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Capitolo I
RIPENSARE IL CAPITALISMO: INTRODUZIONE
Punto di partenza: crac finanziario del 2008, che ha messo a nudo le debolezze di fondo del
funzionamento e della regolamentazione del sistema finanziario mondiale (il capitalismo
occidentale non è più in grado di generare una crescita forte o stabile). Dopo il crac le autorità si
sono adoperate per regolamentare la stabilità complessiva del sistema finanziario ignorando però
l’incapacità delle moderne economie di generare una quantità di investimenti pubblici e privati in
grado di alimentare la crescita e una domanda sostenuta. Un effetto fondamentale del declino degli
investimenti è una crescita bassa della produttività rispetto alle tendenze storiche. Alcuni
economisti si sono chiesti se il capitalismo occidentale non sia entrato in un periodo di stagnazione
secolare dove i tassi di interesse positivi non sono più in grado di sostenere una situazione di piena
occupazione a causa della debolezza strutturale degli investimenti e della domanda.
Contemporaneamente la maggior parte dei paesi sviluppati ha visto il mercato del lavoro divenire
più polarizzato ed insicuro: dopo il crac la disoccupazione è rimasta molto alta e le forme di lavoro
atipiche hanno preso il sopravvento in molti paesi. Ciò ha senz’altro comportato un aumento della
diseguaglianza. Un altro aspetto da non sottovalutare è quello che lega la crescita economica ai
danni ambientali (la produzione di emissioni di gas serra è parte integrante dei sistemi tradizionali
di produzione e conusmo del capitalismo), visto che le economie occidentali non stanno oggi
riducendo veramente le loro emissioni in modo tale da tenere sotto controllo il riscaldamento
globale.
Ripensare la politica economica. Il capitalismo occidentale affetto da varie problematiche (che non
sono carenze temporanee, ma difetti struttutali) non è irrimediabilmente destinato a fallire, ma
necessita di essere ripensato. Uno dei dibattiti più controversi riguarda il ruolo della politica di
bilancio e della politica monetaria nella risposta alla crisi finanziaria e alla ripresa stentata che ne
è seguita.
Oltre il fallimento del mercato: verso un nuovo approccio. Per teoria economica ortodossa
intendiamo la visione che domina il dibattito pubblico sulla politica economica. All’interno del
mondo accademico il discorso dominante poggia su una semplicissima concezione di fondo del
funzionamento del capitalismo: il capitalismo è un sistema economico caratterizzato da mercati
competitivi. La teoria neoclassica (su cui si basa la visione ortodossa ) sostiene che nei singoli mercati
questa concorrenza produce efficienza economica. Il modello ortodosso è consapevole che i mercati
non sempre funzionano bene e ricorre quindi al concetto di fallimento del mercato per spiegare
perché a volte si hanno risultati non ottimali e come migliorarli. I mercati reali falliscono per diversi
motivi (quando le aziende con potere monopolistico limitano la concorrenza, quando ci sono asimmetrie informative
tra produttori e consumatori etc.) e questo implica che i mercati liberi non massimizzano il benessere,
dunque sono le politiche pubbliche che devono cercare di correggere i fallimenti del mercato
promuovendo la concorrenza, rendendo più accessibili le informazioni su beni e servizi. Al
contempo la visione ortodossa insiste sul fatto che non sono solo i mercati a fallire: pure lo Stato
fallisce, dunque gli interventi pubblici devono sempre soppesare l’obiettivo di correggere i
fallimenti del mercato con il rischio di generare fallimenti dello Stato ancora più grandi. L’idea è
che i mercati in generale producono risultati positivi che accrescono il benessere e vanno dunque
lasciati liberi di agire senza grosse interferenze, dove possibile, ma i governi non dovrebbero
cercare di dirigere i mercati o condizionare le imprese che in essi operano. Tenere in equilibrio i
conti dello Stato deve essere la priorità assoluta della politca di bilancio. Tuttavia il modello
ortodosso non è un modello adeguato a comprendere il funzionamento del capitalismo perché i
mercati non sono strutture semplici che hanno sempre lo stesso comportamento (queste teorie
tralasciano molti aspetti fondamentali del capitalismo trattandoli come imperfezioni invece che
come caratteristiche strutturali). Nessuno dei problemi che il capitalismo occidntale ha sperimentato
negli ultimi due decenni (crescita debole, instabilità finanziaria, calo degli investimenti, aumento della
diseguaglianza e stagnazione del tenore di vita) trova spiegazione in queste teorie. Le economie
capitalistiche non sono astrazioni teoriche, ma sistemi complessi e dinamici, c’è bisogno di un
approccio più ampio. Un ripensamento del capitalismo in questi termini poggia su tre intuizioni
fondmentali: 1) I mercati non vanno concepiti come istituzioni astratte, ma come risultati concreti
di interazioni tra operatori economici e istituzioni che emergono da circostanze differenti. Anche il
concetto ortodosso di concorrenza fra le imprese è fuoriviante: laddove esiste maggiore
concorrenza, le imprese capitalistiche non sono entità tutte uguali (c’è un’eterogeneità persistente);
norme e consuetudini diverse agiscono congiuntamente generando comportamenti ed esiti
differenti. 2) La forza trainante della crescita economica e dello sviluppo sono gli investimenti
nell’innovazione tecnologica. Necessità del riconoscimento del ruolo del settore pubblico nel
processo di innovazione. 3) La creazione di valore economico è un processo collettivo. Le imprese
non creano ricchezze da sole, non possono operare senza i servizi fondamentali forniti dallo Stato.
