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OPERAZIONE MAAT

di Nicolò Cavicchi
C.I.A. (Cosmo Italico Autarchico)
Battaglia galattica pugna
milioni di colpi al secondo
odore carni fritte acre
Fende l'aria il raggio
ZZZZZZZZAP ZZZZZZZZZZAP VRRRRRRRAM!
Silenzio di tomba
s'odono i respiri dei bolscevichi d'altri mondi
camerati attendono trepidazione morte presto
ombre... ombre... ombre...
scurisce la trincea aliena!
BUM!
Freddo tra pianeti tace
Esplosione cheta da lassù
Astri salutano
ro
ma
na
mente

(TRĬUMVĬR AETERNE)
Il fascio oltre l'atmosfera saluta il sole
Abbagliante radianza
Eoni eoni eoni eoni
Aquila svetta
Cosmo Italico Autarchico
FRRRRRRRRANG!
Corpi corpi corpi galleggianti
putride acque falce e martello svastiche affogate
il cannone canta FRRRRRRRRRRRRANG!
TA TA TA TA TA TA FFFFFFFFffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffff
BUM! BUM! Assordati i vili senza patria senza Dei BUM!
Lampi!
Baionette a energia
Divise lacere
Larve contorte
RELIGIONE
DOMINIO
IMPERO
Tacco sulla faccia
SOC! SOC! SOC! CIAFF
Il Mi-go omaggia il
Tricolore Venuto dallo Spazio

EIA EIA CTHULHU FHTAGN!

-C.I.A. Parole di Filippo Tommaso Marinetti. Musica per Intonarumori Elettrico di Luigi Russolo.
Spettacolo registrato dal Vivo su Radio del Combattente, XXII Gennaio MCMXLIV
I.
I fulgidi fasci dei riflettori negano le stelle all'Eritrea colonizzata.

Sezionano il gelido cielo notturno e guidano le ali meccaniche che, come uno stormo di avvoltoi
pronti a gettarsi su una carogna, convergono da ogni lato del maestoso e letale triangolo di Afar,
sorvolando i pennacchi dei vulcani e i sublimi laghi dai profili alieni, per planare sull'onirico
scheletro futurista della città ventura di Nova Roma.
Le eliche rombanti si uniscono al coro atonale del perenne via vai di autocarri, oberati da sacchi di
calce e travi di ferro, dei trapani e delle saldatrici in funzione giorno e notte, del vociare di operai e
soldati, e del clangore di titaniche macchine industriali che si stagliano contro al profilo ciclopico e
vertiginoso dell'assurda impresa.
Un imponente dedalo edilizio di palazzi, gallerie, binari, sovrappassi e rampe, che scandisce forme
stranianti.
Il tutto ammicca al conturbante impossibile delle dimore dei Camerati Celesti, così come vengono
ritratte dalla propaganda.

Sulle taglienti facciate erette col sudore e il sangue degli ultimi, ancor prima che vengano
completati gli identici interni in serie che ospiteranno i militari e le loro famiglie, con al seguito
servitù e concubine, vi sono impressi i moniti e i motti cubitali dell'Impero.
Tra questi ci sono anche le frasi ossessive tipiche dell'insediamento che si va assemblando.

“NOVA ROMA LVX IMPERII”


“L'ERITREA DELL'AVVENIRE VIVE NEL LAVORO DELL'ADESSO”
“FIERO, FEROCE E FASCISTA”
Ma, soprattutto, riportato sotto ad una stella color pece che circoscrive un tetro occhio spalancato:
“RICORDA: IL PODESTÀ ELVIO TITO T'OSSERVA!”

Le spesse ed essenziali linee scure del disegno donano la sinistra illusione che quell'iride dipinta
segua i movimenti dei passanti.
Orlando Turrisi evita scaramanticamente la pupilla del potere, tenendo la testa china sotto la
bombetta, così come le attenzioni degli ufficiali zaptiè africani dei Regi Corpi delle Truppe
Coloniali. La diffidenza si estende anche ai coloni civili, rasentando la paranoia. Due giorni
appresso il suo arrivo nell'insediamento, in veste d'inviato per L'Assalto, ruolo che effettivamente
ricopre nella sua vita di tutti i giorni, riceve un telegramma cifrato da Bologna che lo mette in
guardia riguardo alla “presenza polizia segreta OVRA”.

