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Il corpo senza testa

- Sarantis Thanopulos, 20.06.2015

Verità nascoste. La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos

Un transessuale di 20 anni ha decapitato a Milano una donna di 51 anni, conosciuta negli ambienti
della droga, che lo ospitava. Ha gettato la testa nel cortile e ha continuato a infierire sul corpo.
L’assassino ha dichiarato alla polizia: «Abbiamo trascorso due giorni a bere e a consumare cocaina,
poi abbiamo litigato mentre parlavamo di morti e l’ho colpita».

Ne «La testa senza corpo», Julia Kristeva vede nell’interesse per la decapitazione degli uomini, in
epoca moderna, il segno dell’oblio delle teste tagliate di donna, a partire da quelle di tre regine:
Anna Bolena, Maria Stuarda, Maria Antonietta. Il privilegio accordato alla castrazione virile, rimuove
il bersaglio vero: è alla testa della madre che si mira.

Il significato della castrazione non è limitato alla sola decapitazione dell’uomo che può assumere il
senso simbolico dell’evirazione del figlio ribelle o del padre rivale. La decapitazione della donna può
egualmente essere interpretata come castrazione, nel senso dell’eliminazione del pene materno. Il
bersaglio da colpire è la dimensione androgina nella madre che la rende avulsa dalla relazione di
desiderio e autoreferenziale. Si taglia la testa di una madre-regina che domina dall’alto della sua
inaccessibilità il destino del suddito/figlio.

La testa regale che rotola sulla terra è quella di Medusa: con la sua chioma di serpenti (dal
significato fallico evidente) e con il suo sguardo pietrificante. La madre androgina annulla la
differenza creata dal movimento del desiderio e pietrifica il corpo desiderante del figlio che cerca di
riflettersi nel suo sguardo e farsi riconoscere da esso. Lo sguardo indifferenziante della madre, che
elimina l’alterità desiderabile del figlio, ancor prima che la differenza dei sessi, è una ferita aperta
nella transessualità, nel doloroso distacco dal proprio corpo in cui ci si sente stranieri.

Per una curiosa coincidenza, la notizia dell’omicidio è stata riportata da «Il Mattino» di Napoli (città
natale della vittima) in contemporanea con un articolo che denunciava lo stato di degrado in cui
versano due fontane settecentesche di piazza del Carmine: le loro statue ornamentali sono quasi
tutte decapitate e totalmente imbrattate con spray. Le statue, a forma di obelisco piramidale, sono
adornate di otto statue di leoni e otto più piccole di sfingi. Nel 2001 sono state ripristinate con un
restauro le teste delle sfingi, per essere, tuttavia, decapitate nuovamente.

L’attacco alla madre-leonessa (espressione di fiera potenza) e alla madre-sfinge (pericolosa


seduttrice/predatrice e, al tempo stesso, imperturbabilmente enigmatica) fa parte di un angoscioso
fantasma collettivo di decollazione che sottende spesso gli atti di vandalismo. Solo in situazioni
psichiche gravi e in concomitanza di stati di coscienza alterati, può materializzarsi in un concreto
atto di omicidio.

L’immagine delle statue imbrattate allarga il significato della decapitazione. Ai bambini piace
sporcare, impregnare il corpo materno con le loro escrezioni: feci, urine, sudorazione, saliva. Li
vivono come regali d’amore che la madre deve accogliere, come segno del loro possesso su di lei.
Imbrattare i monumenti è lo sfogo indiretto di un desiderio di possesso represso, a causa di madri
che per paura di perdere il controllo sul proprio corpo, vogliono mantenere troppo ferma «la testa
sul collo», trasformandosi in statue sacrali, fredde e intoccabili.

Il sogno dei figli di far perdere la testa alla madre, per impossessarsi del suo corpo, può così
diventare un incubo: l’accanimento tanto crudele quanto impotente su un oggetto d’amore
insensibile.

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