fatto sentire così scontento di se Stesso.
Dunque, se non siamo arrivati da soli a formarci un’idea delle possibili motivazioni di
nostro figlio, non possiamo prevedere se sarà in grado o meno di rispondere la verità,
né possiamo prevedere le conseguenze indesiderabili che il nostro interrogatorio
potrà avere. D’altro canto, se sappiamo in anticipo quale sarà la probabile reazione di
nostro figlio, e ci sembra di conoscere con buona approssimazione quali debbano
essere state le sue motivazioni, allora interrogarlo non può avere altro senso se non
quello di metterlo con le spalle al muro.
Riassumendo: se il bambino non sa quali sono le vere ragioni del suo
comportamento, interrogarlo lo farà sentire impotente. insicuro e incerto circa la
validità delle sue azioni. Se, avendo compreso le sue motivazioni, intendiamo svelar-
gliele, sarebbe molto meglio per entrambi se lo facessimo senza prima fargli perdere
la fiducia in se stesso. Se le ragioni di nostro figlio sono ai suoi stessi occhi
riprovevoli, delle due l’una: o mentirà, a noi e forse anche a se stesso, che è molto
peggio; oppure sarà costretto a rinnegare le sue ragioni, cosa che certamente non
servirà a farci amare da lui né ad accrescere la sua fiducia di saper agire con
intelligenza.
Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 115
Avere una reazione empatica significa sforzarsi di metterci nei panni dell’altro, così
che i nostri sentimenti ci facciano intuire non soltanto le sue emozioni ma anche le
sue motivazioni. Significa comprendere l’altro dall’interno, non dall’esterno, come
potrebbe fare un osservatore interessato o anche coinvolto, che cerchi di capire i
motivi dell’altro con l’intelletto.
Freud parlò della simpatia che esiste tra l’inconscio di una persona e quello di
un’altra, intendendo che è possibile comprendere l’inconscio di un altro solo
attraverso il nostro. Non è possibile spiegare adeguatamente con le parole che cosa
significa provare certe emozioni, come l’amore, la collera, la gelosia, l’angoscia, o
certi stati emotivi come la depressione o l’esaltazione. Ma se li abbiamo vissuti a
nostra volta, sappiamo come deve sentirsi l’altro, e allora ci sentiamo molto vicini a
lui, lo comprendiamo molto meglio che se dovessimo basarci soltanto su quello che
lui ci può dire. Pensino i grandi poeti per comunicare sentimenti molto profondi
devono ricorrere al linguaggio simbolico; parlano per metafore e allegorie, perché non
esiste espressione diretta atta a comunicare quello che vogliono comunicare. E noi,
per arrivare al senso di una poesia, dobbiamo leggere anche tra le righe, dobbiamo
affidarci a quello che le parole del poeta suggeriscono al nostro inconscio, rispondere
ai simboli, alle allusioni, alle metafore.
Non possiamo aspettarci che i nostri figli sappiano dirci quello che provano
nell’intimo, quello che succede nel profondo del loro animo, tanto più che in gran
parte questi processi sono accessibili alla loro coscienza ed essi non possono
formularli. Per comprendere che cosa li muove nel loro “io” dobbiamo affidarci alle
nostre reazioni di empatia: mentre con la ragione cerchiamo di tradurre quello che
vogliono dirci con le loro parole e azioni, il nostro inconscio, proiettandosi nell’oggetto
contemplato, cercherà di coglierli in rapporto ai nostri vissuti personali, passati e
presenti. Così facendo, potremo dire di capirli veramente, e nello stesso tempo
scopriremo di capire meglio noi stessi.
Per meglio spiegare la natura e l’effetto terapeutico dell’empatia mi rifarò al caso di
un ragazzino di otto anni, riferito dalla psicoanalista infantile Olden. Nei primi tempi
della terapia, il bambino dettò all’analista un racconto che iniziava con “Mia madre è
una figlia di... Mio padre è un figlio di... Mia madre è schifosa. La mia analista è
schifosa e orrenda”, e proseguiva su questo tono. Era la violenta espressione della
sua rabbia divorante, per cui era stato sottoposto a trattamento. Ben sapendo che
l’analista non avrebbe reagito al suo scoppio di collera come erano soliti fare i suoi
genitori, i suoi insegnanti e il resto delle persone, il bambino volle che fosse chiamato
un altro adulto a leggere quello che aveva dettato: così l’analista avrebbe visto come
reagiva di solito il mondo nei suoi confronti. Venne dunque chiamata una terza
persona, che lesse il racconto molto attentamente e con grande simpatia. Non
ricevendo la reazione scandalizzata e di condanna alla quale era abituato, il
ragazzino disse in tono provocatorio: “È una bella storia, vero?” Al che la persona che
aveva letto il suo irato messaggio rispose con grande compassione: “É una storia
molto triste.”