Facendosi largo tra la crescente moltitudine che assedia il cinematografo Arcadia, l'inviato emiliano
ripete fin quasi allo sfinimento un “permesso” tanto cortese quanto tediato, riuscendo a raggiungere
l'ingresso dell'edificio, al di là della barriera gesticolante fatta di cappotti, divise, gonne, cappelli e
chiacchiere. L'elegante porta a vetri, capeggiata da una scritta metallica che emana luce azzurra, è
sorvegliata da due energumeni della Milizia Coloniale. Uno di questi, con una mascella squadrata
che pare aver sottratto al cadavere del Duce in persona, esige la Carta d'Identità e l'invito alla
proiezione.
“Orlando Turrisi, esteri.” si presenta laconico il nuovo arrivato, mentre tira fuori dal taschino
interno della giacca il logoro pezzo di carta della Tessera Pubblicisti.
“Che giornale?” domanda con sdegno malcelato il bruto, senza alzare lo sguardo dalla foto in
bianco e nero, corredata da informazioni anagrafiche riportate in un corsivo da dottore di famiglia.
“L'Assalto.” replica Orlando, abbastanza sicuro della parte che recita da un decennio e da cui
gradualmente viene assorbito, giorno dopo giorno.
“E quella?” chiede l'energumeno, indicando la ventiquattr'ore in pelle che il cronista tiene stretta.
“Ci tengo gli appunti e il magnetofono.” dichiara, senza distogliere lo sguardo dal suo inquisitore.
“Aprila.”
Il bestione perquisisce i contenuti della borsa. Prima sfoglia i quaderni e poi si rigira tra le mani il
voluminoso registratore portatile.
“Così si rompe!” lo rimprovera l'inviato, sudando e stringendo i pugni.
“Mh.” grugnisce l'ammasso di muscoli e virile idiozia, restituendo il magnetofono.
“Vuol dire che posso passare?” chiede di rimando il giornalista, cercando di trattenere il crescente
panico, mascherandolo con quella che spera essere una convincente e altezzosa sicurezza.
Senza proferire ulteriori monosillabi animaleschi, il milite gli restituisce il documento e si rivolge al
prossimo invitato. Orlando varca le porte e percorre il corridoio zeppo di locandine, la maggior
parte delle quali appartenenti alle classiche pellicole di epopea spaziale.

La platea è gremita di camicie nere, mentre su in tribuna siedono vari artisti apolegeti, primo tra
tutti il regista Mario Camerini, accompagnato dall'attrice e moglie Assia Noris, catalizzatrice delle
attenzioni cautamente lascive dei maschi in sala, specialmente dopo la scandalosa apparizione in
costume a due pezzi, e alcuni dei più importanti gerarchi dell'Africa Orientale Italiana, tra i quali
spiccano Emilio de Bono, con più medaglie che divisa, a fianco del Podestà Elvio Tito in persona,
in una della sue rarissime apparizioni in pubblico.

Il suo aspetto, giovanile e gagliardo, mal si sposa con l'enigmatico dominio dalle recluse ombre del
tentacolo dittatoriale. È arduo concepire come un uomo di tale apparenza e giovialità possa
solitamente abnegarsi per la tirannia burocratica della megalopoli, il cui profilo cinereo sbrana
l'orizzonte ancestrale della Dancalia.

Orlando lo fissa con uno sguardo carico d'ira bruciante e maniacale, dimenticando per un attimo la
prudenza, le pestilenziali ascelle pezzate di sudore e il tanfo acre del tabacco.

Una maschera lo desta dai pensieri delittuosi e lo accompagna al posto assegnatoli.


Il giornalista attraversa, tossendo, una nuvola di fumo, emessa da decine di sigarette Africa, Cirene
e AOI. Si sistema sula poltrona, sporgendo il capo oltre le nuche degli spettatori, alla ricerca del suo
contatto. Quattro file più avanti scorge un uomo intento a grattarsi l'attaccatura dell'orecchio con
l'anulare. Fa appena a tempo a notare il gesto che il cinematografo piomba nel buio.

L'Operazione Maat è confermata.

II.
Gli astronauti marciano verso il cratere, col respiro che rimbomba sonoro nei caschi.
“Fa un certo effetto, Tiberio.” commenta Ferruccio.
“Guarda!” esclama Tiberio, indicando una bandiera sospesa nel tempo. “Ti ricordi quanto era
scomoda da trasportare?”
“Oh Dei, mentre volavamo me la sono ritrovata più volte su per il-”
“Una piccola sodomia per l'uomo, una grande sodomia per il Fascio Littorio!” si frappone Tiberio,
facendo il verso alle celebri parole, udite col fiato sospeso da tutto il mondo sognante.
“Basta, voi due!” li zittisce Amilcare, con lo sguardo rivolto alla Colonia. Orrendi palazzi angolari
innestati all'interno di un cratere butterato, come a sfidare il desolato cadavere celeste e il nero
abisso in cui fluttua.
La Colonia Lunare Italiana pare una brutta ferita sul cereo volto del satellite, incrostata di pus
metallico. I vetri dell'agglomerato rifrangono la luce del sole, emettendo un freddo bagliore. Attorno
alle strutture amucchiate e connesse da cunicoli e gallerie sospese, gli astronauti scorgono le tracce
lasciate dai veicoli meccanizzati della Forza Spaziale. Alcune scie convogliano verso un gruppo di
crateri vicini, piagati dall'azione costante di poderose trivelle.
Altre verso bizzarre formazioni, per lo studio di minerali e sedimenti.
Ma la maggior parte delle impronte striate si dirige al limitare del lato illuminato e oltre, verso la
perenne ombra preclusa allo sguardo dell'umanità.
“Posiamo per la foto, torniamo alla Colonia e poi andiamocene di qui.” ordina il primo uomo sulla
Luna, mentre passa la sua macchina fotografica a un giovane operatore che li segue costantemente,
fin troppo zelante per i suoi gusti.
“Agli ordini Padron Zenobi!” lo canzona Ferruccio.
I tre raggiungono il luogo. Si scorgono ancora le impronte dei piedi del modulo su cui sono atterrati
dieci anni addietro. Conservate dal freddo desolato, vi sono le orme impresse delle valigie che
hanno raccolto le prime rocce, così come quelle delle suole degli umani che sfidarono la sorte e
avverarono un sogno millenario. E tra queste tracce c'è ancora il tricolore con il fascio, rigido e
pallido come un cadavere. I tre si sistemano l'uno di fianco all'altro, con la bandiera e la Terra sullo
sfondo, adesso come allora.
“In posa.” intima il fotografo, regolando la messa a fuoco. Il trio obbedisce, mettendosi rigido, piedi
uniti e braccia destre tese.

