Sei sulla pagina 1di 174

New Humanities

2
La coscienza. Un dialogo interdisciplinare e interculturale
a cura di Domenico Fiormonte

Collana New Humanities

Comitato scientifico:
Roberta Ascarelli, Francesco Fiorentino (coordinatori), Bruno Berni, Ma-
ria del Sapio, Massimiliano De Villa, Domenico Fiormonte, Laura Forti-
ni, Fiona Macmillan, Teresa Numerico, Gianluca Paolucci

2018 © Copyright Istituto Italiano di Studi Germanici


Via Calandrelli, 25 – 00153 Roma

Roma 2018

ISBN: 978-88-95868-28-8
La coscienza
Un dialogo interdiscipliare e interculturale
a cura di Domenico Fiormonte
Dedichiamo questo lavoro alle memorie di
due grandi amici prematuramente scomparsi:
Emilio Del Giudice e Paolo De Santis.
Geniali scienziati, appassionati attivisti
e anime luminose
Indice

Premessa
di Domenico Fiormonte e Michele Lucantoni p. 9

Introduzione. Il cammino della fisica dai molti all’uno


di Antonella De Ninno 13

Implicazioni filosofiche della fisica quantistica


e pensiero non-dualista orientale
di Mauro Bergonzi 23

La teoria quantistica dei campi e la fisica della materia


vivente. Un’ipotesi sui fenomeni psichici
di Emilio Del Giudice 103

L’esperienza del vuoto nello Yoga. Un incontro


con la fisica quantistica
di Domenico Fiormonte 117

Il problema della coscienza sullo sfondo delle scienze


della mente e del cervello
di Massimo Marraffa 141

Gli autori 171


Premessa
Domenico Fiormonte – Michele Lucantoni

Nell’inverno del 1978, al culmine della sua notorietà


di filosofo e intellettuale, Michel Foucault si recò per la
seconda volta in Giappone, con lo scopo sia di partecipare
a una serie di conferenze sulla sua opera sia di studiare il
buddismo zen. Il gesto, come scrive Adrian Konik in uno
studio che ripercorre le tappe del rapporto fra Foucault e
buddismo1, avrebbe destato grande eco e ovviamente una
certa dose di critiche da parte del mondo intellettuale occi-
dentale. Il nostro intento qui tuttavia non è ripercorrere le
tappe di quel rapporto e ancor meno tentare una riflessione
sulle ragioni, teoriche e personali, che spinsero Foucault a
varcare la soglia (non solo filosofica) d’Oriente. Al nostro
scopo è sufficiente riportare alcune delle parole pronuncia-
te da Foucault durante il dialogo con i monaci zen avvenu-
to nel corso del suo soggiorno presso il tempio di Seion-ji
a Uenohara:

se attraverso la postura del corpo nella meditazione zen, gra-


zie cioè alla giusta posizione del corpo, sono riuscito ad avvertire
qualcosa, penso si tratti della possibilità di far esistere dei nuovi
rapporti tra lo spirito e il corpo e, oltre a ciò, dei nuovi rapporti
tra il corpo e il mondo esteriore2.

1
  Adrian Konik, Reconsidering Foucault’s Dialogue with Bud-
dhism, in «South African Journal of Philosophy», 35, 1 (2016), pp.
37-53.
2
  Michel Foucault, M. Foucault to zen: zendera taizai-ki, in «Umi»,
197 (1978), pp. 1-6, trad. fr. in Id., Dits et Écrits, vol. III, n. 236, pp.
618-624, trad. it. di Mauro Bertani, Il discorso, la storia, la verità. Inter-
10  premessa

Si tratta a nostro parere di un passaggio straordinario,


non solo perché testimonia dell’inesauribile capacità di
Foucault di esplorare pensieri e sistemi ‘altri’, ma perché
tale insoddisfazione verso il modello occidentale («La crisi
del pensiero occidentale è identica alla fine dell’imperiali-
smo»3) lo spinge verso una soglia certo non ovvia per un
intellettuale occidentale del tempo: la relazione fra corpo e
spiritualità. Pur nella breve esperienza di meditazione zen
guidata dal Maestro Ōmori Sogēn, Foucault intuisce, anzi
‘sente’ (fa esperienza) di un rapporto diverso fra spirito
e materia e comprende come questo sia anche la base di
partenza per stabilire un nuovo rapporto con il mondo este-
riore4. Scrive Konik: «Foucault advances Zen as a medita-
tive space for immanent reflection on the role of such rela-
tions of power in the constitution of one’s subjectivity, the
progressive de-conditioning recognition of which stands
to open up possibilities for the establishment of different
modes of being»5. Dove avrebbe condotto questa riflessio-
ne l’erede forse più sofisticato e più libero del pensiero
occidentale moderno? Sono domande come queste che ci
hanno spinto all’esperimento di questo volume: un lavoro
che è l’inizio di un dialogo, appena abbozzato, come quel-
lo fra Ōmori e Foucault, fra discipline, studiosi e dimen-
sioni culturali che hanno scelto come terreno di incontro la
riflessione sulla coscienza.
I contributi qui raccolti sono il frutto e l’evoluzione di
un seminario che si svolse a Roma Tre il 18 settembre 2013
(Il contributo della fisica quantistica all’idea di coscien-
za6), al quale parteciparono Emilio Del Giudice, fisico

venti 1969-1984, Einaudi, Torino 2001; rist. in Foucault, I Classici del


Pensiero, Mondadori, Milano 2010, p. 614. I corsivi sono miei.
3
Ivi, p. 615.
4
  A proposito dell’importanza delle discipline del corpo nelle filo-
sofie orientali si veda l’ottima introduzione di Giangiorgio Pasqualotto,
Oltre la filosofia. Percorsi di saggezza tra Oriente e Occidente, Angelo
Colla Editore, Costablissara 2008, pp. 7-45.
5
  Adrian Konik, Reconsidering Foucault’s Dialogue with Buddhism,
cit., p. 41.
6
  Cfr. <http://www.newhumanities.org/> (ultimo accesso: 1 settem-
bre 2018).
premessa  11

quantistico (scomparso meno di un anno dopo, e al qua-


le è dedicato questo volume), Massimo Marraffa, filosofo
della scienza e storico della psicologia, Mauro Bergonzi,
orientalista e storico delle religioni, e Michele Lucantoni,
filosofo della biologia. Domenico Fiormonte, in qualità di
organizzatore, moderò la discussione ma non presentò un
suo intervento, dunque il contributo che appare qui è, sotto
ogni punto di vista, inedito.
Diversamente da altri seminari del gruppo New Hu-
manities, la natura complessa degli interventi non ha reso
possibile una sintesi individuale. L’obiettivo del seminario
era come si è detto creare un dialogo e non costruire un
discorso coerente che per forza di cose avrebbe finito per
amalgamare in modo improprio approcci, idee e discipline
profondamente diversi nonché distanti nel tempo e nello
spazio. Il progetto si proponeva inizialmente di investiga-
re l’idea di coscienza che emerge da alcuni scritti di due
fisici quantistici, Emilio Del Giudice, affiliato al gruppo
New Humanities e Amit Goswami7. Quest’ultimo nelle sue
opere esplora esplicitamente i legami fra meccanica quan-
tistica e le correnti del misticismo indiano, in particolare
il Vedānta (uno dei sei darśana o sistemi di pensiero che
discendono dai Veda e considerati ‘ortodossi’ nell’indui-
smo). Le posizioni di partenza dei due fisici sono differen-
ti, ma sembrano condurre alla stessa ontologia profonda: la
coscienza universale unica. A fare da ponte fra Goswami
e Del Giudice è stato chiamato Mauro Bergonzi, storico
delle religioni e studioso della tradizione Vedānta, il cui
denso saggio costituisce il cuore di questo volume. A tale
proposito Bergonzi a valle del nostro incontro farà notare:
«In un ipotetico gioco della torre, fra i due principi Del
Giudice sembra disposto a gettare di sotto solo il principio
di località, mentre Goswami li getta entrambi. Ma queste
differenze nascono da come si definisce la coscienza…».
E proprio per non rinunciare a tali definizioni viene asse-
7
  Amit Goswami, The Visionary Window: A Quantum Physicist’s
Guide to Enlightenment, Quest Books, Wheaton (IL) 2006, trad. it. di
Anna Lamberti Bocconi, Guida quantica all’illuminazione. L’integrazi-
one di scienza e coscienza, Edizioni Mediterranee, Roma 2007.
12  premessa

gnato a Massimo Marraffa l’ingrato compito di riflettere


sugli strati più ‘esterni’ e per così dire visibili (scientifi-
camente analizzabili?) della coscienza, sintetizzando lo
stato dell’arte delle neuroscienze e delle scienze cogniti-
ve. Come vedremo il percorso storico-critico di Marraffa
aggiunge un tassello fondamentale a temi e concetti come
il rapporto fra intenzionalità e coscienza, l’autocoscienza
e la coscienza di sé. Infine, all’indomani della scompar-
sa di Emilio Del Giudice ci è parso naturale chiedere ad
Antonella De Ninno, che con lui ha condiviso a lungo sia
il lavoro di fisico sia la passione per le implicazioni più
profonde della comune ricerca, di offrirci una riflessione
introduttiva che riassume e rilancia i temi più coinvolgenti
del nostro dialogo.
Quando il pensiero scientifico, la domanda filosofica e
l’intuizione spirituale decidono di rivolgere l’attenzione a
un fenomeno come la coscienza, la sensazione che si prova
nel prefigurare l’esito di una possibile confluenza è parago-
nabile allo smarrimento destato da un insieme finito di so-
luzioni infinite. La finitudine dell’esistenza umana scopre
un gemellaggio con l’assoluto indeterminato, concetti pa-
rametrici come ‘estensione’ o ‘misura’ svaniscono dall’o-
rizzonte di un significato fruibile, l’usuale dimensionalità
del mondo fisico si assottiglia quasi fino a dileguarsi. Dal
momento che qualsiasi appello a criteri quantitativi è desti-
nato inesorabilmente a cadere nel vuoto, la pluralità di voci
era l’unico modo plausibile e auspicabile per approssimare
una ‘verità’ riguardante la coscienza. In questa esplorazio-
ne scopriremo che il percorso millenario che unisce le due
sponde quantistiche è il pensiero sapienziale non-dualista
custodito nelle Upaniṣad. Le antiche scritture religiose in-
diane sembrano aver anticipato, agli esordi di ogni gno-
seologia conosciuta in Occidente, alcuni degli aspetti più
profondi e meno esplorati dell’idea di coscienza.
Introduzione
Il cammino della fisica dai molti all’uno
Antonella De Ninno

Ricordo che il titolo dell’incontro al quale partecipai come


uditrice nel settembre 2013, e dal quale nasce questa raccolta,
mi apparve già come una provocazione: Il contributo della fi-
sica quantistica all’idea di coscienza. La fisica si occupa del-
la descrizione del mondo, della possibilità, attraverso la ‘mi-
sura’ di capire come funziona quello che ci appare come reale,
la filosofia estende il suo campo di indagine su quello che non
è direttamente sotto la possibilità delle nostre osservazioni.
La coscienza rappresenta poi proprio il trait d’union tra l’in-
dividualità e il mondo della manifestazione. Parafrasando il
linguaggio matematico si potrebbe dire che la coscienza rap-
presenta il limite verso cui tende la realtà osservabile quando
l’azione del conoscere tende a inglobare tutto l’infinito cono-
scibile. Essa (la coscienza) protegge la nostra, preziosissima
individualità dall’indefinibile realtà dell’esistenza non-indivi-
duale. Ma allora cosa c’entra la fisica? Come si può pensare
che una scienza che presuppone l’esistenza di una realtà og-
gettiva e misurabile possa dare un contributo all’idea di una
nozione limite, appunto, come quella della coscienza?
In realtà, fino alla fine del XIX secolo la scienza si
occupava di misurare il mondo, di definire leggi, impostare
modelli di realtà utili agli esseri umani per avanzare lungo la
via del progresso materiale. I successi della termodinamica,
la scienza che studia gli scambi di energia tra i corpi, hanno
consentito di inventare macchine per ridurre la fatica del lavo-
ro, la scoperta degli antibiotici, in medicina, ha contribuito a
scongiurare le pandemie che si ripresentavano periodicamen-
14  antonella de ninno

te. Ma la definizione di che cosa fosse la coscienza rimaneva


drasticamente fuori dal compito della scienza.
Emilio Del Giudice, nel suo saggio, ci descrive il per-
corso della scienza moderna come una serie di ‘inciampi’
in incongruenze delle teorie precedenti: il rigore della logi-
ca scientifica consente di derivare tutte le conseguenze dai
principi, cosicché, quando ci si trova di fronte ad una incon-
gruenza, è necessario rimettere in discussione i principi. È
così che, inciampando, si approda all’inizio del XX secolo
alla meccanica quantistica. Ed è proprio con la nascita del-
la meccanica quantistica che la fisica perde il suo principale
connotato di ‘misura del mondo’ per confluire (di nuovo di-
rei) nell’ambito della filosofia, ovvero dell’amore per la co-
noscenza tout court. Occorre dire che non tutti gli scienziati
sono consapevoli di questo grande ritorno, per molti di loro il
compito ultimo della scienza è spiegare la natura per poterla
meglio utilizzare o, addirittura in qualche caso, migliorare.
È assolutamente comune, quando viene annunciata una sco-
perta scientifica, chiedere quale sia il ritorno di utilità per ‘la
gente’, in termini di risparmio economico o di maggiore effi-
cienza, palesando così, senza vergogna, che il motore ultimo
dell’attività umana è ritenuto il denaro («con la cultura non si
mangia» è stato detto da un ministro della Repubblica). Ma i
grandi fisici che diedero vita alla meravigliosa stagione della
meccanica quantistica erano ben consapevoli di quali rivo-
luzioni del pensiero fossero associate alle loro teorie. Niels
Bohr, Werner Heisenberg, Erwin Schrödinger, coltivavano in-
teresse per le filosofie orientali, come ci racconta Mauro Ber-
gonzi, e si resero immediatamente conto che la separazione
tra fisica teorica e pensiero filosofico-religioso orientale non
poteva più permanere se Bohr è arrivato a dire, a proposito
del rapporto tra osservatore ed osservato: «I go into the Upa-
nishads to ask questions»1.
Alla fine, il punto cruciale della conoscenza sta proprio
nella definizione di coscienza, sia che questa si attinga da una
Coscienza pura, di là da oggetto e soggetto, sia che emerga da

