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Lunedì 23 marzo
LE FONTI DEL DIRITTO - CAP.8
DISTINZIONE CONCETTUALE:
- fonti di produzione, ovvero, quegli strumenti che direttamente producono una norma giuridica;
- fonti sulla produzione, ossia quegli strumenti che producono norme su come produrre le norme.
ma quale è il contenuto di quella norma giuridica? Non è un vincolo a me cittadino singolo, ma il
contenuto della norma giuridica prodotta dalla fonte sulla produzione è abilitare un altro dispositivo
a produrre direttamente una norma giuridica. La legge che mi dice che il presidente del consiglio dei
ministri può adottare decreti è un esempio di fonte sulla produzione.
(Esempio: una qualsiasi legge è una fonte di produzione perché produce direttamente una norma
giuridica. Perché produce direttamente una norma giuridica? A quale condizioni una legge produce
direttamente una norma giuridica? A condizione che quella legge sia approvata dal Parlamento
secondo un determinato procedimento legislativo. Queste condizioni sono poste dagli art.71-81 Cost.
che come vedremo ci dicono come il Parlamento approva una legge. Questi articoli sono fonti sulla
produzione, cioè producono una norma giuridica che non crea un obbligo per il singolo ma per
l’autore delle fonti abilitate, cioè delle fonti di produzione abilitate.)
Questo esempio ci dice una cosa importante: la legge è una fonte di rango primario. Gli articoli 70 e
seguenti della costituzione, fonti sulla produzione della norma giuridica prodotta dalla legge, sono
fonti di rango costituzionale. Le fonti di rango costituzionale sono gerarchicamente sovraordinate
alle fonti di rango primario—> Questo ci dice una regola generale: le fonti che abilitano un'altra fonte
a produrre una norma giuridica, devono essere sempre di rango gerarchicamente superiore a quello
della fonte abilitata. La norma che dice che una determinata fonte è abilitata a produrre diritto deve
necessariamente essere di rango gerarchicamente superiore alla fonte che essa abilita. La
Costituzione può abilitare delle fonti di rango primario. Le fonti di rango secondario devono essere
abilitate da fonti di rango primario. Nessuna fonte può abilitare un’altra fonte di produzione di forza
eguale a sé. In termini tecnici, questo si dice così: si dice che la norma di riconoscimento di una
fonte di produzione deve essere di rango gerarchicamente superiore alla fonte di produzione stessa.
- Le FONTI-ATTO sono quegli atti giuridici adottati dagli organi competenti nel rispetto delle fonti
sulla produzione. Il rispetto della norma di riconoscimento, più in generale, il rispetto delle fonti
sulla produzione è fondamentale perché se una fonte-atto è prodotta da un organo competente è si
una fonte esistente ma non è una fonte valida se non rispetta le fonti sulla produzione, quindi se
non rispetta la norma di riconoscimento. ESISTENZA, VALIDITÀ ED EFFICACIA: una fonte-atto
può essere esistente ma non valida, una fonte-atto può essere anche esistente però se pure il
parlamento adottasse una legge senza tuttavia rispettare le fonti sulla produzione, cioè gli articoli
71 e seguenti, quella fonte-atto sarebbe si esistente ma sarebbe invalida. L’invalidità di una fonte
del diritto non giustifica una condotta deviante o perlomeno non la giustifica direttamente, cioè
l’invalidità di una fonte del diritto e quindi la libertà di adottare una condotta in contrasto rispetto
a quanto quella fonte del diritto prescrive, non è dei singoli cittadini. L’invalidità deve essere
pronunciata da un soggetto che è autorizzato a dichiarare questa invalidità, quel soggetto
generalmente è un giudice. Finche non interviene il soggetto autorizzato a dichiarare quella fonte
del diritto invalida, quella fonte del diritto vincola i cittadini. L’ultima categoria è quella
dell’efficacia. Una fonte del diritto può essere esistente perché prodotta dall’autorità competente e
può essere valida perché è stata prodotta nel pieno rispetto delle fonti sulla produzione ma può
essere inefficace perché talvolta le fonti sulla produzione pongono delle condizioni integrative
dell’efficacia, cioè prescrivono degli adempimenti senza i quali quella fonte del diritto pur
esistente e valida non produce effetti giuridici. Ad esempio, la legge può essere esistente, valida
ma resta inefficace, cioè non produce effetti giuridici fin quando non è pubblicata sulla gazzetta
ufficiale. La pubblicazione è prescritta dalla Costituzione come condizione integrativa
dell’efficacia. Le fonti del diritto abilitate dal nostro ordinamento a produrre degli effetti giuridici,
una norma giuridica, si pongono tra di loro anzitutto in una relazione di tipo gerarchica.
- GERARCHIA DELLE NORME: ciò si può notare dalla prima legge delle disposizioni preliminari.
Con l’entrata in vigore della Costituzione, la gerarchia delle fonti viene completata e quindi, noi
abbiamo al vertice della piramide 1) le fonti di rango costituzionale che sono la Costituzione, ossia
il testo entrato in vigore nel primo gennaio del ’48 e accanto alla Costituzione troviamo le leggi di
revisioni costituzionale e le leggi costituzionali. 2) Sul gradino successo troviamo le fonti di rango
primario che è la legge prodotta dal Parlamento e una serie di fonti-atto che, pur non essendo
prodotte dal Parlamento, hanno la stessa forza della legge e questi atti con forza di legge sono il
decreto-legge adottato dal Governo, il decreto legislativo, i decreti adottati dal governo in caso di
guerra e i decreti adottati dal governo a fazione degli statuti speciali delle leggi ordinarie con
autonomie speciale. Nella casella delle fonti primarie, cioè sullo stesso piano delle leggi e degli atti
con forza di legge, troviamo anche i regolamenti parlamentari. I regolamenti che ciascuna
Camera adotta a maggioranza assoluta dei suoi membri in attuazione dell’autonomia
regolamentare delle Camere, sono fonti di rango primario perché ce lo dice la norma di
riconoscimento dei regolamenti parlamentari che è l’articolo che autorizza ciascuna Camera ad
adottare un proprio regolamento. Visto che la norma di riconoscimento è di rango costituzionale,
per il principio per cui la norma di riconoscimento abilita una fonte di produzione di rango
inferiore e noi sappiamo che i regolamenti delle camere sono fonti di rango primario, cioè sono
fonti hanno sopra di sé soltanto la costituzione, cioè non ci può essere una legge o atto con forza di
legge che si pone in una posizione sovraordinata rispetto ai regolamenti parlamentari. Altra fonte
di rango primario è il referendum abrogativo previsto dall’articolo 75, ovvero, quella
consultazione referendurale del corpo elettorale con cui si può realizzare l’effetto di abrogare una
norma di legge. 3) Nel gradino sotto le fonti di rango primario, troviamo le fonti di rango
secondario. Essi sono fondamentalmente i regolamenti adottati dal governo per dare attuazione
alle fonti di rango primario.
N.B.: Questa piramide è radicata perché ci viene da una lunga tradizione, soprattutto da Hans
Kelsen. Però questa piramide è un’immagine che un po’ ci manda in crisi quando questa struttura
lineare e chiara che ci rassicura, le categorie sono aggredite dalla realtà e la categoria piramide
gerarchia delle fonti è aggredita dalla penetrazione in questa piramide delle fonti europee perché le
fonti europee si innestano nel nostro sistema delle fonti nazionali senza alcun rispetto di questa
struttura gerarchica a cui noi crea scompiglio perché le fonti europee non hanno alcun rispetto di
questa relazione gerarchica e quindi c’è stato un lungo percorso dialettico tra l’ordinamento
nazionale e l’ordinamento europeo di accettazione. Seconda cosa, la gradualità delle fonti è una
gradualità anche di natura quantitativa, nel senso che le fonti di rango costituzionale sono poche
mentre le fonti di rango primario sono un po’ di più e le fonti di rango secondario sono molte di più.
Questo graduale allargamento dalla cima alla base della piramide delle fonti, non ci dice soltanto
banalmente che più si va verso il basso, più diventano numerose le fonti di quel tipo ma da un certo
punto di vista potremmo anche invertire questa piramide se il nostro criterio non fosse la quantità
delle fonti prodotte ma il livello di condivisione sociale della fonte. Quale è il livello di condivisione
delle fonti di rango secondario? Da chi sono adottate le fonti di rango secondario? Le fonti di rango
secondario sono adottate dal Governo. Il Governo è un organo che è espressione della maggioranza
politica del paese. Le fonti di rango primario, in particolare le leggi parlamentari, quale è il livello suo
di condivisione? Da chi è prodotta questa fonte? Questa fonte è prodotta dal Parlamento che è un
organo la cui espressione di volontà è esito di un processo dialettico tra maggioranza politica e
minoranza politica. Quale è il livello di condivisione sociale le fonti di rango costituzionale? Da chi è
prodotta? Le leggi di revisione costituzionale sono prodotte dal parlamento con una maggioranza più
forte, più alta della maggioranza che ordinariamente è richiesta per l’approvazione di una legge
ordinaria. In alcuni casi è previsto il coinvolgimento dell’eventuale dell’intero corpo elettorale con il
referendum costituzionale. Questa invenzione del rapporto gerarchico non è frutto semplicemente
dell’animo strutturalmente militare del giurista classico ma è perché c’è un livello di condivisione
sociale che aumenta man mano che si sale nella gerarchia e allora dire che, ad esempio, la legge
prevale sul regolamento, ossia una fonte primaria prevale su una fonte secondaria è perché la fonte
primaria è espressione di una condivisione sociale più ampia di quella espressa da una fonte
secondaria. Queste considerazioni ci aprono uno scenario complesso. Il problema è che nel mondo
reale degli operatori giuridici, ogni giorno abbiamo a che fare con contrasti tra fonti del diritto e tra
le norme giuridiche da questi prodotti.
- Quanto agli effetti temporali, l’abrogazione tacita è identica a quella esplicita (entrambe
operano ex nunc); ma ciò non vale per gli effetti spaziali, perché, mentre le disposizione del
legislatore valgono sempre per tutti (erga omnes), le operazioni intellettuali del giudice (che
si chiamano “interpretazione”) valgono solo nel singolo giudizio (inter partes) e non
vincolano affatto gli altri giudici. Perché, come dice, l’art.101.2, “i giudici sono soggetti
soltanto alla legge” e non anche alle interpretazione fornita da altri giudici.
Martedì 24 marzo
Il criterio della competenza e specialità sono strutturalmente diversi rispetto al criterio cronologico e
gerarchico. Ciò significa che in fondo il criterio della competenza e il criterio della specialità non sono
veri e propri criteri di risoluzione delle antinomie, cioè non ci vengono in soccorso quando ci sono
diverse norme in contrasto tra loro ma questi criteri sono dei principio ordinatori dell’ordinamento
che ci aiutano a mettere ordine nel sistema delle fonti.
- IL RINVIO FISSO:
Il rinvio fisso (detto anche rinvio materiale o recettizio) è il meccanismo con cui una disposizione
dell’ordinamento statale richiama un determinato atto in vigore in un altro ordinamento, atto che di
solito viene allegato. Il rinvio si dice fisso perché recepisce uno specifico e singolo atto, ordinando i
soggetti dell’applicazione del diritto di applicare le norme ricavabili da questo atto come norme
interne. Le eventuali variazioni apportate all’atto cui si rinvia, cioè all’atto recepito, sono, di regola,
indifferenti per il nostro ordinamento: cioè, se l’atto recepito subisce modifiche, queste non
produrranno effetti nel nostro ordinamento senza un altro apposito atto di recepimento.
- IL RINVIO MOBILE:
Il rinvio mobile (detto anche rinvio formale o non-recettizio) è il meccanismo con cui una
disposizione dell’ordinamento statale richiama non uno specifico atto di un altro ordinamento, ma
una fonte di esso. Per questo motivo, con il rinvio mobile l’ordinamento statale si adegua
automaticamente a tutte le modifiche che nell’altro ordinamento si producono nella normativa posta
dalla fonte richiamata. Tipici esempi di rinvio mobile sono le disposizioni del diritto internazionale
privato.
Dal punto di vista dell’applicazione del diritto, tra le due tecniche di rinvio passa una notevole
differenza pratica: mentre il rinvio fisso pone soggetti dell’applicazione solo il compito di
interpretare il testo normativo richiamato come se fosse un atto interno, il rinvio mobile pone loro
anche il compito di ricercare le disposizioni in vigore nell’ordinamento straniero, dovendo tener
conto di tutti I mutamenti che in esso si sono prodotti.
A) In primo uso, “Costituzione” indica gli elementi che caratterizzano un determinato sistema
politico, così come esso di fatto è organizzato e funziona. Il termine è usato quindi in funzione
descrittiva, per riassumere i ‘tratti somatici’ che caratterizzano questi sistemi politici: il modo in
cui essi organizzano il potere, la sua distribuzione tra organi diversi o tra centro e periferia, i
rapporti che sono istituti tra il Palazzo e i cittadini, il ruolo e le garanzie assicurati a questi ultimi,
i modi in cui su producono regole vincolanti con l’intera comunità, ecc…
Si può ben dire allora che “ogni società ha una costituzione”. Non solo dei sistemi politici ma si
potrebbe descrivere la costituzione di ogni formazione sociale. La costanza dei meccanismi
attraverso cui si prendono decisioni più importanti, una certa prevedibilità dei comportamenti e
del modo di funzionare di essi, la loro relativa immodificabilità, sono condizioni implicite
nell’idea stessa di costituzione. Sistemi complessi come gli Stati moderni non possono reggere
senza queste condizioni, esattamente come i vertebrati non possono reggersi senza colonna.
B) Vi è un altro significato in cui la parola “costituzione” è usata dai moderni: la Costituzione come
manifesto politico. Negli ultimi 200 anni, essa è stata assai spesso lanciata come un grido di
battaglia. Le costituzioni venivano richieste e concesse, negate e ritrattate, riaffermate e
nuovamente imposte: ognuno dei grandi avvenimenti storici si chiude aprendo il processo
costituente; temi e problemi che hanno portato alle lotte cercano risposte nella nuova
Costituzione. “Sono le lacrime e il sangue del popolo che hanno cimentato i muri maestri della
Costituzione italiana” - P.Calamandrei. La Costituzione è un documento, il documento
fondamentale che segna il trionfo di un ideale, sancisce la vittoria di una visione tutta politica
dell’organizzazione sociale e della sua forma istituzionale. Ogni Costituzione moderna è rivolta al
perseguimento di grandi obiettivi.
C) Il fatto è che la Costituzione è anche un testo normativo, una fonte del diritto (la + importante)
da cui derivano diritti e doveri, obblighi e divieti, attribuzione di poteri e regole per il loro
esercizio. È questa la Costituzione che applicano i giudici e a cui noi tutti facciamo richiamo
quando rivendichiamo i nostri diritti fondamentali o quando commentiamo gesti politici.
Le prime due ipotesi (che sono quelle principali) di iniziativa legislativa sono:
1) Tra i soggetti dotati della titolarità di iniziava legislativa vi è il Governo. In alcune materie il
Governo ha iniziativa esclusiva. È il primo soggetto che può presentare un disegno di legge alle
Camere. Questo almeno nell’ordinamento, senza che i disegni di legge del Governo abbiano un
canale privilegiato, cioè un via prioritaria rispetto alle altre proposte di legge. La via prioritaria
dei disegni di legge del Governo rispetto alle altre proposte di legge è rimessa alle scelte che le
Camere compiono in sede di programmazione dell’attività parlamentare che è svolta dalla
conferenza dei capigruppo. Quell’attività di programmazione è libera e nella sede di definizione
degli strumenti di programmazione le camere valutano se concedere priorità alle proposte di
legge del Governo rispetto alle altre ma non vi è alcun vincolo in materia. Un certo vincolo invece
riguarda non tanto la procedura accelerata e prioritaria dei disegni di legge del Governo rispetto
alle altre proposte ma riguarda il fatto che le leggi in determinate materie debbano essere
necessariamente di iniziativa governativa, ad esempio, è il caso della legge di bilancio che non
può avere una iniziativa diversa da quella del Governo; esclusiva, riservata e obbligata, in cui il
governo deve presentare annualmente la legge di bilancio, ad esempio anche in materia di ratifica
dei trattati internazionali, la proposta è di iniziativa governativa. Ci sono materie in cui il governo
ha un’iniziativa riservata che è l’iniziativa legislativa generale, nel senso che può proporre una
proposta di legge in qualsiasi materia ma non gode di un carattere prioritario di queste sue
proposte di legge. Le leggi di iniziativa governativa sono la maggior parte delle proposte. Da un
punto di vista operativo, Il disegno di legge proposto dal Governo è deliberato dal Consiglio dei
ministri su proposta del ministro competente per materia; una volta che il disegno di legge è
deliberato, la sua presentazione alle Camere deve essere autorizzata dal PdR (atto
sostanzialmente governativo; è un controllo formale, cioè limitato a quelle ipotesi che potrebbero
far sorgere quella probabilità di alto tradimento alla Costituzione).
2) È titolare del potere di iniziativa legislativa anche ciascun parlamentare: è difficile che ci sia
iniziativa di un singolo, si tratta più di un’iniziativa formulate da gruppi di parlamentari. Peraltro si
tratta di un’ipotesi piuttosto recessiva, cioè sono rari i casi di legge che sono approvate ad esito
dell’iniziativa parlamentare.
Altre 3 ipotesi di iniziativa legislativa rare:
3) iniziativa popolare—>50K elettori possono presentare una proposta di legge alle
Camere. Ci sono delle complicazioni dal punto di vista pratico perché non è facile raccogliere
50k firme. È inoltre difficile produrre da un punto di vista formale un’iniziativa legislativa
popolare perché è previsto infatti che questa iniziativa abbia già la forma di un articolato
legislativo, cioè che alle Camere vada inviato già un testo legislativo con tutte le attenzioni
del caso. Se manca un articolato legislativo e normativo perfetto, questa iniziativa vale come
una petizione. Il diritto alla petizione dello Stato è uno dei tre istituti di democrazia diretta
previsti dal nostro ordinamento (referendum, iniziativa legislativa popolare e diritto alla
petizione, cioè diritto ai cittadini di presentare un’esigenza o questione ad un organo dello
Stato). Le leggi su iniziativa popolare sono meno di 10.
4) iniziativa regionale—>ciascun consiglio regionale può presentare una proposta di legge, di
qualsiasi materia.
5) iniziativa esercitata dal CNEL (comitato nazionale dell’economia e del lavoro)—>ha il
potere di iniziativa su ogni materia. Tra le funzioni di questo organo ausiliario vi è anche
un’iniziativa legislativa che all’inizio si trattava di un’iniziativa limitata alle materie
dell’attività produttiva ma successivamente gli è stato riconosciuto un potere di iniziativa
generalizzato su ogni materia. Le ipotesi in cui ha presentato delle proposte sono
limitatissime.
L’iniziativa legislativa che provenga da ciascuno di questi 5 soggetti è a pari dignità rispetto
alle altre, così come non c’è una strada accelerata prioritaria riconosciuta alle proposte di
legge di uno dei 5 soggetti. In realtà l’iniziativa legislativa di nessuno di questi soggetti
obbliga il Parlamento a prendere in esame la proposta fornitagli. Il Parlamento non è
vincolato dall’iniziativa di nessuno di questi 5 soggetti ma resta in materia pienamente
sovrano. Detiene il pieno potere.
2. Fase della deliberazione: non vi è un modello unico, le strade percorribili sono diverse. Ad
esito dell’iniziativa legislativa abbiamo un testo, che è materialmente inviato al Presidente di una
delle 2 Camere. Questa proposta presentata alle Camere può essere (da chi si è reso protagonista
dell’iniziativa) revocata in qualsiasi momento fino alla votazione finale, cioè si può ritirare la
proposta di legge. È chiaro che la revoca non impedisce al Parlamento, attraverso un’iniziativa
parlamentare, di comunque discuterne, ripartendo da capo in una materia oggetto della proposta
revocata. Una volta ricevuto il testo, il Presidente della Repubblica compie un vaglio preliminare:
concede al Presidente della Camera un certo potere affinchè valuti la ricevibilità della proposta
(valuta che la proposta venga da un soggetto legittimato e che sia perfetta da un punto di vista
formale). Una volta valutata la ricevibilità, Il Presidente valuta anche le ipotesi di improcedibilità
dell’iniziativa legislativa (la principale ipotesi a cui si rinviene quando l’iniziativa è improcedibile si
ha quando quell’iniziativa legislativa era stata già valutata dalle Camere nell’ultimo periodo della
legislatura, sei mesi, e le Camere l’avevano bocciata). Se invece il Presidente ritiene la proposta sia
ricevibile che proseguibile, allora avvia l’iter legis e assegna il disegno di legge a una commissione
(quando abbiamo parlato del Parlamento, abbiamo detto che l’articolazione principale è la
commissione; da un punto di vista quantitativo, la maggior parte del lavoro delle Camere si svolge
non nelle aule ma in commissione ed è anche dove si svolge la maggior parte del procedimento
legislativo e dove può anche svolgersi tutto il procedimento legislativo senza un passaggio finale in
aula e quindi è anche importante la scelta del presidente della camera di assegnare una proposta di
legge ad una commissione piuttosto che ad un’altra). Le commissioni permanenti delle Camere sono
competenti per diverse materie quindi il disegno viene assegnato alla commissione ritenuta più
adatta. Il disegno può essere assegnato anche a più commissioni riunite.
E cosa si fa in commissione? Si svolge un lavoro istruttorio, cioè preparatorio alla deliberazione
finale. È un lavoro molto complesso e lungo in cui il testo può subire numerose modificazioni. Il
lavoro istruttorio si apre con un’esposizione della proposta da parte del Presidente della
commissione oppure da parte di un relatore (in relazione a quel disegno di legge, nominato dal
Presidente della commissione); a questa esposizione segue una discussione a cui può partecipare
ogni membro della commissione. Parallelamente alla disposizione generale ci può essere il lavoro di
un comitato ristretto (nominato dal Presidente) che si occupa di questioni relative alla tecnica
legislativa, al lato formale e letterale, intervenendo laddove è opportuno. Poi accanto alla
discussione, alla commissione o alle commissioni riunite e che si stanno occupando dell’istruttorio
disegno di legge, possono arrivare i pareri espressi da altri commissioni; infatti, quando il Presidente
della commissione assegnataria del disegno di legge ritiene che ci siano profili che interessano il
campo di competenza materiale di altre commissioni, può chiedere a queste commissioni pareri che
confluiscono nella discussione della commissione che si sta occupando dell’istruttoria (pareri che
non vincolano le scelte della commissione che sta conducendo l’istruttoria). Ci sono due casi però in
cui il parere di altre commissioni è obbligatorio: quello della commissione bilancio (quando la
proposta presenta profili finanziari) e quello della commissione affari costituzionali (quando il
disegno di legge riguarda materie strettamente costituzionali quindi relative al funzionamento del
governo o alle libertà fondamentali).
Dopo aver discusso il contenuto, si mette ai voti articolo per articolo. È importante questa votazione
perché il singolo articolo può incidere talvolta sul contenuto generale del testo. Poi, c’è il voto
generale. È importante tenere distinti questi voti perché si potrebbe essere d’accordo sulle singole
disposizioni, ma alla fine della votazione articolo per articolo magari è venuto meno un qualche
articolo per via di una votazione a esito negativo. Il lavoro della commissione non si conclude con
una parola definitiva, cioè tutto questo lavoro è meramente istruttorio alla deliberazione successiva e
la sintesi di questo lavoro preparatorio è espresso nella relazione votata dalla commissione e redatta
materialmente dal relatore nominato dal Presidente della commissione, una relazione che esprime
l’orientamento della commissione rispetto a quella proposta di legge. Talvolta questa relazione può
essere accompagnata da relazioni minori, cioè oltre alla relazione sulla quale concordano la maggior
parte dei membri della commissione detta relazione di maggioranza, vi possono essere delle relazioni
di minoranza, cioè in cui si esprimono le perplessità delle parti politiche messe in minoranza nella
discussione all’interno della commissione.