Non è dunque vero che il settore privato crea ricchezza e che quello pubblico la consuma: gli
investimenti dello Stato sono necessari. Insomma le dimesnioni e le funzioni dello Stato influiscono
profondamente sulla performance delle economie capitalistiche: le economie di successo infatti
hanno sempre avuto uno Stato che si impegna attivamente per il loro sviluppo.
Da questi tre punti deriva il fatto che le politiche pubbliche non sono interventi sull’economia, il
ruolo delle politiche non è semplicemente correggere i fallimenti di mercati, ma contribuire a creare
e plasmare i mercati per giungere ad un’equa distribuzione del valore economico.
Capitolo II
Quale fu dunque l’elemento che è riuscito a rimettere in piedi il sistema fallimentare che aveva
prodotto il crac finanziario del 2008? La pronta reazione delle variabili monetarie e di bilancio
(l’effetto combinato di aggressive iniezioni di liquidità effettuate dalle banche centrali e consistenti
disavanzi di bilancio impedirono una nuova Grande Depressione). Nonostante tutto questo, alcuni
anni dopo, le autorità dei paesi capitalisti avanzati sono tornate alla vecchia dottrina dei pareggi di
bilancio e dell’austerità (scopo del capitolo è proprio quello di dimostrare che l’austerità è la
strategia sbagliata per affrontare le conseguenze della crisi).
I disavanzi hanno salvato il pianeta. La crisi finanziaria è iniziata nel 2007 come una crisi di
liquidità. Il mondo ha assistito alla discesa in campo della Federal Reserve (Fed) che ebbe il
compito contenere la crisi, svolgendo la funzione di prestatore di ultima istanza in tempo di crisi
fornendo fondi sia a livello nazionale sia a livello internazionale (grande iniezione di liquidità senza limiti
da parte di una banca centrale interventista). L’altra metà della faccenda riguarda la risposta degli USA
attravrerso la politica di bilancio (legge di stimolo voluta da Obama, pacchetto di misure che
puntavano ad arrestare lo smottamento dell’economia: nei tre anni successivi gli stimoli hanno fatto
sentire il loro effetto sull’economica americana imprimendo la spinta necessaria). Ma fu solo il
piano di stimoli a sobbarcarsi il grosso del lavoro del risollevamento? Il premio nobel per
l’economia Paul Krugman assegna agli stabilizzatori automatici (quelle parti del bilancio dello Stato che
tendono a far aumentare automaticamente il disavanzo quando l’economia rallenta ) il merito di aver attuito e alla
fine invertito il calo della produzione e dell’occupazione. Tutto questo si basa sull’intuizione di
fondo secondo cui a livello dell’economia complessiva, le entrate sono pari alle uscite e dunque
perché un settore possa spendere meno delle proprie entrate dev’esserci un altro settore che spende
più delle proprie entrate. La crisi ha iniziato a dispiegarsi in un momento in cui il settore privato
aveva accumulato livelli di indebitamento record passando da una tradizionale condizione di
eccedenza a una condizione di disavanzo. Durante il boom famiglie e banche hanno cominciato ad
accumulare sempre più debito e quando scoppiò la bolla immobiliare il settore privato ha cercato di
ridurre la sua esposizione cercando di tornare in attivo (N.B. come già affermato da Keynes il
moltiplicatore della spesa, che misura la percentuale di incremento del reddito nazionale in rapporto
all’incremento di una o più variabile economiche che compongono la domanda aggregata , funziona anche al
contrario una diminuzione della spesa aggregata tende ad avere un effetto amplificato sul Pil
perché l’iniziale calo della spesa riduce il reddito che determina ulteriori decrementi della spesa e
così via).