L’imprevista risposta spiazzò il ragazzino, che considerava il suo racconto un attacco
pieno di livore e di rabbia. Quando si fu riavuto dalla sorpresa volle sapere perché
l’altra lo definiva triste, e si sentì rispondere che era triste, molto triste, perché
mostrava quanto poco egli si amasse: un bambino deve odiarsi profondamente per
vedere negli altri solo il male, ed essere così in collera con il mondo.
Provando a sentirsi come una persona che vomita rabbia contro coloro ai quali
dovrebbe sentirsi più vicina, che più dovrebbe amare, la donna poté vivere dentro di
sé le fonti più profonde dei sentimenti di quel bambino. Le risultò chiaro così che solo
una profonda tristezza poteva spiegare una tale rabbia, la tristezza causata dalla
disperazione per non essere capace di amarsi. Per il piccolo paziente il sentirsi
compreso nei suoi sentimenti più profondi e il vederli accettati con simpatia, anziché
rifiutati, come accadeva di solito, segnò l’inizio di un profondo cambiamento nel modo
di vedere se stesso e il mondo. Un’analoga accettazione da parte della sua analista
non avrebbe sortito il medesimo effetto, in quella fase iniziale della terapia; il
bambino, infatti, era abbastanza intelligente da sapere che per l’analista accettare i
pazienti faceva parte del suo mestiere. Ma il fatto che una persona che non aveva un
simile obbligo e che praticamente non lo conosceva potesse capire che il problema
non era l’aggressività come avevano sempre pensato gli adulti, bensì la tristezza, gli
diede la speranza che prima o poi le persone per lui più importanti, i suoi genitori,
potessero rispondere positivamente alla sua infelicità, invece che solo negativamente
alla sua collera. Nessuna domanda, per quanto ben intenzionata, avrebbe potuto
ottenere quel risultato: gli avrebbe solo confermato la convinzione che nessuno lo
capiva e voleva capirlo.
Quel bambino di otto anni, pur così intelligente, non sarebbe potuto risalire alle
sorgenti della sua rabbia divorante. L’intensità dei sentimenti di collera dei bambini
costruisce una sorta di muro impenetrabile, che nasconde tutto ciò che vi sta dietro. È
un’esperienza che dovrebbe esserci familiare, giacché anche molte persone più
mature sono incapaci di riconoscere le fonti della loro collera. E il motivo è che chi
vive sotto l’influsso psicologico di sentimenti così intensi da dominare tutta la vita (in
particolare se si tratta di sentimenti come la collera) è incapace di pensare
razionalmente. Questa emozione riempie a tal punto tutto il loro essere che non
riescono a prenderne le distanze abbastanza da comprenderne le cause.
Prendere le distanze da emozioni divoranti, penetrare al di là di esse fino alle loro
origini è difficile anche per le persone mature. In realtà, l’esserne capaci è uno dei
segni della vera maturità; una caratteristica fondamentale della maturità è appunto la
capacità di uscire, per dire così, da se stessi e dalle proprie emozioni, anche le più
intense, per contemplarle con imparzialità. Ma non tutti ci riescono, e non sempre,
neppure quando è passata da un pezzo l’adolescenza. A maggior ragione dunque, se
vogliamo capire nostro figlio quando è mosso da intense emozioni, dobbiamo cercare
di comprendere con l’empatia quello che si agita nel suo intimo, e rispondere con il
sentimento e con l’azione a quanto abbiamo in tal modo scoperto dentro di noi. Ma
per poterlo fare, non dobbiamo permetterci di farci trascinare dalle nostre reazioni al
comportamento manifesto del bambino o del ragazzo.
Il piccolo paziente della Olden poteva solo dire “Mi riempie di rabbia!” e quel qualcosa
che lo riempiva di rabbia era il suo conscio, era l’inconscio la sorgente della sua
collera. Se gli fosse chiesto di essere più preciso, avrebbe potuto solo cavarne fuori
delle razionalizzazioni, essendogli ignoto il contenuto del suo inconscio. Avrebbe
oscuramente avvertito, però, che le sue razionalizzazioni erano vuote, superficiali,
marginali; e le domande dell’adulto non avrebbero fatto altro che accrescere la sua
furia, perché l’avrebbero obbligato a riconoscere i limiti della sua comprensione di sé.