Click.

L'otturatore si dilata, nel buio del corridoio, insinuandosi nella fessura della porta socchiusa. Nel
rullino v'è impressa la verità. Neri Albizzi trattiene un gemito d'orrore, contemplando il proprio
superiore conversare con un vecchio ufficiale cadaverico, con la voce simile a un ronzio, la cui pelle
si affloscia orribilmente.
Cala infine l'abito di carne, indossato da un'agghiacciante entità di un altro mondo, con gli arti
sezionati e la testa sormontata da disgustose antenne.

III.
Lo schermo a fondo sala si tinge di un nero luminoso. Appare poi l'aquila dell'Istituto Luce, tra gli
applausi dei presenti.

Il filmato si apre con una carrellata della Luna, ripresa dall'esterno, accompagnata da “Selene”,
composizione avveneristica di Francesco Balilla Pratella. A fianco del cratere, su cui è stata piantata
per la prima volta la bandiera del Fascio, nel 1934, vi sono tre uomini che si esibiscono nel saluto
romano. Sono protetti dalle avanguardistiche tute spaziali del regime, simili a scafandri argentati,
con un singolo visore circolare a tre strati al centro del casco chiuso. Sotto di questo, all'altezza
della bocca, una valvola del complesso meccanismo dell'ossigeno, per fermare o aprire la
circolazione dell'aria dalle riserve sul modulo. Il metallo isolante delle corazze, colpito dal livido
sole, unito ad una sovraesposizione dell'obiettivo, rende il trio splendente, fin quasi a farlo sparire
nella rifrazione, a guisa di abbaglianti semidei. La spettacolare, seppur datata, inquadratura include
anche, nell'abisso galattico, uno spicchio della Terra, catturato dall'occhio meccanico della regia di
Camerini. Dopo un paio di secondi la telecamera si trattiene su Amilcare Zenobi, Ferruccio De
Angelis e Tiberio Lamberti, rispettivamente primo, secondo e terzo uomo sulla Luna, e un trucco
della fotografia fa sì che sulla loro casa remota si sovrapponga in dissolvenza lo stemma del PNF,
accolto da esclamazioni di meraviglia, seguite subito da fragorose ovazioni.
Un narratore s'intromette nella sinfonia sintetica.
“È trascorso un decennio da quando il Triumvirato ha conquistato la Luna, dominandola con
fermezza da maschio! La straordinaria impresa dei nostri astrocamerati, e i successivi sforzi
monumentali dei nostri tecnici, noti in tutto il mondo, e oltre, per la loro superiorità intellettuale,
fisica, morale e spirituale, hanno fatto sì che sul satellite si fondasse la magnifica Colonia Lunare
Italiana! I Primordiali Numi del Cosmo hanno nuovamente benedetto il cinetico dinamismo
dell'Italia, guidata dal sacro Triumvirato e dal sapere superomistico dei nostri Alleati Alieni, con il
lancio che ha celebrato l'allunaggio dei nostri prodi!”
Appare l'immagine di uno di questi misteriosi esseri, come riportati spesso nei manifesti, nell'arte di
regime e persino in alcuni filmati in cui si rivolgono al popolo, ma che mai si sono palesati in carne
ed ossa se non al cospetto di alcuni membri scelti del Fascio.

Ha tutta l'aria di un italiano, seppure con delle bizzarre alterazioni somatiche, come gli occhi che si
allungano verso i lati, in una modalità che richiama i simboli egizi, o le orecchie a punta come
quelle di un elfo. È cinto da un peplo cangiante. Sul petto porta uno stemma con uno strano glifo.
L'espressione è sinistramente serena e distaccata.
Orlando prova un brivido di orrore nel contemplare quell'immagine.

Il cronista viene improvvisamente assaltato da una nube di fumo soffiata dal sedile dietro al suo,
sentendo distintamente il sospiro che la spinge. Serra gli occhi, tra lacrime brucianti, trattenendo un
violento accesso di tosse nel pugno serrato.
Si piega su sé stesso per evadere dall'orrendo attacco chimico. Vede allora come la sua valigietta,
appoggiata accanto alla gamba sinistra della sedia, venga lentamente trascinata via dal fumatore
ignoto.
Tre colpi sulla spalla sinistra, seguiti da altri due sulla destra.
È il segnale che attende da mesi.
Con la scusante del fastidio provocato dal miasma della sigaretta, esce dalla sala tossendo
rumorosamente. Ai buttafuori spiega di sentirsi male e di doversi assentare.
Si dirige verso lo spazioporto.
Duccio Petris tira a sé la valigia con un piede e osserva il riflesso nello specchio da trucco della
moglie, aperto per applicare del rossetto superfluo, e calcola mentalmente la distanza che lo separa
dal Podestà. Ha una sola occasione. Ilda gli fa l'occhiolino e richiude lo specchio.