Il testo, insieme alla relazione della commissione viene trasmesso in un unico pacchetto al Presidente
della Camera.
A questo punto si aprono 3 scenari possibili a seconda della scelta che il Presidente compie (nel
Senato, il Presidente sceglie da solo e mentre che nella camera è un potere di proposta ma è una
scelta che resta valida nel silenzio assenso dell’aula, quindi è una scelta che il presidente fa rispetto
alla quale i membri della camera dei deputati possono esprimere delle riserve):
Martedì 31 marzo
Una volta che qualunque di queste tre strade sia seguita, la Camera arriva al voto finale, cioè esprime
la sua parola definitiva sulla proposta o disegno di legge, il presidente di quella camera invia il testo,
accompagnato da un messaggio formale, al Presidente dell’altra Camera. A questo punto parte di
nuovo tutto da zero perché il Presidente dell’altra Camera valuta la ricevibilità, la procedibilità,
sceglie di assegnare quel disegno di legge ad una commissione o commissioni riunite, c’è il lavoro
istruttorio della commissione, poi si percorre di nuovo uno di questi tre procedimenti: tutto questo in
piena libertà, cioè il testo che arriva alla seconda camera è di fatto ridiscusso e rimodificato da zero.
L’unica differenza che c’è tra la prima Camera e la seconda Camera è che la prima Camera svolge il
suo lavoro sul testo originale, cioè così come viene dall’iniziativa mentre la seconda Camera lavora
sul testo modificato dal lavoro della prima Camera. L’art.70 fissa una regola di bicameralismo
perfetto: la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere, cioè una legge deve
essere approvata in identico testo in entrambe le Camere. Succede che se la seconda Camera discute
e approva il testo che viene dalla prima Camera senza apportare modifiche, a quel punto la fase della
deliberazione è chiusa. Se invece la seconda Camera interviene ad approvare degli emendamenti,
modificando il testo approvato dalla prima Camera, a questo punto se la regola è che la legge deve
essere approvata a testo identico ad entrambe le camere, il prodotto della camera che è intervenuto
per secondo torna alla prima Camera e questo rimbalzo che viene chiamato “navette” continua fin
quando non vi è una doppia approvazione da parte delle due camere su ogni singolo parte della legge.
Succede che una volta che si è esaurito il procedimento della prima Camera, la legge passa alla
seconda Camera che ripete tutto il procedimento, libera da qualsiasi vincolo sia sostanziale che
procedurale: la seconda Camera non è vincolata alle scelte procedurali della prima camera. La parola
definitiva ce l’ha quella Camera che ad un certo punto rinuncia ad apportare modificazioni al testo
perché a quel punto si è realizzata la doppia approvazione. A quel punto il Presidente di questa
Camera, cioè dell’ultima camera che è intervenuta, invia il testo approvato dalle camere al governo il
quale la trasmette al PdR. Secondo l’art.73 comma I, il PdR deve promulgare la legge.
3. Fase della promulgazione: le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un
mese dall’approvazione. Questa tempistica può essere derogata per volontà delle stesse camere, cioè
le camere possono nella legge che stanno approvando dichiararne l’urgenza e prevedere che sia
promulgata dal PdR entro un termine più breve rispetto a quello ordinario. Questa previsione che
abbrevia il termine per la promulgazione deve essere deliberata dalle camere a maggioranza assoluta.
In sede di promulgazione, il PdR può decidere di rinviare il testo alle camere. Sin dalla presidenza
Einaudi, il potere di rinvio delle leggi si è affermato come un potere sostanzialmente presidenziale e
abbiamo visto che non si tratta di un controllo giuridico di costituzionalità perché tale controllo è
rimesso alla corte costituzionale. Si tratta di un controllo che riguarda da un lato la correttezza delle
regole di maggioranza, soprattutto un sistema come era quello della seconda repubblica di
tendenziale bipolarismo. Ed è un controllo stando alla dottrina Ciampi, legato a ragioni di manifesta.
L’effetto del rinvio esercitato dal PdR è quello di sollecitare una nuova deliberazione presso il
Parlamento: non c’è alcun vincolo per il Parlamento, nel senso che non è un veto sospensivo espresso
dal PdR ma è una richiesta di ri-esame, tanto è vero che se le camere approvano di nuovo la legge che
viene rinviata al PdR, il PdR è tenuto a promulgare quella legge salvo che non si ravvisi in forza
estrema delle ragioni che potrebbero far sorgere la sua responsabilità per alto tradimento o attentato
alla Costituzione. Se il Parlamento riapprova il medesimo testo, il PdR è tenuto a promulgare—>ci fa
proprio capire la natura del potere di rinvio, che è quel potere volto a sollecitare un ripensamento
presso le camere e non ad invadere il potere deliberativo delle camere stesse. Quando vi fossero
ragioni secondo le quali il PdR non ritiene necessario o sufficiente esercitare un rinvio, esistono
comunque le promulgazioni con messaggi motivati, cioè il PR promulga la legge direttamente senza
esercitare il rinvio ma accompagna questa promulgazioni con un messaggio, con il quale segnala le
criticità che in sede applicativa potrebbero sorgere: ad esempio, decreti sabini adottati lo scorso anno
in materia dei flussi migratori che avevano sollecitato tante polemiche politiche. La legge di
conversione di questi decreti è stata promulgata dal PdR con dei messaggi che dicevano che per
salvare la costituzionalità di queste disposizioni era necessaria in sede applicativa tenere fede agli
obblighi di diritto internazionale in materia umanitaria. Una volta che la legge è promulgata dal PdR,
il passaggio successivo è la pubblicazione
4. Fase della pubblicazione: ultimo comma dell’art.73: le leggi sono pubblicate subito dopo la
promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo
che le richieste chiedano termine diverso. La pubblicazione è una condizione integrativa della
efficacia della fonte legge, nel senso che non è sufficiente che la legge sia approvata dalle camere o
promulgata dal PdR per entrare in vigore, ma per entrare in vigore è necessario che sia pubblicata
sulla fonte cognizione ufficiale dell’ordinamento che è la Gazzetta Ufficiale della Repubblica in modo
tale da rendere la legge conoscibile alla generalità dei consociati. La legge deve essere resa
conoscibile alla generalità dei consociati e questo avviene mediante la Gazzetta Ufficiale. Il periodo di
15 giorni è denominato “vacatio legis”, decorso il quale la legge entra pienamente in vigore. Questo
termine della vacatio legis può essere abbreviato dalle camere stesse, nella medesima legge le camere
possono scrivere che la legge entra in vigore ad esempio dopo 5 giorni dalla sua pubblicazione.
È possibile istituire nuove ipotesi di referendum? È possibile ma soltanto tramite una norma
costituzionale, cioè è necessaria una revisione costituzionale. Una fonte di rango primario può
istituire un referendum soltanto consultivo, cioè un referendum che non ha un effetto giuridico
immediato perché tutti i referenda che abbiamo visto hanno un effetto giuridico immediato, il
referendum abrogativo immediatamente abroga la norma che è ad oggetto, il referendum
costituzionale immediatamente accompagna la legge di revisione costituzionale alla promulgazione e
così lo stesso per i referenda regionali. Un referendum consultivo non ha un effetto giuridico
immediato se non quello di esprimere un orientamento al decisore politico e che questo decisore
politico si attenga o meno a questo orientamento è una questione non giuridica ma politica. Una
fonte di rango primario, una legge, potrebbe convocare un referendum di tipo consultivo, ad
esempio, è stato fatto a livello nazionale quando ad un certo punto del processo di integrazione
europea di attribuire più potere al Parlamento Europeo, aveva l’unico effetto di esprimere un
orientamento che poi il decisore si è sentito il dovere di aderire e si tratta di un dovere meramente
politico e non giuridico. Quindi prendendo questi tre strumenti di democrazia diretta si pongono in
una gradualità che non solo ci dice una complessità formale crescente (perché la petizione non
richiede nessuna formalità, l'iniziativa richiede una certa formalità e il referendum richiede
moltissimi passaggi procedurali) ma oltre ad una gradualità di formalità crescente, questi tre
strumenti si pongono in questo ordine anche nel senso di una crescenza d’incisività, perché la
petizione è rivolta alla Camera e può esaurire la sua efficacia nel momento in cui si presenta alle
camere, cioè non fa sorgere alcun obbligo in capo al Parlamento anche l’iniziativa legislativa popolare
cosi come qualsiasi forma di iniziativa legislativa non fa sorgere in capo al Parlamento l’obbligo di
dar seguito e di prenderlo in esame un’iniziativa legislativa popolare. La riforma costituzionale detta
RENZI-BOSCHI che poi è fallita alla prova del referendum costituzionale prevedeva che quando
l’iniziativa legislativa popolare avesse un numero di firme superiore una certa soglia, questo creasse
una sorta di vincolo in capo al Parlamento ma la riforma è fallita, per cui il Parlamento non resta
vincolato nessun obbligo. Il referendum sia quello costituzionale che abrogativo hanno incidenza
diretta immediata sull’ordinamento giuridico. Il referendum costituzionale fa sorgere
immediatamente in capo al PdR l’obbligo di promulgare quella legge costituzionale o di revisione
costituzionale. Il referendum abrogativo immediatamente riduce l’effetto abrogativo e quindi elimina
una norma di rango primario dall’ordinamento con efficacia ex nunc. Questo è il motivo per il quale
il referendum è uno strumento efficacissimo. Il fatto che il referendum sia un istituto di democrazia
diretta che ha come effetto immediato quello di abrogare una norma giuridica ci permette di
qualificare il referendum abrogativo come una fonte del diritto.
Perché è una fonte del diritto? Perché è un atto o fatto idoneo a produrre una norma giuridica. Il
referendum abrogativo è a tutti gli effetti un dispositivo idoneo, abilitato da quella norma di
riconoscimento che è l’articolo 75 della Costituzione, a produrre una norma giuridica. È chiaro che si
tratta ordinariamente di una norma giuridica che ha un carattere che di per sé è negativo, cioè ha una
natura ablativa, perché quale è la norma che è prodotta dal referendum abrogativo? È un vuoto
perché il referendum abrogativo interviene ad abrogare una fonte di rango primario. È il corpo
elettorale, titolare della sovranità, che direttamente interviene ad abrogare dall’ordinamento il
prodotto legislativo, cioè il prodotto della volontà dell’organo rappresentativo. Il fatto che il
referendum abrogativo produca una norma giuridica di segno negativo, cioè che intervenga
nell’ordinamento eliminando qualcosa, cioè creando una norma ablativa, è quello che accade
ordinariamente ma non è l’unico dei modi possibili.
- All’inizio della stagione della seconda repubblica, referendum elettorale del 18-19 aprile del 1993
sulle elezioni del senato della repubblica segna il passaggio da un sistema elettorale proporzionale
a un sistema elettorale maggioritario.
- Quello dell’aprile del 1993 era un referendum abrogativo. Questo referendum abrogativo
riguardava non tutta la legge elettorale del Senato ma soltanto alcune parti, cioè alcune
disposizioni della legge elettorale per il Senato. Avviene il referendum che ha esito positivo e
quindi si realizza l’effetto di abrogazione ma succede che mentre si realizza l’effetto di abrogazione
di quelle parti della legge elettorale che erano state poste ad oggetto del quesito referendiale,
emerge una normativa di risulta, cosi si chiama la legge che residua dopo l’intervento dell’effetto di
abrogazione del referendum, emerge una normativa di risulta che è di segno complessivamente
opposto rispetto a quello che aveva all’inizio. Era una legge elettorale proporzionale e alcune parti
vengono abrogate mediante referendum, il testo della legge che ne esce a brandelli istituisce un
sistema elettorale maggioritario, quindi è vero che quel referendum del 1993 come ogni
referendum abrogativo ha un effetto immediato solo di legislazione negativa, ciò un effetto
direttamente ablativo perché abroga alcune norme ma indirettamente ha un effetto di legislazione
positiva, cioè cambia la legislazione quindi pone una nuova norma positivamente. Il sistema
diventa da proporzionale a maggioritario: questo è un esempio classico di referendum
manipolativo, cioè un referendum abrogativo, che ha ad oggetto alcune selezionate attentamente
disposizioni di una legge non tanto per abrogare quella disposizione ma per modificare il senso di
quella legislazione e fare in modo che la normativa di risulta, cioè quello che residua dall’effetto
abrogativo esprima un segno diverso rispetto a quello originariamente espresso.
Il referendum può manipolare la legislazione perciò si parla di referendum manipolativo.
Il referendum abrogativo è una fonte del diritto di rango primario e perché lo diciamo? Per due
ragioni:
1) perché la norma di riconoscimento del referendum abrogativo è l’art.75 della Costituzione.
Visto che la norma di riconoscimento è di rango costituzionale allora il referendum è di rango
primario.
2) il referendum abrogativo, ce lo dice la norma dell’art.75, può avere ad oggetto solo una fonte
di rango primario, cioè può spiegare la sua forza attiva soltanto in relazione a una fonte di
rango primario.
Articolo 75, comma I: “è indetto a referendum popolare per deliberare l’abrogazione totale o parziale
di una legge o di un atto avente forza di legge”. L’oggetto del referendum può essere soltanto una
fonte di rango primario e non possono esserlo i regolamenti delle camere perché sono di autonomia
delle camere. Il referendum abrogativo ha delle peculiarità che lo differenziano rispetto alle altre
fonti di rango primario (quanto alla struttura) perché il referendum è una consultazione con un
procedimento complesso e non è una deliberazione/approvazione di un atto con forza di legge però il
referendum ha delle peculiarità quanto ala forza di questa fonte, cioè alla capacità di intervenire
sull’ordinamento. Si tratta di particolarità che in parte lo pongono (il ref) in una posizione quasi
privilegiata rispetto alle altre fonti di rango primario, dall’altra parte talvolta lo pongono in una
posizione di depotenziamento rispetto alle altre fonti di rango primario.
Dobbiamo precisare queste peculiarità sia sul versante della forza attiva del referendum sia sul
versante della forza passiva.
- Limitazione alla forza attiva del referendum: la sua capacità di intervenire sull’ordinamento
che ordinariamente ha segno soltanto negativo. Posto questo limite generale e strutturale ci
sono altre limitazioni che la stessa Costituzione prevede all’art.75: sottrae alla forza attiva del
referendum alcune leggi, cioè esclude che alcune leggi possano essere abrogate con un
referendum popolare e sono A) la legge di bilancio (non può essere abrogata con un
referendum perché l’abrogazione referendiala del bilancio creerebbe uno stallo del sistema,
essendo la legge di bilancio una legge necessaria, senza la quale non è possibile autorizzare
spese ne riscuotere entrate. Proprio per questa sua natura necessaria, il costituente ha
pensato di sottrarla alla eventualità di un referendum abrogativo), anche B) le leggi in
materia tributaria, C) anche le leggi con cui il Parlamento autorizza la ratifica dei trattati
internazionali (quando è concluso un trattato internazionale poiché questo abbia effetto deve
essere ratificato dal Governo e la ratifica non viene sempre autorizzata e in alcuni casi, e deve
essere autorizzata con legge dal Parlamento e si tratta di scelte coinvolgono equilibri
nazionali delicati che il costituente ha ritenuto opportuno di sottrarre a referendum popolari
di abrogazione), infine sono sottratte anche D) le leggi con cui il Parlamento concede
l’amnistia e l’indulto (prevedono un procedimento rinforzato perché devono essere approvate
a maggioranza assoluta in ogni articolo e anche nel voto finale. È una scelta del costituente
quella di impedire che possa essere abrogata con referendum una legge che concede
l’amnistia e l’indulto, anche perché sarebbe, da un punto di vista pratico, difficile immaginare
una situazione in cui entra in vigore una legge che concede l’amnistia e l’indulta e poi viene
indetto un referendum che elimina gli effetti della legge). Oltre a questi limiti espressi alla
forza attiva del referendum, la Corte costituzionale ha chiarito che non possono essere
oggetto di referendum abrogativo E) le leggi costituzionali o di revisione costituzionale e che
siano sottratte anche F) le leggi ordinarie ma a contenuto costituzionalmente vincolato, cioè
quelle leggi approvate dal Parlamento secondo il procedimento comune ma che hanno un
contenuto in qualche modo già vincolato dalla Costituzione. Da una parte il referendum
abrogativo ha una forza attiva limitata depotenziata rispetto alle altre fonti. Se la forza attiva
del referendum abrogativo è depotenziata per ragioni di tenuta del sistema, la sua forza
passiva è in qualche modo potenziata rispetto alla forza passiva rispetto alle altre fonti.
- Forza passiva del referendum: capacità di resistere all’aggressione da parte di un’altra fonte,
cioè la capacità di non essere rimossa ad opera di un’altra fonte del diritto. Esempio: nel 2011
fu celebrato un referendum che nella narrativa dell’opinione pubblica era rappresentato come
il referendum sull’acqua ma era in realtà un referendum che mirava ad abrogare alcune
disposizioni della legge in materia di affidamento dei servizi pubblici locali, cioè la legge che
mi dice come gli enti pubblici possono affidare a dei privati la gestione del servizio pubblico e
tra questi quello idrico. Al di la della questione di merito, il punto è che questo referendum
ebbe esito positivo e abrogò alcune disposizioni di quella legge dl 2008. Pochi mesi dopo il
Governo intervenne adottando un decreto-legge che reintrodusse la stessa normativa che era
stata abrogata, cioè quelle disposizioni di quella legge che sono state colpite dall’abrogazioni e
quindi eliminate, vengono reintrodotte nell’ordinamento da un decreto-legge poi convertito
in legge. Il Governo non reintroduce queste norme usando la medesima formulazione
letterale e le poche modifiche che fa sono in realtà peggiorative. La questione ad un certo
punto arriva alla Corte costituzionale che si pronuncia in materia con la sentenza n199/2012:
la Corte ricostruisce la vicenda e dice che il Governo adotta il 13 agosto del 2011 un decreto-
legge dopo che il referendum c’era stato a luglio e a distanza di meno di un mese il governo è
intervenuto nuovamente sulla materia con la legge la quale detta una nuova disciplina dei
servizi pubblici che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio da quella abrogata ma è
anche letteralmente riproduttiva in buona parte. Quale è il problema? Qui si potrebbe dire
che c’è un contrasto tra fonti di pari rango perché referendum abrogativo e il decreto-legge
sono tutte e due fonti di rango primario e quindi c’è il principio cronologico, dall’ altra parte
se oggi il Parlamento adotta una legge e domani ne adotta un’altra che la abroga in maniera
implicita e espressa nessuno lo dice. Il principio della inesauribilità delle fonti del diritto, per
cui il legislatore non è vincolato, e anche il governo in realtà.
Perché c’è un problema: interviene una fonte primaria, il decreto-legge, che smentisce quello
che dice la fonte primaria del mese prima? Il referendum abrogativo oltre a essere una fonte
del diritto è anche uno strumento di democrazia diretta e questo crea un vulmos
costituzionale. L’operazione dell’organo rappresentativo che, a distanza di cosi breve termine,
rimuove gli effetti dell’esercizio di una democrazia diretta. Questa operazione non è stata
neanche compiuta dall’organo rappresentativo ma dal Governo. La Corte dice che il decreto-
legge viola il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile
dall’art 75. La Corte ci dice che esiste un divieto di ripristino della normativa abrogata con il
referendum. Una volta che il referendum è celebrato a esito positivo e quindi produce il suo
effetto di legislazione negativo, questo effetto non può essere aggredito da una fonte di pari
rango. La Corte dice che il ripristino da una norma abrogata si giustifica alla luce di
un’interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione
degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal
dettato costituzionale al solo fine di impedire che la consultazione popolare venga resa nulla.
Qui in ballo c’è il principio di sovranità popolare che diventa il criterio di rimedio in questo
conflitto. Il legislatore ordinario, tantomeno il Governo, non può intervenire a reintrodurre
una normativa abrogata con un referendum popolare. Infatti la Corte dichiara
incostituzionale il DL e quindi annulla la disciplina adottata dal Governo.
Ma l’effetto realizzato dal Governo è perpetuo? Il divieto di rimozione dipende dalla
prospettiva unitaria della trama costituzionale e per evitare che venga vanificato l’effetto utile
del referendum senza che sia determinato successivamente all’abrogazione alcun mutamento
né del quadro politico né delle circostanze di fatto tale da giustificare un simile effetto. Quindi
la rimozione dell’effetto del referendum è possibile soltanto se è intervenuto un mutamento
del quadro politico o delle circostanze di fatto, quindi non c’è un’eternizzazione di alcune
parti dell’ordinamento. Qualcuno ritiene, ma si tratta di una approssimazione, che va poi
discussa caso per caso, che questo mutamento che abiliti la reintroduzione della normativa
abrogata non ci sia prima di 5 anni dal referendum abrogativo perché 5 anni è il termine
ordinario per una legislatura e quindi è quel lasso di tempo che nei migliori modi possibili
non vi sono mutamenti del quadro politico perché ogni 5 anni eleggiamo il Parlamento e
anche perché il legislatore nella legge sul referendum che mi dice che se il referendum ha
esito negativo lo stesso quesito referendiario non può essere riproposto se non dopo 5 anni.
In analogia, rispetto a questa tempistica prevista dalla legge ordinaria sul referendum
abrogativo, si ritiene che quel mutamento che fa venir meno il divieto di reintrodurre la
normativa abrogata sia presumibilmente verificato ogni 5 anni. Il mutamento del quadro
politico è il rispecchio di un mutamento della società civile. Un mutamento del quadro
politico significa una diversa localizzazione e distribuzione delle preferenze elettorali sul
territorio.
Esiste una legge ordinaria sul referendum abrogativo. L’ultimo comma dell’art.75 dice che la legge
determina le modalità di attuazione del referendum. All’art 75 c’è una riserva di legge. La
Costituzione entra in vigore nel 48, la legge che determina le modalità di attuazione del referendum è
approvata nel maggio del 1970. Senza quella legge che determina le modalità di attuazione del
referendum di fatto non si può celebrare un referendum abrogativo e quindi fino al 1970 l’art.75 è
rimasto inattuato (come altre disposizioni come quelle sull’organizzazione regionale o sulle
lavorazioni della corte costituzionale che ha iniziato a lavorare nel 1956).
Perchè viene approvata nel 1970?