Bisogna dire che in primis l’esplosione del disavanzo non è stata determinata da un’iniziativa del
governo centrale, gli stabilizzatori autonmatici sono congegnati in modo da entrare in azione con o
senza il placet del parlamento. Il disavanzo pubblico (formato da due fattori: S la spesa pubblica e
T gli introiti delle tasse) però non si è limitato a riflettere passivamente gli sforzi del settore privato
per ridurre l’indebitamento, ma ha risanato attivamente i bilanci privati. I colossali disavanzi
pubblici hanno salvato il mondo fornendo attività nette al settore privato. Siamo stati abituati a
pensare che i disavanzi comportino un indebitamento da parte dello Stato e si presuppone che
questo indebitamento sottragga risorse finanziarie ai risparmiatori, ma non è così: i disavanzi
pubblici sono un flusso di fondi che incrementano le consistenze delle attività finanziarie nette per il
settore pubblico. I disavanzi pubblici (flusso) vanno ad accrescere il debito finanziario (consistenze)
dunque i disavanzi pubblici approvigionano qualche altra parte dell’economia con attività
denominate in dollari (ex. I buoni del tesoro) che accrescono la ricchezza finanziaria netta dei
beneficiari.
La marcia indietro della politica di bilancio e lo scatto in avanti della politica monetaria
Circa la situazione in Europa alla fine del 2009 (forte recessione) molti dei prestatori si resero conto
che molti dei soldi che stavano prestando ai governi europei forse non sarebbero mai stati restituiti.
Dunque molti paesi non hanno avuto scelta se non chiederli agli altri paesi dell’Eurozona (ex.
Grecia). In generale governi che cadevano, tecnocrati al potere e gente che scendeva in piazza con
le politiche di austerity era la prassi. Nel frattempo in America il presediente Obama volle da parte
sua tutelarsi e si inziò a discutere in parlamento su come ridurre il deficit: i repubblicani
privilegiavano tagli alla spesa pubblica (problemi di spesa), mentre i democratici per l’aumento alle
tasse (problemi di entrate). Nel dibattito nessuno si è reso conto della differenza che sussiste fra
paesi che emettono la propria moneta (sistemi monetari coniugati ai sistemi di bilancio) e paesi
dell’Eurozona dove la politica di bilancio è rimasta in mano ai singoli Stati, mentre l’autorità
monetaria è stata trasferita alla Bce (il debito pubblico di questi paesi diventa insostenibile se i
mercati non sono più disposti a finanziarli a tassi di interesse gestibili; questo non può succedere a
quei paesi che hanno il controllo della propria valuta che possono impedire che siano i mercati
finanziari a dettare le condizioni di finanziamento). I paesi dell’eurozona hanno dunque ceduto la
loro autorità di bilancio ai mercati e il risultato è che sono stati costretti a mettere in campo
programmi di austerità con risultati disatrosi (pesanti recessioi e crescita del debito pubblico). Negli
USA fu approvata nel 2012 una legge che aumentava le tasse con manovre che forzavano il
risanamento dei bilanci.
CAPITOLO IV
QUANTO COSTA L’OSSESSIONE PER IL BREVE TERMINE
Il mondo di oggi viaggia molto veloce e qualcuno ha defiito quesrto periodo storico come l’epoca
del capitallismo trimestrale. Le innovazioni di oggi giocano un ruolo importante nel mercato dei
capitali.
Nei mercati di capitali moderni c’è un costo potenziale che è quello dello short-termism,
l’ossessione per il breve termine. Con questa espressione ci si riferisce di solito alla tendenza degli
operatori della catena di intermediazione finanziaria ad attribuire un peso preponderante ai risultati
immediati a discapito delle opportunità più a lungo termine (tutto ciò comporta un costo-
opportunità, silenzioso e invisibile). È possibile verificare l’impatto dell’ossessione per il breve
termine sulla disponibilità delle imprese ad investire tramite due canali: la crescita eccessiva del
costo marginale (misura il costo sostenuto dall’impresa per produrre un’unità aggiuntiva di un bene o per erogare
un’unità maggiore di servizio) del nuovo capitale destinato a finanziare i progetti; il fatto che induca le
aziende a distrubuire agli azionisti una quota eccessivamente alta dei ricavi e profitti invece
che reinvestirli per rifinanziare opportunità di crescita future.
