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La sociologia economica è una scienza che approfondisce i rapporti di interdipendenza tra fenomeni
economici e sociali chiedendosi se, quando e come i processi e i meccanismi sociali della vita
collettiva siano operanti anche in quel particolare contesto istituzionale che è il mercato.
CAPITOLO III
LO STATO SOCIALE KEYNESIANO E LA POLITICAL ECONOMY
COMPARATA
Nel corso degli anni ’70 si manifesta una significativa ripresa della prospettiva di analisi della
sociologia economica nello studio dei paesi più sviluppati che avendo adottato il modello
keynesiano nel secondo dopo guerra entrano in crisi per la contemporanea crescita di inflazione e
disoccupazione.
Questo modello, che aveva come strumenti l’intervento dello Stato nell’economia e nel sociale, va
in crisi a partire dagli anni ‘70, quando non si riesce più a dare un’interpretazione alle difficoltà che
investono le economie dei paesi più industrializzati (crescita di inflazione e disoccupazione).
Si parla di crisi o di declino dello stato sociale keynesiano. (Lo Stato Keynesiano affonda le sue radici
nel cosiddetto ‘welfare state’ o Stato del benessere. Nel secondo dopoguerra, soprattutto a causa della grande
crescita postbellica e della ridefinizione dei confini fra economia e sociologia, vi era stata una diffusione del
modello di economia keynesiana. Con ciò si intende un crescente intervento pubblico in campo economico e
sociale, basato sull’adattamento delle politiche di sostegno della domanda di Keynes per la risoluzione dei
problemi della crescita economica. Si indica dunque un tipo di Stato che, in confronto ad altre forme, pone
una maggiore enfasi sulle politiche ridistributive e sulle riforme sociali a favore delle classi subalterne).
Cominciano ad essere comparati i diversi casi nazionali per capire come fattori istituzionali
influiscano sulle emergenti tensioni economiche e sociali. Tra questi fattori particolare rilievo viene
dato alla dimensione politica e al ruolo dello stato, facendo manifestare una ripresa della sociologia
economica come political economy comparata, un approccio simile a quello analizzato nello
studio dei paesi arretrati.
CAPITOLO VI
LA GLOBALIZZAZIONE E LA DIVERSITÀ DEI CAPITALISMI
Se in un primo momento a suscitare l’attenzione degli studiosi sono stati soprattutto i vantaggi delle
economie coordinate di mercato, cioè di un modello di capitalismo più organizzato (es. tedesco
ogiapponese), rispetto a quelle non coordinate (di tipo anglosassone), negli ultimi anni, questa
immagine è stata rimessa in discussione non solo dai segni di ripresa dell’economia americana e
britannica, ma più ingenerale dall’affermarsi del fenomeno della globalizzazione. La crescente
interdipendenza e integrazione delle economie a livello mondiale sembra, infatti, minacciare gli
equilibri dei modelli di capitalismo più organizzato, in cui lo spazio del mercato è maggiormente
limitato da altre forme di regolazione. In questo senso, il capitalismo di tipo anglosassone, che si
affida maggiormente al mercato, mostra invece segni di adattarsi meglio, almeno nel breve periodo,
a questa nuova situazione.
I DUE CAPITALISMI
Una volta riportata sotto controllo l’inflazione, che nel corso degli anni ‘70 costituiva il problema
principale per le economie dei paesi sviluppati, l’attenzione si sposta verso un altro aspetto che
sembra condizionare sempre di più lo sviluppo economico dei diversi paesi: la capacità di
innovazione delle imprese. Per questa strada la political economy comparata tende a incontrarsi con
i risultati degli studi sulle trasformazioni del fordismo e i nuovi modelli flessibili. A partire dagli
anni ’80, poi, i confini delle economie si aprono sempre più, e l’economia di una nazione è
maggiormente influenzata da quella delle altre. Una quota crescente della produzione è orientata
verso i mercati internazionali, e il reddito di un paese diventa più dipendente dalla capacità delle sue
imprese di vincere la concorrenza delle importazioni nei mercati interni e di competere con
successo su quelli esteri. È in questo quadro che, agli inizi degli anni ‘90, una serie di studi cercano
di mettere a fuoco la diversità di reazione dei capitalismi nazionali alle nuove sfide dell’ambiente. Il
problema cruciale non è più soltanto il controllo dell’inflazione, ma la bilancia dei pagamenti. Ciò
richiede di non fissare soltanto l’attenzione sulle istituzioni che permettono di contenere i salari,
cioè sulle relazioni industriali a livello centrale, come nel modello neocorporativo, da sole non più
sufficienti a sostenere l’occupazione. Quest’ultima dipende ora maggiormente dalla capacità delle
imprese di innovare, e di mantenere e accrescere quote del mercato internazionale. Ciò a sua volta
richiede un particolare contesto istituzionale che favorisca lo spostamento verso produzioni flessiili
e di qualità, atte a ridurre la competizione di prezzo che viene dai paesi in via di sviluppo, con bassi
costi del lavoro.