Esattamente per la legge sul divorzio. Il 1970 è anche l’anno in cui viene approvato la legge che
introduce lo scioglimento del vincolo matrimoniale, che era stato una legge che aveva avuto un
procedimento legislativo piuttosto complesso ed è durato più di due anni. Chi aveva qualche
difficoltà con questa legge era il partito di maggioranza relativo, la Democrazia cristiana perché la
democrazia cristiana è sempre stata molto eterogenea al suo interno ed è sempre stato un partito che
ha sofferto di un problema che è lo scollamento della classe dirigente rispetto alla base elettorale,
cioè su alcune questioni la dirigenza della democrazia cristiana aveva delle posizioni che non sempre
coincidevano con le posizioni della base elettorale. Questo già era emerso nel referendum
istituzionale monarchia-repubblica perché ad un certo punto, all’inizio, la scelta tra monarchia e
repubblica doveva essere data dalle decisione dell’assemblea costituente. Ad un certo punto si sceglie
di assegnare questa scelta al corpo elettorale direttamente anche per volontà della democrazia
cristiana perché la dirigenza della democrazia cristiana esprimeva una opzione preferenziale per la
repubblica però sapeva bene questa dirigenza che la gran parte dell’elettorato che sosteneva la
democrazia cristiana aveva un animo più conservatore ed esprimeva una opzione monarchica. Allora
far scegliere tra monarchia e repubblica ai parlamentari avrebbe esposto il partito provocando delle
emorragie elettorale. Per uscire da questo impiccio decidono di affidare questa scelta al corpo
elettorale. Sulla legge del divorzio, invece, la democrazia cristiana è spaccata. Allora si pensa di
approvare la legge sul divorzio in Parlamento ma poi lasciare la possibilità che il corpo elettorale
abroghi direttamente quella legge con un referendum abrogativo. Era un’ipotesi veramente che
serviva alla democrazia cristiana, perché una volta che il corpo elettorale avesse abrogato la legge sul
divorzio, sarebbe stato difficile tornarne a ridiscuterne. Quindi ad un certo punto si pensa di
approvare la legge sul divorzio ma anche di approvare la legge sulle modalità organizzative del
referendum abrogativo per poi celebrare questo referendum abrogativo. Peraltro, nel 1970 si ha
un’altra legge importante: quella che istituisce le Regioni, perché quando la democrazia cristiana in
Parlamento approva la legge sulle modalità di attuazione del referendum abrogativo, le sinistre
capiscono la strategia del democrazia cristiana, chiedono un prezzo, ossia l’approvazione che
istituisce le regioni e quindi viene attuata quella parte dell’organizzazione che istituisce
l’organizzazione regionale. Le sinistre sanno che in alcune regioni hanno un’egemonia politica
definita, ad esempio in Emilia-Romagna o in Toscana di questo periodo, e soltanto l’istituzione
dell’ordinamento regionale avrebbe permesso ai partiti di sinistra di poter trarre qualche beneficio.
Esce completamente sconfitta da questa operazione la democrazia cristiana perché il referendum sul
divorzio si terrà e sarà il primo referendum nel maggio del 1974 e avrà un’affluenza altissima quasi
dell’88% degli aventi diritto al voto e quasi il 60% degli elettori voterà “no”, quindi voterà contro
l’abrogazione della legge sul divorzio. La democrazia cristiana si troverà con una legge sul divorzio
che ormai è consacrata dall’opposizione del corpo elettorale che ha votato “no” in massa.
La legge del 25 maggio del 1970 prevede un procedimento piuttosto articolato per arrivare a
cleebrare il referendum abrogativo. Si articola in 4 fasi:
- Fase preparatoria: è quella che realizza l’iniziativa. Chi ha l’iniziativa del referendum
abrogativo? Questo ce lo dice l’art.75 della Costituzione: è indetto a referendum quando lo
chiedono 500k elettori o 5 consigli regionali. Quindi l’iniziativa può essere o regionale
(adottando una maggioranza assoluta delle deliberazioni dei propri consigli regionali) oppure
un’iniziativa popolare (500k elettori che raccolgono le firme a sostegno di un quesito
referendario. le operazioni per la raccolta delle firme sono dirette da un comitato promotore
dei referenti che sarà composta da almeno 10 cittadini che abbiano i requisiti per l’elettorato
attivo per la camera dei deputati, cioè 18 anni.). l’esito di entrambi le iniziative poi converge
nella fase del controllo
Lunedì 6 aprile
• FONTI DI RANGO SECONDARIO
Le fonti di rango secondario sono da un punto di vista quantitativo la maggior parte delle fonti,
anche perché, rispetto alle fonti di rango primario e costituzionali, sono quelle che hanno un
procedimento di adozione meno complesso rispetto alle altre fonti. Quando parliamo di fonti
secondarie parliamo di “regolamenti”. I regolamenti sono le fonti secondarie. Quando abbiamo
definiti le fonti del diritto abbiamo detto che sono fonti gli atti o i fatti abilitati dall’ordinamento a
produrre una norma giuridica, ovvero, a produrre un precetto giuridico caratterizzato da generalità e
astrattezza o perlomeno da generalità. La norma giuridica è quel precetto normativo che è destinato
a disciplinare in astratto i rapporti giuridici. Questo è importante perché ci permette di distinguere le
fonti del diritto dagli atti amministrativi, perché gli atti amministrativi sono destinati a una cura
concreta e particolare di interessi pubblici. Quindi l’atto amministrativo non è una fonte del diritto
perché non ha un contenuto normativo, in quanto contiene un precetto giuridico destinato alla cura
concreta e particolare di un interesse pubblico. Diversamente, le fonti del diritto sono quegli atti a
contenuto normativo, cioè recanti in sé un precetto giuridico destinato a regolare in astratto i
rapporti giuridici. Questa precisazione è importante perché ora vedremo le fonti di rango secondario,
i regolamenti.
I regolamenti sono fonti del diritto che si prestano facilmente a qualche ambiguità concettuale, e
perché? Perché i regolamenti sono adottati da organi che di per sé hanno anche poteri
amministrativi, da organi che sono organi del potere esecutivo, cioè sono adottati dal Governo; sono
adottati, ad esempio, dalle autorità amministrative indipendenti; sono adottati anche da un
ministero; cioè da soggetti che appartengono al potere esecutivo o comunque hanno di per sé anche
poteri amministrativi oltre che potere normativi. I regolamenti prestano qualche ambiguità perché la
loro funzione è quella di dare esecuzione alle fonti primarie, cioè di permettere la più esatta
applicazione delle fonti primarie e quindi hanno un grado di dettaglio in più rispetto ad una fonte
primaria. Un grado di dettaglio in più che però dovrebbe mantenere un carattere di astrattezza.
Ad esempio: prendiamo la legge con cui il Parlamento istituisce il reddito di cittadinanza. Tale legge
è come ogni fonte primaria, caratterizzata da generalità e astrattezza, cioè mi dice che a determinate
condizioni che sono fissate, determinate categorie di cittadini elencate, possono ottenere una forma
di sussidio economico nelle misure che sono stabilite dalla legge. Nel momento in cui questa legge
entra in vigore, la norma giuridica prodotta da queste legge non è auto-applicativa: la legge istituisce
il reddito e sorge immediatamente un diritto soggettivo in capo al cittadino, ossia quello di ottenere il
beneficio previsto dalla legge, però tra la realizzazione di questo diritto soggettivo e la previsione
della legge del Parlamento c’è un vuoto: chi si occupa di verificare i requisiti o con quale modo
burocratico deve essere inoltrata la richiesta, con che tempistica o chi effettua i controlli o come si
effettuano questi controlli?
È chiaro che la legge avrà dato delle indicazioni ma non sarà scesa in questi dettagli perché è
opportuno che questo dettaglio sia regolato da un’autorità che conosce meglio le dinamiche
dell’amministrazione che poi opera sul territorio e questa autorità è: il Governo, vertice
dell’amministrazione. Per cui, tutto questo vuoto che è presente tra la legge approvata dal
Parlamento e l’effettiva soddisfazione del diritto soggettivo del cittadino è riempito da una serie di
regolamenti del Governo che danno attuazione necessaria alla norma legislativa che di per sé non
sempre è auto-applicativa. È chiaro che questi regolamenti adottati dal governo hanno un dettaglio,
cioè un grado di dettaglio maggiore rispetto alla legge istituiva del Parlamento, ma comunque
continuano ad essere caratterizzati da almeno la generalità, perché si sta ancora regolando in astratto
un rapporto giuridico. È chiaro che poi invece l’atto amministrativo con cui l’amministrazione,
individuata dalla legge dei regolamenti sul territorio, concede il reddito di cittadinanza in questa
precisa misura al cittadino Luigi Testa, beh li si sta curando in concreto l’interesse pubblico, quindi
quello sarà un atto amministrativo, privo di contenuto normativo, perché non c’è più l’astrattezza e
quindi non è qualificabile come una fonte del diritto. Ad esempio: un decreto adottato da un ministro
o dal Presidente del Consiglio dei ministri non è una fonte del diritto: è un atto amministrativo
perché l’atto amministrativo è soggetto a quel regime di nullità o di annullabilità, di disapplicazione
o di annullamento da parte del giudice amministrativo.
I regolamenti sono atti che da un punto di vista formale sono quasi atti amministrativi perché se
non altro provengono da un’autorità che ha poteri amministrativi, ad esempio, il Governo ma non
solo: anche i ministri, le autorità amministrative e gli organi costituzionali possono adottare i
regolamenti e anche le giunte regionali e gli esecutivi regionali. Tuttavia, i regolamenti hanno un
contenuto normativo perché non curano un concreto e particolare interesse pubblico ma continuano
a regolare in astratto i rapporti giuridici. I regolamenti sono una fonte del diritto la cui norma di
riconoscimento è la legge ordinaria. Si tratta di fonti secondarie che non sono previste direttamente
dalla Costituzione generalmente. Nella Costituzione c’è un riferimento incidentale al potere di
adottare regolamenti ed è laddove si dice che a livello regionale, gli esecutivi regionali possono
adottare dei regolamenti nelle materie in cui la regione ha anche la competenza legislativa. In realtà,
la norma di riconoscimento del potere regolamentare è in una legge ordinaria. Questo è il motivo per
il quale si vuol dire che, mentre le fonti di rango primario sono un sistema tendenzialmente chiuso
(perché tale fonti sono previste dalla Costituzione e quindi è più difficile prevedere nuove fonti di
rango primario), diversamente le fonti secondarie costituiscono un sistema aperto ovvero che il
legislatore ordinario può di volta in volta abilitare nuove fonti regolamentari, cioè attribuire il potere
regolamentare a nuovi soggetti e, ad esempio, lo fa quando la legge istituisce una nuova autorità
amministrativa indipendente a cui attribuisce un potere regolamentare. Il fatto che si tratti di fonti
secondarie comporta che nell’eventuale conflitto normativo che può emergere, il criterio risolutore è
quello della preferenza della legge, dell’applicazione del semplice criterio gerarchico. Nel caso di
contrasto tra una fonte regolamentare e una legge, prevale la legge.
Vi sono casi in cui è non la legge ma la Costituzione ad attribuire espressamente il potere
regolamentare ad una serie di organi costituzionali, ad esempio, per il Parlamento e qui le cose
cambiano perché c’è una competenza materiale che la Costituzione direttamente ed espressamente
riserva a quella fonte di natura regolamentaria e quindi questa fonte non sarà una fonte secondaria
ma primaria. Questo è sicuramente vero per i regolamenti della Camera dei deputati e del Senato. Si
presume che questo sia vero per regolamenti adottati da altri organi costituzionali come i
regolamenti della Corte costituzionale o del PdR.
I regolamenti adottati dagli organi costituzionali sono destinati semplicemente ad avere un efficacia
interna, cioè sono destinate a regolare l’attività che quell’organo costituzionale svolge e non hanno
un efficacia giuridica universale come invece ce l’hanno i regolamenti adottati sulla base di una
norma di riconoscimento di rango legislativo.
Che tipi di regolamenti il Governo nella sua collegialità può adottare con questo procedimento?
L’art.17 della legge 400/88 ci restituisce una tipologia di regolamenti che possono essere adottati dal
Governo che sono fondamentalmente di quattro tipi. Il 1º comma ci dice che, con decreto del PdR,
previa deliberazione del Consiglio dei ministri, possono essere emanati regolamenti per disciplinare:
a) Regolamenti di esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi: tale regolamento è definito
“regolamento di esecuzione”. Infatti, sono regolamenti che il Governo adotta anche senza
una specifica autorizzazione legislativa quando avverta la necessità di emanare norme che
assicurino l’operatività della legge e dei decreti con forza di legge. Possono avere una
funzione interpretativa-applicativa della legge oppure disciplinare le modalità procedurali
per l’applicazione di essa. Ovviamente incontrano un limite costituzionale laddove sia
prevista una “riserva assoluta di legge”. Tuttavia si ritiene che regolamenti di “stretta
esecuzione” possano essere emanati anche in materia coperta da riserva assoluta: a
condizione però che essi non integrino la fattispecie legislativa, non servano cioè a
precisare e integrare le norme poste dalla legge; la loro funzione deve limitarsi a
predisporre gli strumenti amministrativi e procedurali necessari a rendere operativa la
legge (tipico compito del ‘potere esecutivo’)
b) Regolamenti d’attuazione: essi sono emanati per disciplinare l’attuazione e l’integrazione delle
leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie
riservate alla competenza regionale. Non si parla più di esecuzione ma di attuazione e di
integrazione. Il Governo non è mero esecutore. C’è una legge o decreto legislativo che ha
una normativa di principio e questa normativa richiede di essere dettagliata ma con
l’esercizio di una discrezionalità normativa maggiore rispetto a quella del Governo mero
esecutore. Siamo nel campo dei regolamenti di attuazione in cui si espande in qualche
modo la potenzialità creativa del potere normativo del Governo. Chiaramente tutto questo
soltanto nelle materie di competenza statale, sempre che non si tratti di materie riservate
alla competenza regionale perché in competenza regionale, la legge è approvata dal
Consiglio regionale e il potere di adottare i regolamenti d’attuazione è degli esecutivi
regionali, cioè delle giunte regionali.
c) Regolamenti indipendenti: sono emanati per disciplinare le materie in cui manchi la disciplina
da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie
comunque riservate alle legge. Qui c’è l’espansione massima del potere regolamentare del
Governo. Non c’è una legge o decreto legislativo da eseguire o che mi pongono dei principi
da attuare o da integrare. Nell’assenza di una fonte di rango primario, tutta la disciplina
(da zero) è prodotta attraverso l’adozione di un regolamento del governo che si chiamerà
regolamento indipendente.
d) Regolamenti di organizzazione: cioè quei regolamenti con cui il Governo dà delle direttive
organizzative all’amministrazione dello Stato. I regolamenti sono emanati a disciplinare
l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazione pubbliche secondo le
disposizioni dettate dalla legge. Ipotesi marginale, non solita.
GRADUALITÀ PRESENTE TRA regolamenti ESECUTIVI, ATTUATIVI ed INDIPENDENTI
Questi regolamenti sono in una sequenza che è in gradualità di un sempre maggiore e libero esercizio
di creatività normativa, perchè, per il caso A) del regolamento esecutivo, questa capacità di creazione
normativa attraverso il regolamento passi del tutto mortificata: il Governo semplicemente esegue,
con il regolamento esecutivo, quello che è previsto dal legislatore.
Nel caso successivo invece, B) del regolamento di attuazione, c’è un maggior spazio per la creazione
normativa discrezionale del Governo, perché il Governo dettaglia una normativa che è solo di
principio e quindi ha già più libertà. Questa poi capacità di creazione normativa si espande
completamente quando manca una disciplina di rango primario sia di dettaglio che di principio con
cui il regolamento indipendente, il Governo può disciplinare l’intera materia di competenza statale.
C) L’art.17 quando parla dei regolamenti indipendenti, aggiunge un inciso importante: regolamenti
per disciplinare le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o atti aventi forza di legge,
sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge.
Questa gradualità di potenzialità espansiva del potere regolamentare che parte da regolamenti di
esecuzione fino al punto di massima espansione con i regolamenti indipendenti, è una gradualità
inversamente proporzionale rispetto alla operatività di una riserva di legge. Ma in che senso? Nel
senso che ovviamente il regolamento indipendente con cui il Governo disciplina tutta la materia in
assenza di una fonte di rango primario, può essere adottato solo se quella materia non è coperta da
riserva di legge perché la riserva di legge assoluta esclude completamente la concorrenza del potere
normativo del Governo e riserva in maniera totale la disciplina di quella materia a una fonte di rango
primario, per cui se c’è la riserva più forte, il Governo non potrà adottare il regolamento
indipendente. Tale regolamento potrà essere adottato soltanto se non c’è una riserva di legge
assoluta ma solo se non c’è proprio nessuna riserva di legge perché anche se ci fosse una riserva di
legge relativa, il Governo non potrebbe adottare il regolamento indipendente e potrebbe al massimo
adottare il regolamento di attuazione, perché con la riserva di legge relativa, il principio è riservato
ad una fonte di rango primario ma il dettaglio può essere disciplinato dal Governo attraverso un
regolamento di attuazione. Anche quando c’è una riserva di legge assoluta, il Governo può adottare
regolamenti di esecuzione perché non implicano alcun esercizio di potere normativo di sostanza da
parte del Governo. Dunque si ha una proporzionalità inversa tra il potere regolamentare del
Governo e la natura dell’eventuale riserva di legge esistente. Quanto più forte è la riserva di legge che
è presente, tanto più debole è il potere regolamentare del Governo, che è al massimo quando non c’è
nessuna riserva di legge e può adottare regolamenti indipendenti.
REGOLAMENTI DI DELEGIFICAZIONE
un tipo di regolamento adottato dal Governo, non previsto dall’art.17, che è uno strumento di un
certo tornante della nostra storia a cui si è fatto un ricorso piuttosto massiccio: si tratta dei
regolamenti di delegificazione. Tali regolamenti servono a delegificare, cioè ad individuare una
determinata disciplina normativa che ha la veste di una disciplina di rango primario e spogliarla
di questa veste dandole la veste di una disciplina di rango secondario. Si individua una disciplina di
rango primario e la si degrada ad una disciplina di rango secondario al fine di mettere ordine nel
complesso disordinato, talvolta disarticolato, tra norme legislative ma anche al fine di rendere quella
disciplina materiale più flessibile, duttile, perché una volta che quella disciplina è stata degradata da
fonte di rango primario a secondario di fatto la si è messa con più facilità alle disponibilità del
Governo che può modificarla secondo le circostanze. È in un’ottica di semplificazione del complesso
delle fonti del diritto.
Come si prende una disciplina di rango legislativa e la si trasforma? Si fa con un procedimento di
delegificazione, che è un procedimento un po’ complesso, perché di per sé da solo un regolamento
che è una fonte secondaria, non può degradare una fonte di rango legislativo, cioè non può decidere
sulla natura di una fonte gerarchicamente superiore ad essa. Il procedimento è il seguente:
l’iniziativa è presa dal legislatore, cioè è il Parlamento che adotta una legge, una legge che realizza
una abrogazione espressa della disciplina di rango legislativo che si vuole delegificare.
Un’abrogazione espressa che però non è istantanea, ma è dalla legge stessa condizionata alla entrata
in vigore dei regolamenti con cui successivamente il Governo interverrà a disciplinare quella materia.
Una volta che entra in vigore questa legge, il Governo, con il procedimento collegiale, adotta dei
regolamenti che dettano la nuova disciplina di quella materia. Una volta che questi regolamenti sono
emanati, si realizza il fatto dell’abrogazione che era stata predisposta dalla legge e quindi la
normativa legislativa recedente è abrogata dalla legge e il vuoto che segue questa abrogazione è
riempito dalla disciplina che è adottata dal Governo con propri regolamenti. Ad esempio: si vuole
delegificare la materia delle norme in materia di circolazione stradale. C’è una legge che disciplina la
circolazione stradale. Noi la vogliamo far diventare una fonte di rango secondario, così il Governo
potrà liberamente intervenire quando si renderanno necessarie delle modifiche. Allora si fa così: il
Parlamento approva una legge in cui dice: “è abrogata in maniera espressa la legge numero x del
1983 in materia di circolazione stradale”. L’effetto di questa abrogazione è condizionato all’entrata in
vigore dei regolamenti che il Governo adotterà in materia di circolazione stradale. Quella legge entra
in vigore, non realizza immediatamente il proprio effetto di abrogazione. Ad un certo punto il
Governo adotta dei regolamenti indipendenti con i quali detta una nuova disciplina in materia di
circolazione stradale; quei regolamenti sono emanati dal PdR, entrano in vigore e a quel punto si
realizza l’abrogazione condizionata che era stata predisposta dalla legge e il vuoto che segue da quella
abrogazione è riempito dalla disciplina adottata con regolamento dal Governo.
È necessario che interagiscano la legge del Parlamento (che abroga condizionatamente) e i
regolamenti del Governo, perché se non ci fosse la legge del Parlamento con l’abrogazione
condizionata della disciplina da delegificare, il regolamento del Governo soccomberebbe rispetto alla
disciplina da delegificare, cioè sarebbe annullato per effetto dell’applicazione del principio
gerarchico. Questi regolamenti del Governo che si inseriscono in questo meccanismo si chiamano
regolamenti di delegificazione.
I regolamenti possono essere adottati da tutti quei soggetti a cui la norma di riconoscimento di volta
in volta attribuisce il potere regolamentare e sono fonti di rango secondario, salvo i regolamenti
adottati dagli organi costituzionali, che sono fonti di rango primario. I regolamenti sono dominati dal
principio di preferenza della legge, cioè sono dominati dal principio gerarchico che di volta in volta
interviene a regolare l’antinomia tra queste fonti e fonti di rango superiore; quindi significa che un
regolamento adottato da qualsiasi organo competente in virtù di una norma di riconoscimento che
contrasti una fonte di rango superiore è illegittimo. L’annullamento del regolamento illegittimo può
essere pronunciato, secondo la legge, solo dal giudice amministrativo. I regolamenti, così come gli
atti amministrativi che pure sono intrinsecamente un’altra cosa, egualmente però possono essere
annullati solo dal giudice amministrativo. Il giudice ordinario fa lo stesso che fa quando si trova
davanti ad un atto amministrativo, ossia, lo disapplica—> questa finzione giuridica, che si rende
necessaria posto che la legge mi dica che un regolamento e un atto amministrativo possono essere
annullati solo dal giudice amministrativo e allora il giudice ordinario, che pure è soggetto alla legge,
disapplica quel regolamento o atto amministrativo illegittimo, cioè fa finta che non esiste. La
disapplicazione ha efficacia soltanto inter-partes, mentre l’annullamento ha efficacia erga omnes.
ORDINANZE IN DEROGA ALLA LEGGE, CONTINGIBILI o URGENTI
Essi sono degli atti contenti un precetto giuridico, adottati in situazione di necessità e urgenza e che
sono abilitati dalla legge, cioè c’è una legge che attribuisce a determinati soggetti dell’ordinamento,
ad esempio, al ministro della salute, al sindaco, al prefetto, al presidente della regione, il potere di
adottare un atto giuridico che disponga in situazione di urgenza e necessità. Quest’atto si chiama
ORDINANZA. L’ordinanza non è una fonte del diritto perché non regola in astratto dei rapporti
giuridici ma è destinato ad esaurire la sua efficacia in relazione ad un caso concreto e particolare. Si
tratta di atti che curano in concreto l’interesse pubblico definito nelle circostanze emergenziali che
sono sollevano. Sono atti amministrativi che possono essere adottati anche derogando alla legge, cioè
possono prevedere una disciplina che deroga alla legge se c’è una legge che autorizza questi soggetti a
farlo. Un’ordinanza di questo tipo, sebbene sia un atto amministrativo, può derogare a una fonte del
diritto. Le regioni possono applicare delle misure diverse rispetto a quelle previste da un decreto
legge del Governo perché sono ordinanze in deroga alla legge, abilitate da una espressa previsione
legislativa. La giurisprudenza costituzionale ci dice che queste ordinanze devono comunque
rispettare i principi generali dell’ordinamento e devono rispettare i diritti costituzionalmente
garantiti. L’ultimo limite è quello della riserva di legge, nel senso che si ritiene che, laddove ci sia una
riserva di legge di tipo assoluto, l’ordinanza non può disporsi. A parte questi limiti, l’ordinanza può
disporre misure diverse rispetto a quelle previste da fonti di rango primario, ad esempio, in tema di
chiusura o attività degli esercizi commerciali, laddove non c’è alcun immediato interesse
costituzionale coinvolto, l’ordinanza può spiegare la sua efficacia anche in deroga alla legge.