1
  Alan L. Mackay, A Dictionary of Scientific Quotations, Institute of
Physics Publishing, Bristol-Philadelphia 1991, p. 35.
il cammino della fisica dai molti all’uno  15

un continuum di possibilità come fatto necessario. Il saggio di


Domenico Fiormonte analizza i punti di contatto tra il concet-
to di vuoto considerato dallo yoga e quello che emerge nella
meccanica quantistica, trovando non poche convergenze. Il
nuovo, grande soggetto della meccanica quantistica è proprio
il vuoto che viene rivestito di qualità e dinamica a differenza
della sua precedente immagine dotata di un unico attributo: la
privazione.
Nella fisica del XX e XXI secolo, il vuoto diventa pro-
tagonista, agisce sui corpi, conferisce la massa attraverso il
bosone di Higgs, comunica energia, modifica le caratteristi-
che stesse della realtà consentendo la formazione della mate-
ria condensata a partire dalla realtà polverizzata della forma-
zione dell’Universo fatta di particelle elementari. È un vuoto
creatore molto simile, concettualmente, alla Coscienza divina
del prāṇa. È stato fatto il paragone tra l’Universo e una stanza
molto affollata: per attraversarla siamo costretti a rallentare
mettendoci verosimilmente lo stesso tempo che avremmo
impiegato attraversando una stanza vuota ma con un pesante
zaino sulle spalle. L’Universo è molto più simile a una stanza
affollata che a una stanza vuota perché è pieno di fluttuazioni
di energia che lo attraversano come dei lampi una notte buia e
le particelle che lo attraversano sentono queste presenze per-
ché acquistano massa e rallentano il loro moto. Ma ancora di
più, i lampi di energia che si accendono, e in un tempo infini-
tesimo si spengono, consentono alla materia di stabilizzarsi,
alle particelle di sincronizzarsi in una oscillazione collettiva.
Il risultato è che particelle individuali, incoerenti, ‘scontro-
se’, si sincronizzano in una danza il cui direttore d’orchestra
è il vuoto medesimo. Questa danza porta alla formazione dei
liquidi e dei solidi (lo stato dipende poi dai parametri macro-
scopici come densità e temperatura) e in definitiva alla appa-
rizione della realtà come la sperimentiamo. L’aggregazione
delle particelle a formare corpi più densi è vantaggiosa ener-
geticamente, l’interazione con il vuoto produce un vantaggio,
non solo per i corpi coinvolti, ma per tutto l’Universo. La
realtà che emerge dunque dal vuoto nel quale può, dunque,
anche dissolversi, è un evento necessario. Contrariamente a
quanto si potrebbe pensare di questo scenario fluido fatto di
16  antonella de ninno

interazioni fugaci tra energia e materia, la realtà che esso ge-


nera è robusta, è solida. Un corpo materiale che si enuclea dal
vuoto, ad esempio una goccia d’acqua, un cristallo ma anche
un essere vivente, difendono la loro individualità con le leggi
di conservazione della massa e dell’energia che impediscono
loro di svanire repentinamente e casualmente. Nelle filosofie
orientali si utilizza la metafora del vortice nell’acqua di un
fiume che è esso stesso acqua di fiume ma, non di meno, ha
la sua individualità. La vita sarebbe così un punto singolare
in cui l’esistenza si ‘invortica’ e definisce qualcosa di davvero
particolare che può disfarsi soltanto confluendo nella matrice
che lo ha generato. Ma i vortici sono oggetti robusti, è nella
esperienza comune che, quando si formi un vortice in un reci-
piente di acqua o in un bacino aperto, non è semplice distrug-
gerlo se prima non si è esaurita tutta l’energia che esso pos-
siede. Ma ‘esaurita’ non è il termine corretto, è meglio dire:
se prima la sua energia non è stata interamente comunicata a
un altro corpo o aspetto della realtà (una corrente di acqua, il
moto intorno a un ostacolo).
Dunque la realtà è robusta e la coscienza, come oggetto
appartenente alla realtà, è ugualmente robusta. Nel saggio di
Massimo Marraffa si parla degli aspetti soggettivo-qualitativi
dell’esperienza cosciente: abbiamo due strategie possibili per
affrontare il problema della coscienza fenomenica: definirla
in termini funzionali e/o rappresentazionali o negarne l’esi-
stenza.
Ma ogni tentativo di descrivere la coscienza umana
come una macchina virtuale porta a pesanti incongruenze,
prima fra tutte la straordinaria efficienza del cervello umano
comparata a qualsiasi super-computer esistente e ipotizzabile
(cfr. infra il saggio di Emilio Del Giudice).
Probabilmente la più elusiva delle proprietà del cervel-
lo umano, legate al concetto di coscienza, è la memoria. La
percezione di sé richiede il riconoscimento di una sequenza di
esperienze che hanno contribuito alla strutturazione della per-
sonalità. Ma anche la struttura della memoria sembra sfidare
qualsiasi ipotesi materialista fornita dalla scienza cognitivi-
sta. Alla fine degli anni Quaranta, gli esperimenti dello psi-
cologo Lashley, mostrarono che non era possibile assegnare
il cammino della fisica dai molti all’uno  17

a una specifica area cerebrale la sede dei comportamenti ap-


presi in piccoli animali. La rimozione anche di estese porzioni
del cervello non risultava compromettere l’abilità di topolini
di orientarsi in un labirinto già noto o di una salamandra di
nutrirsi. La vecchia teoria degli engrammi, ossia di informa-
zioni ‘scritte’ in aree specializzate veniva così definitivamen-
te abbandonata. La scoperta della tecnica degli ologrammi,
proprio in quegli anni, fornì al neurochirurgo e psichiatra Karl
Pribram2 un inatteso esempio di come una informazione (im-
magine) anche complessa può essere ‘registrata’ sotto forma
di frange di interferenza tra due segnali laser. Inoltre, a par-
tire da ogni frammento dell’immagine, è possibile ricostruire
l’immagine completa. Non è quindi necessario trovare un luo-
go fisico in cui conservare il ricordo, come avviene sui nostri
supporti di memoria informatici, ma è sufficiente avere un
sistema in grado di produrre un campo elettromagnetico coe-
rente, come quello di un laser. Pribram ipotizzò che il nostro
cervello è in grado di produrre un proprio campo elettroma-
gnetico. L’interferenza tra questo campo elettromagnetico e il
pattern di segnali provenienti dai nostri sensi (olfatto, vista,
udito, tatto, gusto) produce una «immagine olografica» che lo
modifica permanentemente e può essere recuperata a distan-
za di tempo quando, ad esempio nella memoria associativa,
nuovi stimoli sensoriali ricompongono il ricordo, esattamente
come avviene nell’immagine olografica. La celebre madelei-
ne è, da questo punto di vista, il raggio laser che legge l’olo-
gramma scritto nel cervello di Proust.
Da ciò si deduce che la percezione della realtà è un
fatto squisitamente individuale, potremmo quasi dire che non
esiste una realtà oggettiva universale ma ogni atto conosciti-
vo è il frutto dell’interferenza tra il segnale trasdotto dai no-
stri sensi e il nostro proprio campo elettromagnetico interno.
Ogni atto conoscitivo, ogni interazione, ogni informazione
(conoscitiva, biochimica, sensoriale) modifica, a sua volta, la
nostra mente, il nostro campo perché ne costituisce i ricordi.
È interessante sottolineare come da questo processo di inte-

2
  Cfr. Karl H. Pribram, The Form Within: My point of View, Prospec-
ta Press, Westport (CT) 2013.
18  antonella de ninno

razione nasca il nostro concetto di tempo. Si può definire il


tempo come una sequenza di eventi, la differenza tra un prima
e un dopo, prima e dopo un qualunque tipo di interazione con
l’esterno. Cronos mangiava i suoi figli perché l’inizio della
sua stirpe non desse il via alla Storia3.
Se avviene l’interazione, un atto conoscitivo di qualun-
que natura, il cervello, l’organismo tutto ne risulta modificato
permanentemente. Partendo da questa straordinaria intuizione
di cervello olonomico (così chiamato da Pribram da holos,
tutto e nomos, legge) possiamo anche spingerci a tentare di
comprendere la natura profonda dei diversi stati di coscienza
come alterazioni, indebolimenti o risonanze del campo elet-
tromagnetico individuale. Nella filosofia indiana, ad esempio,
la non località della coscienza trascende addirittura i confini
fisici del corpo umano per trovare risonanze in una mente co-
smica collettiva cui si trova accesso consapevole negli stati
più alti di meditazione o nei transienti che accompagnano il
passaggio sonno/veglia e viceversa. Ogni essere vivente par-
tecipa alla danza del cosmo dal suo primo all’ultimo respiro.
Il nostro cervello è provvisto di un organo apposito, l’epifisi
o ghiandola pineale, a cui è demandato il compito di tenere
l’individuo costantemente ‘agganciato’ ai ritmi naturali del
pianeta. È noto che l’ormone melatonina, che regola il ritmo
sonno/veglia viene regolato da una produzione ormonale da
parte della ghiandola pineale basata su un ciclo sinusoidale
che ha quattro massimi di produzione in corrispondenza di
alba, mezzodì, tramonto e notte. L’epifisi ha la sua massima
estensione durante l’infanzia per iniziare poi a contrarsi du-
rante la maturità ed esaurirsi poi in vecchiaia quando occorre
prepararsi a uscire da questa danza. Inoltre, in tutte le filoso-
fie antiche, l’epifisi è identificata con ‘la porta’ che consente

3
  Questa osservazione, nel contesto della fisica, è stata fatta per la
prima volta da Giuseppe Vitiello, The Dissipative Brain, in Brain and
Being. At the Boundary Between Science, Philosophy, Language and
Arts, ed. by Gordon G. Globus – Karl H. Pribram – Giuseppe Vitiel-
lo, John Benjamins Publishing, Amsterdam 2004, pp. 315-334, e dello
stesso autore cfr. …And Kronos Ate His Sons…, in Beyond Peaceful Co-
existence: The Emergence of Space, Time and Quantum, ed. by Ignazio
Licata, Imperial College Press, London 2016, pp. 465-486.
il cammino della fisica dai molti all’uno  19

la comunicazione con il divino. Questi aspetti richiamano il


concetto che la coscienza individuale non sia che un episodio
di un Logos più vasto, un vortice in un fiume, appunto e che
le esperienze sensoriali contribuiscano a definire e mantenere
unica l’individualità.
La logica scientifica, si è detto, consente di derivare tutte
le conseguenze dai principi e, per consentire di accomodare
tutte le osservazioni, si è piegata a modificare i suoi principi,
dal riduzionismo ottocentesco alla moderna teoria dei campi
quantistici. In questo percorso sono emerse una serie di so-
miglianze, di assonanze e poi, via via di vere e proprie con-
vergenze con le filosofie olistiche orientali. È esattamente in
questo contesto che la meccanica quantistica può fornire un
supporto alla definizione del concetto di coscienza. Il concetto
di vuoto quantistico è definito in meccanica quantistica e nella
teoria dei campi quantistici, ma presenta straordinarie somi-
glianze con il ‘vuoto’ Coscienza divina dello shivaismo che
genera la manifestazione del Cosmo. Allo stesso modo il con-
cetto di coscienza emerge, come diceva Emilio Del Giudice,
dall’interazione tra gli stimoli sensoriali (causati dalla realtà
del Cosmo) e l’episodio di un Logos universale che si coagu-
la in un essere vivente. La coscienza è dunque il risultato di
una interazione, come direbbero i fisici. In meccanica quan-
tistica è familiare il concetto di dualismo onda-particella per
indicare che una particella può avere anche una descrizione
in termini di funzione d’onda4 e, viceversa, un’onda come la
luce può avere una caratteristica corpuscolare. È interessante
sottolineare che in meccanica quantistica al concetto di misu-
ra è sostituito il concetto di probabilità, cioè, a una proprietà
individuale, come, ad esempio, la velocità di un corpo, viene
sostituito una grandezza statistica basata sul comportamento
di un insieme di individui indistinguibili. Tuttavia, l’intera-
zione tra due particelle o onde o lo stesso processo di mi-