“Grazie agli indefatigabili lavoratori fascisti, il cosmodromo di Nova Roma è completato. Con la
benedizione di Primus Nebula-” la solenne figura del Triumviro Mistico solleva ambedue le mani
giunte a formare un triangolo, e di tutta risposta i militari omaggiano il loro capo con il saluto
romano, gridando “Ave! Ave!”, e coprendo alcuni secondi di narrazione. “-è pronto ad ospitare a
bordo i nostri prodi astrocamerati.” I cosmonauti s'imbarcano sul razzo cilindrico Enea.
Le riprese passano all'abitacolo del velivolo, dopo che il portello è stato sigillato saldamente con la
rotazione di una grossa manopola. L'interno è colmo di schermi, leve, bottoni, interruttori e rulli di
carta vomitati dalle stampanti, che riportano valori quali pressione interna, ossigeno e radiazioni,
grazie al Cervello Elettronico Servitore, soprannominato Spazio Vitale, o le comunicazioni dalla
Terra, a cui i cosmonauti rispondono con una tastiera identica a quella di una macchina da scrivere.
Un palo, simile a quello presente nelle stazioni dei Vigili del Fuoco, conduce giù per un'apertura ai
dormitori e alla stanza da bagno.
“Zenobi, De Angelis e Lamberti ricevono numerosissimi messaggi di auguri e pronto atterraggio da
parte di madri, parenti, amici e membri del Partito. Lo spirito di cameratismo tra gli Italiani
consente ai nostri dominatori dell'ignoto di affrontare la perigliosa odissea che li porterà a fare ciò
che nessun uomo è mai riuscito a fare nella storia! Pronti a proiettarsi nell'Universo, tenendo alto
l'Italico orgoglio! Parte il conto alla rovescia.”

La voce del direttore della torre di controllo scandisce i secondi che li separano dal decollo, mentre i
propulsori iniziano a sputare propellente.

Duccio bacia la sua consorte per l'ultima volta, infischiandosene del pubblico decoro, si alza dalla
sedia e si volta verso le alte cariche militari.
Intanto, sul telo dello schermo, il razzo Enea sputa lingue di fuoco scintillanti che lo spingono verso
i limiti dell'atmosfera
“Lancio!” tuona la voce narrante, mentre in sala, sopra le teste della platea ignara, una
ventiquattr'ore con un finto magnetofono descrive una parabola verso Elvio Tito.
IV.
Il modulo precipita verso la Terra, accostandosi all'esosfera.

Amilcare aziona i retrorazzi, al fine di rallentare la caduta. In quel momento lampeggia una spia
luminosa, mentre il telefono in comunicazione diretta con la CLI prende a squillare. I vecchi rulli
sono stati accantonati durante la fondazione dell'avamposto. Tiberio solleva la cornetta.
“Qui Caio Giulio Cesare... Negativo, nessun problema in fase di rientro... Affermativo, i sistemi
sono perfettamente integri... Dieci minuti, quarantasette secondi, Centurione. Ricevuto. Chiudo la
comunicazione.”
L'apparecchio viene rimesso al suo posto e la spia si spenge.

Il Centurione Neri Albizzi riagganca.


“Dieci minuti, quarantasette secondi all'atterraggio, Seniore.” riferisce al suo diretto superiore,
voltandosi per incontrare lo sguardo del veterano fascista, nella divisa e nel cuore, reduce dal
massacro in Egitto. Sulla coscienza ha svariate migliaia di vittime civili e anche un manipolo di
camerati, inghiottiti dal terrore di piramidi ignote ai più esperti degli archeologi.

Quell'uomo sulla soglia dei trenta, colmo di segreti e ambizione, è l'archetipo della ragione del
nome di Neri e del motivo per cui Serafino Bernstein non esiste più su alcun documento.
A causa di uomini come il Seniore Gastone Dainelli la sua gente è scomparsa, o si è mimetizzata tra
i propri aguzzini. Il passo ridotto a un ritmo meccanico di stivali, come quelli che calza, ha costretto
il popolo eletto di Adonai a rifugiarsi in scantinati umidi, per continuare a invocare un'entità che
pare indifferente al graduale sterminio dei suoi seguaci. Quel silenzio lacerante ha sugellato l'ultimo
ricordo della sua comunità. Quell'immagine, sempre più alterata dall'imperversare delle onde del
tempo, resta comunque, sotto le mille maschere che indossa.
Il ricordo del rabbino Moshe che lo ammonisce della strada eretica da lui intrapresa, mentre
Serafino esce dal sotterraneo, portando dentro gli sguardi di sdegno bruciante dei propri cari. Gli
ultimi sguardi familiari che ha incontrato.

Adesso indossa il volto e le maniere di un altro uomo, una maschera di carne che ne cela un altro
ancora, privo dell'innocenza di un tempo. Più che un essere umano, è un piano vivente, un
ingranaggio di un marchingegno stellare che non comprende appieno. Un altro dio adesso lo guida,
un dio che non è rimasto in silenzio ma che, dalle sognate rovine sepolte nella giungla, gli ha
rivelato segreti deliziosi e proibiti.