Oggi i genitori sanno, intellettualmente, che agiscono in noi potenti emozioni che
determinano gran parte delle nostre azioni, e che possono occorrere anni di duro
lavoro per portarle a livello di coscienza; sanno anche che questo non è un processo
che si possa avviare a comando, anzi, esservi obbligati può rendere ancora più
inaccessibile il materiale dell’inconscio. Dato che il motivo della rimozione di quei certi
sentimenti era il fatto che riconoscerli sarebbe stato troppo angosciante o pericoloso,
sentirsi chiedere di rivelarli accresce l’angoscia e dunque il bisogno di mantenerli
rimossi. Come mai allora i genitori, che intellettualmente sanno tutte queste cose,
all’atto pratico trovano così difficile agire di conseguenza? A mio avviso, il problema
(come in quasi tutte le difficoltà che si creano tra genitori e figli) scaturisce dal
desiderio cosciente da parte di noi genitori di avere intimità con i nostri figli, e dalla
sensazione, inconscia, che essi possano essere veramente nostri solo se non ci
tengono nascosto nulla: poiché si tratta di nostro figlio, non dovrebbe esserci nulla
che lo riguardi, neppure la sua vita interiore, che ci possa sfuggire. Siamo disposti a
riconoscere che nostro figlio ha un inconscio, ma, se è ammissibile che esso rimanga
ignoto a chiunque altro, a noi, che siamo i suoi genitori, non può e non deve restare
nascosto!
Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 122
Imparare a mentire.
Neppure quando un bambino è così sicuro di sé o così certo di essere nel giusto da
essere in grado di spiegare le sue ragioni, le cose vanno sempre lisce. Supponiamo
che nostro figlio abbia picchiato un compagno; noi gli chiediamo perché l’ha fatto, e
lui in tutta sincerità ci risponde che l’altro se lo meritava: “L’ha voluto lui.” Se lo
interroghiamo più a fondo, ci spiegherà che l’altro lo ha fatto arrabbiare, l’ha
provocato.
A questo punto molti genitori reagiranno dicendo che non bisogna lasciarsi provocare
(benché essi stessi possano a volte trovare difficile mettere in pratica questa
massima), o che arrabbiarsi non è un motivo sufficiente per mettersi a menare le
mani. In ogni società civile, la violenza fisica va evitata il più possibile. Ma quello che
è possibile per un adulto supera speso la capacità di autocontrollo di un bambino,
perché è diverso il grado di maturità, la misura in cui riesce a padroneggiare gli
impulsi. Quando i genitori se ne escono con massime di questo genere, tutto quello
che il bambino ricava da questa esperienza è che suo padre o sua madre non lo
capiscono; ma può anche concluderne: “Quando gli dico sinceramente perché ho
fatto una certa cosa, l’unica ricompensa che me ne viene in cambio è sentirmi dire
che ho torto!” E sorprendente quante esperienze di questo genere collezioni in pochi
anni di vita un bambino normale: e ogni volta impara che la conseguenza della sua
sincerità è essere criticato dalla persona per lui più importante. Se tale è stata
l’esperienza del bambino, gli sarà difficile resistere alla tentazione di ricamare sui
fatti, per renderceli più appetibili, essendo convinto che non si può permettere di dirci
la verità nuda e cruda.
Una delle spiegazioni che i bambini più comunemente danno per aver picchiato un
compagno è: “E stato lui a cominciare!” Non si tratta del tentativo di scaricare
sull’altro la colpa (come alcuni genitori potrebbero pensare), bensì di una descrizione
veritiera della situazione psicologica che si è creata: il comportamento dell’altro ha
provocato una tale marea di emozioni molto intense, che la capacità di controllarsi ne
è stata sopraffatta. Il genitore, che ha potuto notare come l’altro bambino non abbia
picchiato per primo, dirà probabilmente “Non è vero!”, intendendo che l’altro non gli
ha dato motivo di rispondere con le botte; ma dal punto di vista del bambino motivi ce
n’erano in abbondanza. Può anche darsi che un adulto riesca in genere a mettere in
pratica il principio della non-violenza, ma ci sembra realistico aspettarsi il medesimo
autocontrollo da parte di un bambino?
Il problema, in questo e in molti altri casi, è che il genitore, avendo valutato la
situazione dal proprio punto di vista e stabilito come reagirebbe lui, si aspetta chissà
come che lo stesso faccia suo figlio. Ma il bambino è molto più sensibile alle proprie
emozioni e molto meno capace di controllare i propri impulsi. Persino il codice
penale prende in considerazione l’atteprie emozioni e molto meno capace di
controllare i propri imnuante della diminuita capacità di autocontrollo, e non do-
vremmo farlo noi, che siamo dei genitori, invece di pretendere
che i nostri figli mostrino una padronanza di sé superiore alla loro età?
Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, pag. 127