4
  Louis de Broglie, nel 1924, propose che ad ogni onda può essere
associata una particella e, viceversa, per ogni particella si può definire
una lunghezza d’onda legata al suo impulso meccanico dalla costante h
di Planck. Cfr. Louis de Broglie, Recherches sur la théorie des Quanta
(thèse de doctorat), disponibile all’indirizzo <https://tel.archives-ouver-
tes.fr/tel-00006807/document> (ultimo accesso: 1 settembre 2018).
20  antonella de ninno

sura, risolvono questa dualità facendo collassare la funzione


d’onda, cioè restituendo alla particella il suo comportamento
corpuscolare. Detto in altri termini, le interazioni restituisco-
no individualità alle particelle che sono altrimenti descrivibili
solo attraverso i loro comportamenti collettivi.
Questi concetti, nuovi per il pensiero occidentale, pos-
sono essere compresi attraverso lo studio della fisica, tuttavia
si tratta di un percorso accidentato e difficile che facilmente
può condurre a imbarazzanti semplificazioni che si possono
riconoscere dall’apposizione dell’appellativo quantistico a
ogni tipo di sostantivo, cercando di giustificare scientifica-
mente la propria idea di filosofia. È la trappola della cosid-
detta New Age che accosta ipotesi scientifiche a tesi mistiche,
senza però affrontare i problemi di fondo che questo compor-
ta. Effettivamente la fisica quantistica può aiutare il pensie-
ro logico-deduttivo occidentale ad avventurarsi nel pensiero
non-dualista orientale ma il percorso è stato finora tutt’altro
che lineare, al punto che un grande fisico italiano scompar-
so agli inizi di questo secolo, Giuliano Preparata5, ha parlato
della rivoluzione della fisica quantistica come di una rivolu-
zione tradita6. Secondo Preparata, la versione della meccanica
quantistica fatta dalla scuola di Copenaghen, basata sull’dea
di complementarità tra onde e particelle, «nasconde la rinun-
cia a comprendere la realtà limitandosi a formulare ricette per
agire sulla materia in senso tecnico ed economico». Al centro
della rivoluzione, sempre secondo Preparata, dovrebbe esser-
ci invece il campo quantistico, un ente fisico che pervade lo
spazio e di cui il «quanto» è un particolare aspetto. In questo
scenario il concetto di particella isolata (fotone o corpo ma-
teriale che sia) è una astrazione che non ha fondamento nella
realtà. È quindi finalmente comprensibile perché la meccani-
ca quantistica non può avere le caratteristiche di una teoria
completa, accusa che le rivolgeva Einstein, perché considera i

5
  Giuliano Preparata (1942-2000) è stato uno dei maggiori fisici te-
orici della scuola italiana. Per una raccolta di suoi scritti cfr. Giuliano
Preparata, QED Coherence in Matter. World Scientific, Singapore-New
Jersey-London-Hong Kong 1995.
6
  Cfr. Giuliano Preparata, Sulle tracce del Vuoto, in «Il Nuovo Sag-
giatore», 13, 3 (1997), p. 22.
il cammino della fisica dai molti all’uno  21

«quanti» come indipendenti dal campo quantistico cui appar-


tengono. Appare chiaro, infine, che il vero grande problema
dell’accettazione della meccanica quantistica coincide con la
disponibilità ad abbandonare il concetto di corpo isolato ed
inerte quale protagonista assoluto della realtà. L’individuo è
soltanto un episodio della grande danza del Cosmo e si mani-
festa fintantoché interagisce con il mondo esterno. Tuttavia le
dinamiche che muovono la natura sono dinamiche che coin-
volgono una molteplicità di individui. Lo studio della fisica ci
spinge quindi verso il concetto della cooperazione o, in termi-
ni più tecnici, della risonanza: la natura realizza la sua mani-
festazione attraverso meccanismi collettivi in cui l’individuo
perde la sua stessa definizione per realizzare quello che a un
solo individuo è precluso. Emilio Del Giudice faceva spesso
notare7 che la struttura sociale moderna è intrinsecamente ir-
razionale perché si è costruita sulle leggi dell’economia, che
richiedono la competizione, e non su quelle della biologia,
che richiedono la cooperazione.
La conciliazione delle filosofie occidentali e orientali pas-
sa attraverso il superamento del mito della individualità, ca-
posaldo e venerato totem della società occidentale. La stessa
rivoluzione quantistica ha dovuto piegarsi di fronte alla re-
sistenza del pensiero occidentale generando non pochi para-
dossi8 pur di non rinunciare al soggettivismo. Le teorie New
Age che non mettono in discussione questo aspetto cruciale
non rendono un buon servizio né alla fisica né alla filosofia,
scegliendo di rimanere in superficie per raccogliere consensi
intorno a un paradigma che non modifica, nella sostanza, l’in-
conciliabilità tra scienza e misticismo.

7
  Cfr. <https://www.youtube.com/watch?v=BU72jgDSDFs> (ul-
timo accesso: 1 settembre 2018). In que­sta clip Emilio Del Giudice
conclude brillantemente che l’economia è un fatto patologico!
8
  Erwin Schrödinger è autore del famoso paradosso del gatto la cui
esistenza in vita è solo una funzione di probabilità che si concretizza nel
momento in cui qualcuno è interessato a conoscerla.
Implicazioni filosofiche della fisica quantistica
e pensiero non-dualista orientale
Mauro Bergonzi

Riflessioni preliminari

Le convergenze fra fisica quantistica e pensiero orien-


tale costituiscono da vari anni un argomento assai dibattu-
to, nonché fonte di numerose pubblicazioni1. Tuttavia una
seria ricerca in questo campo di studi si presenta alquanto
problematica per più di un motivo.
Sul piano pratico, infatti, è quasi impossibile possedere
contemporaneamente sufficienti competenze specialistiche

1
 Qui ci limitiamo a menzionare soltanto i pionieristici studi di
Fritjof Capra, The Tao of Physics: An Exploration of the Parallels
between Modern Physics and Eastern Mysticism, Shambhala Publica-
tions, Boulder (CO) 1975, trad. it. di Giovanni Salio, Il tao della fisica,
Adelphi, Milano 1995, e di Gary Zukav, The Dancing Wu Li Masters:
An Overview of the New Physics, Morrow, New York 1979, trad. it. di
Massimo Patti, La danza dei maestri Wu Li, Corbaccio, Milano 1995,
i quali hanno aperto la via a un nutrito numero di altre pubblicazioni
divulgative sullo stesso argomento, diverse delle quali però viziate da
pressappochismo, superficialità e carenza del necessario rigore critico.
Una felice eccezione è costituita dalla recente pubblicazione di Augusto
Shantena Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto. Ripensare la realtà
attraverso la fisica quantistica, Lindau, Torino 2015, che con esemplare
chiarezza e precisione mette a fuoco non solo le attuali problematiche
filosofiche e interpretative della fisica quantistica, ma anche alcune loro
possibili convergenze col pensiero non-dualista orientale (soprattutto
taoista), per cui si è rivelata una preziosa fonte di ispirazione, nonché
un indispensabile strumento di rigorosa comprensione scientifica, per la
stesura del presente lavoro.
24  mauro bergonzi

in due aree di studi così ampie e distanti tra loro, quali ap-
punto la fisica quantistica e le filosofie orientali2.
Sul piano teorico, è assai arduo individuare un terreno
comune di dialogo fra due discipline così eterogenee come
da un lato la fisica quantistica, che investiga i fenomeni su-
batomici col metodo scientifico-sperimentale, e dall’altro
il pensiero filosofico-religioso orientale, che svolge una ri-
flessione razionale di stampo ‘fenomenologico’3 intorno a

2
  Il modo finora più efficace per aggirare questo ostacolo è sta-
to organizzare convegni o altre occasioni di incontro e di dialogo fra
quegli esponenti o studiosi del pensiero filosofico-religioso orientale e
quei fisici quantistici, la cui apertura mentale consentisse un autentico
scambio di idee su questi argomenti. Citiamo ad esempio le feconde
conversazioni pluriennali fra il fisico teorico David Bohm e il pensatore
indiano Jiddu Krishnamurti, i numerosi incontri del Dalai Lama con
alcuni fisici e cosmologi contemporanei e i raduni internazionali della
«Science and Nonduality Conference» (SAND), che promuovono un
assiduo scambio di idee fra biologi, neuroscienziati, fisici quantistici
ed esponenti contemporanei del pensiero non-duale aperti al dialogo
interdisciplinare. Cfr. Jiddu Krishnamurti – David Bohm, The Ending
of Time, V. Gollancz, London 1985, trad. it. di Cesarina Minoli, Dove
il tempo finisce, Ubaldini Editore, Roma 1986; The New Physics and
Cosmology. Dialogues with the Dalai Lama, ed. by Arthur Zajonc –
Zara Houshmand, Oxford University Press, New York 2004, trad. it. di
Luca Guzzardi, Dalai Lama. Nuove immagini dell’universo. Dialoghi
con fisici e cosmologi, Raffaele Cortina, Milano 2006; <http://www.
scienceandnonduality.com/> (ultimo accesso: 1 settembre 2018). Sono
invece assai rari gli studiosi dotati di sufficienti competenze in entrambe
le discipline, da poterne valutare con adeguata perizia i punti di conver-
genza, come accade nel caso di Augusto Shantena Sabbadini, un fisico
teorico contemporaneo che, grazie alla sua conoscenza della lingua ci-
nese antica, è stato in grado di tradurre in modo esemplare i testi classici
del taoismo, commentandoli anche alla luce della prospettiva filosofica
che emerge dalle ricerche della fisica quantistica. Cfr. Lao Tzu, Tao Te
Ching, trad. it. di Augusto Shantena Sabbadini, Feltrinelli, Milano 2011.
3
  Il termine ‘fenomenologico’ si riferisce qui, in senso lato, ad una
certa affinità di fondo – soprattutto per quanto riguarda i concetti di
‘sospensione del giudizio’ (ἐποχή) e di ‘riduzione fenomenologica’ – fra
il metodo di investigazione diretta dell’esperienza ‘in prima persona’
adottato, spesso attraverso l’osservazione meditativa, da alcune forme
di pensiero sapienziale indiano (come per esempio il buddhismo e l’ad-
vaita-vedānta) e le procedure di indagine fenomenologica sviluppatesi
in Occidente a partire dalla filosofia di E. Husserl. Per un’analisi delle
convergenze fra metodo fenomenologico e meditazione buddhista cfr.
Franco Bertossa – Roberto Ferrari, Lo sguardo senza occhio, AlboVer-
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  25

esperienze ‘illuminative’ vissute in prima persona, al pun-


to da rendere lecito l’interrogativo se veramente una tale
comparazione abbia una qualche ragion d’essere.
Tuttavia è un fatto che molti fisici quantistici aspirino
(almeno idealmente) alla ricerca di una ‘teoria unificata
del tutto’ in grado di elaborare un’immagine coerente della
realtà nella sua completezza: un obiettivo oltremodo am-
bizioso e a mio avviso irraggiungibile, che tuttavia stimola
senza sosta una serie di feconde ipotesi cosmologiche (per
non dire ontologiche), matrici di teorie sempre nuove, che
sembrano talora consuonare con le speculazioni filosofi-
che del pensiero orientale, offrendo interessanti spunti di
comparazione.
Affinché dunque lo studio di questo dialogo fra disci-
pline così distanti tra loro sia fattibile e produttivo, occor-
re che i termini della comparazione non siano, in modo
troppo generico e approssimativo, il pensiero orientale e la
fisica quantistica, bensì, più precisamente, da un lato alcu-
ni specifici tratti del pensiero orientale e dall’altro alcune
implicazioni filosofiche desumibili dalle teorie della fisica
quantistica.
Il presente studio intende appunto offrire qualche spun-
to di riflessione in seno a questa prospettiva, individuando
un fecondo terreno comune di comparazione nel concetto
di «non-dualismo»4.