Li cela cautamente, anno dopo anno, fino a farsi largo tra le gerarchie italiane e fare in modo,
tramite ricatti e altri metodi ben poco etici, di farsi assegnare alla CLI. Durante tutti questi anni, fatti
di doppiogiochismo e pugnalate alla schiena, ignora le persistenti voci di ebrei, africani, zingari,
omosessuali, partigiani e altri indesiderati che si dileguano dalla faccia del pianeta, verso un confino
disumano ai limiti del sistema solare.
Insegue invece un'altra diceria che riguarda i Camerati Celesti.
Sa bene che è ben più di una semplice congettura, e quella consapevolezza lo mette in contatto con
una cellulla eversiva anarchica, nata dalle ceneri del Battaglione Lucetti, sgominato dalle camicie
nere.
Il problema è proprio quel mostro dalla forma umana che lo sfida con la sua stessa presenza e le sue
costanti pretese autoritarie.
“Centurione Albizzi...” gli si rivolge l'assassino pluridecorato, squadrandolo con una rapida strizzata
d'occhi, quasi volesse focalizzare un dettaglio nascosto. “Perché siete qui?”
“Che cosa intende Seniore Dainelli?” chiede di rimando l'ebreo, fingendo di non capire.
“Intendo... perché siete qui, sulla Luna.” specifica il militare, con un ghigno sinistro.
“Perché sono stato mandato qui da-”
“Risparmiatemi le sciocchezze di circostanza. Voglio sapere perché voi siete qui?!” il tono
s'intensifica minaccioso, mentre il volto del maggiore si avvicina a quello del discendente degli
israeliti.
“Non capisco cosa voglia insinuare. Io-” fa per controbattere Neri, fermandosi all'improvviso.
“La macchina fotografica.” lo interrompe Gastone, tirando fuori una Fiammetta da uno
scompartimento nella sua scrivania.
L'uomo, noto un tempo come Serafino, deglutisce.
“Questa è la macchina fotografica di Amilcare, non è così? E qui sopra c'è lo scatto che
commemora il decennale, quello che deve rientrare sulla Terra. Ho ragione?”
“Io non so di cosa stia-” tenta di ribattere.
“Vede, l'obiettivo della macchina che lei ha segretamente derubato agli scienziati e custodito nel
suo armadietto personale, quella che ha usato per scattare una foto al mio... superiore... quella lente,
ecco, ha un graffio a forma di croce. È molto piccolo, e lo si può notare solo se si sa cosa cercare o
in fase di sviluppo della pellicola.” rivela il Seniore dell'Esercito Regio Lunare, rigirandosi
l'apparecchio tra le mani.
“Non so di certo cosa vogliate insinuare, Seniore Dainelli. Pur essendo un suo subordinato non mi
lascerò travolgere da alcun genere di accuse infamanti!” esclama Neri, visibilmente turbato.
“Allora voi mi state dicendo che sono un pazzo. Che non c'è mai stato alcun graffio da me inciso.
Sono folle, secondo voi?” rincara l'ufficiale, ignorando le rimostranze di Albizzi.
“Probabilmente!” conferma Neri, tra i sussulti stupiti e scandalizzati degli addetti alla Sala di
Controllo.
“Allora,” Gastone sghignazza “vi è anche la probabilità che voi siate ebreo.”

È un attimo.

Dalla giacca spunta la Beretta M34.


“Figlio di puttaaaaaa-” grida Serafino Bernstein, emettendo per l'ultima volta la sua voce di essere
umano, unica al mondo, a una distanza di circa trecentottantaquattromilaquattrocento chilometri
dalla sua culla natale.
Il proiettile crea un terzo occhio di sangue, che sputa un fiotto vermiglio, tracciando la caduta del
corpo.
I presenti indietreggiano istintivamente di un passo, in un misto di sorpresa, orrore per la morte di
un loro camerata, e timore di essere i prossimi destinatari di piombo italiano.
“Camerata Politti!” abbaia l'omicida.
“Comandi Seniore Albizzi!” replica istantaneamente il milite, battendo i tacchi e traspirando freddo.
“Contattate subito il modulo! C'è un sabotatore al suo interno!”
“Come Senio-” domanda sbigottito l'uomo, prima di sussultare per due colpi al petto in rapida
successione e afflosciarsi con un sospiro.
“Camerata Pantalone!”
Senza aggiunge alcun commento, il militare tremante si precipita sul pannello di collegamento.
“Qui CLI, mi ricevete? Passo! Qui CLI, mi ricevete? Passo! Qui C... Attenzione, uno degli uomini a
bordo è un traditore. Ripeto, uno degli uomini a bordo è un traditore! L'uomo con la macchina
fotografica!”
Mentre Saverio Pantalone ammonisce gli esploratori spaziali, dietro le schiene dei membri del
Regio Esercito Lunare accade qualcosa di assurdo e terribile.

Come un Pulcinella accasciato in un grottesco teatrino, il corpo esanime del giudeo, assassinato
pochi minuti prima, inarca la schiena verso l'alto e la sua spina dorsale si piega come quella di un
serpente. Scricchiolla in modo nauseante, mentre si solleva con movenze scattose, come mosso dai
fili invisibili di un esoterico burattinaio. Il foro sulla fronte ha lasciato una scia di sangue lucente sul
volto del morto, mentre negli occhi, resi vitrei dal Tristo Mietitore, s'intravedono delle pupille a
fessura che non appartengono a quello sguardo.
I fascisti si voltano verso il traditore risorto.
Un braccio scricchiolante sbottona una giacca nera, rivelando una cintura imbottita di esplosivi
plastici Nobel 808.