Mercoledì 8 aprile
LE FONTI DELLE AUTONOMIE - CAP.10 e CAP. 6
• ORDINAMENTO REGIONALE
Questo argomento chiude il quadro sul sistema delle fonti nazionali.
Finora abbiamo parlato sempre di fonti del diritto che sono riferibili a quella articolazione del potere
politico che è lo Stato. Sappiamo, tuttavia, che il nostro ordinamento prevede una forma di
decentramento politico, un ordinamento (al pari di ogni ordinamento democratico) che non
concentra il potere politico nelle mani di un unico potere territoriale, bensì prevede un’articolazione
territoriale (d’altra parte, quando abbiamo visto i principi fondamentali del nostro ordinamento,
abbiamo detto che fra questi 4 principi c’è anche il principio pluralista).
In merito al principio pluralista: non si tratta solo di garantire i diritti dei cittadini e di garantire la
formazione sociale di cui parla l’art.2 Cost. ma si tratta anche di valorizzare i livelli di governo
territoriali. La declinazione di questo principio pluralista la troviamo all’articolo 5.
L’art.5 Cost. dice “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali;
attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i
principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento”.
Decentramento ovvero attribuzione del potere politico a quel livello di governo che è in qualche
modo più prossimo al cittadino. Questo implica diversi livelli di autonomie locali, livelli che troviamo
definiti nel comma I art.144 Cost. che dice che “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle
Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Bisogna badare bene alla
formulazione letterale dell’art.114, che non è la formulazione del testo originario della Costituzione,
ma è una formulazione che ci viene dopo la novella costituzionale adottata del 2001. In questa
formulazione del 2001 lo Stato non coincide con Repubblica, perché accanto allo Stato esistono altri
livelli territoriali in cui si articola il potere pubblico. Queste autonomie territoriali locali sono in una
situazione di parità e di pluralismo differenziato, perché hanno diverse competenze, e paritario,
perché vi è un’eguale dignità nel rispetto delle proprie competenze. A regolare rapporti fra questi enti
non c’è un rapporto gerarchico, ma di competenza, che quindi salva la eguale dignità di questi enti
locali.
Di questi enti locali, due sono dotati di piena autonomia politica, nel senso che godono della
possibilità di perseguire un indirizzo politico, soprattutto attraverso l’adozione di leggi proprie—>
questi due enti sono lo Stato e le Regioni.
Vi sono poi, fra le diverse regioni, delle autonomie rinforzate, cioè che godono di un’autonomia
speciale/straordinaria, vuoi per ragioni storiche vuoi perché sono regioni caratterizzate da un
complicato pluralismo culturale-linguistico (Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta,
Trentino Alto Adige).
Ci sono anche due province autonome che godono di un’autonomia pari all’autonomia speciale
(Trento e Bolzano).
Comuni, città metropolitane, sono enti locali privati di autonomia politica.
Questo è un po un quadro sintetico della articolazione territoriale del potere politico nel nostro Stato
e dobbiamo anche dire, prima di addentrarci nella disciplina, che la disciplina che adesso andremo a
vedere è una disciplina che ha subito un radicale mutamento, in alcune parti un rovesciamento, con
due riforme costituzionali che sono state adottate nel 1999 e nel 2001. In realtà, già negli anni ’90 c’è
un processo di graduale decentramento attraverso le c.d. riforme “Bassanini”, che di fatto
realizzavano un regionalismo più intenso ma a Costituzione invariata, cioè agivano soltanto sulla
legislazione di rango primario. Nel ’99 si interviene a modificare la 1ª parte del il Titolo V, quello
dedicato alle regioni, alle province e ai comuni. Nel ’99 si interviene in modo particolare sulla
competenza statutaria delle regioni. Questo processo di riforma si completa con la rif. cost. del 2001
(approvata anche con referendum popolare) che completa la modifica del Titolo V intervenendo sulle
funzioni legislative e amministrative delle regioni e degli enti locali.
• Con che strumento le regioni disciplinano la proprie FDG? Con lo Statuto regionale.
Questi enti dotati di autonomia politica con fdg propria hanno anche un sistema delle fonti regionali.
La prima fonte è lo Statuto regionale, che detta un poi tutti i principi di organizzazione—>non è una
Costituzione delle regioni -altrimenti rientrammo nel paradigma dello Stato Federale-; non vi è un
rapporto gerarchico tra lo statuto e le leggi regionali che non è minimamente assimilabile al rapporto
che c’è fra la Costituzione e le fonti di rango primario. Questo statuto non è in concorrenza con la
Costituzione, anzi, va adottato in armonia della Costituzione, nel senso che dovrà rispettare ogni
singola disposizione costituzionale e che dovrà anche rispettare lo spirito della Costituzione. Se noi
dovessimo porre gli statuti nella piramide delle fonti li metteremmo nel gradino delle fonti primarie.
Lo statuto regola l’organizzazione della regione. Ha valore meramente politico, non giuridico. Il
contenuto che lo Statuto dovrebbe avere è precisato dalla stessa costituzione: art.123, che dice a cosa
serve lo Statuto…
A) In realtà, nella mente del legislatore dell’art.123 questo (i 5 sopra) è l’unico contenuto che
dovrebbe avere lo Statuto. Se oltre questo contenuto, vi sono ulteriori altre disposizioni (contenuto
eventuale), questo contenuto eventuale ha il valore che ha una norma giuridica espressa da qualsiasi
fonte di rango primario. Questo contenuto eventuale ha la forza che avrebbe qualsiasi fonte di rango
primario
Ma perché? Il contenuto necessario quindi ha una forza maggiore di quella di una fonte di rango
primario come le altre? Ma se non c’è un rapporto gerarchico tra lo Statuto e le altre leggi, ciò che
significa?
C’è una riserva di competenza: queste 5 materie, l’art.123 le riserva espressamente a quella fonte che
si chiama Statuto regionale e, quindi, attraverso il solito meccanismo della riserva esclude che in
questa materia possano intervenire altre fonti/leggi. Esempio: se noi, il giorno dopo l’adozione dello
Statuto, abbiamo una legge regionale che disciplina qualcosa su una di quelle 5 materie del
contenuto necessario, questa legge viola la riserva di competenza all’art.123; contrastando con lo
Statuto, contrasta indirettamente con l’art.123, e come si chiama questo meccanismo? Si chiama
parametro interposto di costituzionalità.
Lo Statuto regionale, nel suo contenuto necessario, funge da parametro interposto di costituzionalità,
perché una legge regionale che contrasta in queste 5 materie con lo Statuto regionale, indirettamente
contrasta con l’art.123 che riserva la competenza in quella materia allo Statuto, escludendo
l’intervento di una legge regionale. Questa riserva opera soltanto riguardo a quelle 5 materie, non
opera per il contenuto eventuale infilate a farcire lo Statuto.
Togliamoci dalla mente che lo Statuto sia lentamente assimilabile a una piccola Costituzione delle
regioni. Ci trae in inganno (il fatto di equiparare lo Statuto alla Costituzione) l’art.123, che prevede,
per l’adozione dello Statuto, un procedimento che è costruito sul modello dell’art.138 Cost.
Nel procedimento di formazione c’è una cosa in più rispetto a quanto previsto per le leggi
costituzionali e di revisione costituzionale (doppia deliberazione a distanza di due mesi ecc…) e
questa in più è: l’intervento a un certo punto del Governo nazionale. L’intervento del Governo
nazionale è molto meno invasivo di quello che faceva prima della riforma del 1999, che va a
riconoscere più autonomia alle regioni. Fino al 1999, lo Statuto approvato dai Consigli regionali, poi
doveva essere approvato dal Parlamento statale. Chiaro che in un regime invece di pluralismo
paritario differenziato questa cosa è un po’ un controsenso, per cui oggi si prevede che lo Statuto
regionale sia adottato tutto ad esito di un procedimento tutto endo-procedimentale (è il consiglio
regionale che, a distanza di due mesi e con possibilità di referendum, lo approva) ma una volta
approvato dal Consiglio regionale, il Governo può impugnarlo di fronte alla Corte Costituzionale
entro un termine di 30 giorni, lamentando la presunta incostituzionalità.
Ricapitolando sul procedimento di adozione: è un procedimento rinforzato; tutto endoregionale;
intervenuta la 2ª approvazione lo Statuto è pubblicato sul bollettino ufficiale delle regioni, con
efficacia negoziale (che sono i 30 gg per chiedere il referendum regionale o per l’intervento del
Governo dinnanzi alla Corte costituzionale).
Tutto questo discorso vale per le regioni a Statuto ordinario.
B) Per le regioni ad autonomia speciale (Sardegna, Sicilia, Trentino, Friuli e Valle d’Aosta) è diverso.
Esse hanno uno Statuto che però è approvato dal Parlamento nazionale con le forme di una legge
costituzionale. Gli statuti c.d. speciali sono tecnicamente fonti di rango costituzionale. Essendo fonti
costituzionali sono adottate con il procedimento visto all’art.138 dal Parlamento nazionale.
Ma che senso ha? Queste regioni dovrebbero avere più autonomia eppure si trovano ad adottare uno
Statuto non adottato da se stesse bensì dal Parlamento, non è un controsenso?
Perché abbiamo bisogno che per le regioni di autonomia speciale gli statuti non siano fonti di rango
primario ma che siano di parità gerarchica alla Costituzione?
Il punto è che la geografia dell’autonomia delle regioni ordinarie è stabilita dalla Costituzione (la
Costituzione ci dice in che materie le regioni possono adottare delle leggi, quando le regioni
esercitano le funzioni amministrative, che autonomia fiscale tributaria hanno). Se io voglio dare
un’autonomia maggiore a queste regioni devo derogare a quanto previsto dalla Costituzione a favore
di quelle 5 regioni, e per derogare a quanto previsto dalla Cost. devo fare per forza ricorso a una fonte
di rango costituzionale, perché se lo Statuto delle regioni speciali fosse adottato con una fonte di
rango di primario come le regioni ordinarie, non si potrebbe dargli più autonomia. È una necessità
che le regioni ad autonomia speciale abbiano uno Statuto che sia fonte di rango costituzionale.
- Oltre alle funzioni normative, c’è da dire qualcosa anche sulle funzioni amministrative. Sono
decentrate anche le funzioni amministrative tra Stato e regioni. Ci sono quindi delle
amministrazioni locali e territoriali, che non rispondono gerarchicamente allo Stato. Le province, i
comuni, le città metropolitane sono di per se idonei ad esercitare delle funzioni amministrative.
Anzi, lo schema adottato dalla Costituzione è quello per cui la funzione amministrativa in una
determinata materia è adottata da quell’ente locale più vicino al cittadino. C’è una logica, perché
cos’è l’amministrazione? È la cura in concreto dell’interesse pubblico. È normale che può curare e
conoscere meglio l’interesse chi è più vicino al titolare di quell’interesse—>è questa la ratio che sta
dietro all’idea di attribuire le funzioni amministrative a livello di autonomia territoriale più vicino
al cittadino e qual è il livello di autonomia territoriale più vicino al cittadino? Il Comune. Infatti,
dice l’art.118 “le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni”. Però, una cosa è il comune di
Milano, Torino o Bologna, altro è il comune di Poggibonsi, in termini di strutture. Per cui, questo
per dire che può accadere che le funzioni amministrative che sono di per se attribuite ai comuni
non possano essere esercitate in maniera efficiente ed efficace da quel comune, che magari non ne
ha i mezzi. E cosa accade allora? Opera l’ascensore delle funzioni amministrative; quello che
tecnicamente si chiama il principio di sussidiarietà (pag.295/p.2) , cioè la funzione amministrativa
in una determinata materia è attribuita a livello di governo territoriale più vicino al cittadino si, e
che sia in grado di esercitare quella funzione in maniera efficiente. Se il Comune non è in grado di
esercitare quella funzione in maniera efficiente, saliamo di piano. Magari quella funzione può
essere esercitata dalla Provincia; se nemmeno la Provincia è in grado andiamo alla città
metropolitana; se non può neanche quest’ultima, andiamo alla Regione; se infine neanche la
Regione è in grado di esercitare quella funzione amministrativa andiamo allo Stato.
“Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio
unitario siano conferite a Province, città metropolitane, regioni o stato sulla base del principio di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”. Operano insieme differenziazione e adeguatezza, e
sinenergicamente ci dicono che le funzioni amministrative sono attribuite al livello di governo
territoriale più vicino al cittadino e che sia più in grado di esercitare quella funzione. Questa è la
cosiddetta sussidiarietà verticale. L’ultimo comma dell’art.118 ci parla anche di sussidiarietà
orizzontale, cioè: Comuni, Province, Città metropolitane, regioni e Stato possono anche valutare di
attribuire l’esercizio di funzioni amministrative, se la cosa funziona meglio, a dei privati (“Stato,
Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di
sussidiarietà”).
Lunedì 20 aprile
• DIRITTO CONSUETUDINARIO
C’è un adattamento generale, il che significa che c’è stato un momento in cui l’ordinamento ha detto
che tutto il diritto consuetudinario internazionale produce effetti giuridici nel nostro ordinamento.
Questo accade quando entra in vigore la Costituzione perché l’art.10 Cost. mi dice al comma I:
“l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente
riconosciuto”. Le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute sono il diritto
consuetudinario. L’art.10 realizza l’adattamento generale nel nostro ordinamento alle fonti
consuetudinarie. Dal 1º gennaio 1948 tutto il complesso delle fonti consuetudinarie internazionali in
senso retroattivo entrano nel nostro ordinamento. L’art.10 funge da trasformatore permanente,
perché è quel meccanismo che trasforma sempre una norma internazionale consuetudinaria in
norma dell’ordinamento italiano. Poiché questo adattamento generale è compiuto da una norma di
rango costituzionale (art 10) e visto che la regola che risponde alla logica e che la norma oggetto di
adattamento entra nel nostro ordinamento con la stessa forza e con lo stesso rango di cui è titolare la
norma che dispone l’adattamento, se questo è vero, non solo l’art.10 trasforma permanentemente
tutto il diritto consuetudinario in diritto interno, ma questo diritto consuetudinario lo mette al
vertice delle fonti del diritto. Tale diritto entra nel nostro ordinamento come fonte di rango
costituzionale.
Questo trasformatore permanente ha dei filtri? Esempio: sentenza della Corte costituzionale
n238/2014: la vicenda riguardava quella norma di diritto consuetudinario dell’immunità degli Stati
per gli atti iuri imperi per le giurisdizioni stranieri. Perché la vicenda riguarda i tribunali di Firenze
che aveva condannato la Germania ad un risarcimento del danno a favore dei discendenti di alcune
vittime delle deportazioni che erano state compiute durante la stagione nazista. Atti chiaramente iure
imperi perché la scelta di deportare alcuni soggetti era comunque un esercizio di sovranità da parte
della Germania, atti politici in senso stretto. Eppure, il tribunale di Firenze procede in giudizio
contro la Germania e la condanna al risarcimento dei danni.
Come? Non c’è nel nostro ordinamento una norma costituzionale che mi dice che gli stati non
possono essere chiamati a rispondere dinnanzi a un giudice per atti iure imperi? Nel momento in cui
opera l’art.10, in realtà abbiamo tre norme: la norma consuetudinaria internazionale che resta al di
fuori del nostro ordinamento, abbiamo l’art.10 della Costituzione che opera da trasformatore
permanente e poi la norma costituzionale, che ci dice la stessa cosa che ci dice la norma
consuetudinaria internazionale. Questo è importante perché la questione del tribunale di Firenze
arriva dinnanzi alla Corte costituzionale, che non sarebbe legittimata a sindacare la norma di diritto
internazionale. La Corte costituzionale è chiamata a sindacare quell’ultimo passaggio della fiera
trasformante, cioè la norma giuridica italiana che esce ad esito del lavoro compiuto dal trasformatore
permeante art.10. La Corte costituzionale valuta questa norma: ci dice che ha ragione il tribunale di
Firenze quando dice che questa norma viola l’art.24 della costituzione, il diritto alla difesa e peraltro
viola il diritto alla difesa in un caso che ha che fare con gravi crimini contro l’umanità che
costituiscono il presidio forse più alto dei diritti inviolabili riconosciuti all’art.2. La Corte
costituzionale nella sentenza n238/2014 non dice: caro tribunale di Firenze hai ragione tu e che
questa norma è incostituzionale perché viola art 24, ma dice un’altra cosa: in realtà questa norma che
tu tribunale di Firenze dici esista, non si è formata nel nostro ordinamento. La Corte costituzionale ci
sta dicendo che questo trasformatore permanente in questo caso non ha funzionato e questa norma
giuridica nel nostro ordinamento non esiste, perché il trasformatore permanente non funziona per
quelle norme di diritto internazionale che violano i diritti fondamentali, perché tali diritti sono
indisponibili anche al legislatore di revisione costituzionale. Sennò il legislatore potrebbe violare i
diritti supremi inviolabili; questa violazione non la fa neanche il trasformatore permanente
dell’art.10, quindi c’è un filtro: l’art.10 fa entrare nel nostro ordinamento il diritto internazionale
nella parte in cui non viola i diritti inviolabili. Il diritto alla difesa è sicuramente un diritto
inviolabile, e quindi la norma consuetudinaria di diritto internazionale circa l’immunità degli Stati
stranieri per atti iuri imperi entra nel nostro ordinamento solo nella parte in cui non esclude questa
giurisdizione per gli atti che integrano un crimine contro l’umanità, quindi, l’art.10 opera come
trasformatore permanente per tale diritto consuetudinario, ma esclude che entrino nel nostro
ordinamento quelle norme consuetudinarie che violano i diritti supremi. I filtri sono costituiti dai
principi supremi e dai diritti inviolabili. Il tribunale di Firenze può condannare la Germania al
risarcimento del danno.
Prima però: siamo in un contesto di divagante euro-scetticismo. Negli ultimi mesi, almeno nel nostro
paese, sembrava che questo euro-scetticismo si fosse attenuato e lo sembrava perché la vicenda del
Regno Unito aveva convinto la maggior parte degli attori dell’aera europea della non-validità
dell’ipotesi di un’uscita dall’aera europea. Oggi, per note circostanze, rischia di avere un’ondata di
ritorno. Naturalmente, ci sono alcuni elementi del processo di integrazione Europa che possono
essere discussi e opinabili. Quel che c’è da dirci però, è che quelli della nostra generazione rischiano
di dare un po’ per scontata l’UE, rischiano di dare per scontate quelle conquiste che il processo di
integrazione europea ha ottenuto e di cui noi beneficiamo tutto sommato senza una piena cognizione
di tutto il processo che c’è stato dietro (esempio: Se io volessi andare a fare un fine settimana a
Parigi, potrei organizzarlo domani e partire. Se io volessi comprare cognac francese, potrei
comprarlo senza un sovrapprezzo daziale). Questi esempi ci portano a quello che è il sogno che sta
dietro al processo di integrazione europea.
Il processo di integrazione europea comincia dopo la 2ª guerra mondiale, e a questo sogno
partecipano intellettuali da tutta Europa. Questo sogno è il sogno di uno spazio unico europeo in
qualche modo eguale ad un unico Stato, ovvero uno spazio unico europeo in cui è possibile che si
circoli liberamente, che le merci circolino liberamente, i capitali, le prestazioni di servizi, come se si
fosse sul territorio di uno Stato unitario. Questo per garantire uno spazio unico che finisce poi per
creare un’interdipendenza tra gli Stati membri che è, nelle menti di chi concepisce l’integrazione
europea, strumentale al mantenimento della pace, perché se io ho l’interesse a comprare/andare dal/
all’estero o se io mi servo di servizi erogati da professionisti stanziati all’estero, io allora ho l’interesse
che fra gli Stati non ci siano attriti di sorta. Quindi, questo spazio/mercato unico è strumentale a
garantire un’interdipendenza funzionale alla pace fra le Nazioni che partecipano al progetto europeo.
Questo è il distillato del progetto dei padri fondatori dell’UE.
Questo progetto europeo come si realizza? Non può che realizzarsi con strumenti che abbiamo visto
ieri: con accordi internazionali fra gli Stati che intendono impegnarsi in questo progetto. Qua si
tratta di un progetto, anche da un punto di vista identitario, particolarmente impegnativo (perché gli
elementi costitutivi di uno Stato sono la sovranità, la cittadinanza e il territorio). Nel momento in cui
decidiamo di creare uno spazio unico in cui persone, merci, capitali e servizi circolano liberamente
abbiamo abdicato al requisito del territorio (in parte), a quello della cittadinanza e anche quello della
sovranità (cessione di una porzione, che non è da poco).
Percorso formazione Europa: questo percorso inizia col “Trattato di Roma” del 1951 e questo trattato
è il primo passo di un percorso che va avanti per successivi trattati, accordi internazionali, che di
volta in volta in senso ampliativo il livello di integrazione europea. Quello che istituito nel 1951 è la
c.d. CECA (comunità europea del carbone e dell’acciaio), ovvero una forma sperimentale dell’UE,
perché riguarda solo il mercato del carbone e dell’acciaio (che non è una scelta a caso perché sul
possesso dei giacimenti di questi che stavano nel cuore dell’Europa si erano giocate le ultime guerre).
Quella CECA poi, nel 1957, viene affiancata da altre 2 forme di integrazione europea: la CEE
(comunità economica europea) e la CEEA (comunità europea energia atomica).
Queste 3 comunità che viaggiavano in parallelo prevedendo forme di integrazione diverse vengono
nel 1993, col “Trattato di Maastricht”, unificate e nasce la Comunità Europea che ingloba in se tutte
quelle forme di integrazioni che erano state determinate dai trattati che gli Stati protagonisti del
percorso di integrazione europea avevano sottoscritto. Col Trattato di Maastricht vi è l’istituzione di
una cittadinanza europea, che comporta alcuni diritti. L’istituzione di questa cittadinanza è un
passaggio fondamentale nel percorso di integrazione europea perché in qualche modo avvicina il
modello di integrazione europea che non è più soltanto economica ma che comincia ad essere anche
politica. Dal ’93 il percorso sembra andare molto rapido, tant’è vero che nella metà degli anni 2000
c’è una nuova bozza di trattato (che avrebbe dovuto costituire il momento definitivo del progresso
dell’integrazione europea) che prevedeva un balzo in avanti dell’integrazione economica e politica
degli Stati europei. Quel trattato viene firmato a Roma ma poi viene ratificato da alcuni Stati, che lo
fanno quindi fallire: questa è una prima forma di incrinatura, un primo segnale che una forma di
scetticismo strisciante larvato comincia a serpeggiare nell’aera europea. Si ripiega quindi su un
diverso accordo internazionale (sottoscritto a Lisbona nel 2009) che al momento è l’ultimo passo di
questo processo di integrazione europea. Quel trattato mette ordine in tutto quel corpus di accordi
internazionali che dal 1951 in avanti si erano andati affiancando, integrando i testi e restituendo 2
testi fondamentali: il trattato sulla UE e il trattato sul funzionamento della UE. Ricapitolando: c’è un
accordo internazionale (Lisbona 2009) che riordina tutta la filiera di accordi internazionali che
avevamo avuto fino a quel momento e riordinandoli ci restituisce 2 testi fondamentali del tessuto
normativo europeo: trattato UE e trattato funzionamento UE; che al momento sono i 2 trattati
istitutivi/le due fonti principali.