sorio, Milano 2005, pp. 107-173. Vanno inoltre menzionati due ricerca-
tori che hanno contribuito in modo decisivo all’incontro fra neuroscien-
ze e fenomenologia: da un lato Walter J. Freeman, che ha collegato gli
studi sul cervello e sulla mente non solo alla fenomenologia di Edmund
Husserl, Martin Heidegger e Maurice Merleau-Ponty, ma anche, in ma-
niera del tutto originale, al formalismo della teoria dei campi quantistici
(QFT) per i sistemi dissipativi; e dall’altro Francisco Varela, che con la
sua ‘neurofenomenologia’ ha elaborato un nuovo metodo di indagine
sperimentale (applicata anche agli stati meditativi e contemplativi) ca-
pace di mettere in parallelo i classici rilevamenti ‘oggettivi’ degli stru-
menti scientifici con resoconti fenomenologici ‘in prima persona’ dei
concomitanti vissuti soggettivi.
4
  Su questo argomento vanno menzionate almeno due preceden-
ti pubblicazioni cui il presente articolo è debitore: Ken Wilber, The
Spectrum of Consciousness (Quest Books), The Theosophical Publi-
shing House, Wheaton (IL) 1977,trad. it. di Miriam Grottanelli, Lo spet-
26  mauro bergonzi

Scienza e dualismo: le origini

Il ‘pensiero scientifico’ propriamente detto è uno svi-


luppo storico specifico ed esclusivo della civiltà cosiddetta
‘occidentale’5 e affonda le sue radici nell’antica filosofia dei
Greci, a partire specialmente dalle scuole ioniche e atomi-
stiche. Fu allora che per la prima volta in Occidente si co-
minciò a privilegiare un pensiero razionale emancipato dal
mito e dalla religione, per investigare l’essenza della ‘natura’
(φύσις) senza ricorrere a spiegazioni sovrannaturali6.

tro della coscienza, Crisalide, Spigno Saturnia 1993; Fritjof Capra, The
Turning Point: Science, Society, and the Rising Culture, Bantam Books,
New York 1982, trad. it. di Libero Sosio, Il punto di svolta. Scienza,
società e cultura emergente, Feltrinelli, Milano 1984. Ma soprattutto
ringrazio sentitamente i fisici Augusto Shantena Sabbadini e Antonella
De Ninno per la loro paziente e generosa disponibilità a rivedere alcu-
ni aspetti di questo scritto, coniugando la loro profonda competenza
specialistica nel campo della meccanica quantistica con un’autentica
apertura all’interdisciplinarità (vedi in questo volume l’introduzione di
Antonella De Ninno). Inoltre la possibilità di intrecciare un fecondo
dialogo epistolare con A.S. Sabbadini su queste tematiche, ricevendo
da lui preziose e puntuali spiegazioni di una chiarezza esemplare, mi
ha aiutato a correggere alcune imprecisioni espositive e a comprendere
più approfonditamente diversi risvolti di un ambito scientifico molto di-
stante dalle mie competenze accademiche, come è appunto quello della
fisica quantistica.
5
  Al fine di dissipare ogni pregiudizio di tipo etnocentrico, occorre
precisare che, in un’accezione più lata del termine, forme di ‘pensiero
scientifico’ basate su una feconda combinazione di empirismo e razio-
nalismo (foriere di ingegnose applicazioni tecnologiche) sono comuni a
molte altre civiltà complesse. Tuttavia solo nella storia dell’Occidente
si sono sviluppate le rigorose metodologie di investigazione della realtà
che contraddistinguono quella che propriamente viene definita ‘scien-
za’. Ciò non significa che il ‘pensiero scientifico’ in senso lato non abbia
raggiunto vertici di elevata raffinatezza e complessità in altre civiltà,
come per esempio in India e in Cina. Cfr. a questo proposito Raffaele
Torella (coordinatore scientifico), La scienza in India, Sezione di Storia
della Scienza, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2002,
pp. 638-699, e la monumentale opera a cura di Joseph Needham, Scien-
ce and Civilisation in China, Cambridge University Press, Cambridge
1954-2008, trad. it. di Mario Baccianini – Gianluigi Mainardi, Scienza
e civiltà in Cina, 3 voll., Einaudi, Torino 1981-1983.
6
  Naturalmente si trattò di un processo assai lento e graduale, nel
corso del quale sopravvivevano ancora residui evidenti di un pensiero
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  27

Attraverso un lento e graduale processo di astrazione,


differenziazione e chiarificazione, i concetti filosofici an-
darono sempre più assumendo una polarizzazione per cop-
pie di opposti. Ciò era di fatto inevitabile, perché già di
per sé la struttura del linguaggio (su cui si basa il pensiero
discorsivo) è di natura ‘dualistica’, fondandosi sul princi-
pio per cui omnis determinatio est negatio. Ogni parola
è infatti una ‘cornice’ concettuale che circoscrive al suo
interno un singolo aspetto della realtà, isolandolo da tutto
il resto: ciò che viene definito come ‘mela’ non è ‘albero’,
né ‘ramo’, né ‘seme’, né ‘fiore’, sebbene tutti questi nomi
si riferiscano ad un unico, indivisibile processo. In altri ter-
mini, ogni nome, in quanto x, si contrappone a tutto il resto
inteso come non-x, e proprio in questo risiede appunto l’u-
tilità del linguaggio.
Tuttavia i sostantivi concreti come ‘mela’ non hanno un
vero e proprio opposto, se non nel senso generico di tutto
ciò che è ‘non-mela’. Invece ogni concetto astratto tende
sempre ad avere un suo specifico opposto, con il quale si
polarizza in una coppia di contrari mutualmente esclusi-
vi: vero/falso, alto/basso, lungo/corto, uguaglianza/diffe-
renza, identità/alterità, determinismo/libero arbitrio, caso/
necessità e così via. Pertanto, nell’intraprendere l’imma-
ne compito di fondare un pensiero razionale autonomo e

mitologico e religioso. D’altra parte, tali ‘residui metafisici’ si sono ma-


nifestati in forme diverse e sempre più sottili anche dopo la nascita della
scienza moderna, come traspare, per esempio, dal vivo interesse di Isaac
Newton per la filosofia naturale, l’alchimia e la teologia o, più avan-
ti ancora nel tempo, dalla tendenza – frequente negli stessi ricercatori
scientifici – ad usare concetti ipostatizzati non direttamente osservabili
sul piano sperimentale (come per esempio quello di ‘forza’) per rendere
coerenti le proprie teorie. Nonostante le accese critiche positivistiche
di Ernst Mach contro questi ‘residui metafisici’ presenti nella scienza
moderna, a ben vedere ancora oggi se ne fa un largo uso (sebbene in via
ipotetica) quando si cerca, almeno in via provvisoria, di dare una spie-
gazione attendibile (ma non direttamente confermata dall’osservazione
scientifica) a fenomeni altrimenti inspiegabili: un esempio eclatante è il
ricorso degli astrofisici contemporanei ai concetti di ‘materia oscura’ e
di ‘energia oscura’, di cui non si sa assolutamente nulla, se non che sono
indispensabili per spiegare la coesione gravitazionale delle galassie e la
loro espansione accelerata.
28  mauro bergonzi

coerente che fosse in grado di investigare l’essenza della


natura, quando gli antichi Greci si trovarono di fronte all’i-
nevitabile polarizzazione dei concetti astratti in coppie di
opposti mutualmente esclusivi, affascinati da tale scoperta,
manifestarono la netta tendenza a estendere tale contrap-
posizione dal piano logico a quello del reale7.
Nasce così l’orientamento prevalentemente dualistico
del pensiero filosofico occidentale8, che in ogni suo settore
si basa sulla netta contrapposizione fra concetti opposti che
si escludono a vicenda: bene/male nell’etica, bello/brutto
nell’estetica, vero/falso nella gnoseologia, essere/divenire
o apparenza/realtà nell’ontologia.

7
  In pratica, se si escludono sporadiche eccezioni (come ad esempio
il criticismo gnoseologico dei sofisti e degli scettici, comunque ampia-
mente messo in ombra dalla schiacciante predominanza della dottrina
platonica e aristotelica), gli antichi filosofi greci dettero per scontato che
il pensiero razionale coincidesse con l’essenza della realtà, senza inter-
rogarsi sulla problematicità epistemologica di questa posizione come
invece avrebbero fatto, molti secoli dopo e in modo ben più radicale,
prima Cartesio con il dubbio metodico e poi Immanuel Kant con la filo-
sofia critica. Nella sua analisi della ἐπιστήμη greca, Emanuele Severino
nota a questo proposito che l’atteggiamento predominante del pensie-
ro antico è caratterizzato dall’affermazione dell’identità immediata fra
‘certezza’ e ‘verità’ (ossia dalla assoluta corrispondenza fra le certezze
raggiunte tramite il pensiero razionale e la realtà così come è veramen-
te), basata su tre convinzioni tipiche del ‘senso comune’: 1) il mondo
è indipendente dalla coscienza che lo osserva; 2) il mondo è esterno
alla mente; 3) ciò che conosciamo del mondo appartiene effettivamente
ad esso. Cfr. Emanuele Severino, La filosofia moderna, Rizzoli, Mila-
no 1984, pp. 9-20. Come vedremo, questi assunti sono parte essenziale
del ‘dualismo’ posto a fondamento della ‘scienza moderna’ e vengono
messi seriamente in dubbio sia dalla fisica quantistica, sia dal pensiero
non-dualista orientale.
8
  Il fatto che, nel suo sviluppo storico, la filosofia occidentale si sia
prevalentemente orientata verso posizioni di tipo dualistico non esclude
la presenza di rilevanti eccezioni basate su una visione non-dualista,
seppure minoritarie. A questo proposito va precisato che l’impostazione
necessariamente sommaria e sintetica di questo paragrafo, lungi da ogni
pretesa di completezza, di fronte al vasto panorama delle innumerevoli
e complesse tematiche attraverso cui si dipana lo sviluppo storico-filo-
sofico del pensiero scientifico occidentale, intende accennare soltanto
ad alcuni aspetti che, nel contribuire alla nascita del metodo scientifico,
appaiono rilevanti secondo una prospettiva di contrapposizione fra dua-
lismo e non-dualismo.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  29

Che questo non fosse l’unico esito possibile si evince dai


percorsi alternativi presenti non solo in alcune diramazioni
periferiche del mainstream filosofico occidentale9, ma an-
che e soprattutto nelle articolate speculazioni del pensiero
non-dualista orientale10, in cui il riconoscimento della con-

9
  Basti pensare per esempio al neoplatonismo, alla teologia nega-
tiva della mistica cristiana medievale, alla coincidentia oppositorum di
Niccolò da Cusa, ma anche a sistemi filosofici non certo secondari nella
storia del pensiero occidentale, come quelli di Baruch Spinoza, George
Berkeley, Friedrich Schelling e Gustav Wilhelm Friedrich Hegel.
10
  In questo contesto, l’espressione ‘pensiero non-dualista orientale’
si riferisce in modo generico a molteplici indirizzi filosofici dell’India e
della Cina, come il kevala-advaita-vedānta di Śaṅkara, lo śivaismo ka-
shmiro, le scuole mādhyamika, cittamātra (altrimenti detta vijñāṇavāda
o yogācāra) e ch’an del buddhismo mahāyāna, e il taoismo. In realtà i
vari sistemi filosofici assimilabili alla categoria di ‘non-dualismo’ pos-
sono differire assai l’uno dall’altro a seconda di quali e quante coppie
di opposti vengano negate o confermate da ciascuno di essi: soggetto/
oggetto, assoluto/contingente, universale/particolare, realtà/apparenza,
unità/molteplicità, essere/divenire, sostanza/accidente, creatura/crea-
tore, identità/alterità, causa/effetto, ecc. Alcuni indirizzi buddhisti, per
esempio, accettano la non-dualità di soggetto e oggetto, ma non quel-
la di causa/effetto o di unità/molteplicità, mentre l’advaita-vedānta di
Śaṅkara, lo śivaismo kashmiro e molte espressioni del taoismo, nono-
stante le considerevoli reciproche differenze, tendono ad abolire quasi
tutte le dualità. Nella stesura del presente articolo, anziché analizzare
il labirinto dei tecnicismi sulle sottigliezze che differenziano le varie
posizioni filosofiche, si è preferito adoperare la categoria generica di
‘pensiero non-dualista orientale’ per facilitare il dialogo con la fisica
quantistica da un punto di vista più panoramico: in tale contesto sono in-
clusi soltanto alcuni fra i tratti più caratteristici e ricorrenti del non-dua-
lismo, come la non separazione fra entità apparentemente dislocate in
punti diversi dello spazio/tempo, la inseparabilità di soggetto/oggetto
e la centralità della coscienza. Per un’analisi approfondita in chiave
comparatista del non-dualismo come categoria filosofica, con puntuali
riferimenti al pensiero orientale, cfr. David Loy, Nonduality. A Study
in Comparative Philosophy, Yale University Press, New Haven (CN)
1988. Vedi anche Vedānta for the Western World, ed. by Christopher
Isherwood, George Allen & Unwin, London 1949; Alan Watts, The
Meaning of Happiness. The Quest for Freedom of the Spirit in Modern
Psychology and the Wisdom of the East, Harper and Row, New York
1940, trad. it. di Giuseppe Sardelli, Il significato della felicità. La ricer-
ca della libertà dello spirito nella psicologia moderna e nella saggezza
dell’Oriente, Ubaldini, Roma 1975; Id., The Supreme Identity: An Essay
on Oriental Metaphysic and the Christian Religion, Wildwood House,
30  mauro bergonzi

trapposizione fra concetti opposti sul piano logico non ne


estendeva automaticamente la mutua esclusività anche sul
piano del reale. A titolo di esempio, basterà citare un passo
tratto dal secondo capitolo del Daodejing di Laozi:

Quando nel mondo tutti riconoscono la bellezza come tale,


ecco che la bruttezza è già presente.
Quando tutti riconoscono la bontà come tale,
ecco che la cattiveria è già presente.
Perciò essere e non-essere si generano a vicenda,
difficile e facile si completano a vicenda,
lungo e corto si definiscono a vicenda,
alto e basso pendono l’uno verso l’altro,
voce e musica si armonizzano tra loro,
prima e dopo si seguono a vicenda11.