“Il Padre dei Serpenti vi saluta!” esclama il redivivo con il fremito di una lingua biforcuta, mentre
schiaccia il detonatore.

V.
Duccio Petris si desta in uno stanzino angusto e buio, privo di finetre o aperture di sorta. pieno di
umidità e muffa.

Dalla confusione del mondo dei sogni riemerge l'immagine della bomba che deflagra e proietta
pezzettoni sanguinolenti, facendoli piovere sulla platea intorpidita dallo stupore, seguita dagli spari
che animano la sala, in un furioso scontro tra fascisti e spie partigiane. Rivede Ilda che estrae una
Glisenti dal reggiseno e la scarica sugli imperialisti, ferendone mortalmente uno e paralizzandone
un altro ancora, prima di venire falciata da una raffica di FNAB 43, sparata da una delle maschere.
Rimembra di aver puntato la vecchia Bodeo e con un colpo solo di aver ricoperto di sangue il volto
dell'assassino di sua moglie, per poi tuffarsi tra i corpi riversi nelle poltrone, lasciando che questi
assorbissero i proiettili in arrivo.
Schegge, fiotti scarlatti e frastuono, in quel lasso di tempo sospeso tra il fulmineo e l'interminabile.
Una danza macabra, in un folle anfratto di un universo ancora più folle, interrotta dal calcio di un
mitra che per tre volte colpisce Duccio sullo zigomo, fratturandolo e privandolo dei sensi.
Al nero del sonno improvviso segue il nero della prigionia.

L'oscurità della cella viene lacerata da una fenditura di luce.


“Entriamo, idiota bolscevico. Non tentare sciocchezze...”
I secondini fanno irruzione tra le mura anonime e l'inevitabile e scontato atteggiamento riottoso di
Duccio viene punito da un paio di manganellate sullo stomaco.
Salivando sangue, il Compagno Petris, noto come “Scorpione” dagli ormai defunti membri della
sua unità, viene trascinato per le braccia, con le ginoscchia che strascicano doloramente sul
pavimento di quella prigione segreta. Lo seguono innumerevoli urla d'agonia in molte lingue,
atuttite dalle porte blindate che si susseguono identiche nel dedalo di corridoi.
In tutto quel grigiore, spicca all'improvviso un ingresso arcuato di colore verde.
Con un clangore più disturbante delle suppliche dei carcerati, la soglia si spalanca e Duccio viene
gettato in una stanza suntuosamente arredata, senza troppe cerimonie.
Si ritrova circondato da costole di libri minacciosamente eruditi, su cui vi sono impressi simboli
astrusi. Sembrano aver ben poco a che fare con il misticismo spicciolo inculcato ai balilla e ai
marinaretti.
Di fronte a lui una scrivania in noce, su cui poggiano alcune carte, una telescrivente e un oggetto
cilindrico coperto da un panno nero.