L’impatto dello short-termism sui tassi di sconto degli investitori.
CAPITOLO VI
L’INNOVAZIONE, LO STATO E I CAPITALI PAZIENTI
Nonostante la volontà di molti governi di attuare una crescita intelligente sostenuta
dall’innovazione, dalla crisi finanziaria in poi, quasi tutte le economie avanzate sono state
caratterizzate da crescita bassa. Ciò ha spinto alcuni economisti ad affermare che il mondo
industrializzato sia entrato in un periodo non di crescita sostenuta, bensì di stagnazione secolare
(come risultato di scelte discutibili di imprese e governi). L’analisi economica ortodossa tende a
vedere l’innovazione come un processo che riguarda essenzialmente e il settore privato, determinato
da opportunità tecnologiche esogene; lo Stato, ha invece un ruolo relativamente circoscritto nel
processo di innovazione (correggere i fallimenti del mercato e incentivar gli investimenti privati),
ma NON è così lo Stato ha contribuito in modo decisivo a dettare non soltanto il ritmo, ma anche la
direzione dell’innovazione. Il ruolo dello Stato non deve essere soltanto quello di correggere i
fallimenti del mercato, come sostiene il modello ortodosso, ma deve essere anche quello di creare
attivamente mercati per stimolare forme di crescita economica più forti).
CAPITOLO VIII
DISEGUAGLIANZA E CRESCITA ECONOMICA
Alla metà del XX secolo si affermò l’idea che la crescita economica avrebbe portato maggiore
ricchezza a tutte le classi sociali. Una poltica economica più regressiva (a favore delle classi più
ricche) alla fine avrebbe favorito tutti: le risorse date ai ricchi sarebbero filtrate anche al resto della
popolazione (effetto trickle down). Oggi la tendenza del periodopostbellico verso una maggiore
uguaglianza di reddito si è invertita e la diseguaglianza sta crescendo rapidamente. Il concetto di
trickle down va ripensato.
La grande crescita della diseguaglianza
Dopo la crisi in America sia Bush che Obama hanno applicato una strategia di trickle down,
elargendo ingenti somme di denaro a banche e banchieri. Salvando le banche ne avrebbero
beneficiato tutti: esse avrebbero ripreso a prestare i soldi e i ricchi avrebbero creato più posti di
lavoro. Tuttavia alle banche non è stata imposta nessuna condizione sui prestiti ed il salvataggio è
servito ad arricchire quelli più in alto, ma i benefici non solo filtrati al resto dell’economia. Infatti
dopo sette anni l’economia americana non si è ancora del tutto ripresa. È in aumento la
diseguaglianza di ricchezza e persiste il legame fra diseguaglianza di risultati e disparità di
opportunità in America che risulta essere uno dei paesi più iniqui del pianeta.
Spiegare la diseguaglianza
Esiste una forte discordanza di opinioni riguardo alle cause della diseguaglianza. Gli economisti
neoclassici avevano sviluppato la teoria della produttivià marginale (secondo cui la retribuzione
riflette più in generale il contributo dei vari individui alla società. Tutti quelli che prendono parte al
processo di produzione ottengono una remunerazione pari alla loro produttività marginale, grazie
alla concorrenza reddito più elevato associato a un maggior contributo apportato alla società.
Questo è in parte vero, ma nella storia la diseguaglianza può derivare anche dallo sfruttamento,
dalla discriminazione etc. La teoria economica neoclassica asseriva inoltre che si possono spiegare i
risultati economici senza far riferimento alle istituzioni, ma non è così. Necessità di porre
l’attenzione sulla rendita e lo sfruttamento.
Il termine rendita significa oggi ricavare un reddito attraverso l’accaparramento di una quota più
ampia di una ricchezza che sarebbe stata prodotta comunque. Negli ultimi decenni la crescita dei
redditi più alti è stata trainata principalmente da due categorie occupazionali: quelli che lavorano
nel settore finanziario e i dirigenti delle imprese non finanziarie.