Oltre a riordinare, Lisbona 2009 fa compiere un passo in avanti del processo di integrazione: il
trattato tenta di arginare l’annoso problema del Deficit democratico dell’UE (ovvero quella
contestazione che generalmente veniva fatta) e che in una sostanza si appuntava sulla circostanza per
la quale l’UE aveva avuto fino al 2009 un Parlamento con un ruolo marginale. Anche le fonti
normative europee soltanto in pochi casi erano prodotte dal Parlamento (erano piuttosto frutto di un
processo di codecisione del Parlamento europeo rispetto al Consiglio europeo). Lisbona 2009 tenta
di porre al centro dell’architettura istituzionale dell’UE il Parlamento—>si spiega così la scelta di
invertire le regole sul procedimento di formazione delle fonti del diritto. Se fino al 2009 era
un’eccezione che il Parlamento producesse fonti, adesso, con Lisbona 2009, diventa la regola. La
regola dunque è quella del procedimento di codecisione, ovvero il procedimento per il quale gli atti
normativi dell’UE si pongono ad esito di una filiera procedimentale che è condivisa dal Consiglio e
dal Parlamento. Posto comunque che questo procedimento di codecisione è si la regola, ma non è
l’universalità dei casi (esistono ancora ipotesi in cui gli atti normativi sono adottati dal solo
Consiglio). Le tappe più recenti del processo di integrazione europea non sono proprio incoraggianti,
tipo la fuoriuscita del UK. La fuoriuscita del UK ha costituito un momento di crisi del progetto
europeo. Il tutto è cominciato nel 2016 ed è durato 4 anni. Da giugno 2016 nasce il caos, inoltre il
primo ministro britannico si dimette e dunque si deve attivare il procedimento previsto sull’art.50
sul Trattato sull’UE, un procedimento che prevede che lo Stato che voglia recedere dall’UE, presenti
la sua volontà alle istituzioni e a quel punto si apre una negoziazione con la commissione e che dovrà
essere approvata dal Parlamento europeo—>si rallenta, si ragiona, si dialoga, si cerca di capire se il
risultato di quel referendum nel 2016 vincolasse il Governo inglese o se invece fosse necessario un
voto parlamentare. Negli ultimi mesi abbiamo assistito alla dialettica polemica fra il primo ministro e
il Parlamento (il quale ha una maggioranza che vorrebbe rallentare il processo d’uscita). Il 31 gennaio
2020 il procedimento si conclude e, da quella data, il Regno Unito non è più stato membro dell’UE.
Il processo di integrazione europea non è ancora completo o perfezionato (anche perché di per se
l’integrazione non è mai completa) ma facciamo una fotografia dello stato attuale di questo processo:
A. Il Consiglio europeo
B. Il Consiglio dell’Unione Europea (anche detto Consiglio dei ministri dell’UE)
C. Il Parlamento
D. La commissione
E. La Corte di Giustizia
F. La Banca Centrale Europea (BCE)
Occhio!: stiamo parlando delle istituzioni che stanno nella FDG dell’UE e ci mettiamo dentro anche
la BCE… (è come se io parlando della FDG italiana ci mettessi anche la Banca d’Italia).
Cerchiamo di assumere uno sguardo d’insieme al fine di non perderci: queste istituzioni lavorano
sinergicamente, non è possibile dicotomizzare ciascuna istituzione dall’altra perché le funzioni
esercitate da un’istituzione sono in qualche modo completate dalle funzioni esercitate dalle altre
istituzioni. Non possiamo applicare lo schema di tripartizione dei poteri di Montesquieu, che tra
l’altro non è applicabile neanche alle democrazie contemporanee. Nella UE non c’è questo schema di
separazione dei poteri rigida. C’è invece un modello di istituzioni che condividono alcune funzioni ed
interferiscono nell’esercizio della funzione altrui.
In che modo? Rispetto allo schema italiano, c’è nella FDG europea un’istituzione che è titolare di una
funzione che nel sistema europeo è isolata rispetto alle altre: la funzione di indirizzo politico (ne
abbiamo già parlato: è una funzione condivisa fra il Parlamento e il Governo e si tratta di una
funzione che in qualche modo non ha uno statuto autonomo, ma che orienta l’esercizio delle altre
funzioni). Invece, nel contesto europeo, la funzione dell’indirizzo politico è isolata ed è attribuita ad
un organo che fa solo quello: il Consiglio Europeo. Il Consiglio Europeo è titolare della funzione di
indirizzo politico. Questo è composto dai Capi di Stato o di Governo di ogni Stato membro dell’UE. In
qualche modo il Consiglio E. è la cabina di regia dell’UE, è quella Camera in cui si realizzano i
compromessi tra le istanze sovrane di ciascun Stato necessarie per progredire nel percorso europeo.
Proprio perché si tratta di realizzare compromessi di quest’organo fanno parte i soggetti che sono al
vertice della politica nazionale degli Stati membri. Proprio perché si tratta una Camera di
compensazione delle istanze sovrane di tutti gli Stati membri in cui è necessario ottenere un
equilibrio delicato, la regola che presiede il funzionamento del C.E. è la regola dell’unanimità (1 solo
voto contrario impedisce l’adozione di quella decisione), proprio perché si sta lì a realizzare un
delicato equilibrio quanto alle cessioni di sovranità che gli Stati sono chiamati a fare. La regola
dell’unanimità (o “consensus”) garantisce che nessuno Stato debba subire obtorto collo una cessione
del proprio potere sovrano. Occhio che la regola dell’unanimità garantisce questo, ma si rivela, e si è
rivelata talvolta, un’arma formidabile nelle mani di chi voglia fare ostruzionismo. A lungo il C.E. è
stato bloccato nel suo processo deliberativo dal veto espresso dal blocco Francia-Germania.
Questa regola, quindi, ricapitolando, garantisce un equilibrio perfetto, ma al contempo permette di
godere di una posizione di privilegio a chiunque si voglia opporre.
Poi, ci sono le funzioni legislative-esecutive: non sono di titolarità esclusive di un organo, ma sono
funzioni condivise. La funzione esecutiva è condivisa dal Consiglio dell’Unione Europea e della
commissione (non esiste un Governo dell’UE). Per altro, oltre a essere contitolari della funzione
esecutiva, partecipano entrambi anche all’esercizio della funzione legislativa: questo perché il
procedimento legislativo ordinario è il procedimento c.d. di codecisione per il quale gli atti normativi
dell’UE sono adottati da Parlamento e dal Consiglio dell’Unione Europea. Inoltre, nell’esercizio della
funzione normativa interviene anche la Commissione perché la regola è che Parlamento e Consiglio
dell’Unione Europea non possono adottare alcun atto normativo se quest’atto non è proposto dalla
commissione: il potere di iniziativa legislativa è appannaggio esclusivo della Commissione.
Ricapitolando,
- funzione di indirizzo politico: Consiglio Europeo
- funzione esecutiva: Consiglio Europeo + Commissione
- funzione normativa: Consiglio dell’Unione Europea + Parlamento (su iniziativa della
Commissione)—>certe volte è esercitata anche senza il Parlamento, che non è una cosa poco
perché il Parlamento, fra tutti questi organi, è l’unico che ha una legittimazione democratica
diretta.
Gli altri membri non sono tutti democraticamente eletti. Il Consiglio dell’Unione Europea è
composto dai ministri dei governi degli Stati nazionali. Quest’organo non ha una composizione
stabile, è un organo che ha diverse composizioni a seconda del tema che si tratta (esempio: se il
C.U.E. è convocato con l’ordine del giorno in tema di politica agraria, a quelle riunione partecipano i
ministri competenti in quella materia). Anche i membri della Commissione sono nominati dai
governi nazionali: ogni Governo manda qualcuno, qualcuno che non è ministro. Il quadro
istituzionale poi si completa con la BCE e con la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che esercita
il potere giudiziario.
La Corte di Giustizia non è un tribunale come lo possiamo intendere noi, non risolve controversie,
risoluzioni di contratti o reati: è un organo giurisdizionale che si occupa di due cose:
1. Di dare l’esatta interpretazione di una fonte normativa europea
2. Di sindacare sulla validità o meno degli atti adottati dalle istituzioni europee
- BANCA CENTRALE EUROPEA: fa parte della FDG dell’Ue, e il che significa che condivide il
potere politico all’interno dell’Unione. E perché possiamo dire questo? Perché l’integrazione
europea è un’integrazione prettamente economica ed è chiaro che la definizione dell’integrazione
economica è naturalmente anche condivisa dall’istituto che è chiamato dal Trattato sull’Ue a
vigilare sulla stabilità dei prezzi: questo istituto è la BCE. Che oltre a essere l’unico emissario della
valuta unica europea, è il soggetto vigilante sulla stabilità dei prezzi. Com’è composta? Ha un
Presidente nominato dal Consiglio. Il Presidente presiede i 3 organi decisionali della BCE: il
comitato esecutivo, il consiglio direttivo e il consiglio generale. Sono organi che sono composti da
membri nominati dal Presidente con il consenso di altre istituzioni europee e sono organi in cui
partecipano anche i governatori dei presidenti delle banche centrali nazionali. Che funzione ha?
Adotta tutte le misure volte a garantire la stabilità dei prezzi. Le politiche volte a garantire la
stabilità dei prezzi si chiamano ‘politiche monetarie’. Alla BCE è attribuito il monopolio della
politica monetaria, perché tutte le decisioni sono decise dalla sola BCE senza possibilità di
interferenza non solo dei governi nazionali ma anche delle altre istituzioni dell’Ue. A parte il fatto
che il Presidente è nominato dal Consiglio, non vi è alcun collegamento fra la BCE e le altre
istituzioni: il che significa che non c’è alcun collegamento fra la BCE e il circuito democratico/
legittimazione popolare, eppure la BCE adotta tutte le decisioni in materia di politica monetaria,
che era una materia che tradizionalmente era il cuore della sovranità. La politica monetaria dello
Stato adesso è tutta centralizzata a livello europeo nelle mani della BCE, che è del tutto slegata
dalle altre istituzioni (—>la Lagarde fa la voce grossa perché assume decisioni autonomamente).
Qui sorge un altro problema: la crisi del 2008, in Europa, ha un impatto sistemico più forte di quello
che forse avrebbe potuto avere a causa di un difetto strutturale dell’Ue. Questo difetto è il fatto che la
politica monetaria è centralizzata ma le politiche economiche restano invece rimesse ai singoli stati.
Il che porta a degli shock asimmetrici, perché le due politiche viaggiano su binari paralleli, cioè l’una
influenza l’altra: la politica monetaria serve a volte per modificare la politica economica, e viceversa.
Noi qui abbiamo 2 binari sganciati, perché c’è il binario della politica monetaria (che è unico per tutti
gli Stati) e poi abbiamo tante politiche economiche diverse per ciascun Stato; quindi, quando la crisi
comincia a colpire i paesi europei, qual è il problema? Il problema è che le politiche economiche di
questi Stati sono sganciate dalla politica monetaria, che invece è unica per tutti gli Stati, ed essendo
unica per tutti non può evidentemente aderire a tutte le esigenze delle politiche monetarie seguite dai
diversi Stati. E a questo punto viene da chiedersi: perché non accentrare anche le politiche
economiche di tutti gli Stati? Però remano contro questa opzione le economie più forti, che hanno
tutto l’interesse a correre da sole. L’adozione di una politica unica economica, o è una politica
scellerata e criminale, o necessariamente deve stare dietro alle politiche più deboli, che quindi
frenerebbero le economie nazionali più floride. Sin dall’inizio è l’interesse di un certo numero di Stati
mantenersi autonomi nell’ambito della politica economica. Per questo la crisi del 2008 trova pochi
strumenti di soluzione: c’è da poco da fare, la politica monetaria è unica e le politiche economiche no.
Però, le misure adottate dopo la crisi fanno capire che bisogna lavorare maggiormente
sull’armonizzazione delle politiche economiche: se si vuole mantenere unitaria la politica monetaria
non si può lasciare che le politiche economiche vadano per conto proprio—>ecco perché la previsione
di controlli sui bilanci dei singoli Stati -tipo- ed ecco perché la previsione di un meccanismo di
vigilanza unico sugli istituti finanziari, perché fino al 2014/5 la vigilanza sulle banche nazionali era
compiuta dalla Banca Centrale di quello Stato (es.: la Banca d’Italia vigilava sulla gestione
prudenziale delle banche italiane, e così per tutti gli altri paesi). Nel 2015 viene istituito il
meccanismo di vigilanza unico, un sistema complesso, che prevede che la vigilanza su tutte le banche
maggiori degli Stati sia esercitata dalla BCE. Quindi, la BCE, oltre a essere titolare esclusiva della
definizione della politica monetaria, è anche titolare del potere di vigilanza sulle gestione prudenziale
delle banche, e per altro diventa poi, con l’istituzione di un altro istituto ancora (meccanismo di
risoluzione unica), diventa anche il soggetto che a livello centrale gestisce i fallimenti di queste
istituzioni finanziarie (banche), per evitare che il fallimento dell’istituzione finanziaria razionale sia
gestito in maniera domestica e che abbia poi delle ripercussioni sulla generalità del sistema
economico europeo.
—>N.B.: l’espressione ‘’doppio binario/politica monetaria-economica’’ non ha nulla a che fare con
l’idea di “Europa a doppia velocità” di cui si sente parlare a volte. Questa idea è un’idea, che in realtà
non è stata al momento istituzionalizzata, che sta a cuore ai paesi più ‘prosperi’ dell’aera europea ed è
quell’idea per la quale un certo gruppo di stati all’interno del macro-gruppo europeo preveda tra di
loro una forma di integrazione più forte rispetto agli altri Stati. Ne parlava molto Macron.
LE FONTI EUROPEE
Abbiamo parlato di trattati, di atti adottati dalle istituzioni europee, abbiamo parlato di
procedimento normativo—> c’è, quindi, un corpus normativo. Già questo differenzia tantissimo l’Ue
rispetto alle altre organizzazioni internazionali. Certo, il Trattato che istituisce un organizzazione
internazionale è di per se una fonte del diritto (secondo i meccanismi che abbiamo già visto), ma se
quella organizzazione internazionale adotta una decisione (es.: una risoluzione del Consiglio delle
Nazioni Unite), quella risoluzione non è una fonte del diritto delle Nazioni Unite. Le organizzazioni
internazionali non hanno un sistema di fonti del diritto. L’Unione europea si, ha cioè degli strumenti
che esprimono delle norme giuridiche a carattere vincolante, generale ed astratto, come ogni fonte
normativa.
Quando parliamo di fonte del diritto dell’Ue, la 1ª distinzione è quella tra fonti primarie (anche dette
originarie) e fonti derivate.
- Le fonti primarie originarie sono quelle che fondano l’Ue, quindi sono tutti quei trattati citati sin
da Roma 1951. Quindi, quando abbiamo parlato del Trattato di Lisbona 2009, il quale ‘riordina’
tutto, abbiamo detto che questo ci dà due testi fondamentali: il Trattato sull’Unione europea e il
Trattato sul funzionamento dell’Ue. Questi due trattati, al momento, costituiscono le fonti
primarie ed originarie dell’Unione europea. Queste fonti europee sono trattati internazionali, per
cui vale tutto quello che sappiamo su di loro: è stata necessaria la ratifica; è stato necessario un
ordine di esecuzione; entrano nel nostro ordinamento come parametri interposti di
costituzionalità ai sensi dell’art.117 comma I Cost.. Inoltre, sono trattati che restano nella
disponibilità delle parti contraenti, ciò significa che gli Stati possono, con una procedura che
coinvolge tutti gli Stati membri, modificare i trattati. Ciascun Stato può scegliere di denunciare il
trattato, cioè svincolarsi dagli obblighi giuridici che derivano dai trattati (es.: UK). Si dice che gli
Stati siano i ‘signori’ dei trattati. Cosa differenzia in profondità i trattati dell’Ue dagli altri trattati
internazionali? Che i trattati dell’Ue non fondano una semplice organizzazione internazionale, ma
fondano un ordinamento giuridico nuovo ed autonomi, e sui generis (mai visto nelle sue
caratteristiche). Un ordinamento giuridico che ha delle istituzioni politiche e trattati che
attribuiscono a queste istituzioni il potere di adottare degli atti normativi. Questi atti normativi
sono le c.d. ‘’fonti derivate’’.
- Le fonti derivate derivano la propria forza e legittimazione dalle fonti originarie (se non ci fosse il
trattato che mi dice che il Consiglio e il Parlamento possono adottare un regolamento, beh, allora
non potrebbero). I trattati contengono la norma di riconoscimento. Ed è chiaro che sono queste
fonti derivate che maggiormente ‘condiscono’ la nostra quotidianità: si tratta degli atti normativi
adottati da queste istituzioni sulla base delle norme di riconoscimento contenute nelle norme
primarie originarie. …… continua sotto…….
Mercoledì 22 aprile
• LE FONTI DERIVATE
Le 5 fonti derivate che sono previste dai trattati sull’UE sono: i regolamenti, le direttive, le decisioni,
le raccomandazioni e i pareri. Di queste 5 fonti derivate, due hanno carattere non vincolante, quindi,
non potrebbe neanche dirsi in senso stretto fonti del diritto, però il trattato le definisce tali: si tratta
delle raccomandazioni e dei pareri che hanno carattere non vincolante. Hanno carattere vincolante,
cioè fanno sorgere immediatamente un ordine giuridico i regolamenti, le direttive e le decisioni:
Parliamo di Giustizia costituzionale tutte le volte in cui approfondiamo la questione legata ad una
valutazione di conformità o di difformità della normativa primaria rispetto a quello che viene
chiamato parametro costituzionale. Ma cos’è il parametro costituzionale? La prima risposta potrebbe
essere collegata al testo della Costituzione. È vero, ma può essere una risposta solo parziale in quanto
è parametro costituzionale anche una normativa di rango non costituzionale. In particolare
affronteremo la questione del parametro interposto. Oggetto del controllo della Corte costituzionale
è o una normativa primaria adottata dal Parlamento (quindi un atto parlamentare) o un atto avente
forza di legge ma adottato dal Governo, ma parliamo anche di leggi regionali (che possono essere in
contrasto con la Costituzione).
Detto questo, cerchiamo di capire le origini della giustizia costituzionale: da un punto di vista
comparato potremmo dare una data 24/02/1803—> in questa data la Corte suprema degli Usa si
auto attribuisce la possibilità -il potere- di svolgere un giudizio di costituzionalità, che non era
prevista espressamente dalla Costituzione (la Costituzione stato unitense prevede una clausola di
supremacy, cioè la prevalenza del diritto federale su quello adottato dagli Stati membri, ma non
prevede la possibilità di un controllo di costituzionalità da parte della Corte suprema)
Prendiamo in esame un caso rilevante: si parla di un periodo in cui all’amministrazione dei
federalisti (rappresentata dal Presidente Adams) si sostituisce l’amministrazione di stampo
repubblicano e il nuovo Presidente è Jefferson.
Succede qualcosa che va capito da un punto di vista fattuale per poi essere compreso il valore
aggiunto che la Corte suprema farà: ovviamente come succede sempre (e si chiama metodo dello
Spoils system) tutte le volte in cui sta per succedersi un potere a un altro, l’amministrazione che sta
per cedere il passo prova a fare tutto quello che può per proiettare in ogni modo possibile una forma
di potere in un periodo temporale successivo alla sua esistenza, quindi di fatto una serie di nomine
fatte all’ultimo momento. Fra queste nomine, c’è quella di Marshall che svolge due ruoli in questa
storia (nella 1ª amministrazione -federalista- era segretario di Stato, nella 2ª sarà chief justice). Lui è
un politico, non un giurista, quindi potrebbe non avere quella sensibilità giuridica giusta ma ha
invece l’arte del compromesso e della strategia (che vedremo poi messe in pratica nel reasoning della
Corte suprema). Marshall prova a fare tutte le nomine dell’ultimo minuto ma non riescono a essere
formalizzate tutte le nomine. Per esempio, quella del povero Marbury non viene formalizzata, pur
essendo stata decisa dal Presidente uscente Adams. James Madison, il nuovo segretario di Stato
nominato dal neopresidente Jefferson, di fatto si rifiuta di formalizzare la nomina: Marbury non
diventa Justice of peace del distretto di Colombia, che era la sede di destinazione della nomina.
A questo punto Marbury reagisce accusando Madison di non aver notificato, nonostante il decreto
presidenziale, la sua nomina a giudice. Il caso arriva alla Corte suprema con un piccolo conflitto
d’interesse: succede che Marshall è -chief Justice- giudice della Corte suprema (nominato dal Pres
uscente Adams) che ha il ruolo di preminenza nel nuovo corso di Jeffereson.
Attenzione perché Marbury è un collega di partito di Marshall (sono entrambi del partito
federalista). Ovviamente Marshall, da una parte, ragionando in termini politici non avrebbe dubbi
che quella nomina deve essere formalizzata, ma adesso ha un ruolo diverso quindi deve agire come
garante della nuova istituzione. Marshall si trova di fronte a un dilemma: da una parte si trova di
fronte a una normativa di carattere primario che attribuisce alla Corte suprema la competenza di
attribuire un incarico del genere o formalizzarlo nel caso di inerzia politica, ma da una parte
normativa primaria che si scontra con quanto la Costituzione prevede che possa far far alla corte
suprema. Quindi, guardando la normativa primaria, Marhsall potrebbe e dovrebbe formalizzare
quell’incarico, ma guardando al parametro costituzionale Marshall ha l’occasione di rinunciare a un
prerogativa (quella di formalizzare alcune nomine) e di acquisirne una 1000 volte più rilevante, cioè
la Corte suprema -per la 1ª volta- si attribuisce la competenza di valutare la costituzionalità della
legge primaria.
Cosa rischia Marhsall scrivendo questa leggendaria pronuncia? O la Costituzione è una legge
superiore e prevalente non modificabile con gli strumenti ordinari oppure è posta sullo stesso livello
delle leggi ordinarie e come le altre leggi è alterabile a piacere dal legislatore —>come direbbero gli
studiosi: “costitution is taken seriously”. Prendendo sul serio la Costituzione, Marshall prende sul
serio anche il ruolo della Corte suprema. È custode della Costituzione e quindi garante della
costituzionalità della normativa ordinaria.
Ricapitolando: la normativa ordinaria era contro la Costituzione perché attribuiva alla Corte
suprema un potere che in realtà la Corte suprema non aveva leggendo la Costituzione. La normativa
prevedeva un potere aggiunto rispetto a quelli previsti dalla Costituzione, e qui la scelta non è tragica
ma strategica—>”rinunciamo a una piccola dose di competenza ma ne acquisiamo una enorme, cioè
quella di potere dire che la Costituzione è una legge superiore che va presa sul serio".
“se le corti debbono tenere conto della Costituzione, e se la Costituzione è superiore ad ogni atto
ordinario del potere legislativo, la Costituzione, e non l’atto ordinario, deve essere applicata nei
riguardi del caso cui entrambi si riferiscono”.
• L’ESPERIENZA EUROPEA:
In Europa emerge un altro modello, in contrapposizione a quello Usa. Per capire il modello bisogna
capire da un punto di vista storico qual è la posizione del Parlamento, in Europa, rispetto a quella che
emerge invece negli Usa. Negli Usa nasce forte il Parlamento, perché nessuno ne ha mai messo in
dubbio la sua sovranità.
La storia ci insegna che in Europa è tutt’altro che così. Il primo Parlamento nasce in Inghilterra. In
Europa continentale la situazione è molto più drammatica, per via della non separazione dei poteri
tipica dello Stato Assoluto. Il passaggio della sovranità in capo al Parlamento è stato un processo
traumatico. Tant’è vero che le costituzioni venivano considerate una graziosa concessione da parte
del Sovrano. Quindi il passaggio importante fatto in Europa è l’amplificazione dell’importanza della
legge, la legge come fonte privilegiata del diritto e il Parlamento come depositario della sovranità.