Fa per alzarsi e ispezionare il cilindro, quando nella stanza entra un gerarca con una strana divisa e
gli sferra un calcio allo stomaco che lo costringe a piegarsi su sé stesso, dolorante e in ginocchio.
Un altro gli punta un'arma mai vista alla nuca.
“Prostrati, quando in presenza del Podestà!”
Gli occhi di Duccio si sgranano.
“Che state dicendo? Il Podestà-”
“È morto?” domanda una voce baritonale, stranamente distorta, con un'evidente vena di scherno.
“Chi ha parlato?” domanda il partigiano, guardandosi intorno.
“Chi hai ridotto in mille brandelli? Un'autorità? O un fantoccio?”
Per qualche assurdo motivo, la voce sembra provenire da sotto quel panno.
“Io ho ucciso il Podestà.” dichiara Duccio, celando con un goffo tentativo di suonare sicuro il suo
attuale smarrinmento.
“Tu hai ucciso un Podestà, è vero. Colui che appare nei cinegiornali, sui manifesti, e che arringa il
popolo. Ma quel Podestà, Duccio De Petris, è solo apparenza. E, si sa, l'apparenza inganna. Oltre la
superficialità delle folle, oltre la facciata, c'è ben altro. C'è...”
Il gerarca rimuove il panno.
“L'intelletto!”
Il ribelle assiste allo spettacolo osceno di un cervello galleggiante in liquido verdastro, da cui
penzolano le terminazioni nervose di due occhi scuri che lo fissano maniacalmente. Alla base del
contenitore vi è un incredibile congegno da un altro mondo, con un futuristico altoparlante che
emette il suono di quella voce disincarnata, modulando un'onda luminosa che la scandisce.
“Ma che diamine...”
“Io sono Elvio Tito, Podestà di Nova Roma, asceso oltre la triviale mortalità e vittorioso sui limiti
del corpo!”
Duccio, finalmente, riesce ad urlare e non se ne vergogna neanche un po'.
“La città a cui avete attentato, quella città che ha risposto al vostro codardo terrorismo, con onore,
con coraggio, quella città maestosa non è che il vago riflesso umano delle meraviglie di Yuggoth! I
Mi-go mi hanno reso superiore a voi tutti, accogliendomi nella loro dimora ancestrale, mostrandomi
geometrie ben più antiche di quelle di Talete, e condividendo un sapere così intricato da spingere le
menti più rozze al delirio! Cosa potete voi, feccia democratica, contro la magnificenza dei Grandi
Antichi?!"
“Sei un mostro!” grida De Petris, tremante e con le lacrime agli occhi, ricevendo una raffica di calci
che lo porta ad assumere una posizione fetale.
“Il Cosmo è mostruoso! Nelle tenebre siderali si annidano intelligenze senza alcuno scrupolo
terrestre, nate in epoche talmente remote da precedere il tempo stesso. Tu mi accusi di essere un
mostro... Io ti dico che dovresti invece accusarmi di non esserlo a sufficenza, per poter competere
con ciò che ci attende là fuori e sbarazzarmi finalmente dell'inutile peso, della vostra parantesi di
pietosa uguaglianza! Una stupida illusione che ci ha distolto dal timore di forze abnormi, oltre il
detestabile velo della pace! Noi, noi italiani, siamo destinati a grandi cose, a trionfare nello spazio!
Se non abbracciamo il nostro fato, esso ci divorerà, con fauci ben più tremende di quelle dei
peggiori predatori del globo!”
Con queste assurde rivelzioni che gli rimbombano nel cranio, nonostante il suono violentemente
ritmato del pestaggio, Duccio si contorce, in preda a una disperazione mai provata da alcun mortale.
“Perché? Perché io?” riesce a domandare con tono soffocato, prima di essere riportato al silenzio da
suole grondanti dei suoi umori.
“Non c'è un perché, se non il mio personale diletto predatorio. Pari a quello di un felino che si
trastulla con la propria vittima, angosciosamente certa della morte, e della lentezza con cui
sopraggiungerà. Ma se cerchi una ragione, posso consolarti. La tua agonia è l'emblema quasi
perfetto del futuro: un tallone alieno che calpesta un volto umano, per sempre, e in dimensioni che
superano l'eternità.”
I bulbi fluttuanti si posano sul bollettino dei morti.
“Il vostro piccolo progetto sovversivo è andato in fumo. Avete ucciso una controfigura. Nulla più.”
Duccio, bombardato dalla pazzia, da quella pazzia che lui e i compagni e le compagne hanno
vagamente immaginato, contro il cui travestimento antropomorfo hanno combattutto, sacrificando
ogni cosa, riesce a replicare al disumano trionfalismo della sua nemesi.
“Ma... non... sei... mai... stato... tu... l'obiettivo!”
“Che cosa vai blaterando?” domanda la mente sospesa nel congegno, fallendo nel celare il panico e
lo sbigottimento,

In quello sterminio totale della sua persona, quell'involucro noto come Duccio, trova la forza per
afferrare l'altro stivale del gerarca che gli sta distruggendo lo stomaco, quello che poggia a terra, e
di tirarlo in avanti, facendogli perdere l'equilibrio.
Un istante, sufficente per sotrarre la pistola di servizio dalla fondina, con la canna che brilla di
un'energia extraterrestre, dal colore ignoto.
Un lasso prezioso per puntarla alla pancia dell'altro aguzzino e premere il grilletto.
Il raggio abbagliante disintegra pelle, muscoli e adipe, penetrando gli organi e carbonizzando gli
intestini. Con gli occhi che roteano verso l'interno, per la rapida e intensa sofferenza, l'uomo decede
subito a causa del trauma, cadendo in ginocchio.

“Scorpione” compie un ulteriore sforzo, l'ultimo.


Gridando con tutto il fiato che gli rimane nei polmoni, si scaglia con il pieno peso del corpo contro
la scrivania.

“No! No!” urla il cervello folle, ideatore dell'insana oppressione e delle brutali colate di cemento
che la palesano, prive di razionalità, mentre il macchinario oscilla pericolosamente. “Io sono Elvio
Tito! Io ho domato la Tetra Mietitrice con maschile orgoglio! Io sono-”

Duccio s'intromette con un ruggito iracondo:


“Poltiglia fascista!”

La mente fluttante cade e il vetro s'infrange sul pavimento marmoreo.


Spappolato e separato dal suo supporto tecnologico, in una pozza di vetro, materia grigia e liquido
extraterreste, ciò che resta del Podestà osserva il suo assassino che viene giustiziato, troppo tardi,
dal gerarca a cui ha sottratto la pistola. Il fucile lo disintegra, scomponendolo in atomi, restituiti al
Tutto che li ha generati.
Osserva, sperando di scorgere orrore ma, dissolvendosi nel bagliore dell'annichilimento, su quella
giovane faccia rivoltosa vi è impresso un sorriso di amaro trionfo.
Osserva il suo fallimento e colui che ne è responsabile, col solo occhio integro.
Osserva, incapace di urlare, se non nel viaggio dissennato verso la morte.

VI.
Il modulo si avvicina all'atmosfera terrestre.

“Tre minuti, ventotto secondi al contatto.” comunica Ferruccio, tenendo d'occhio i sensori.
“Come mai nessuna chiamata da Nova Roma?!” domanda Tito.
“In effetti è strano!” ribatte Ferruccio. “Siamo entrando nella termosfera e non abbiamo ricevuto
nessuna comunicazione.”
“Allacciattevi le cinture.” ordina Amilcare.
In quel momento il telefono collegato alla CLI prende a squillare. Tito, perplesso, fluttua verso
l'apparecchio e risponde. Resta in ascolto, con gli occhi sempre più sbarrati.
“Come? La macchina fotogra-” allontana l'orecchio dal ricevitore, che emette degli assordanti
sfrigolii. “Pronto? Pronto?!”
Un globo di liquido rosso gli passa davanti agli occhi.