London 1973, trad. it. di Cinzia Defendenti, La suprema identità. Sag-


gio sulla metafisica orientale e la religione cristiana, Il punto d’incon-
tro, Vicenza 1993; Id., The Book on the Taboo Against Knowing Who
You Are, Jonathan Cape, London 1966, trad. it. di Fabrizio Pregadio, Il
libro sui tabù che ci vietano la conoscenza di ciò che veramente siamo,
Ubaldini, Roma 1976; A. W., The Tao of Philosophy, Tuttle Publishing,
North Clarendon (VT) 1995, trad. it. di Verena Hefti, Il tao della fi-
losofia, Red, Como 1999; Georges Vallin, Pourquoi le non-dualisme
asiatique? (Éléments pour une théorie de la philosophie comparée), in
«Revue philosophique de la France et de l’Etranger», 2 (1978), pp. 157-
175; Id., Le tragique et l’Occident à la lumière du non-dualisme asia-
tique, in «Revue philosophique de la France et de l’Etranger», 3 (1975),
pp. 275-288; Mauro Bergonzi, Comparatismi e dialogo interculturale
fra filosofia occidentale e pensiero indiano, in Comparatismi e filosofia,
a cura di Maria Donzelli, Liguori Editore, Napoli 2006, pp. 262-295.
11
  Laozi, Daodejing II (Lao Tzu, Tao Te Ching, trad. it. cit., pp.
51 s.). Per una introduzione generale al taoismo cfr. Angus C. Graham,
Disputers of the Tao: Philosophical Arguments in Ancient China, Open
Court, La Salle (IL) 1989, trad. it. di Riccardo Fracasso, La ricerca del
tao, Neri Pozza, Vicenza 1999; Isabelle Robinet, Histoire du taoïsme:
Des origins au XIVe siècle, Les Éditions du Cerf, Paris 1991, trad. it.
di Marina Miranda, Storia del taoismo dalle origini al quattordicesimo
secolo, Ubaldini, Roma 1993; Eva Wong, The Shambhala Guide to Ta-
oism, Shambhala, Boston 1997, trad. it. di Emanuele Basile, Il grande
libro del tao: la guida completa del taoismo, Mondadori, Milano 1998;
Russell Kirkland, Taoism: The Enduring Tradition, Routledge, London
2004, trad. it. di Giorgio Mantici, Il taoismo. Una tradizione ininterrotta,
Ubaldini, Roma 2006.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  31

La tendenza dualistica del pensiero occidentale si raf-


forzò ulteriormente con la filosofia di Platone – che tanto
avrebbe influenzato i successivi sviluppi della nostra civil-
tà, compreso il cristianesimo – per l’evidenziarsi di altre
significative coppie di opposti, tra cui le antitesi mente/
corpo, sensi/intelletto e spirito/materia, ossia i primi semi
concettuali di quel dualismo fra soggetto e oggetto che
avrebbe dato origine al pensiero scientifico.

La nascita della ‘scienza moderna’

La cosiddetta ‘scienza moderna’ nasce intorno al XVII


secolo grazie al contributo e alla feconda interazione di
due fondamentali fattori: dal punto di vista metodologico,
il primato delle quantità sulle qualità attraverso l’introdu-
zione del concetto di misura12; dal punto di vista filosofico,
il dualismo cartesiano13.
Scopo di entrambi i fattori è garantire una visione og-
gettiva della realtà, in modo tale da poter studiare (e pre-
vedere) con certezza inconfutabile come si comportano gli
eventi naturali presi in esame, indipendentemente dal fatto
che vengano osservati oppure no. Ciò presuppone un postu-
lato imprescindibile: che sia possibile osservare i fenomeni

12
  Cruciale è stato in questo campo il contributo di Galileo Galilei e
di Giovanni Keplero. Cfr. Lancelot Law White, The Next Development
of Man, New American Library, New York 1950, p. 106: «About 1600
Kepler and Galileo simultaneously and independently formulated the
principle that the laws of nature are to be discovered by measurement,
and applied this principle in their own work. Where Aristotle had clas-
sified, Kepler and Galileo sought to measure».
13
  Per un’approfondita analisi critica sul ruolo centrale svolto pra-
ticamente in ogni ambito della civiltà occidentale (economia, politica
energetica, agricoltura, medicina, psicologia, ecc.) dal paradigma scien-
tifico basato sul dualismo cartesiano, sul concetto di misura e sulla
meccanica newtoniana, la cui progressiva crisi nel corso del Novecento
ha stimolato la ricerca di un paradigma alternativo di tipo ‘olistico’ (o
anche, si potrebbe dire, ‘non-dualista’), cfr. Fritjof Capra, Il punto di
svolta, trad. it. cit.; Fritjof Capra – Pier Luigi Luisi, The Systems View
of Life, Cambridge University Press, Cambridge 2014, trad. it. di Giulia
Frezza, Vita e natura. Una visione sistemica, Aboca, Sansepolcro 2014.
32  mauro bergonzi

senza influenzarli in alcun modo, vale a dire che da un lato il


soggetto osservante sia in grado di tenersi completamente al
di fuori del campo di osservazione e che dall’altro l’oggetto
osservato sia del tutto indipendente dall’osservatore.
Fondamentale, da questo punto di vista, è stato il con-
tributo del dualismo cartesiano: sancendo infatti sul piano
ontologico una rigida separazione fra il soggetto cosciente
(res cogitans) da un lato e l’oggetto materiale (res extensa)
dall’altro, esso garantisce appunto sul piano epistemolo-
gico la possibilità di una osservazione ‘oggettiva’ dei fe-
nomeni della natura, in quanto del tutto indipendenti dagli
influssi del soggetto osservante14.
Dal canto suo, l’introduzione del concetto di ‘misura’
permette di tradurre i fenomeni osservati in precise quanti-
tà numeriche, messe successivamente in relazione tra loro
tramite formule matematiche in grado di descrivere con
precisione le leggi naturali poste alla base di una descrizio-
ne ‘oggettiva’ della realtà.
Non è tuttavia irrilevante notare che in natura non esi-
stono né ‘metri’, né ‘ore’, né ‘litri’, né ‘chilogrammi’:
‘misurare’ significa proiettare sugli eventi osservati griglie
concettuali che di fatto, più che ‘oggettive’, sono ‘inter-
soggettive’, in quanto convenzionalmente concordate dalla
comunità scientifica15. Ne deriva il paradosso secondo cui
l’atto di misurare, ossia il principale criterio di ‘oggetti-
vità’ scientifica, dipende dalla proiezione sulla realtà di
schemi concettuali di natura soggettiva che la ristrutturano
secondo i propri parametri descrittivi.
Forse non a caso il termine sanscrito māyā, usato dal pen-
siero non-dualista indiano per indicare la ‘illusione colletti-
va’ attraverso cui la mente umana costruisce una percezione
14
  Da questo punto di vista il dualismo cartesiano, pur riproponen-
do in definitiva l’antica dicotomia (prima platonica e poi cristiana) di
anima/corpo e spirito/materia, rispetto al passato presenta un notevole
impatto innovativo sul versante dell’epistemologia.
15
  Infatti le unità di misura possono variare a seconda delle comu-
nità che le adottano (come dimostrano le differenze fra metro e piede,
chilometro e miglio, chilogrammo e libbra, litro e gallone, ecc.), anche
se poi le leggi generali descritte dalle formule algebriche che ne deriva-
no restano costanti.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  33

della realtà falsa ma condivisa – e come tale creduta ‘vera’


– si ricollega all’antico radicale indoeuropeo √mā, il cui si-
gnificato originario è ‘misurare’: di qui derivano i termini
‘misura’, ‘metro’, ‘materia’, ‘matrice’ e ‘madre’16. Dal can-
to suo, il radicale indoeuropeo √man (‘misurare con il pen-
siero’) è all’origine del sanscrito manas, del latino mens e
dell’italiano ‘mente’, ma anche di ‘mentire’ e ‘menzogna’17.
Volendo individuare un senso complessivo che colleghi
tutti questi significati, si potrebbe dire che, quando la men-
te ‘misura’ la realtà con il pensiero, diventa ‘matrice’ di
una descrizione concettuale che, se scambiata per la realtà
stessa, genera ‘menzogna’ e ‘illusione’ (māyā): in altri ter-
mini, secondo il concetto indiano di māyā, la mente ‘men-
tisce’ – divenendo ‘matrice’ di illusione – quando scambia
la propria ‘misura’ della realtà per la realtà stessa18.

16
  Per uno studio approfondito ed esauriente sul concetto di māyā
e sulle sue controverse derivazioni etimologiche, cfr. Jan Gonda, The
‘Original’ Sense and the Etymology of Skt. māyā, in Id., Four Studies in
the Language of the Veda, Mouton, Den Haag 1959, pp. 119-194, e Id.,
Change and Continuity in Indian Religion, Mouton, Den Haag 1965,
pp. 164-197.
17
  È interessante notare che, secondo Hermann G. Grassmann (ci-
tato da J. Gonda) la radice √man indicherebbe un pensiero non tanto
speculativo, quanto fattivo, utilitaristico e pratico: un ‘misurare per pro-
durre’ come espressione di una practical wisdom in fondo non dissimile
da quella estrapolata dalla scienza per ‘dominare’ la natura attraverso la
tecnologia. Tuttavia un pensiero rivolto in primis all’utile piuttosto che
alla verità tenderà a privilegiare una conoscenza ‘tecnica’ dotata di ef-
ficacia pragmatica, senza interrogarsi troppo sulla validità o meno della
visione della realtà su cui si fonda: basta che funzioni e verrà automati-
camente considerata ‘vera’. Quando la mente, ‘misurando col pensiero’,
ottiene l’effetto voluto, arriva facilmente a concludere che la realtà sia
esattamente come viene rappresentata dalla sua conoscenza tecnica e
pragmatica, cadendo così in balia della falsificazione illusoria di māyā.
Sui significati del radicale indoeuropeo √man in connessione con il con-
cetto di māyā, cfr. Jan Gonda, The ‘Original’ Sense and the Etymology
of Skt. māyā, cit., e Hermann G. Grassmann, Wörterbuch zum Rig-Veda,
F.A. Brockhaus, Leipzig 1873.
18
  Si profila qui una cautela epistemologica sul rapporto fra misura
e realtà che, trascurabile nell’ambito della fisica classica di derivazione
newtoniana, diventerà rilevante e addirittura cruciale con l’avvento del-
la meccanica quantistica: vedi infra, pp. 62 ss. e 74 ss.
34  mauro bergonzi

Questa confusione epistemologica ha avuto ricadute


a dir poco devastanti sul piano antropologico: secondo
l’attuale ‘filosofia implicita’ che in Occidente condiziona
la mentalità dell’‘uomo medio’ sotto forma di un ottuso
‘scientismo’ ispirato al primato delle quantità, tutto ciò che
non è misurabile né quantificabile, non esiste o non ha al-
cun valore, laddove invece la scienza, grazie al suo metodo
rigoroso, si limita semplicemente a constatare che non è
possibile farne oggetto di studio scientifico.
Il primato delle quantità sulle qualità è lo strumento più
potente a disposizione della scienza, ma costituisce anche
il limite invalicabile del suo campo di applicazione: se
sconfina sul piano di una visione filosofica generale della
realtà e dei valori, produce l’estromissione di tutti i qualia
per cui valga veramente la pena vivere, in quanto esclude
dal quadro esistenziale l’esperienza in prima persona gra-
zie a cui la realtà si presenta alla nostra coscienza19.
Questa ‘ontologia del quantificabile’, per cui la realtà
(e il valore) di qualsiasi cosa dipende dalla sua misurabi-
lità in termini numerici, ha raggiunto il suo apice parados-
sale nel mondo contemporaneo, dove un’entità del tutto
astratta come la finanza, che non esiste in natura ma solo
nella mente umana, essendo tuttavia composta interamente
da numeri, acquista una ‘realtà’ che, per quanto fittizia, la
mette in grado di condizionare il destino di intere popola-
zioni fatte di concreti esseri umani.
Lo sprovveduto ‘scientismo’ della mentalità occidentale
contemporanea ha inoltre assimilato la concezione carte-
siana secondo cui il mondo materiale (la res extensa) non
sarebbe altro che un insenziente congegno meccanico, com-
preso lo stesso corpo umano: una volta travalicati i confini
del metodo scientifico fino ad arrogarsi il ruolo di una veri-