Ci rendiamo conto che questo potrebbe causare qualche problema rispetto a un organo come la Corte
costituzionale che deve valutare la costituzionalità di una fonte prodotta da un organo che è
considerato il depositario della sovranità. Non è un caso che la judician review si sia affermata in
tempi e modi diversi in Europa.
Innanzitutto, il modello fondamentale a cui dobbiamo guardare è quello di Kelsen, il quale vedeva
l’ordinamento giuridico come esclusivamente parte di una concezione normativa (per cui una norma
è allo stesso tempo condizionata dalla validità da quella superiore ed era condizione di validità di
quella successiva). Ciò che importa è notare come Kelsen è stato il padre della Corte costituzionale
più antica del mondo (la Corte suprema non ha come competenza esclusiva quella di giudizio di
costituzionalità, valuta anche altre cose non di carattere costituzionale)—> quella austriaca.
C’è stato però un conflitto teorico tra Smitt e Kelsen: entrambi cercavano di identificare chi fosse il
custode ultimo dell’ordinamento, o meglio il custode dalla Costituzione, e chi è?
Se la mettiamo sul piano della legalità, è ovvio che il custode ultimo sia la Corte costituzionale. Se la
mettiamo sul piano della legittimità, cioè non una dimensione giuridico-formale ma politica-
sostanziale, è evidente che il custode ultimo è il soggetto a cui spetta la parola finale nel momento di
crisi, ossia il Presidente della Repubblica. Entrambi si pongono la stessa domanda ma danno due
risposte diverse. La risposta è diversa perché la cornice valoriale di riferimento è molto diversa:
Kelsen ragiona all’interno di categorie formali di carattere positivistico e normativo. Quindi a lui
interessa la legalità formale: è chiaro che la risposta è la Corte costituzionale
A Smitt, invece, interessa guardare alla Costituzione come decisione politica che esprime l’unità della
sovranità e chi è che rappresenta l’unità della sovranità? Chi può decidere nel momento di crisi,
quindi il Presidente della repubblica.
TENATIVO DI SINTESI:
Sono i totalitarismi del ventennio che hanno portato poi alla 2ª guerra mondiale che creano la
necessità di chiarire meglio la questione del decisore politico, perché è evidente che il modello
smittiano è più appealing per il modello totalitario, per esempio, tedesco. Quindi il compromesso è
che comunque l’organo deve essere di natura giurisdizionale ma il parametro non può essere solo di
carattere positivo normativistico, cioè non può essere guardare soltanto al diritto ma guardare anche
ai valori in gioco, anche di carattere politico, che sono assorbiti da quella disposizione giuridica. Per
esempio: art.3 Cost ‘’principio di eguaglianza formale e sostanziale’’, questo tipo di parametro ha
sicuramente una dimensione giuridica ma anche una dimensione legata all’assetto valoriale, cioè ad
una forma di Stato sociale che si impegna nelle redistribuzione. Spetta ovviamente alla Corte
costituzionale poi fare quel difficile equilibrio tra portata giuridica e portato valoriale senza diventare
politico latu sensu, oppure essendo coinvolta nell’arena politica. Questa è la grande sfida della Corte
costituzionale di oggi, non possono lavorare in una terra d’avorio. Lavorano all’interno di una cornice
politica ma non possono dimenticare di fatto che i loro strumenti sono quelli di carattere
giurisdizionale e non politico. Qua c’è il problema legato a qual è il limite legate alla possibilità che la
CC valuti nel merito una scelta politica? In senso stretto non potrebbe perché altrimenti sarebbe una
valutazione politica che si sostituisce a una precedente, mentre la ragionevolezza è un metodo, un
principio, un criterio, di interpretazione che riesce, se utilizzata con arte, a combinare quella
valutazione anche politica con una garanzia di carattere giurisdizionale e di terzietà. (facciamo un
esempio attuale: prendiamo i decreti adottati in questo periodo dal Governo. Bene, la Corte
costituzionale non può sostituirsi al potere politico per quanto riguarda la discrezionalità politica di
una scelta, ma non può neanche essere del tutto immune dal contesto politico emergenziale che è
stato la base per l’adozione di quella normativa e quindi avrà uno strumentario giuridico -il
parametro di costituzionalità- con cui avrà la possibilità di valutare la ragionevolezza di quella
normativa. Per esempio la proporzionalità di quella normativa, ma non può entrare nel merito
dicendo che bisognava decidere X anziché Y).
Martedì 28 aprile
• LA CORTE COSTITUZIONALE (pag.464/p.2)
2.1 - Composizione:
In un sistema di giustizia costituzionale, specie se accentrato, la composizione dell’organo che ha il
potere di dichiarare l’illegittimità delle leggi volute dal Parlamento, massimo organo rappresentativo,
e magari anche quello di censurare il comportamento di uno dei massimi organi dello Stato, quando
violasse le attribuzioni di un altro, o di giudicare e della responsabilità penale del capo dello Stato, è
questione delicata. Il principio democratico vorrebbe che nessuno dei poteri dello Stato avesse una
legittimazione diversa da quella che deriva dalla rappresentazione elettorale. Ma la Corte
costituzionale non può avere una struttura “rappresentativa”: che senso avrebbe che fosse una “terza
camera chiusa le virgolette elettiva a sindacare le scelte legislative compiute dalla maggioranza
politica in Parlamento?
L’organo chiamato a difendere la “legalità costituzionale” non può essere espressione della
maggioranza, cioè non deve essere rappresentativo. La costituzione rigida ha bisogno di un organo
“neutro”, chiamato ad usare la Costituzione come un testo normativo e a giudicare del suo rispetto
con gli strumenti e le tecniche che sono proprie del giudice. Ma “neutralità” rispetto a cosa? La
risposta non può che essere articolata.
a) Innanzitutto rispetto alla “politica” in genere. È normale che ai “giudici” chiamati a comporre
l’organo di giustizia costituzionale siano richiesti requisiti tecnici elevati, perché essi hanno
da interpretare ed applicare la Costituzione come testo normativo, impiegando gli strumenti e
le tecniche tipiche del giurista. In Italia è la stessa Costituzione a preoccuparsi di indicare i
requisiti professionali dei componenti la Corte costituzionale, i quali devono essere scelti “fra
i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria e amministrativa, i
professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo vent’anni di
esercizio”(art 135.2).
b) Secondo luogo, la neutralità deve essere assicurata rispetto alle “parti”. In Germania i giudici
sono eletti per metà dal parlamento nazionale (Bundestag) eletto a suffragio diretto, e per
metà dal Bundesrat, in cui sono presenti gli esecutivi dei Lander, è il principio del “un arbitro
a testa”. Negli Stati Uniti, invece, la nomina dei giudici della Corte suprema spetta al
presidente, massima espressione dell’unità federale; ma è necessaria l’approvazione da parte
del Senato, massima espressione dell’unità federale; ma è necessaria anche l’approvazione da
parte del Senato, massima espressione della rappresentanza degli Stai membri. In Italia,
invece, l’organizzazione regionale della Repubblica non si riflette in alcun modo sulla
composizione della Corte costituzionale. La composizione della Corte riflette la natura
“pattizia” della costituzione italiana, il delicato equilibrio tra maggioranza e minoranza,
l’accurata costruzione dei limiti al potere della maggioranza.
Perciò sono i poteri dello Stato a ripartirsi la nomina dei 15 giudici costituzionali (art 135.1):
- Cinque sono eletti dal Parlamento in seduta comune. La legge costituzionale 2/1967
dispone che alla loro elezione si proceda a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due
terzi dei componenti l’assemblea. Dopo il terzo dopo il terzo scrutinio è sufficiente la
maggioranza dei tre quinti dei componenti.
- Cinque sono nominati dal Presidente della Repubblica. Per convenzione, anche in questo
caso, la scelta dei giudici è propria del capo dello Stato, senza alcuna proposta
governativa: la controfirma apposta dal Presidente del Consiglio dei ministri esprime in
questo caso un semplice controllo esterno. A ciò si è arrivato dopo un lungo dibattito
parlamentare, in cui prevalse questo ragionamento: visto che la maggioranza politica può
esprimere “almeno” tre dei cinque giudici di nomina parlamentare, se essa, attraverso la
proposta del Governo, potesse determinare anche la scelta dei giudici di nomina
presidenziale, si otterrebbe che la Corte costituzionale, organo preposto alla tutela dei
diritti delle minoranze contro le decisioni della maggioranza politica, sia invece dominata
proprio da quella maggioranza, in grado di condizionare la scelta di 8 dei 15 membri. Di
fatto, la scelta del Presidente della Repubblica è stata sempre dominata dall’esigenza di
assicurare un certo equilibrio nella composizione della Corte.
- Cinque sono nominati dalle supreme magistrature ordinaria e amministrativa: più
precisamente, tre sono eletti dai magistrati di Cassazione, ed uno ciascuno dai magistrati
del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti.
c) Infine, neutralità rispetto agli interessi politici e privati. Negli Stati Uniti, per esempio, questo
obiettivo è perseguito sancendo che la carica di giudice della Corte suprema sia vitalizia: ciò
pone i componenti della corte in una condizione di accentuata indipendenza dal potere
politico, poiché essi sono non solo inamovibili, ma anche non interessati a garantirsi un
personale futuro politico o professionale, essendo loro assicurato la permanenza in una carica
di grande prestigio. In Italia i giudici durano in carica solo nove anni, e il loro mandato non è
rinnovabile (art 135.3). Inoltre vige un severo regime di incompatibilità, che riguarda non
solo le cariche politiche elettive ma anche la professione: così sancisce l’articolo 135.6 della
Costituzione, che per il resto è in via la legge ordinaria. Inoltre durante il loro mandato i
giudici della Corte costituzionale non possono svolgere attività inerente ad una associazione o
partito politico.
B) Il Presidente
Il Presidente è un giudice della Corte, eletto dalla corte stessa a scrutinio segreto e a maggioranza
assoluta, al terzo scrutinio si procede al ballottaggio tra i due giudici più votati. Il suo mandato è
triennale ed è rinnovabile ma ovviamente scade se il presidente cessa dalla carica di giudice
costituzionale. A parte le consuete funzioni di rappresentanza ‘esterna’ e la direzione amministrativa
degli uffici della Corte, spettano al Presidente le funzioni tipiche di chi presiede un organo collegiale.
In particolare il Presidente:
- fissa il ruolo delle udienze e delle adunanze in camera di consiglio e convoca la Corte;
- designa il giudice incaricato dell’istruzione della causa e di introdurla come relatore di
fronte alla Corte;
- designa il giudice incaricato di redigere il progetto di motivazione della decisione, che
dovrà poi essere approvata dalla Corte;
- presiede il collegio giudicante e ne dirige i lavori; regola la discussione e può determinare
i punti più importanti sui quali deve svolgersi
- vota per ultimo ed esprime il voto decisivo in caso di parità di voti.
C) Procedure
Le procedure sono diverse a seconda del tipo di giudizio; vi sono però alcuni tratti comuni.
La corte ha poteri istruttori: essi consistono nell’accertamento di dati e fatti anche attraverso
l’audizione di testimoni. La disciplina sull’acquisizione del materiale probatorio è piuttosto lacunosa:
la Corte, con ordinanza, può disporre i mezzi di prova che ritiene necessari e fissa i termini per la
loro esecuzione, avvertendo le parti 10 giorni prima di quello fissato per l’assunzione delle prove
orali. Al termine dell’attività probatoria tutta la relativa documentazione viene depositata in
cancelleria dandone comunicazione alle parti che si sono costituite.
La Corte si riunisce in udienza pubblica o in camera di consiglio: la scelta spetta al Presidente, ma la
regola è che la Corte si riunisce in camera di consiglio -e quindi a porte chiuse- quando le parti non si
siano costituite oppure quando il Presidente, sentito il giudice istruttore, ipotizzi una decisione di
manifesta infondatezza o inammissibilità. Il giudice relatore espone le questioni della causa e poi i
difensori delle parti sono invitati ad intervenire. La decisione è assunta in camera di consiglio, cui
partecipano tutti i giudici che hanno presenziato a tutte le udienze relative alla causa: il relatore
propone la decisione e vota per primo, seguito dagli altri giudici secondo l’ordine crescente di età;
per ultimo vota il Presidente. La decisione è assunta a maggioranza assoluta dei votanti.
Quello che la camera di consiglio vota è solo il dispositivo della decisione. A questo punto il
Presidente incarica un giudice, di regola è lo stesso che ha fatto da relatore, salvo che non sia stato
messo in minoranza dal collegio, di redigere una bozza di motivazione che verrà approvata
collegialmente in seduta successiva della camera di consiglio. La decisione è firmata dal Presidente e
dal giudice redattore e viene quindi depositata in cancelleria e pubblicata sull’apposito supplemento
della Gazzetta Ufficiale. Vi sono dunque tre date rilevanti che si riferiscono alla decisione della Corte:
- Quella della decisione finale in camera di consiglio: essa non ha effetti “esterni”;
- Quella del deposito in cancelleria: è da questa data che si fanno decorrere gli effetti della
sentenza, il che è particolarmente importante per le sentenze di accoglimento;
- Quella della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale: si ritiene che a partire da questa data
tutti sono tenuti a conoscere la decisione della Corte.
D) Le decisioni della Corte
Le decisioni che la Corte costituzionale emana sono di due tipi: sentenze e ordinanze. L’art.18 della
legge 87/1953 ci indica il criterio generale di distinzione tra questi due atti: “La corte giudica in via
definitiva con una sentenza. Tutti gli altri provvedimenti di sua competenza sono adottate con una
ordinanza”. Sentenze e ordinanze sono gli atti tipici del potere giudiziario e si distinguono proprio
per questo: la sentenza “definisce” il giudizio, ossia è l’atto con cui il giudice chiude il processo,
mentre l’ordinanza è uno strumento interlocutorio che non esaurisce il rapporto processuale, ma
serve per risolvere le questioni che sorgono nel corso del processo. Con ordinanza, per esempio, si
assumono provvedimenti cautelari, si ordinano attività istruttorie, si sollevano questioni incidentali
quali la questione pregiudiziale di fronte alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Tuttavia, nei
giudizi di legittimità sulle leggi, la Corte costituzionale ha sviluppato in uso delle ordinanze più
ampio di quello tradizionale, ricorrendo in determinate ipotesi all’ordinanza anche per chiudere il
processo. Del resto, questa ipotesi è delineata dalla stessa legge 87/1953, che dispone che
“l’ordinanza che respinge l’eccezione di illegittimità costituzionale per manifesta irrilevanza o
infondatezza deve essere adeguatamente motivata”; ad esso fanno seguito le “norme integrative”
che, infatti, all’art.20, prescrivono che in Gazzetta Ufficiale sia data notizia sommaria “delle sentenze
e delle ordinanze che respingono le istanze relative a questioni di legittimità costituzionale”.
Proprio come avviene di fronte agli altri giudici, le sentenze devono essere esaurientemente motivate,
sia in “fatto” che in “diritto”, tre per le ordinanze è sufficiente che siano “succintamente motivate”.
Ma le decisioni della Corte costituzionale hanno una particolarità: esse non possono essere mai
impugnate e lo stabilisce la Costituzione stessa all’art.137.3. Tutte le decisioni della Corte, siano
sentenze od ordinanze, hanno una numerazione progressiva annuale e sono pubblicate nella
“Raccolta ufficiale delle sentenze e delle ordinanze della Corte costituzionale”. Le decisioni sono
inoltre pubblicate per intero, assieme agli atti che promuovono i giudizi. L’obbligo di motivazione
non è per la Corte sanzionabile attraverso l’impugnazione: ma è attraverso la motivazione che la
Corte rende conto dei propri processi interpretativi ed argomentativi, legittimando così le proprie
conclusioni.
A) Definizioni
L’instaurazione del giudizio in via incidentale è regolata principalmente dall’art.1 della legge cost.
1/1948 e dagli art.23 ss. della legge 87/1953. È detto giudizio in via incidentale in quanto la
questione di legittimità costituzionale sorge nel corso di un procedimento giudiziario (che viene detto
giudizio principale o giudizio a quo), come “incidente processuale”, che comporta la sospensione del
giudizio e la remissione della questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale. È un
giudizio successivo e concreto, perché la legge viene in rilievo al momento della sua applicazione; è
indisponibile in quanto il giudice, se sussistono i presupposti, è tenuto a sollevare la questione
dinanzi alla Corte situazionale, né le parti non possono opporsi.
B) Giudice e giudizio
L’art.1 della legge cost. 1/1948 e l’art.23 legge 87/1953 prevedono che la questione di legittimità
costituzionale debba essere sollevata ‘nel corso di un giudizio' e ‘dinanzi ad una autorità
giurisdizionale’. Occorre quindi stabilire il significato da attribuire ai concetti di “giudice” e di
“giudizio” ai fini dell’instaurazione del processo costituzionale. Al fine quindi di ampliare la
possibilità di eliminare leggi incostituzionali, è stata ritenuta giurisdizionale anche l’attività di organi
che, pur non facendo strettamente parte dell’ordine giudiziario, sono investiti di “funzioni giudicanti
per l’obiettiva applicazione della legge” e posti in una posizione di terzietà. I requisiti necessari
affinché un organo possa considerarsi legittimato a sollevare la questione di costituzionalità sono:
- Requisito oggettivo: l’essere investito di funzioni “giudicanti”, cioè di applicazione
obiettiva. In ciò sta la profonda differenza tra un giudice, che è interessato solo
all’applicazione obiettiva della legge, e un organo della pubblica amministrazione, che è
preposto al perseguimento di un determinato interesse pubblico. Inoltre, deve trattarsi
nell’applicazione di una norma in via potenzialmente definitiva.
- Requisito soggettivo: la posizione di terzietà, di indipendenza e di imparzialità
dell’organo, l’esistenza di un procedimento fondato sul contraddittorio. Nell’eventualità
in cui la legge attribuisse ad un organo funzioni “oggettivamente” e giudicanti, senza
garantire l’elemento soggettivo della indipendenza e della imparzialità, la Corte la
dichiarerebbe illegittima.
1) che la questione sia rilevante per la risoluzione del giudizio in corso. La rilevanza consiste in
un legame di strumentalità, di “pregiudizialità”, tra la questione di legittimità costituzionale e
il giudizio a quo: il giudizio principale non può proseguire senza che venga risolta la
questione di legittimità costituzionale. Ciò sta significare che l’instaurazione incidentale è
subordinata alla valutazione da parte del giudice circa la necessaria applicazione della
disposizione sospettata di incostituzionalità nel giudizio dinanzi a lui pendente. Qui emerge il
profilo della concretezza della questione: ciò che importa non è l’astratta possibilità che una
legge sia incostituzionale ma che “il giudizio non possa essere definito indipendentemente
dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale” (art.23 87/1953). Nel valutare
la rilevanza il giudice deve tener conto di due aspetti fondamentali: uno è riconducibile
all’applicabilità della legge sospettata di incostituzionalità, l’altro, più importante, è legato
all’influenza che la pronuncia costituzionale è in grado di esercitare sul giudizio in corso.
2) Che non sia manifestamente infondata. La non manifesta infondatezza mira a verificare che
la questione di legittimità prima facie abbia un fondamento giuridico sufficientemente
motivato. Il giudice non deve infatti pronunciarsi sulla fondatezza o meno della questione
(che è esclusivo compito della corte costituzionale) e la doppia negazione sta proprio ad
indicare che, per poter rimettere la questione alla Corte, è sufficiente avere un dubbio sulla
costituzionalità della legge o dell’atto avente forza di legge da applicare al giudizio in corso. È
questo il ragionevole dubbio che impedisce al giudice di proseguire il processo principale.
Tali condizioni di proponibilità svolgono un ruolo diverso a seconda che l’iniziativa provenga dalle
parti o dallo stesso giudice d’ufficio: nel primo caso costituiscono una sorta di “filtro” per le questioni
irrilevanti e pretestuose che il giudice non farà giungere alla Corte; nel secondo caso, costituiscono
elementi positivi da cui deriva il dovere del giudice di proporre la questione.
Nel caso in cui una delle sopraddette condizioni di proponibilità dei giudizi di costituzionalità non
dovesse sussistere, il giudice provvederà respingendo l’istanza con una ordinanza adeguatamente
motivata, che non è autonomamente impugnabile.
Qualora il giudice ritenga invece che la questione sia “rilevante” e “non manifestamente infondata”
emette una ordinanza di rinvio, necessariamente motivata, che produce l’effetto di introdurre il
giudizio costituzionale e di sospendere il giudizio principale fino alla pronuncia della Corte
costituzionale (l’ordinanza di rinvio viene chiamata anche “ordinanza di remissione” e il giudice che
l’emana è detto “giudice a quo” o giudice remittente).
Tale ordinanza deve contenere gli elementi necessari ad individuare la questione di legittimità
costituzionale:
- l’indicazione dell’oggetto e del parametro del giudizio, vale a dire le disposizioni della
legge di cui si denuncia l’incostituzionalità, nonché le disposizioni costituzionali che si
presumono violate;
- la motivazione della rilevanza e i motivi che hanno portato a dichiarare la non manifesta
infondatezza;
- i profili della questione di legittimità in base quali si è verificata la violazione con la
descrizione della fattispecie concreta oggetto della controversia. Questa indicazione è
particolarmente importante nei giudizi di eguaglianza.
Dall’ordinanza deve quindi emergere con chiarezza il petitum, il thema decidendum, che costituisce
anche il limite entro il quale la decisione della Corte può intervenire in ossequio al principio della
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Infatti, in base all’art.27 legge 87/1953, la Corte
quando accoglie una istanza “dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le disposizioni
legislative illegittime”.
L’art.23.4 legge 87/1953 prevede che l’ordinanza di rimessione venga notificata, a cura della
cancelleria del giudice a quo, alle parti in causa e al pubblico ministero (quando il suo intervento è
obbligatorio), al Presidente del consiglio dei ministri o al presidente della giunta regionale a seconda
che si tratti, rispettivamente, di legge statale o regionale. Lo scopo di tale notifica è quello di
consentire ai soggetti abilitati a costituirsi o ad intervenire nel giudizio costituzionale.
L’ordinanza di rinvio, una volta giunta alla Corte costituzionale viene pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica italiana: tale forma di pubblicità mira a far conoscere a tutti che, su una
certa disposizione legislativa, pende un giudizio di costituzionalità. Ciò dovrebbe indurre gli
operatori giuridici ad essere cauti nell’applicare una legge che potrebbe essere dichiarata
incostituzionale.
D) Le parti
Entro 20 giorni dall’avvenuta notificazione dell’ordinanza con cui si instaura il giudizio
costituzionale, le parti del giudizio a quo possono costituirsi mediante deposito in cancelleria delle
deduzioni e della procura speciale al difensore abilitato al patrocinio dinanzi alla Corte di cassazione.
La loro partecipazione è facoltativa: si tratta di un giudizio ”a parte eventuali”, nel senso che queste
potrebbero anche non costituirsi senza incidere nel proseguimento del processo costituzionale.
Infatti, quest’ultimo ha carattere oggettivo perseguendo primariamente l’obiettivo di stabilire la
legittimità costituzionale delle leggi e solo indirettamente quello di tutelare le situazioni giuridiche
soggettive fatte valere nel giudizio a quo. Il pubblico ministero, anche se il destinatario della
notificazione dell’ordinanza di rinvio, non è abilitato ad intervenire nel processo costituzionale.