La variabile dipendente, il problema al centro dell’indagine, non è quindi più il grado di controllo
dell’inflazione e della disoccupazione, ma la capacità di innovazione delle imprese da cui
dipende la penetrazione nel mercato interno e internazionale e quindi, in misura crescente, il reddito
e l’occupazione di un determinato paese. Di conseguenza, cambia anche il quadro dei fattori
causali, che si estende alle istituzioni che condizionano l’innovazione delle imprese a livello micro:
la finanza, i meccanismi di governo delle imprese, il ruolo del management, la regolazione dei
rapporti di lavoro, la formazione della manodopera e i servizi alle imprese. È proprio la diversità
dell’ambiente istituzionale che porta a modelli di capitalismo nazionale differenti rispetto alle loro
capacità di adattamento al mercato internazionale.
Convergenza o diversità?
Oltre ad avere maggiori vantaggi competitivi nell’immediato, il capitalismo anglosassone
sembrerebbe poter mostrare, a più lungo termine, migliori capacità di adattamento ai vincoli posti
dalla globalizzazione rispetto alle istituzioni regolative delle economie coordinate. Il risultato finale
sarebbe una convergenza nel tempo verso il modello istituzionale del capitalismo anglosassone.
Come si vede, in questa accezione, il concetto di globalizzazione non si riferisce soltanto alla
crescita dell’apertura e dell’interdipendenza delle economie nazionali, ma assume che la
globalizzazione implichi anche un’estensione di modelli regolativi basati sul mercato.
Le componenti della globalizzazione
Alla bassa crescita delle economie dei paesi più sviluppati, iniziata nei primi anni 70 e prolungatasi
oltre la seconda metà degli anni ‘90, si è accompagnato un forte aumento del commercio
internazionale. Essendo il PIL mondiale aumentato in misura molto minore dell’ammontare
complessivo dei flussi di scambio tra i diversi paesi, ciò ha comportato un aumento sensibile della
concorrenza tra i vari paesi per aggiudicarsi fette sempre più ampie di mercato. Cambia anche la
geografia della produzione mondiale, con un declino del peso percentuale degli Stati Uniti e
dell’Europa e una crescita concentrata soprattutto in Giappone e negli altri paesi dell’Asia. Accanto
al commercio internazionale, un secondo indicatore della crescente integrazione internazionale
dell’economia è dato dagli investimenti diretti all’estero, anche questi in aumento, trainati dalla
ricerca da parte delle imprese di localizzazioni più favorevoli, sia per controllare i mercati di sbocco
che per godere di condizioni di vantaggio in termini di costi. Infine, il terzo aspetto che segna in
misura ancor più marcata l’interdipendenza tra le diverse economie è costituito dall’integrazione dei
mercati finanziari, ovvero la liberalizzazione del movimento dei capitali necessari per finanziare il
commercio e gli investimenti, per assicurare contro i rischi valutati, per spostare gli utili ottenuti
all’estero, ecc. Hanno accelerato questo processo la rottura del sistema monetario internazionale
basato sui cambi fissi, avvenuta all’inizio degli anni ‘70, il diffondersi di nuovi tipi di titoli
(«derivati finanziari») che vengono anch’essi incontro a una domanda di capitali in cerca di
investimento, provenienti in particolare dai paesi produttori di petrolio, ed il miglioramento delle
comunicazioni, legato alle nuove tecnologie informatiche, che abbassa nettamente i costi di
transazione. Se si tiene conto congiuntamente di tutti e tre gli indicatori citati – commercio
internazionale, investimenti diretti all’estero e movimento dei capitali – si può cogliere, sul piano
descrittivo, il fenomeno della
GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA intesa come crescita del livello di apertura e insieme di
interdipendenza delle diverse economie nazionali.