Nel settore finanziario i compensi dei dirigenti all’indomani della crisi hanno fornito una prova
convincente dell’incapacità della teoria della produttività marginale di spiegare i livelli salariali dei
top manager (ex. banchieri che hanno portato aziende sull’orlo della rovina continuano a percepire
compensi alti). Un altro elemento che conferma l’importanza del ruolo della rendita nell’aumento
della diseguaglianza lo offrono quegli strumenti che dimostrano che gli aumenti delle imposte per i
ricchissimi non determinano una diminuzione dei tassi di crescita.
Il mancato aumento dei salari dei lavoratori non qualificati è stato atribuito da alcuni al progresso
tecnologico che ha spinto il mercato a premiare di più le competenze. Tuttavia negli ultimi anni
sono calati anche i salari dei lavoratori qualificati. Una spiegazione alternativa (‘le rendite stanno
aumentando’) è che stanno aumentando i valori di quei beni in grado di fornire una rendita a chi li
possiede. Nel complesso la ricchezza aumenta, ma questo non porta ad un incremento della capacità
produttiva dell’economia o del salario dei lavoratori (che al contrario può ristagnare o addirittura
calare) perché se si investe in beni come gli immobili ciò non aumenta la produttività dell’economia
reale (c’è dunque un aumento del valore della ricchezza non accompagnato da un incremento del
flusso di beni e servizi). Così facendo c’è il rischio che si crei una bolla facendo decollare la
ricchezza ma anche la diseguaglianza sociale.
Dunque il ruolo dterminante della rendita nell’aumento dei redditi più alti mina alla base la teoria
della produttività marginale della distribuzione del reddito. Il reddito e la ricchezza di quelli al
vertice vanno a scapito di altri con una conlusione opposta a quella della teoria del trickle down. La
debolezza dei sindacati (creando uno squilibrio di potere economico e un vuoto politico; senza
protezione le condizioni dei lavratori sono peggiorate) e una globalizzazione asimmetrica (capitale
mobile che permette alle aziende la possibilità di dislocare imponendo salari più bassi) hanno
probabilmente contribuito in modo significativo alla grande impennata della globalizzazione. Anche
le politiche delle banche centrali, impegnate nella lotta all’inflazione, hanno contribuito
all’espansione della diseguaglianza e all’indebolimento del potere contrattule dei lavoratori (appena
i salari inziano ad aumentare, soprattutto se più in fretta del tasso di inflazione, le banche centrali
alzano i tassi di interesse per timore dell’inflazione: risultato è un livello di disoccupazione più alto
e una pressione al ribasso sui salari). Politica e mercato nei paesi ricchi, anizchè bilanciarsi operano
di concerto per aumentare la diseguaglianza.
Il prezzo della diseguaglianza
La produttività marginale dunque non basta, da sola, a spiegare la diseguaglianza. Cosa rispondere a
chi sostiene che la diseguaglianza è necessaria per crescere? Prima argomentazione a favore della
tesi secondo cui non esiste crescita senza diseguagianza è data dal ruolo importante giocato dal
risparmio e dagli investimenti come stimolo alla crescita: mentre quelli in alto risparmiano, di
solito quelli in basso spendono tutto quello che guadagnano. Tuttavia anche nei casi in cui
l’incremento della crescita è merito dell’incremento del risparmio ci sono comunque modi migliori
per indurre la gente a risparmiare che lasciar crescere la diseguaglianza. Una seconda
argomentazione è incentrata sull’idea che quelli in alto creano posti di lavoro e dando loro più
soldi si avrà più occupazione. Quello che in realtà crea posti di lavoro è la domanda (se c’è
domanda le imprese creano posti di lavoro per soddisfarla. In realtà la diseguaglianza è associata
alla instabilità economica.
La diseguaglianza può danneggiare l’economia in diversi modi: 1) produce un indebolimento della
domanda aggregata (chi è in fondo alla scala sociale spende una frazione del proprio reddito
maggiore rispetto a chi sta in cima). 2) La diseguaglianza di risultati è associata ad una
diseguaglianza di opportunità. 3) Le società con una maggiore diseguaglianza sono meno inclini a
fare investimenti pubblici in quelle aree che migliorare la produttività. I ricchi temono che un
governo forte in grado di accrescere l’efficienza dell’economia potrebbe al tempo stesso utilizzare i
suoi poteri per ridistribuire il reddito e la ricchezza (non sorprende dunque che nei paesi con una
maggiore diseguaglianza ci siano meno investimenti pubblici).