19
  Per usare le accorate parole di Ronald Laing, con il primato delle
quantità «se ne vanno la vista, il suono, il sapore, il tatto e l’odore, e as-
sieme ad essi […] l’estetica e la sensibilità etica, i valori, la qualità, la for-
ma; tutti i sentimenti, le motivazioni, le intenzioni, l’anima, la coscienza,
lo spirito. L’esperienza in quanto tale è espulsa dall’ambito del discorso
scientifico». Ronald Laing, The Voice of Experience, Pantheon, New York
1982, citato in Fritjof Capra, Il punto di svolta, trad. it. cit., p. 49.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  35

dica descrizione della realtà in toto, la potente combinazio-


ne fra visione meccanicistica e primato delle quantità porta
inevitabilmente a trattare qualsiasi cosa, compresi gli esseri
umani, come un semplice ‘oggetto’ da usare, manipolare,
sfruttare, prevaricare o mercificare a piacimento20.
Comunque sia, a partire dal XVII secolo la feconda in-
terazione fra dualismo cartesiano e concetto di misura ha
garantito alla ‘scienza moderna’ enormi successi non solo
nell’ambito dello scibile umano, ma anche in quello dello
sviluppo tecnologico, fino a culminare nella mirabile sin-
tesi della meccanica newtoniana, in cui trionfano i principi
dell’oggettività e della località: la concezione ‘a palle di
bigliardo’ che ne deriva concepisce l’universo come una
molteplicità di entità solide e separate, dislocate in punti
diversi dello spazio/tempo e interagenti fra loro secondo il
principio di causa/effetto.
Tale visione, prevalente tuttora al livello ‘macrosco-
pico’ della comune esperienza su cui sono tarati i nostri
sensi, era destinata a entrare in crisi in seguito a crescenti
evidenze sperimentali sempre più problematiche, le quali
resero necessaria una profonda revisione critica dei fonda-
menti stessi su cui poggiava il metodo scientifico.
Va tuttavia rilevato che il conseguente cambiamento
di paradigma, chiamato in causa dalla nascita della fisica
quantistica, divenne possibile proprio grazie all’inflessibi-
le rigorosità con cui il metodo scientifico arrivò a prendere
coscienza critica dei limiti intrinseci alle sue stesse pre-
messe di base. Scrive a questo proposito Ken Wilber:

Although the scientists of those times didn’t realize it, they had
started to build upon the Cartesian dualism of subject vs. object a
methodology of such persistence that it would eventually crumble
the very dualism upon which it rested. Classical science was de-
stined to be self-liquidating. That this could even happen reflects
a positive virtue of the new scientific method, namely, the willin-

20
  Per una trattazione approfondita di queste tematiche, rimando
all’esauriente analisi di Fritjof Capra, ivi, pp. 47-64 e 87-218; vedi an-
che Fritjof Capra – Pier Luigi Luisi, Vita e natura. Una visione sistemi-
ca, trad. it. cit.
36  mauro bergonzi

gness to pursue a course to its ultimate end, admitting and weighing


the evidence as it proceeded. [...] On some level at least, science
was an open-system. Although it flatly rejected the non-measurable,
non-objective, and non-verifiable, it nevertheless pursued its own
course honestly and rigorously to its ultimate conclusion21.

La crisi dei fondamenti e la ‘rivoluzione’ della fisica


quantistica

La fisica quantistica22 nasce e si sviluppa in un clima di


incertezza determinato dalla profonda crisi dei fondamenti
su cui poggiava la fisica classica di ascendenza newtonia-
na23: una crisi generata soprattutto dalle crescenti evidenze
sperimentali che contraddicevano i principi di base della
fisica tradizionale24, ma acuita anche per un verso dalla

21
  Ken Wilber, The Spectrum of Consciousness, cit., pp. 21 s.
22
  Il termine generale ‘fisica quantistica’ comprende due diversi
settori: la meccanica quantistica (QM) e la teoria dei campi quantistici
(QFT). Nel corso del presente lavoro, ci occuperemo prevalentemente –
quando non altrimenti specificato – della meccanica quantistica e delle
sue varie interpretazioni.
23
  Sulle problematiche che portarono alla nascita della fisica quan-
tistica cfr. Augusto Shantena Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto,
cit., pp. 95-98.
24
  Determinanti, da questo punto di vista, furono gli esperimenti nel
campo dell’elettromagnetismo, della radiazione ultravioletta e dell’ef-
fetto fotoelettrico, che sancirono l’incapacità della meccanica classica
di descrivere il comportamento della materia e della radiazione elettro-
magnetica al livello atomico e subatomico, nonché di fornire una coe-
rente rappresentazione della luce e dell’elettrone. Oltre a quella che fu
definita la ‘catastrofe dell’ultravioletto’, va tuttavia menzionata anche
la ‘catastrofe del freddo’, ossia la difficoltà a spiegare, secondo le cono-
scenze della meccanica classica, il comportamento dei calori specifici
dei solidi a basse temperature in prossimità dello zero assoluto, diffi-
coltà che indusse il chimico Walther Nernst a ipotizzare l’esistenza di
un ‘vuoto quantistico’ in grado di fornire energia e impulso alle intera-
zioni atomiche e subatomiche. Cfr. Walther Nernst, Die theoretischen
und experimentellen Grundlagen des neuen Wärmesatzes, Wilhelm
Knapp, Halle, 1918, trad. ingl. di Guy Barr, The New Heat Theorem,
Its Foundations in Theory and Experiment, Dover Publications, New
York 1969. Rileva a questo proposito Emilio Del Giudice: «La crisi
della fisica classica appare quindi a bassa temperatura. Però l’opinione
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  37

nuova prospettiva ‘rivoluzionaria’ contenuta nella teoria


della relatività di Albert Einstein25, e per un altro verso dal
vivace dibattito epistemologico che in quegli anni andava
sottoponendo ad una radicale revisione critica il modello
dell’empirismo logico26.
Uno dei fulcri principali di questa crisi era costituito dal
fatto che in campo subatomico non sembravano più appli-
carsi i concetti fondamentali della fisica classica27 (parti-

corrente è che la crisi fosse stata rivelata dal divergere all’infinito della
funzione di distribuzione spettrale della radiazione emessa da un corpo
nero al tendere della frequenza all’infinito ovvero al tendere della lun-
ghezza d’onda a zero (catastrofe dell’ultravioletto). Invero in accordo
con la legge di Wien la funzione di distribuzione spettrale dipende dalla
frequenza della radiazione e dalla temperatura della sorgente attraverso
il loro rapporto, per cui la struttura matematica della teoria deve permet-
tere di simulare il limite della temperatura tendente a zero con il limite
della frequenza tendente all’infinito. La catastrofe dell’ultravioletto è
perciò la catastrofe del freddo». Emilio Del Giudice, Prometeo, ovvero
l’anima passionale della ragione scientifica, in Scienza e società, a cura
di Patrice Poinsotte, Aracne, Roma 2008, p. 138.
25
  Particolarmente rilevante fu, a questo proposito, la scoperta dell’in-
separabilità di spazio e tempo e dell’equivalenza fra massa ed energia.
26
  Gentle Bridges: Conversations with the Dalai Lama on the Scien-
ces of Mind, ed. by Jeremy W. Hayward – Francisco J. Varela, Sham-
bhala, Boulder (CO) 1992, qui nella trad. it. di Marco Respinti, Ponti
sottili, Neri Pozza, Vicenza 1998, p. 34: «Non è possibile affermare che
l’osservazione o la teoria descrivano con certezza il modo di essere del
mondo. È possibile solo affermare che probabilmente il mondo è così».
Sulla crisi epistemologica della scienza ‘oggettiva’ (i cui fondamenti si
rifacevano al modello newtoniano e all’empirismo logico) cfr. Thomas
S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolution, University of Chicago
Press, Chicago (IL) 1962, trad. it. di Adriano Carugo, La struttura delle
rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969; Orlando Todisco, La crisi
dei fondamenti. Introduzione alla svolta epistemologica del XX secolo,
Borla, Roma 1984; Ponti sottili, trad. it. cit., pp. 21-70. Vedi anche in-
fra, pp, 62 ss. e 77 ss.
27
  È interessante notare che la difficoltà ad applicare al mondo su-
batomico i concetti fondamentali della fisica classica deriva proprio dal
fatto che, come si è rilevato in precedenza, la loro natura dualistica li
polarizza in coppie di opposti mutualmente esclusivi secondo la logica
dell’aut/aut, mentre i dati sperimentali non permettono, per esempio, di
classificare definitivamente i fenomeni osservati o come onde o come
particelle, in quanto essi sembrano una sovrapposizione di entrambi
questi stati, secondo la logica dell’et/et.
38  mauro bergonzi

cella/onda, materia/energia, osservatore/osservato, causa/


effetto28, ecc.), come emerge con chiarezza dalle parole di
Werner K. Heisenberg:

It had not been possible to see what could be wrong with the fun-
damental concepts like matter, space, time, and causality that had
been so extremely successful in the history of science. Only experi-
mental research itself, carried out with all the refined equipment that
technical science could offer, [...] provided the basis for a critical
analysis – or, one may say, enforced the critical analysis – of the
concepts, and finally resulted in the dissolution of the rigid frame29.

In altri termini, nel campo della fisica subatomica il me-


todo scientifico, proprio grazie alla sua inflessibile rigo-
rosità, arrivò a mettere in discussione molte delle nozioni
fondamentali su cui si era edificato. Qualche anno più tar-
di, Alfred North Whitehead scriveva:

The progress of science has now reached a turning point. The


stable foundations of physics have broken up. [...] The old founda-
tions of scientific thought are becoming unintelligible. Time, space,
matter, material, ether, electricity, mechanism, organism, configura-
tion, structure, pattern, function, all require reinterpretation30.

Dagli scambi epistolari e dai riferimenti autobiografici


dei protagonisti della rivoluzione quantistica traspaiono, in
quegli anni decisivi, stati d’animo intensamente emotivi,
che oscillano spesso fra gli estremi opposti dell’entusia-
smo per qualche nuova ipotesi esplicativa e dello sconfor-
to per la scomoda situazione di trovarsi a brancolare nelle

28
  Nella meccanica quantistica alcune osservazioni danno un risul-
tato intrinsecamente imprevedibile, che mina alla base il concetto di
‘determinismo’ assoluto e restringe drasticamente il margine di applica-
zione del principio di causalità rispetto alla meccanica classica, in cui il
rapporto di causa/effetto è considerato ferreo ed inviolabile.
29
  Werner K. Heisenberg, Physics and Philosophy: The Revolution
in Modern Science, Harper, New York 1958, p. 198, trad. it. di Giulio
Gnoli, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, Milano 1961.
30
  Alfred N. Whitehead, Science and the Modern World, The Free
Press, New York 1967, p. 16, trad. it. di Antonio Banfi, La scienza e il
mondo moderno, Boringhieri, Torino 1979.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  39

nebbie di dati sperimentali refrattari a tutte le tradizionali


spiegazioni fino ad allora ritenute valide.
La situazione divenne ancor più problematica quando,
dopo il crollo dei fondamenti concettuali posti alla base
della fisica classica, ci si rese conto della enorme difficol-
tà, se non impossibilità, di sostituirli con un apparato con-
cettuale altrettanto chiaro e definito: le nuove acquisizioni
della meccanica quantistica, pur formulate con estrema
precisione in linguaggio matematico astratto, non riusci-
vano più a tradursi in ben definite rappresentazioni concet-
tuali in grado di fornire un adeguato ‘modello visivo’ che
permettesse alla mente di farsi un’idea chiara e distinta di
che cosa ci fosse veramente nel mondo subatomico31.
A ben vedere, i due principi più innovativi che gettaro-
no le fondamenta della meccanica quantistica – quello di
complementarità di Niels Bohr e quello di indeterminazio-
ne di Werner K. Heisenberg – possono anche essere letti
come una rinuncia alla possibilità di ottenere una coerente
rappresentazione concettuale e visiva dei fenomeni suba-
tomici32.