L’articolo 20.3 legge 87/1953 prevede che “il Governo anche quando intervenga nella persona del
Presidente del consiglio dei ministri” venga rappresentato dall’Avvocatura dello Stato. La
giurisprudenza costituzionale ha escluso che il governo si possa considerare “parte in senso tecnico”
ma neppure “interventore” in senso proprio. È opinione diffusa che il governo intervenga per
esprimere la propria opinione, ma la prassi ci mostra invece che nella quasi totalità dei casi il
Governo interviene a difesa della legittimità della legge, anche se espressione di indirizzi politici
passati. D’altra parte il Governo non è istituzionalmente obbligato a partecipare al processo
costituzionale e tantomeno a difendere “a priori” la legge.
3.5 - Il giudizio in via principale (pag.485)
A) Definizioni
Il giudizio in via principale (o d’azione) può essere proposto con ricorso da parte dello Stato contro
leggi regionali o da parte della Regione contro leggi statali o di altre Regioni. Questo tipo di
procedimento è denominato in via principale in quanto la questione di legittimità viene proposta
direttamente con una procedura ad hoc e non nell’ambito e nel corso di un “giudizio”; è astratto in
quanto le leggi impugnate vengono in rilievo autonomamente dalla loro concreta applicazione; è
disponibile dato che i soggetti legittimati non sono tenuti ad instaurarlo, pur di fronte ad una
supposta incostituzionalità della legge, potendo addivenire ad una soluzione anche di natura politica.
Dopo la riforma del titolo V, le differenze tra ricorso statale ricorso regionale si sono attenuate di
molto. L’impugnazione statale avverso leggi regionali può essere promossa dal Governo quando
ritiene che una legge approvata dal Consiglio regionale violi qualsiasi disposizione costituzionale. Di
conseguenza lo Stato, agendo a tutela dell’interesse generale alla legalità, non deve dimostrare
l’interesse a ricorrere, cioè ad agire a tutela di una propria attribuzione lesa dalla Regione. Al
contrario il ricorso della Regione nei confronti della legge statale può fondarsi solo sull’invasione
della sfera di competenza attribuita dalla Costituzione: la Regione deve perciò dimostrare di avere
un interesse concreto al ricorso, derivante appunto dalla lesione attuale delle proprie attribuzioni.
Mercoledì 29 aprile
• TIPOLOGIE DI DECISIONI (pag.486)
Oggi affrontiamo la tipologia di decisioni che la Corte Costituzionale assume ad esito di un giudizio
sulla legge. Poi ci occuperemo delle altre competenze della Corte che sono: il conflitto di attribuzione
fra i poteri dello Stato, il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo e il giudizio sulla
responsabilità del Presidente della Repubblica.
Tornando alle tipologie…
A) Possiamo fare una prima distinzione quanto alla forma dell’atto, tra:
1. Ordinanza = è assunta dal collegio. Contiene una decisione interlocutoria, temporanea non
definitiva. Sono ordinanze quella di manifesta infondatezza di una questione. L’ordinanza non deve
essere motivata o meglio, è succintamente motivata, c’è una brevissima motivazione (nulla a che
vedere con quella articolata motivazione in fatto e in diritto che invece c’è sempre in una sentenza);
2. Decreti = decisioni assunte singolarmente dal Presidente della Corte costituzionale nello
svolgimento delle sue funzioni d’ordine (ad. es: decide l’ammissione di qualcuno al giudizio);
3. Sentenza = è assunta dal collegio. Contiene una decisione di per sè definitiva.
Si tratta di un criterio tendenziale però, perché la Corte si muove con una certa libertà nell’utilizzo di
questi strumenti: ad esempio, le decisioni definitive sono sempre assunte con una sentenza, talvolta
però la Corte utilizza lo strumento dell’ordinanza per adottare una decisione che chiude il giudizio (è
il caso della manifesta infondatezza—>adottata con ordinanza) .
B) Fatta questa distinzione formale, la vera distinzione che va fatta attiene alla sostanza delle
decisioni: ordinanze o sentenze possono essere o INTERLOCUTORIE o DEFINITIVE.
—>DEFINITIVE: sono quelle che chiudono il giudizio pendente dinanzi alla Corte costituzionale.
Si innesta un’ulteriore distinzione:
- Processuali: la Corte chiude il giudizio per una ragione che afferisce alla procedura. Ad esempio
una decisione processuale è quella con la quale la Corte costituzionale restituisce gli atti giudizio al
giudice a quo e questo lo può fare per diverse ragioni: vuoi perché è cambiata la cornice normativa
(e quindi è necessario che il giudice a quo corregga l’ordinanza), vuoi perché magari è intervenuta
la corte su un oggetto analogo o affine (e di questo il giudice a quo ne deve tener conto), o ancora,
è decisione processuale quella con cui la Corte dichiara l’inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale (un’inammissibilità vuoi perché il parametro invocato non è un
parametro costituzionale, vuoi perché il giudice a quo non è legittimato a sollevare quella
questione, vuoi perché sono scaduti i termini o non c’è interesse a ricorrere). Talvolta
quest’inammissibilità può anche essere così palese da non richiedere un giudizio approfondito da
parte della Corte. Distinguiamo quindi un’inammissibilità semplice da quella manifesta.
L’inammissibilità manifesta c’è quando la causa che esclude l’ammissibilità della questione
dinanzi alla Corte è così patente da non richiedere un esame approfondito da parte della Corte,
tant’è vero che la manifesta inammissibilità la pronuncia con ordinata succintamente motivata
perché non c’è bisogno di spenderci tante parole sul fatto che quella questione è inammissibile
(esempio: se un giudice a quo solleva un questione che riguarda una norma dei regolamenti
parlamentari -la Corte non può sindacare i regolamenti di Camera/Senato- quindi se arriva una
questione del genere, la Corte pronuncia, con ordinanza, manifesta inammissibilità). Una
decisione processuale di questo tipo impedisce la riproposizione della questione dinanzi alla
Corte? Ha un effetto preclusivo? Beh dipende: se stiamo parlando di una decisione con cui la Corte
rimette gli atti del giudizio al giudice a quo perché è cambiata la cornice normativa la questione è
riproponibile (la Corte sta chiedendo al giudice di correggere l’ordinanza e di riproporre quella
questione); se si tratta di una decisione di manifesta inammissibilità o anche di semplice
inammissibilità, qui un effetto preclusivo c’è. Si chiamiamo processuali perché la corte non si
spinge nel merito della questione, non affronta la questione che le è proposta: si ferma sulla soglia
delle condizioni procedurali per poter poi entrare nel merito.
- Di merito: (sono più significative) la Corte entra nel merito del giudizio, affronta la questione di
merito sollevata dalle parti. Superati gli scogli procedurali, la Corte ‘si tuffa’ nel merito della
questione e la risolve, la decide in maniera definitiva. La carta costituzionale prevede due decisioni
definitive di merito:
i. La sentenza di rigetto: è quella con cui la Corte costituzionale non fa proprio il dubbio di
costituzionalità che le è proposto, ma ritiene che quel dubbio non sia fondato. La Corte rigetta la
questione così come è costruita dal giudice a quo: cioè non dice “la disposizione impugnata è
costituzionalmente legittima”, la Corte dice che quel dubbio di costituzionalità così come disegnato
dal giudice a quo NON È FONDATO. Il contrasto che il giudice costruisce/presume non c’è, ma
questo non esclude che quella stessa disposizione costituzionale possa essere dichiarata
costituzionalmente illegittima, ad esempio, in relazione a un diverso parametro costituzionale. Il
giudice a quo chiede alla Corte se una data disposizione costituzionale viola l’art.X Cost. e la Corte
dice “no, questa disposizione non viola l’articolo X”—>rigetto della questione, ma ciò non significa
che tale disposizione non potrebbe violare gli altri 138 articoli. Questo significa che la sentenza di
rigetto ha un effetto preclusivo, cioè impedisce la riproposizione della questione ma soltanto nei
medesimi termini nei quali questa sentenza era costruita nell’ordinanza di rimessione. Lo stesso
giudice, o altri, potrebbe proporre una nuova questione di legittimità cost. in relazione ad un
parametro diverso, quindi potrebbe riproporre la stessa questione con un tema decidendum diverso.
Nulla impedisce alla Corte in quel caso di accogliere la questione
Ecco perché si dice che la sentenza di rigetto della Corte ha efficacia esclusivamente inter partes:
perché non ha effetti preclusivi nei confronti di altri soggetti dell’ordinamento, nemmeno rispetto
allo stesso giudice a quo (che potrebbe sollevare una nuova questione con un parametro diverso)!
Ecco perché è così importante le costruzione e la buona scrittura di un’ordinanza di rimessione,
perché il tutto è retto dal principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Se però venisse sollevata la stessa questione in relazione allo stesso parametro da un altro giudice,
allora la Corte pronuncerebbe l’inammissibilità della questione.
ii. La sentenza di accoglimento: la Corte dichiara l’incostituzionalità della disposizione impugnata.
Qui si accoglie la questione di legittimità costituzionale e per l’effetto di questo accoglimento la Corte
annulla la disposizione impugnata, perché in violazione di una serie di parametri costituzionali che il
giudice a quo ha correttamente individuato nell’ordinanza di rimessione.
Il giudice a quo è “IL PORTIERE DEL GIUDIZIO DI COSTITUZIONALITÀ” e ci sono ancora
elementi di diffusione del giudizio: qui emerge che ruolo fondamentale abbia il giudice a quo, che
deve ‘imboccare la Corte costituzionale’ e se lo fa bene la Corte annulla la disposizione impugnata.
Questo annullamento aveva efficacia ex nunc: la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo
alla pubblicazione della decisione. Il problema è che l’efficacia ex nunc di una declaratoria di
incostituzionalità ha due difetti: anzitutto non incentiva l’individuazione nell’ordinamento delle
norme costituzionalmente illegittime, perché se il modello principale è quello del ricorso in via
incidentale, ma io che sono parte di un processo e quindi sono a giudizio per un fatto che è sorto
prima di questo momento, che interesse ho a provocare una decisione di incostituzionalità della
Corte se poi quella decisione si applica solo dal momento in cui è pronunciata? Inoltre, in 2º luogo,
una declaratoria di incostituzionalità con efficacia soltanto ex tunc crea dei problemi riguardo
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge: c’è disparita tra chi un fatto lo ha compiuto prima o
dopo, una disparità di trattamento che è ancor più intollerabile posto che si pone in relazione alla
violazione della fonte principale dell’ordinamento che contiene le garanzie dei cittadini.
Questo è il motivo per il quale la legge 87/1953 sul giudizio di costituzionalità scioglie questo dubbio
che l’art.136 contiene in se a favore di una efficacia ex tunc: un’efficacia retroattiva delle declaratoria
di incostituzionalità perché l’art.30.3 legge 87/1953 ci dice che “le norme dichiarate incostituzionali
non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione”—>significa che dal giorno
successivo alla pubblicazione un giudice non può più applicare quella norma, sia che si trovi a
giudicare un fatto che è sorto in esistenza dopo la dichiarazione di costituzionalità, sia che si trovi a
giudicare un fatto che è sorto prima. Qualsiasi sia la natura temporale del fatto che si trova a
giudicare, il giudice non può applicare quella disposizione dichiarato incostituzionale e quindi quella
declaratoria ha efficacia retroattiva.
MA: questa efficacia retroattiva travolge l’universo giuridico nel suo complesso? Non del tutto.
Perchè arriva un momento in cui è necessario garantire una certezza delle situazioni giuridiche, una
situazione, cioè, in cui io possa stare tranquillo e dire ‘’quella situazione giuridica non può più essere
messa in discussione/riaperta’’ (se tutto si potesse riaprire tutto perennemente saremmo dinnanzi a
una continua incertezza delle situazioni giuridiche che oltre a compromettere me come singolo
comprometterebbe anche interessi di tipo patrimoniale): questo è il motivo per cui nel nostro
ordinamento esistono la prescrizione e la decadenza. A quest’esigenza risponde l’istituto del
giudicato: istituto per il quale a un certo punto una sentenza diventa definita e non può più essere
messa in discussione—> questo accade quando sono stati esauriti tutti i mezzi di impugnazioni
previsti dall’ordinamento o quando sono scaduti definitivamente i termini per ricorrere ai mezzi di
impugnazione. Quando questo accade la situazione giuridica oggetto di quella sentenza non può
essere più messa in discussione (nemmeno da una sentenza di annullamento o da una decisione di
incostituzionalità).
Per cui è vero che la declaratoria di incostituzionalità ha efficacia retroattiva ma con il limite della
cosa giudicata. D’altra parte l’art.30 legge 87/’53 ci dice che il giudice non può più applicare la
disposizione dichiarata incostituzionalità, ma non succederà mai che un giudice sia chiamato a dover
applicare una disposizione a un rapporto su cui si è formato il giudicato. La declaratoria di
incostituzionalità, quindi, ha efficacia retroattiva con il limite dei rapporti esauriti, ovvero rapporti su
cui si è formato il giudicato.
Eccezione nell’eccezione: il limite del giudicato è travolto se la declaratoria di incostituzionalità opera
a favore del reo (favor rei); in questo caso anche il giudicato è travolto. Se oggi la Corte dichiara
incostituzionale un reato non solo il giudice non può più condannare nessuno a quel reato, ma si
vanno a riaprire anche rapporti esauriti e si revoca la condanna.
A tutto questo discorso dobbiamo aggiungere una cosa: la Corte costituzionale ha sempre ritenuto
che la previsione della legge 87/‘53, che dice che le sentenze di incostituzionalità hanno efficacia
retroattiva, pone la Corte dinnanzi ad una scelta: la Corte non ha mai inteso sé stessa come vincolata
da quella previsione. Cioè, talvolta, nelle sue pronunce di accoglimento ha modulato diversamente gli
effetti temporali delle decisioni prevedendo in quella sentenza di accoglimento che quella specifica
sentenza di accoglimento, in deroga rispetto alla all’art.30 legge 87/’53, si sarebbe applicata solo pro-
futuro, senza quindi effetti retroattivi.
Esempio: ultimamente la Corte ha dichiarato incostituzionale una tassa, che era stata introdotta sui
sovraprofitti realizzati in un certo arco temporale (dal 2008 in avanti) da parte di società petrolifere.
La Corte dichiara incostituzionale questa tassa. Quale sarebbe stato l’effetto di quella decisione? Se
oggi si dichiara incostituzionale una tassa riscossa regolarmente nell’arco degli ultimi 5/6 anni e
questa decisione ha un’efficacia retroattiva, succederà che, tutti quelli che nell’arco temporale in
questione l’hanno pagata, agiranno in giudizio per ottenere la restituzione. Questo, dice la Corte,
comporterebbe degli squilibri finanziari per lo Stato; il che comprometterebbe quell’equilibrio di
bilancio, che con la modifica dell’art.81, entra in Costituzione. Quindi comprometterebbe la tenuta di
quello che ad oggi è un valore costituzionale (l’equilibrio di bilancio pubblico).
Per evitare questa compromissione dell’equilibrio, la Corte dice “questa decisione di
incostituzionalità si applica solo pro-futuro, si applica solo con efficacia ex tunc, quindi non
retroattiva”, in deroga rispetto a quanto ordinariamente previsto per le sentenze di accoglimento.
La Corte si ritiene libero di modulare diversamente gli effetti delle proprie decisioni di accoglimento.
Dal punto di vista del suo armamentario di decisioni, in realtà si è sempre ritenuta molto libera, si è
sempre sentita disinvolta anche nell’inventare nuove decisioni. Perché noi ci siamo detti all’inizio che
le fonti ci parlano solo di queste 2 decisioni definitive di merito: la sentenza di rigetto e la sentenza di
accoglimento; c’è da dire però che noi, ad oggi, della tipologia di decisioni della Corte, ne conosciamo
diverse altre che la Corte, nel corso del suo lavoro, “ha inventato”, non per capriccio ma perché la
scelta tra sentenza di rigetto e sentenza di accoglimento costruisce un sistema binario che talvolta
impedisce di fare giustizia.
(((Modulare gli effetti temporali della decisione non è porsi al di sopra della legge? La Corte giustifica
questa sua scelta dicendo che l’art.30 legge 87/1953 PERMETTE alla declaratoria di
incostituzionalità di avere effetti anche nel passato ma il fatto che ciò sia permesso non è detto che
sempre debba accadere))).
Dicevamo, il sistema binario sentenza rigetto-sentenza accoglimento talvolta vincola troppo la Corte
Esempio: poniamo che legge preveda un’indennità dal lavoro per la madre per un certo periodo dopo
il parto. A questo punto sorge una questione di legittimità costituzionale per violazione del principio
di uguaglianza dei coniugi: si dice che è prevista l’indennità a favore della madre, perché non anche a
favore del padre?
La Corte dice che questa legge è incostituzionale e che quella indennità va prevista anche per il padre.
Che decisione assume la Corte?
Si può scegliere tra una sentenza di accoglimento (e in quel caso dal giorno dopo della pubblicazione
della sentenza nemmeno la madre avrà più quell’indennità perché la disposizione legislativa viene
annullata), o una decisione di rigetto (che perpetua un’illegittimità costituzionale e la Corte fa salva
quella disposizione). Dovendo scegliere, in una questione del genere la Corte non riesce a realizzare
l’obiettivo che la legittimità costituzionale le chiederebbe.
Questa difficoltà ha portato la Corte ad inventare diversi strumenti decisori che le permettano più
elasticità rispetto ad una sentenza secca di accoglimento o a una sentenza secca di rigetto:
A. il primo strumento, da un punto di vista storico, è quello delle sentenze interpretative, che sono
state lo stratagemma della Corte costituzionale per adeguare la legislazione vigente nello Stato
repubblicano (che era una legislazione quasi tutta di origine statutaria) ai nuovi valori
costituzionali.
Esempio: il nostro codice penale è di stampo fascista, così come quello di procedura penale (che
però è stato rinnovellato), che prevedeva che l’interrogatorio dell’imputato avvenisse alla
presenza del giudice e del pubblico ministero (non v’era scritto nulla sulla presenza della difesa
tecnica di parte ovvero l’avvocato). Questo non va bene nel momento in cui si introduce il
principio di parità nel contraddittorio nell’ordinamento odierno. Questa parità non sarebbe tale
se l’imputato fosse lasciato solo perché si troverebbe in uno stato di debolezza psicologica per cui
sarebbe difficile affrontare tale situazione. Perché la Corte costituzionale non dichiara subito
incostituzionale questa disposizione con una decisione di accoglimento? Perché se lo facesse,
creerebbe un vuoto normativo, quindi cerca di piegare quel dato normativo ai nuovi valori
costituzionali. Per cui, le arriva la questione e la Corte non dice “si, viola” ma dice che la
disposizione impugnata non viola il parametro costituzionale perché quella disposizione va
interpretata in un senso CONFORME alla Costituzione, nel senso di ritenere che è ovvio che
debba partecipare anche il difensore tecnico legale dell’imputato. La Corte, quindi, pronunciò
quella che si chiama una SENTENZA INTERPRETATIVA DI RIGETTO. La questione non è
fondata perché la disposizione non è stata interpretata correttamente, dal giudice a quo, quindi
va interpretata così. Meno frequente è la SENTENZA INTERPRETATIVA DI ACCOGLIMENTO,
con cui la Corte dichiara illegittima non tanto la disposizione impugnata, quanto una delle norme
astraibili da quella disposizione.
Con questi due strumenti la Corte cerca di modulare l’ordinamento, cerca di piegare la normativa
esistente ai nuovi valori costituzionali.
B. Il problema qual è? Qual è il punto debole di queste decisioni? che il giudice non è obbligato a
seguire l’operazione della Corte! Perché nel nostro ordinamento i giudici possono continuare a
interpretare in maniera difforme a quanto detto dalla Corte. Ecco perché a un certo punto le
sentenze interpretative che hanno questa debolezza cadono un po’ in disuso e la Corte inventa
uno strumento ben più forte, che è lo strumento delle sentenze manipolative: la Corte interviene
sulla disposizione manipolandola. Se la Corte è pensata nel sistema come legislatore in senso
ablativo, come legislatore negativo (colei che al massimo può eliminare una norma
dall’ordinamento), con la sentenza manipolativa la Corte, adesso, crea lei stessa una norma
giuridica. Torniamo all’esempio dell’indennità genitoriale. La Corte, o usa il rigetto o usa
l’accoglimento, con conseguenti problemi visti prima (vd sopra). Cosa può fare allora? La Corte
adotta una SENTENZA MANIPOLATIVA ADDITIVA di ACCOGLIMENTO: dice che la
disposizione che prevede l’indennità a favore della madre è incostituzionale (sentenza quindi di
accoglimento), ma lo è nella parte in cui non prevede un qualcosa che invece dovrebbe esserci.
(ad esempio: nel caso dell’indennità genitoriale direbbe che la norma è incostituzionale nella
parte in cui non prevede l’indennità paterna). Che succede dal giorno successivo alla
pubblicazione di una decisione del genere? Che non solo le madri potranno richiedere
l’indennità, ma anche i padri. Con questa sentenza manipolativa additiva di accoglimento la
Corte ha introdotto una nuova norma, perché convinta che, senza quell’addizione, la disposizione
impugnata sarebbe incostituzionale. Una decisione del genere crea dei problemi perché la Corte
fa quel che dovrebbe fare il Parlamento: potrebbe più semplicemente adottare una sentenza “di
monito” dicendo al Parlamento che quella disposizione è incostituzionale, pur non dichiarandola
momentaneamente tale affinché il Parlamento possa apportarvi delle modifiche. Le sentenze
monito però non sempre ottengono l’effetto desiderato, quindi talvolta con un’additiva di
accoglimento la Corte ritiene di poter intervenire direttamente. Però essa si pone un limite: la
Corte dovrebbe procedere “a rime obbligate”. Pensando a una poesia, La corte è vincolata nella
scrittura del secondo verso poiché deve scegliere una parola che faccia rima con il primo verso, la
Corte può introdurre solo qualcosa che ‘fa rima’ con quanto previsto dal legislatore—>la Corte
può aggiungere qualcosa NON in piena discrezionalità. Un’altra cautela che la Corte talvolta usa è
quella di non prevedere direttamente l’addizione di prestazione ma procedere con un’additiva di
principio: cioè la Corte non introduce una nuova prestazione a favore di una nuova categoria di
cittadini, ma introduce un principio al quale il giudice si deve attenere e al quale il Parlamento
dovrà dar seguito.
(una parentesi: le sentenze additive, soprattutto quelle di prestazione -quindi quelle che introducono
nell’ordinamento immediatamente una prestazione direttamente esigibili dai cittadini- , ci creano
problemi non soltanto perché la Corte non è legittimata democraticamente, ma in più c’è il problema
della copertura finanziaria: c’è il principio per cui ogni legge di spesa deve prevedere i mezzi per farvi
fronte. La Corte questo non può farlo perché non ha gli strumenti, quindi con l’additiva di
prestazione introduce un onere finanziario scoperto sul bilancio dello Stato, cui poi lo stato dovrà in
qualche modo far fronte). Tra le sentenze manipolative includiamo non solo le sentenze additive, ma
anche le SENTENZE MANIPOLATIVE SOSTITUTIVE DI ACCOGLIMENTO: “la disposizione
impugnata è incostituzionale nella parte in cui prevede A anziché B”. La Corte qui non sta
introducendo qualcosa per colmare un vuoto ma sta cambiando il contenuto della legge.
Esempio: il codice penale prevedeva il reato di vilipendio alla religione cattolica e il reato di
vilipendio alle altre religioni, con due sanzioni diverse. Al primo era annessa una maggiore sanzione.