Riaggancia, si volta e vede Amilcare che affonda un coltello nella gola di Ferruccio. Il sangue
fluttua per tutto l'abitacolo.

“Per gli Dei!”


Tito afferra l'estintore e lo scaglia contro l'astronauta rinnegato, approfittando dell'assenza di gravità
per creare accelerazione e ucciderlo con un colpo solo.
Usando il manico del coltello conficcato nel corpo del secondo uomo sulla luna come punto
d'appoggio, il primo uomo sulla luna piroetta verso l'alto, ritrovandosi a testa in giù ed evitando per
un soffio il proiettile improvvisato.
L'estintore si schianta contro l'abitacolo, provocando uno spostamento dell'intero modulo, che
prende a roteare furiosamente.
I due cosmonauti si ritrovano a sbattere l'uno contro l'altro, dimenandosi in una bestiale lotta per la
sopravvivenza.
“Mi dispiace!” ruggisce Amilcare, squarciando l'amico con la lama.
Anche se di ritorno dalla Luna, sono pur sempre dei primati, da poco emersi dalle ombre delle
grotte, sulle cui pareti umide vi è riportato l'incontro con esseri d'altri eoni e luoghi.

VII.
Orlando Turrisi si aggira nell'incubo che è piombato su Nova Roma, acquattandosi di tanto in tanto
per evitare i proiettili vaganti.

Per le strade dilaga la violenza della guerriglia, con partigiani che spuntano dai palazzi in
costruzione, dalle fognature e dalla notte desertica, lanciando bombe incendiare, granate, scaricando
mitragliette, fucili e infilzando i fautori del colonialismo con baionette che baluginano nell'oscurità
delle strade, oltre ai coni dei lampioni.
Urla e scoppi scandiscono il carnaio.
Oltrepassando un gruppo di ingegneri e matematici in fuga dalla torre di controllo, sottoposta al
bombardamento serrato di un obice, sottratto ai fascisti, il giornalista si avvicina al cosmodromo,
seguendo con lo sguardo il modulo in caduta, con i paracaduti che si spiegano.

Non sta affatto puntando verso la rampa, ma molto più in là, verso una depressione adiacente alla
struttura.

“Oh no...”
Osserva mentre cade e si mette a correre a perdifiato per intercettarlo.
“No, no, no...”
Spera con tutto il cuore che riesca a virare da quel luogo maledetto ma non accenna a un cambio di
rotta.
“No!”
Il modulo tocca le acque colorate del Dallol, non lontano dalle miniere di potassio e dalla loro
vociferata profondità, tra formazioni ultraterrene di zolfo e colonne di sale.
Dai vapori dei geyser, emerge Amilcare Zanobi, urlante e coperto di sangue.
Le acque estremamente acide, rese ulteriormente corrrosive da strani esperimenti bellici, stanno già
divorando la tuta e l'uomo che la indossa.
“Aspetta! Non ti avvicinare!” gli intima Orlando, tentando di approcciarsi al bruciante inferno
tossico.
“No! Prendi la macchina fotografica!” grida l'eroe del Fascismo, da sempre avverso all'Impero che
pure gli ha consentito di uscire da quel pianeta maledetto.
“Amilcare, ti prego! Ritorna sul modulo!” supplica il partigiano, motore primo del massacro in atto.
“Prendi la.... macchina.... e... vai!” gli ordina l'esploratore agonizzante, con la tuta che si squaglia,
come un alieno che emerge dall'esotico intruglio di morte che lo reclama.
Piangendo, Orlando Turrisi afferra la macchina fotografica, coraggiosamente risparmiata dalla furia
disgregatrice del Dallol.
“Vado a prendere dell'acqua!” tenta di rassicurare il giornalista, forse più sé stesso che la vittima.
“Vai! Vatteeeneee!” strilla Amilcare, prima che la luce nei suoi occhi si spenga, accompagnata da un
orribile rantolo. Non vi è alcuna bellezza in quell'immolazione, ma solo una disperata voglia di
giustizia. L'alba color ruggine sbadiglia oltre il crudele profilo del bacino vulcanico, portando con
sé quella vita straordinaria, estinta tra atroci tormenti.

Eccola, la ragione di tutti le morti.


Tutte quante una macabra copertura per il vero obiettivo dell'Operazione Maat.
Una semplice macchina fotografica, con la più complessa delle verità.
Passeranno anni, forse decenni, prima che l'umanità la accetti.
Quando giungerà il momento, si desterà dall'ipnosi del Fascismo e delle divisioni politiche, pronta
ad affrontare gli abomini che vagano tra le stelle, unita da un desiderio di libertà, contro tutte le
probabilità avverse che la vorrebbero schiava di dei inconcepibili.

Imparerà ad accettare il volto del potere, quel volto inumano che si nasconde sotto un rassicurante
abito di carne, ronzando segretamente in cavità sconosciute e pianeti lontani.

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