31
  Emblematica a questo proposito è la difficoltà a concepire una
qualsiasi rappresentazione visiva di come sia fatto un atomo, una volta
che anche il modello ‘planetario’ di Niels Bohr, che si basava ancora
sull’immagine di un ‘sistema solare in miniatura’, è apparso inadeguato.
Un altro esempio tipico di tale problematica è l’assenza di un modello
visivo sia per il quarto numero quantico scoperto da Wolfgang Pauli, sia
per lo spin, il quale, pur essendo innegabilmente una proprietà intrin-
seca dell’elettrone, non può essere visualizzato come una ‘rotazione’
senza entrare in contraddizione con la teoria della relatività. Cfr. Arthur
I. Miller, Deciphering the Cosmic Number: The Strange Friendship of
Wolfgang Pauli and Carl Jung, W.W. Norton, New York 2009, trad. it.
di Stefano Galli – Carlo Capararo, L’equazione dell’anima. L’ossessio-
ne per un numero nella vita di due geni, Rizzoli, Milano 2009, pp. 84
ss. e 114 ss. Va tuttavia rilevato che tale difficoltà ‘rappresentativa’, che
impedisce alla mente di visualizzare l’oggetto del proprio studio scien-
tifico, non è esclusiva della meccanica quantistica, ma vale anche per la
relatività ristretta di Albert Einstein: la quarta dimensione è inimmagi-
nabile per un cervello che vive di categorie ed esperienze generate in un
mondo a sole tre dimensioni.
32
  La teoria della complementarità di Bohr, prendendo atto del fatto
che uno stesso fenomeno subatomico può apparire in forma ondulato-
ria o corpuscolare a seconda di come venga predisposta l’osservazione
40  mauro bergonzi

Una icastica frase di Arthur S. Eddington a proposito


degli studi sull’elettrone, esagerata ma non priva di hu-
mour, rende bene il clima di radicale incertezza di quegli
anni: «Something unknown is doing we don’t know what ok corsi-
– that is what our theory amounts to. It does not sound a vo, ma va
indicato se è
particularly illuminating theory»33. nell’origina-
L’impossibilità di visualizzare mentalmente i fenomeni le o è Suo
corrispondenti alle nuove teorie che si andavano elaboran-
do attraverso il linguaggio matematico non era affatto una
circostanza marginale o indolore, se si tiene presente che
il termine stesso ‘teoria’ (dal greco θεωρεῖν, ‘osservare’)
è etimologicamente collegato proprio all’atto di vedere e
che l’intuizione creativa trae spesso ispirazione da imma-
gini mentali per scoprire nuove soluzioni ai problemi della
ricerca scientifica34.

sperimentale, propone un uso complementare dei concetti di ‘particella’


e ‘onda’ per descrivere adeguatamente ciò che avviene al livello su-
batomico. Tali concetti costituiscono tuttavia solo un’approssimazione
della effettiva realtà, la cui essenza resta inimmaginabile: infatti, se i
fenomeni subatomici appaiono dotati contemporaneamente di natura
ondulatoria e corpuscolare, per la mente diventa impossibile trarne una
rappresentazione visiva coerente, in quanto non è in grado di immagi-
nare uno stesso oggetto simultaneamente come onda e come particella.
In modo simile, anche il principio di indeterminazione di Heisenberg
(secondo cui, per esempio, quanto più accuratamente si determina la
posizione di una particella, tanto più imprecisa diventa la misurazione
della sua quantità di moto e viceversa) mina alla base la capacità menta-
le di elaborarne una rappresentazione visiva coerente.
33
  Citato in Man and the Universe, the Philosophers of Science,
ed. by Saxe Commins – Robert N. Linscott, Washington Square Press,
New York 1969, p. 428.
34
  Esemplare a questo riguardo è stata la famosa immagine oni-
rica di un serpente che si mangia la coda (οὐροβόρος), grazie a cui il
chimico tedesco Friedrich A. Kekulé von Stradonitz nel 1865 riuscì ad
interpretare correttamente la struttura molecolare del benzene. Altret-
tanto importanti sono stati per A. Einstein i suoi famosi ‘esperimenti
mentali’. Per un interessante contributo al dibattito sulla necessità o
meno di associare immagini mentali alle formule matematiche nel cam-
po della ricerca scientifica – con una critica al positivismo di E. Mach
– cfr. Erwin Schrödinger, Die Besonderheit des Weltbilds der Naturwis-
senschaft, in «Acta Physica Austriaca», I, 201 (1948), trad. it. di Adolfo
Verson, Come la scienza rappresenta il mondo, in Erwin Schrödinger,
L’immagine del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1963, pp. 131-135.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  41

Ad accentuare questo clima di precarietà, infliggendo


un ulteriore scossone alle certezze scientifiche fino ad al-
lora ritenute incrollabili, intervennero anche i due teoremi
di incompletezza (1931) di Kurt Gödel, i quali dimostra-
vano, su una base rigorosamente logico-matematica, che
un sistema formale abbastanza espressivo da includere
l’aritmetica è necessariamente incompleto, nel senso che
contiene sempre, al suo interno, affermazioni di cui non
è dimostrabile né la verità né la falsità (primo teorema), e
pertanto è impossibile convalidare la coerenza di un tale
sistema formale all’interno del sistema stesso (secondo
teo­rema)35.
I due principali fulcri della profonda crisi che siamo
andati delineando fin qui – vale a dire l’inapplicabilità
al mondo subatomico delle chiare distinzioni concettuali
(fra materia ed energia, causa ed effetto, particella e onda,
ecc.) poste alla base della fisica classica e la difficoltà a
elaborarne di nuove che fossero altrettanto definite e vi-
sualizzabili in termini di immagini mentali – non tardarono
a indurre nei ricercatori la consapevolezza che ci si fosse
imbattuti in un qualche limite della conoscenza scientifica,
così come era stata concepita fino ad allora.

35
  In pratica, il secondo teorema di incompletezza di Gödel stabi-
lisce che nessun sistema coerente può essere utilizzato per dimostrare
la sua stessa coerenza. Cfr. Ernest Nagel – James R. Newman, Gödel’s
proof, in «Scientific American», 194, 6 (1956), pp. 71-86: «It is im-
possible to establish the logical consistency of any complex deductive
system except by assuming principles of reasoning whose own internal
consistency is as open to question as that of the system itself». In altri
termini, come è impossibile per una persona sollevarsi da terra tiran-
dosi su per il bavero della giacca, o per una spada tagliare se stessa
(esempio, quest’ultimo, ricorrente nei testi del vedānta non-dualista
indiano), così nessuna dimostrazione può convalidare completamente
se stessa senza ricorrere a principi esterni: ogni teoria ha un punto di
‘sforamento’ a monte, che le impedisce di essere completa. Il teore-
ma di incompletezza di Gödel sembra svolgere sul piano logico-ma-
tematico un ruolo simile a quello svolto sul piano fisico dal principio
di indeterminazione di Heisenberg. Cfr. Ken Wilber, The Spectrum of
Consciousness, cit., pp. 24 ss.
42  mauro bergonzi

Questo limite si è manifestato in una varietà di forme


diverse36.
Per esempio, il principio di indeterminazione di Hei-
senberg implica che quanto più accurata diventa la misu-
razione della posizione di una particella subatomica, tanto
più imprecisa risulta quella della sua quantità di moto e
viceversa37. Più in generale, il principio di indetermina-
zione stabilisce che, nella misurazione (applicata ad uno
stesso sistema fisico) dei valori di osservabili ‘coniugate’,
‘incompatibili’ o ‘complementari’ (come appunto la po-
sizione e la quantità di moto di una particella, oppure le
componenti dei vettori di spin o ancora il numero di quanti
presenti in un campo e la fase, ossia il ritmo di oscillazione
del campo stesso), quanto più diminuisce il margine d’in-
certezza nella misura di una variabile, tanto più aumenta
quello dell’altra, poiché fra le due incertezze vige una rela-
zione di proporzionalità inversa38.
Ulteriori esperimenti, a partire da quello famoso della
‘doppia fenditura’39, hanno indotto a ritenere che il mondo
subatomico, in assenza di un processo di misurazione, sia
‘indeterminato’ in quanto costituito di osservabili che non
sono ‘particelle’ esattamente localizzate nello spazio, ben-

36
  Per i riferimenti bibliografici su tutti gli aspetti della fisica quanti-
stica menzionati in questo paragrafo (principio di indeterminazione e di
complementarietà, esperimento della ‘doppia fenditura’, entanglement,
teoria dei campi quantistici, teorema delle diseguaglianze, ecc.) vedi i
testi divulgativi citati nella nota 1.
37
 La classica formulazione matematica del principio di indeter-
minazione di Heisenberg è ∆x·∆p ≥ ħ/2, dove ∆x è l’incertezza sulla
posizione di una particella, ∆p l’incertezza sulla sua quantità di moto e
ħ la costante di Plank.
38
  Questo ineliminabile margine di incertezza è una ‘opacità’ gnose-
ologica dovuta anche ad un inevitabile limite intrinseco alla sperimen-
tazione stessa: infatti, per osservare ad esempio un elettrone al fine di
stabilirne l’esatta posizione nello spazio, occorre ‘illuminarlo’ con un
fascio di luce, ma la sua massa è talmente leggera che, non appena un
fotone lo colpisce, ne altera irrimediabilmente la quantità di moto, ren-
dendo impossibile una precisa misurazione di quella originaria.
39
 Per un’accurata descrizione e interpretazione dell’esperimento
della ‘doppia fenditura’ cfr. Augusto Shantena Sabbadini, Pellegrinaggi
verso il vuoto, cit., pp. 98-106.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  43

sì ‘nubi di probabilità’ in cui tutte le alternative possibili


convivono in una ‘sovrapposizione di stati’40 (per esempio,
uno stesso elettrone può passare contemporaneamente at-
traverso due diverse fenditure secondo la logica dell’et/et,
interferendo con se stesso), mentre soltanto quando viene
effettuata una ‘misurazione’ (cioè un’osservazione), si ve-
rifica il cosiddetto ‘collasso del vettore di stato’ e appare
la ‘alternativa classica’ del mondo macroscopico a noi fa-
miliare (l’elettrone passa per una sola delle due fenditure
secondo la logica dell’aut/aut)41. In altri termini, il sem-
plice atto di osservare-misurare influenza direttamente il
comportamento stesso della materia, minando l’idea che i
sistemi fisici possiedano autonome proprietà intrinseche,
indipendenti dall’osservazione (principio del realismo)42.
Tutto ciò implica una devastante conseguenza per i fon-
damenti stessi del metodo scientifico basato sul ‘principio
di oggettività’, secondo cui i fenomeni da investigare van-
no osservati in totale isolamento da ogni possibile interfe-
renza da parte dell’osservatore, al fine di stabilire come si
comportino anche quando non vengono osservati.
La scienza ‘classica’ si fonda appunto sulla necessità
di studiare i fenomeni ‘oggettivamente’, ossia indipen-
dentemente dal soggetto osservante. Tutto ciò diviene im-
possibile nella sperimentazione subatomica, proprio per-
ché l’osservazione stessa interferisce inevitabilmente con
il fenomeno osservato, modificandolo: in altri termini, in
questo caso si è raggiunto il limite oltre il quale osserva-
tore e osservato non sono più separabili, per cui diventa
impossibile accertare (se non su base probabilistica) che

40
  Ivi, p. 104: «La sovrapposizione quantistica è una nozione che
non ha un analogo classico, in quanto corrisponde alla compresenza di
quelle che classicamente sono alternative incompatibili».
41
  Ivi, pp. 102-107.
42
  Ivi, p. 106: «Nella fisica quantistica l’osservazione comporta una
perturbazione essenziale del sistema osservato. Una conseguenza im-
portante di ciò è il fatto che le proprietà di un sistema quantistico non
possono essere considerate proprietà intrinseche del sistema, indipen-
dentemente dal fatto che qualcuno le osserva».
44  mauro bergonzi

cosa accada ‘oggettivamente’ tra una misurazione e l’altra,


quando non ha luogo l’osservazione43.
Un altro punto-limite fu raggiunto quando si verificò
una stupefacente e inattesa conferma sperimentale del pa-
radosso EPR, in origine un ‘esperimento mentale’ ideato
nel 1935 da Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Ro-
sen per dimostrare che la meccanica quantistica era una
teoria incompleta, dal momento che alcune sue premes-
se, se coerentemente sviluppate, portavano al risultato
apparentemente assurdo che una misurazione effettuata
su una parte di un sistema quantistico influirebbe istanta-
neamente sulla misurazione di un’altra parte dello stesso
sistema, a prescindere dalla loro distanza e in assenza di
ogni possibile scambio di informazioni.
In seguito, il teorema delle disuguaglianze di John
Stewart Bell (1964) mise a fuoco con esemplare chiarezza
sul piano logico-formale i termini della disputa, dimostran-
do che la ‘completezza’ della teoria quantistica è in con-
traddizione con almeno uno dei seguenti principi: quello
di ‘località’ (per cui esistono entità separate, dislocate in
punti diversi dello spazio/tempo e in grado di interagire
causalmente tra loro solo tramite un contatto diretto, op-
pure mediato da uno scambio di segnali) e quello di ‘rea-
lismo’ (per cui esiste una realtà oggettiva ‘esterna’ dotata
di autonome proprietà intrinseche, indipendente e separata
dal soggetto osservante)44.
Grazie ai suggerimenti tratti dal teorema di Bell (e a
una precedente semplificazione teorica elaborata da Da-
vid Bohm nel 1951), con l’esperimento sulla correlazione
quantistica di Alain Aspect (1981-1982) divenne finalmen-
te possibile operare una definitiva verifica sperimentale del
paradosso EPR, misurando gli assi di polarizzazione di una
coppia di fotoni ‘intrecciati’ tra loro (entangled), in quanto
emessi da uno stesso sistema quantistico (il decadimento a
cascata di un atomo di calcio): il risultato fu che la scelta
di misurare la polarizzazione di uno dei due fotoni lungo

43
 Vedi infra, pp. 62 ss. e 72 ss.
44
 Vedi infra, pp. 56-67.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  45

un determinato asse influiva sulla statistica delle misure di


polarizzazione sull’altro fotone, sebbene fosse impossibile
ogni scambio di informazioni tra loro45.
Così, dopo quasi mezzo secolo, ciò che ad Einstein,
Podolsky e Rosen era apparso come una palese assurdi-
tà – vale a dire la connessione istantanea fra due entità
spazialmente separate e impossibilitate a comunicare tra
loro – venne confermato sperimentalmente, dando ragio-
ne alla meccanica quantistica46. Al di là delle differenti e
contrastanti teorie interpretative di questo fenomeno sorte
nel corso del tempo, resta il fatto che anche qui si toccò il
limite del principio di località, oltre il quale l’idea di un’as-
soluta separazione fra entità dislocate in punti diversi dello
spazio non è più applicabile.