Invertire la diseguaglianza
Sono molte le politiche e le riforme che possono contribuire a ridurre la diseguaglianza: un
maggiore sostegno all’istruzione, l’aumento del salario minimo, rafforzamento del potere
contrattuale dei lavoratori, leggi contro le discriminazioni etc. Ci sono poi quattro aree che
potrebbero andare ad incidere sull’alto livello di diseguaglianza oggi esistente. 1) i compensi dei
dirigenti. 2) la macroeconomia (con politiche capaci di mantenere la stabilità econommica e la
piena occupazione). 3) L’istruzione. 4) La tassazione.
CAPITOLO IX
I PARADOSSI DELLE PRIVATIZZAZIONI E DELLE ESTERNALIZZAZIONI DI
SERIVIZI PUBBLICI
La privatizzazione di settori, un tempo gestiti dallo Stato e l’esternalizzazione di servizi pubblici a
fornitori privati sono state un tratto distintivo delle strategie economiche neoliberiste, finalizzate ad
accrescere il peso dei mercati e ridurre il ruolo dello Stato nell’economia. Tuttavia certe
caratteristiche hanno finito per produrre risultati diametricalmente opposti: crescita della
concorrenza ristretta, aumento del coinvolgimento economico dello Stato e un maggiore
inteventismo politico delle imprese. Invece che un sistema economico di matrice neoliberista si è
creato un neoliberismo delle corporation (un’economia in cui i settori chiave sono dominati da una
quantità ristretta di grandi aziende che posseggono un peso politico sproporzionato). Una
conseguenza del neoliberismo delle corporation è un rafforzamento delle diseguaglianze che sta
minando il rapporto positivo tra capitalismo e democrazia.
Limiti alla concorrenza
Il neoliberismo puro può essere defintio come la dottrina che afferma che il livello massimo di
efficienza si raggiunge quando il maggior numero possibile di attività è governato da mercati in
situazione di concorrenza perfettta, senza alcuna internferenza dello Stato.
L’efficienza è definita come l’esecuzione di un compito specifico al costo più basso possibile, che
comporta costi più bassi per i consumatori.
Le privatizzazioni (pieno trasferimento delle attività alla proprietà privata) e le esternalizzazioni
(l’attività rimane di proprietà pubblica, ma la sua esecuzione è appaltata a società private) di
industrie e servizi controllate dalle pubbliche autorità sono stati tratti caratteristici dell’agenda
neoliberista. In passato industrie e servizi, in economie capitalistiche, venivano gestite dalle autorità
pubbliche per diverse ragioni: i governi avevano motivazioni politiche per sostenere quei settori
che consideravano decisivi per il successo economico della nazione (i campioni nazionali), che
rimanevano in mano a privati ma erano protetti e supportato dallo Stato. Eliminare queste pratiche
era uno degli obiettivi del neoliberismo in parte perché costituivano ostacoli alla concorrenza e
perché comportavano la politicizzazione di settori dell’economia, fallendo sia a causa dell’avvento
della globalizzazione etc.; l’esistenza di monopoli naturali (dove la concorrenza era impossibile o
molto diffiicle). La creazione di un mercato dove un mercato non esiste è un affare complesso (un
esempio interessante è dato dalla fornitura di gas ed energia elettrica: per i clienti è difficile
accorgersi di essere in un mercato, il gas è sempre lo stesso, in modo da operare delle scelte in un
mercato normale. I regolatori cercano quindi di stimolare una maggiore elasticità della domanda
persuadendo le imprese a fare offerte a prezzo ridotto per indurre i consumatori a cambiare
fornitore; la speranza è quella di generare una massa di transizioni indispensabile per poter parlare
di un autentico mercato, creando differenze artificiali tra prodotti identici); alcuni beni e servizi
venivano visti come un bene pubblico o collettivo: desiderio dei governi di attirare investimenti
privati su progetti come strade, ospedali etc. per risparmiare fondi pubblici, ciò è però rischioso (il
ricorso al settore privato per gli investimenti pubblici non ha sollevato i governi dalla responsabilità
ultima per il rischio, ma li ha costretti ad offrire indennità agli investitori in caso di fallimento);
esternalizzazione della foritura di servizi pubblici: per definzione i beni e i servizi pubblici e
collettivi non possono essere forniti all’interno di mercati puri, i neoliberisti hanno cercato un modo
per dare a questi beni una forma commerciabile. I beni pubblici di ‘cittadinanza’ si sovrappongono