Nel contesto statutario era ovvia come cosa—>religione cattolica=religione prevalente. Ma nel
contesto repubblicano tutte le religioni sono uguali, quindi la Corte dice che la legge di vilipendio alle
altre religioni è incostituzionale nella parte in cui prevede una sanzione diversa rispetto alla sanzione
del reato di vilipendio alla religione cattolica. Pronuncia quindi una sentenza manipolativa
sostitutiva di accoglimento.
Per le sentenze additive e sostitutive di accoglimento vale l’efficacia è EX TUNC ed ERGA OMNES. I
testi della disposizione non vengono modificati fisicamente: talvolta con un asterisco si scrive che c’è
stata una sentenza manipolativa.
In entrambi i casi (sia nel caso di conflitto tra poteri dello Stato che nel caso di conflitto tra enti) la
Corte concluderà dicendo “si, c’è quest’usurpazione o quest’interferenza”, e se queste interferenze od
usurpazioni si concretizzano in un atto formale la Corte costituzionale annullerà quell’atto formale.
Lunedì 4 maggio
LIBERTA’ E DIRITTI INVIOLABILI - CAP.13
Oggi tratteremo il tema riguardo gli spazi di libertà che ci residuano e le garanzie che presiedono
questi spazi di libertà perché se torniamo alle teoria contrattualistiche che spiegano l’origine dello
Stato, ricorderemo che nel momento in cui viene in essere il pactio unionis, i consociati non
rinunciano all’intera quota della propria libertà ma rinunciano soltanto ad una porzione della loro
libertà quanto è necessario per poter realizzare il fine a cui si orienta l’ordinamento giuridico che
nasce, ossia, quel fine a cui si orienta l’ordinamento giuridico che nasce con il pactio unionis, è la
fine di quello stato naturale di cui ci parlano gli autori delle teorie contrattualistiche dell’origine
dello stato. Nella tavola di valori che poniamo come base e come condizione di legittimità del pactio
unionis stesso vi è la salvaguardia di questi spazi residui di libertà e l’apparato di garanzie che ad
esso presiede.
La giustizia costituzionale è la forma giuridica di garanzia più forte di questi spazi di libertà perché
il giudice costituzionale non è soltanto giudice delle leggi in senso formale e materiale ma nel
momento in cui esercita il suo giudizio sulle leggi in realtà veste anche i panni di un giudice dei
diritti. Il punto è capire quale è il tracciato di questi spazi di libertà che sono garantiti dal nostro
disegno costituzionale—> Si tratta di un punto nevralgico di tutta la costruzione del potere politico,
cioè di tutta la tenuta dello Stato come manifestazione contemporanea del potere politico
organizzato. La questione delle libertà si pone al nucleo della forma di stato (perché la forma di
stato= quella formula che ci indica il rapporto esistente tra il sovrano e i cittadini). Il rapporto tra
potere politico e cittadino si gioca tutto sulle dinamiche che hanno a che fare con le libertà
riconosciute e tutelate, ed eventualmente compresse, dei singoli. D’altra parte, già quando abbiamo
visto l’evoluzione in forma diacronica delle forme di stato ci saremo accorti che l’evoluzione del
costituzionalismo non soltanto come pensiero politico ma anche come prassi politica, è l’evoluzione
del modo di intendere le libertà. Si passa da una forma di stato ad un’altra, mano a mano che
evolve il modo di intendere le libertà e il ruolo che viene assegnato a queste libertà nella società e le
forme giuridiche previste per la tutela di queste libertà. Da questo punto di vista c’è una distanza
abissale tra lo Stato liberale e lo Stato di democrazia pluralista perché lo stato liberale è
caratterizzato da una vocazione essenzialmente garantistica. Per il ruolo egemone che nello stato
liberale gioca la borghesia, lo stato liberale è uno stato minimo, uno Stato chiamato intervenire
soltanto come extrema-ratio nella società civile, cioè è chiamato ad intervenire per garantire quegli
spazi di libertà di cui il cittadino è già naturalmente titolare (perché lo Stato liberale nasce tutto
sommato nelle ceneri dello Stato assoluto e quindi nasce in seguito all’affermazione tra gli altri
principi di un carattere naturale e pregiuridico degli spazi di libertà dell’uomo). Le libertà nello
Stato liberale hanno una natura pregiuridica, appartengono al mondo della natura che preesiste al
mondo del diritto. In questo, nonostante lo Stato liberale nasca con un’affermazione di rottura
rispetto alla tradizione religiosa cristiana, è custodita questa tradizione perché in qualche modo
resta qualche residuo giusnaturalista in questa impostazione. Le libertà preesistono al diritto e gli
uomini in generale ne è titolare naturalmente e lo Stato interviene soltanto con la funzione di
garanzia di questi spazi di libertà. Invece, nello Stato di democrazia pluralista, la prospettiva
cambia decisamente perché viene messo radicalmente in discussione questo fondamento
pregiuridico di carattere naturalistico delle libertà. Le libertà sono radicate nel diritto positivo, cioè
sono radicate in quella tavola di principi e di valori contenuta nella legge costituzionale. Nello Stato
di democrazia pluralista non vi è l’idea di una libertà che appartiene all’uomo per diritto naturale,
ma vi è piuttosto l’idea di una libertà che ha il suo fondamento nell’ordinamento stesso, nel diritto
positivo stesso, pur in quel nucleo eminente del diritto positivo che è l’insieme dei valori e dei
principi sottratti al logorio del tempo ed eternizzati nella tavola dei valori costituzionali in
un’assiologia costituzionale.
Questo segna uno spartiacque definitivo rispetto allo stato liberale e ha due principali conseguenze:
1. La 1ª è un legame stretto tra libertà e valori costituzionali perché le libertà trovano il proprio
fondamento nella assiologia costituzionale, cioè nella tavola dei valori ordinati in un certo
modo che troviamo nella Costituzione, la quale non soltanto pone il fondamento delle libertà
ma disciplina la misura e il limite del godimento di certe libertà. Questo è la prima
conseguenza, il legame stretto tra libertà e valore costituzionale. Non esistono delle libertà
slegate da valori costituzionali. Le libertà trovano il proprio riferimento nei valori
costituzionali. Questo ha poi delle conseguenze importanti.
2. La 2ª conseguenza è che lo Stato di democrazia pluralista non ha più quella vocazione
meramente garantista che era propria dello Stato liberale, perché non c’è uno spazio di libertà
naturale da garantire. Non c’è un ‘cerchio magico’ intorno all’individuo che esclude l’intervento
dello Stato e invoca l’intervento dello Stato soltanto a garantire i confini di questo cerchio
magico. Qui c’è qualcosa di diverso. C’è un qualcosa che di per sé in natura non esisterebbe.
Nell’ottica dello Stato di democrazia pluralista, una libertà esiste perché c’è un valore
costituzionale di riferimento, non preesiste all’inserimento di quel valore costituzionale nella
assiologia costituzionale. Quindi la libertà non è più qualcosa da tutelare, da difendere, o
perlomeno non è più qualcosa da difendere e basta, ma è qualcosa che porta in sé una
inesauribile necessità di affermazione. Le libertà nello Stato di democrazia pluralista hanno una
vocazione non ad essere garantite ma hanno una vocazione emancipatoria, ovvero, hanno in sé
una carica ‘esplosiva’ nel senso dell’emancipazione dell’individuo da uno Stato che in natura
non è uno Stato di libertà. Si può dire in qualche modo che lo stato liberale aveva una
impostazione più ottimista della natura umana perché dire che le libertà esistono in natura è un
atto di fiducia. Invece lo Stato di democrazia pluralista ad un certo punto perde questa
fiducia—> La libertà non è più qualcosa che preesiste da tutelare ma è qualcosa da affermare, è
qualcosa che porta in sé una spinta emancipatoria. Nello Stato di democrazia pluralista la
libertà è una pretesa ed è questo il punto.
(((Non solo la Costituzione pone un limite alla libertà ma altri riferimenti dell’assiologia
costituzionale possono essere un limite alla libertà. Ad esempio, la mia libertà di circolazione (fase
2 del Covid-20) è parzialmente limitata dall’assiologia costituzionale che pone la salute come
interesse gerarchicamente sovraordinato rispetto alla libertà di circolazione. L’assiologia
costituzionale di uno Stato di democrazia pluralista è molto più ricca rispetto allo Stato liberale.)))
A) Dicevamo: nello Stato di democrazia pluralista ogni libertà è una pretesa. In realtà, la pretesa
contenuta nella libertà è una pretesa che può avere un doppio volto, perché può essere una pretesa
a carattere astensivo e può essere una pretesa a carattere pretensivo:
- È una pretesa a carattere astensivo nel senso che il titolare della libertà pretenda una non-
interferenza in quella sfera di libertà da parte dello Stato e degli altri individui. Ad esempio,
l’art.14: “il domicilio è inviolabile”. Qui è chiara la pretesa di carattere astensivo che ha ad
oggetto una non-interferenza da parte dello Stato e degli altri soggetti dell’ordinamento.
- Talvolta la libertà contiene una pretesa di carattere pretensivo, cioè se non altro la pretesa di
poter operare delle scelte senza subire dei condizionamenti esterni. Ad esempio, il diritto di voto
è l’esempio più chiaro. Il diritto di voto ha in sé una pretesa che essenzialmente è una pretesa a
carattere pretensivo perché essa ha ad oggetto la disponibilità di una scelta senza il rischio di
condizionamenti esterni.
B) Da un punto di vista di sistematica della materia noi distinguiamo sotto questo profilo le libertà
negative dalle libertà positive:
- Le libertà negative sono quelle che contengono in sé essenzialmente una pretesa a carattere
astensivo che ha ad oggetto una non-interferenza (es: libertà di domicilio). Queste ono le libertà
classiche dello Stato liberale.
- Le libertà positive hanno in sé una pretesa a carattere pretensivo che ha ad oggetto la libertà di
una scelta senza condizionamenti esterni (es: diritto di voto).
Questa distinzione tra queste due libertà invero non sempre è del tutto chiara e univoca.
Sicuramente è chiara grazie agli esempi che abbiamo fatto. Ma ci sono delle forme di libertà che
contengono in sé sia una pretesa pretensiava che una pretesa astentiva e che quindi non possono
univocamente riferirsi alla categoria libertà positiva o libertà negativa. Ad esempio, la libertà di
manifestazione del pensiero che ha in sé la pretesa a carattere astensivo (che richiede una non-
interferenza) ma in sé ha anche una pretesa a carattere pretensivo (che il titolare di libertà di
manifestazione di pensiero vuole che il soggetto pubblico non interferisca nell’esercizio di questa
libertà ma allo stesso modo vuole essere messo nelle condizioni di operare delle scelte, cioè di poter
scegliere quale opinione esprimere e con che mezzi esprimere queste opinioni).
Guardiamo al nostro Stato di democrazia pluralista e al disegno costituzionale del '48 che
chiaramente in sé porta questi elementi. È un disegno in cui la libertà è vista come una pretesa sia
carattere pretensivo che astensivo e che ha una attitudine emancipatoria. Il disegno costituzionale
in materia di libertà segue quella struttura della c.d. “socialità progressiva” (modello che era stato
ideato da Aldo moro): un modello per il quale la considerazione della Costituzione va anzitutto
all’individuo e poi gradualmente si estende mano a mano che l’individuo svolge la sua personalità
nelle diverse situazioni sociali che vanno sempre sempre di più allargandosi. Per cui, la parte della
nostra Costituzione dedicata ai diritti e doveri dell’uomo e del cittadino prevede una prima parte
dedicata ai rapporti civili e all’interno, a sua volta, partiamo dall’individuo per poi arrivare al
nucleo famigliare, poi i rapporti etico sociali, poi i rapporti economici e infine i rapporti politici che
fanno riferimento alla comunità politica.
Prima dobbiamo dirci anzitutto che questo disegno di libertà costituzionali secondo il modello della
società progressiva ha tre fondamenti normativi che orientano tutto il disegno costituzionale.
Questi tre fondamenti normativi che ci servono anche perché ci danno la chiave di lettura o ci
orientano alla lettura giusta delle forme di libertà poi declinate nelle diverse sfere. Questi tre
fondamenti normativi sono:
Mercoledì 6 maggio
Art.3: esso esprime il principio di eguaglianza. Anche in questo caso c’è una differenza sostanziale
tra il modo di intendere la forma del principio di uguaglianza nello Stato liberale e in quello
pluralista. Nel primo caso esso è inteso come eguale forza giuridica della legge, e questo è significato
dall’affermazione della natura generale e astratta della legge. Lo Stato liberale nasce sulle ceneri
dell’antico regime, che era fondato su alcune diseguaglianze accettate e addirittura formalizzate dallo
stesso ordinamento giuridico; lo Stato liberale invece fa proprio un principio di eguaglianza inteso in
senso formale = eguale forza giuridica della legge, cioè tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge
(ovvero la legge è uguale per tutti). Si tratta però di un principio di eguaglianza incompleto,
immaturo, infatti dire che tutti sono uguali davanti alla legge rischia di mortificare le diseguaglianze
che oggettivamente esistono tra i soggetti rispetto ai quali la legge si pone, e si tratta di
diseguaglianze che talvolta meritano una specifica attenzione da parte del legislatore, che quindi
differenzierà la legge non facendola uguale per tutti. È questo il passaggio cui si assiste nello Stato di
democrazia pluralista: in questa nuova forma di stato il principio di uguaglianza non è più confinato
al mero dato dell’eguale forza giuridica della legge e l’accento viene posto più che sulla legge sui
soggetti, le cui condizioni devono ricevere eguale considerazione dal legislatore, e ciò significa che
sarà necessaria una differenziazione, la formula sintetica diventa: si devono trattare in modo eguale
casi uguali, e in modo diverso casi diversi. Laddove emerge una differenza qualificante, è necessario
che il legislatore ne tenga conto differenziando la forza della norma giuridica (esempio: il sistema
tributario. Se a tutti i cittadini si imponesse lo stesso regime tributario, questo non sarebbe giusto
perché da un punto di vista del reddito di ciascuno di noi vi sono delle diseguaglianze qualificate tra i
cittadini. Di queste disuguaglianze il legislatore non può non tenerne conto e allora deve trattare i
casi secondo la formula sintetica sopra citata). Il sistema tributario non è impostato ad un criterio di
proporzionalità, ma di progressività, significa che il prelievo tributario è tanto maggiore non quanto
al dato reale, ma quanto all’aliquota, cioè tanto più aumenta il reddito tanto più aumenta l’aliquota
applicata.
Questo principio di eguaglianza, che è proprio dello Stato di democrazia pluralista, è proprio quello
che troviamo all’art.3 Cost., che si compone di due commi, che enunciano il principio di eguaglianza
formale (primo comma) e sostanziale.
• Eguaglianza FORMALE = “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali”. Non c’è scritto che la legge è uguale per tutti, c’è scritto che
tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge—>le caratteristiche che differenziano un
cittadino da un altro sono egualmente prese in considerazione dal legislatore. L’art pone un
divietò di discriminazione arbitrarie che è accompagnato dalla necessita di trattare
diversamente quelle situazioni appunto diverse. Non è sufficiente che il legislatore di fronte a
situazioni con caratteristiche diverse preveda trattamenti diversi, ma deve esserci un
rapporto tra la differenza di trattamento e la differenza di situazione= questo rapporto è
chiamato ‘ragionevolezza’. La formula per cui eguaglianza nello Stato di dem pluralista
significa trattare casi uguale in maniera uguale, e casi diversi in maniera diversa, non apre il
varco ad una proliferazione di disparità di trattamento arbitraria, ma essa (la disparità) viene
regolata da una canone di ragionevolezza, ovvero un equilibrio tra le differenze di fatto da un
lato e la loro qualificazione giuridica dall’altro, e dunque la differenziazione di trattamento
legislativo. Questo rapporto tra diff di fatto e diff di trattamento giuridico è un canone
giustiziabile, c’è un soggetto che giudica la ragionevolezza delle scelte legislative in materia di
differenza di trattamento, ed è la Corte costituzionale, perché infatti il giudizio di
ragionevolezza ha a che fare con un parametro costituzionale = comma I dell’art.3. Il
controllo di ragionevolezza si configura quindi come un giudizio che ha ad oggetto la
disposizione legislativa che differenzia il trattamento sulla base di una supposta differenza di
fatto e il principio di eguaglianza formale. Se il giudizio fosse ridotto semplicemente a questi
elementi (una disposizione che prevede un trattamento differenziato per una determinata
situazione e il principio costituzionale dell’eguaglianza formale) questo giudizio svolto dalla
Corte sarebbe però un mero giudizio politico, sarebbe un giudizio che richiederebbe alla Corte
di giudicare sulla giustizia della legge che è portato ad oggetto del suo esame. Il controllo di
ragionevolezza non è un controllo sulla giustizia in sé di quella legge (Esempio 1 : prendiamo
una disposizione che introduca una disparità di trattamento—>codice p. ‘’vilipendio alla
religione cattolica’’. Se il giudizio di ragionevolezza su questa disposizione fosse un giudizio
strettamente binario, questo si risolverebbe in un giudizio sulla giustizia di quella
disposizione impugnata. La Corte dovrebbe svolgere un giudizio di tipo politico e senza un
preciso ancoraggio normativo, rischiando -questo giudizio- di mettere nelle mani della Corte
uno strumento troppo potente). Infatti, il giudizio di ragionevolezza non si riduce a questo
schema binario appena richiamato nell’esempio, ma è un giudizio che ha uno schema
triangolare, perché per valutare la conformità o meno della scelta legislativa al principio di
eguaglianza, che è un principio -per natura- “relazionale” (perché predico l’eguaglianza di
almeno 2 situazioni poste in relazione) allora, se è relazionale, posso dichiarare il principio di
eguaglianza leso e violato soltanto se sollevo lo sguardo dalla norma che è impugnata dinanzi
a me per guardare ad un altro riferimento normativo, ovvero alla disciplina normativa che è
dedicata ad una situazione che io ritengo analoga rispetto a quella oggetto della norma
impugnata (io posso valutare se la disposizione in materia di vilipendio della religione
cattolica rispetta o meno l’art.3 soltanto se vado a vedere come il legislatore disciplina il
vilipendio delle altre religioni). Se nel mio giudizio io non guardassi al tertium comparationis,
il giudizio si riferirebbe soltanto alla sola giustizia. Se invece io guardo al tertium
comparationis e ritengo che a una situazione non differenziata -secondo me, ma analoga
rispetto alla situazione cui si riferisce la norma impugnata- il legislatore ha applicato una
disciplina diversa, a quel punto ritengo che la la scelta del legislatore di differenziare questo
trattamento è irragionevole. Per quanto con l’introduzione del t.c. si eviti che il giudizio di
ragionevolezza sia un giudizio politico sulla giustizia di una disposizione e quindi si contende
in qualche modo il ruolo espansivo della Corte, e nonostante questo contenimento, ci
rendiamo conto che il giudizio di ragionevolezza è pur sempre un giudizio delicatissimo che
involve delle scelte delicate da parte della Corte, perché una prima scelta che la Corte deve
fare in questo giudizio di ragionevolezza consiste nel rispondere al quesito “ma veramente
queste due situazioni sono eguali o c’è una differenza?”—> tornando all’esempio precedente,
per arrivare a dire che è irragionevole il vilipendio della regione cattolica la Corte deve
ritenere che la ‘situazione di fatto religione cattolica’ e la ‘situazione di fatto di altre religioni’
non meritino una disparità di trattamento. Questa scelta è una scelta delicata che la Corte
compie tenendo in considerazione la ratio della scelta legislativa: spiegamici con esempi:
arriva alla Corte la questione sul vilipendio della religione cattolica; la Corte, per verificare il
rispetto dell’art.3.1 deve individuare il TC ed individua come TC la disciplina in materia di
vilipendio di religioni diverse da quella cattolica. Una volta individuato il TC, ritiene che
questa disparità di trattamento (pene sul vilipendi) non sia ragionevole, entrando in
contrasto con l’art.3.1. Ma sulla base di cosa la Corte ritiene che la disparità sia irragionevole
perché le due situazioni sono eguali? Sulla base della considerazione della ratio legislativa. La
Corte si chiede ‘’qual è la ratio della scelta che il legislatore compie quando disciplina i
vilipendi delle varie religioni?’’. La Corte dice che la ratio (ovvero proteggere la sensibilità
religiosa dei consociati) è la stessa, e allora perché li sanziona diversamente? La lesione della
sensibilità merita quindi lo stesso trattamento (=stessa pena). Cvd
Esempio 2: prendiamo la disposizione normativa che prevede il congedo parentale per la sola
madre. Questione di costituzionalità: “questa disposizione viola o meno il principio di
eguaglianza formale? È ragionevole la disposizione?. 1º passaggio: dobbiamo introdurre nel
giudizio un TC, cioè rispetto a quale situazione sarebbe dispari questa disposizione
impugnata? Rispetto alla situazione del padre. (Qua emerge un altro profilo interessante:
non sempre il tertium comparationis è un atto di legislazione positivo, può anche essere un
atto negativo (può essere una scelta diversa ma anche un vuoto normativo; il vuoto n. infatti
si tratta sempre di un disporre in modo differente). Il TC è il vuoto legislativo in materia di
congedo parentale a favore del padre. Questa disparità di trattamento normativo, è
ragionevole? Come si fa a dire se lo è? dobbiamo vedere se le due situazioni, cioè del padre e
della madre appena il bambino è nato, sono diverse. E come si fa? Guardiamo alla ratio del
legislatore. E qual è in questo caso? La ratio non è quella, dice la Corte, di premiare la madre
perché è più brava. Il congedo non è pensate come premio ma come strumento di tutela per il
bambino appena nato. La ratio della norma che concede il congedo alla madre è la tutela
dell’interesse del bambino ad essere accudito. Alla voce di questa ratio, perché escludere il
padre? La Corte dice “alla luce delle ratio non c’è una ragionevole disparita di fatto fra la
madre e il padre perché entrambi possono prestare cure al bambino appena nato e visto che
le due situazioni di fatto non sono differenti non è ragionevole una differenza di trattamento.
(Questi 2 esempi appena fatti ci permettono di segnalare che il giudizio di ragionevolezza è un
giudizio che il più delle volte si conclude con una sentenza di tipo manipolativo). Altra cosa:
questo scrutinio della Corte è ancora più attento e penetrante quando la disparità di
trattamento ha a che fare con il “nucleo duro” dell’eguaglianza, ovvero l’elenco di differenze di
trattamento riportato nell’art.3. Quindi che senso ha questo elenco? non è né un elenco
tassativo (infatti possono violare il principio anche disparità che si pongono in relazione a
elementi segnalati nell’articolo. Possono essere dichiarate irragionevoli anche disparita di
trattamento che fanno riferimento a parametri diversi dal sesso, razza, ecc…) né tantomeno
un elenco esemplificativo, infatti si tratta di qualcosa di più. Si tratta di disparità di
trattamento particolarmente odiose, per le quali il costituente chiede, da un lato uno sforzo in
più in capo al legislatore, dall’altro un controllo più penetrante da parte della Corte, che
esercita il controllo di ragionevolezza. Dunque i parametri che rientrano nel nucleo duro
dell’uguaglianza fanno sorgere una presunzione prima facie di irragionevolezza—> quando un
trattamento legislativo è differenziato in ragione di uno degli elementi che rientrano nel
‘nucleo duro’, tale trattamento è prima facie sospetto e quindi, da un lato, il legislatore deve
apporre delle buone motivazioni, e dall’altro il giudice deve eseguire un controllo più severo.