Le ragioni di un dialogo

La scomoda consapevolezza di aver raggiunto un limite


intrinseco alle premesse su cui si era basato fino ad allora il
metodo scientifico, esigeva una profonda revisione critica
dei fondamenti stessi della scienza e un radicale cambia-
mento di paradigma.
Non desta dunque meraviglia che gli intelletti più vivi e
arditi del tempo cominciassero, in modo più o meno consa-
pevole a seconda dei casi, ad ampliare il raggio delle pro-
prie investigazioni ben oltre il campo specifico della fisica,
cercando spunti di ispirazione ed eventuali risposte ai pro-
pri dubbi su un piano più globale, comprendente la storia
del pensiero scientifico, l’epistemologia e, ancora più in
generale, la filosofia stessa.

45
  Cfr. Augusto Shantena Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto,
cit., pp. 108-116.
46
  Ivi, pp. 112 s.: «Questa ‘fantomatica azione a distanza’ […] ci
dice essenzialmente che due sistemi che hanno interagito tra loro, in
modo tale da creare correlazioni fra alcune loro proprietà, vengono a
costituire a tutti gli effetti una unità inscindibile. Sono di fatto un unico
sistema. Una misura eseguita su uno di essi è di fatto una misura esegui-
ta sul sistema complessivo, quale che sia la distanza fra i due elementi».
46  mauro bergonzi

Fu a questo punto che, sorprendentemente, diversi di


loro si imbatterono nel pensiero non-dualista orientale,
il quale, proprio perché aveva sviluppato idee filosofiche
profondamente diverse da quelle occidentali poste alla
base del metodo scientifico, offrì loro spunti di riflessione
non trascurabili e forse più rilevanti di quanto non appaia
a prima vista, anche per via del fatto che loro stessi mo-
stravano spesso una certa reticenza a riconoscerli pubbli-
camente, per timore di esserne screditati dal punto di vista
accademico47.

47
  Non è un segreto che nell’ambiente accademico della ricerca scien-
tifica – alquanto competitivo, nonostante l’ampia condivisione delle in-
formazioni e la passione comune per la conoscenza – la rivalità e l’arrivi-
smo diano luogo spesso a battute assai tranchant fra colleghi, soprattutto
nei confronti di chi, pur invidiato per il suo talento, lasci trapelare aspetti
bizzarri della propria personalità o interessi per argomenti ‘di frontiera’ ri-
tenuti poco ortodossi e lontani dal proprio specifico campo di ricerca: per
esempio, nel milieu culturale tendenzialmente laico, materialista e spesso
ateo della fisica nucleare, non c’è nulla di più imbarazzante per un uomo
di scienza che essere additato come un ‘mistico visionario’ che spreca il
proprio tempo in elucubrazioni fantasiose sulle religioni orientali, sulla
percezione extrasensoriale o sugli antichi testi di cabala e alchimia. Un
caso esemplare, a tal proposito, è quello del premio Nobel W. Pauli, il
quale ad una rigorosa attività di ricerca scientifica affiancava l’ambizioso
progetto (perseguito in ambito privato durante tutta la sua vita) di elabo-
rare una sintesi, sul piano sia personale sia scientifico, fra la sfera ‘mate-
riale’ della fisica quantistica e la sfera ‘spirituale’ propria della psicologia
del profondo e dell’antico pensiero sapienziale d’Oriente e d’Occidente.
A tal fine egli allacciò un pluriennale rapporto di amicizia, collaborazione
e ricerca comune con Carl Gustav Jung (altro outsider disprezzato come
‘mistico’ da molti suoi colleghi psicologi), il quale non solo lo indirizzò
verso un percorso di psicoterapia analitica per risolvere alcuni squilibri
della sua personalità, ma soprattutto lo introdusse allo studio dell’erme-
tismo, del simbolismo numerico e dell’antica filosofia cinese contenuta
nell’I Ching o Libro dei Mutamenti. L’unica pubblicazione che si con-
cretizzò in seguito a questa collaborazione fu un saggio in cui, tra l’altro,
per la prima volta venne esposto il principio della ‘sincronicità’ come
correlazione acausale fra eventi separati nello spazio e/o nel tempo. Cfr.
Carl Gustav Jung – Wolfgang Pauli, Naturerklärung und Psyche, Rascher
Verlag, Zurich 1952, trad. ingl. di Richard Francis C. Hull – Priscilla Silz,
The Interpretation of Nature and the Psyche, Routledge & Kegan Paul,
London 1955. Per il resto, Pauli preferì relegare sempre nell’ambito stret-
tamente personale le sue ricerche in questo controverso campo d’indagi-
ne, temendo che altrimenti la propria credibilità come scienziato sarebbe
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  47

È comunque noto, per citare solo alcuni esempi ben do-


cumentati, che sia Niels Bohr, sia Werner Heisenberg, sia
Erwin Schrödinger coltivassero un certo interesse per la
lettura degli antichi testi vedici tradotti dal sanscrito in lin-
gue occidentali (in particolare le Upaniṣad). Tanto che a N.
Bohr è stata attribuita la famosa frase ricordata da Antonel-
la De Ninno nell’introduzione: «I go into the Upanishads
to ask questions»48.
Lo stesso N. Bohr doveva anche possedere una qualche
conoscenza della filosofia taoista (stimolata forse dal suo
viaggio in Cina nel 1937), se come stemma per il titolo
nobiliare dell’‘Ordine dell’Elefante’ conferitogli nel 1947
scelse proprio il simbolo taoista del taiji, in cui l’unione
dinamica degli opposti cosmici yin/yang diviene una per-
fetta raffigurazione grafica del principio di complementari-
tà nella meccanica quantistica49. D’altra parte, N. Bohr era
ben consapevole che per affrontare le complesse proble-
matiche epistemologiche sollevate dalla fisica quantistica
– soprattutto circa l’inadeguatezza dei concetti scientifici
tradizionali e il rapporto fra osservatore e osservato – il
pensiero non-dualista orientale avrebbe potuto essere un
interlocutore più sintonico e fecondo rispetto a quello occi-
dentale, di impostazione prevalentemente dualistica50.

stata ridicolizzata dai sarcastici commenti dei suoi colleghi. Tuttavia que-
sta sua reticenza dava luogo a un conflitto psicologico che continuò ad
assillarlo per lungo tempo, come testimoniano alcuni suoi sogni ricorrenti
in cui, invitato con insistenza da una folla anonima a salire in cattedra per
parlare in pubblico di questo argomento, all’ultimo istante veniva sempre
bloccato da un’implacabile paralisi. Per una dettagliata disamina di que-
sto argomento cfr. Arthur I. Miller, L’equazione dell’anima, trad. it. cit.
48
  Citato in Alan L. Mackay, A Dictionary of Scientific Quotations,
Institute of Physics Publishing, Bristol and Philadelphia 1991, p. 35.
49
  Il simbolo sullo stemma era accompagnato dalla scritta in latino:
contraria sunt complementa. Cfr. John A. Wheeler, Physics in Copen-
hagen in 1934 and 1935, in Niels Bohr: A Centenary Volume, ed. by An-
thony P. French – P.J. Kennedy, Harvard University Press, Cambridge
(MA) 1985, pp. 221-226.
50
  Cfr. Niels Bohr, Atomic Physics and Human Knowledge, John
Wiley & Sons, New York 1958, pp. 19 s.: «For a parallel to the lesson
of atomic theory regarding the limited applicability of such customary
idealizations, we must in fact turn to quite other branches of science,
48  mauro bergonzi

Quanto a W. Heisenberg, sembra che il suo interesse


per il pensiero filosofico indiano – stimolato anche dalle
conversazioni intercorse nel 1929 con Rabindranath Tago-
re, che lo ospitò durante un giro di conferenze in India –
non solo svolgesse un qualche ruolo nel vasto background
culturale extrascientifico da cui egli traeva ispirazione per
il suo lavoro nel campo della meccanica quantistica, ma
gli avesse anche dato un sostanziale incoraggiamento ad
avventurarsi senza esitazioni su un terreno di ricerca che
sembrava esulare da ogni orizzonte noto alla tradizione fi-
losofica occidentale di riferimento per il pensiero scientifi-
co. Significativa è, a questo proposito, la testimonianza di
F.J. Capra su una sua conversazione con Heisenberg:

When I asked Heisenberg about his own thoughts on Eastern


philosophy, he told me to my great surprise not only that he had been
well aware of the parallels between quantum physics and Eastern
thought, but also that his own scientific work had been influenced,
at least at the subconscious level, by Indian philosophy. In 1929
Heisenberg spent some time in India as the guest of the celebrated
Indian poet Rabindranath Tagore, with whom he had long conversa-
tions about science and Indian philosophy. This introduction to Indi-
an thought brought Heisenberg great comfort, he told me. He began
to see that the recognition of relativity, interconnectedness, and im-
permanence as fundamental aspects of physical reality, which had
been so difficult for himself and his fellow physicists, was the very
basis of the Indian spiritual traditions. «After these conversations
with Tagore» he said, «some of the ideas that had seemed so crazy
suddenly made much more sense. That was a great help for me»51.

Fra i fisici interessati al pensiero orientale, non tutti si


accontentavano di leggere i testi in traduzione. È noto che
nel 1933 Robert Oppenheimer (il coordinatore del team di
scienziati del ‘progetto Manhattan’ impegnati nella costru-

such as psychology, or even to that kind of epistemological problems


with which already thinkers like Buddha and Lao Tzu have been con-
fronted, when trying to harmonize our position as spectators and actors
in the great drama of existence»; trad. it. di Paolo Gulmanelli, I quanti e
la vita, Boringhieri, Torino 1965.
51
  Fritjof Capra, Uncommon Wisdom: Conversations with Remark-
able People, Simon & Schuster, New York 1988, pp. 43 s.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  49

zione della prima bomba atomica) intraprese lo studio del


sanscrito per avere diretto accesso alle fonti della sapienza
indiana in lingua originale: non a caso la famosa frase che
egli esclamò assistendo alla prima esplosione atomica nel
deserto di Los Alamos è una citazione diretta della Bhaga-
vadgītā52.

Erwin Schrödinger e il non-dualismo

Fra tutti i ‘padri fondatori’ della fisica quantistica, è sta-


to senz’altro Erwin Schrödinger a manifestare in maniera
più esplicita e articolata il proprio interesse per il pensiero
non-dualista orientale, con speciale riferimento all’advai-
ta-vedānta e, in misura minore, al taoismo53.
Egli era ben consapevole che la rivoluzione provocata
dalle scoperte della meccanica quantistica aveva minato a
tal punto le fondamenta stesse della ‘scienza moderna’, da
richiedere una profonda revisione critica delle sue premes-
se epistemologiche. Pertanto, sostenuto da una non super-
ficiale conoscenza della filosofia occidentale, egli comin-
ciò a investigare le radici lontane e i successivi sviluppi
storici del metodo scientifico, partendo dai frammenti dei
presocratici greci (soprattutto gli ionici e gli atomisti)54 per

52
  «Now I am become death, the destroyer of worlds». Vedi Bhaga-
vadgītā XI.32: kālo’smi lokakṣayakṛt («Io sono il tempo, distruttore dei
mondi», trad. mia). Cfr. The Bhagavad Gītā, ed. and trans. by Franklin
Edgerton, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1944, trad. it. di
Stefano Piano, Bhagavad-gītā (il canto del glorioso signore), Edizioni
San Paolo, Milano 1994.
53
  Cfr. Erwin Schrödinger, Meine Weltansicht, P. Zsolnay, Wien
1961, trad. ingl. di Cecily Hastings, My View of the World, Cambridge
University Press, Cambridge (MA) 1964; Id., L’immagine del mon-
do, trad. it. cit. Per un accurato studio sul pensiero filosofico di Erwin
Schrödinger, cfr. Michel Bitbol, Schrödinger’s Philosophy of Quantum
Mechanics, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht-Boston-London
1996.
54
  Cfr. Erwin Schrödinger, Nature and the Greeks, in Shearman Lec-
tures, University College, London 1948, trad. it. di Adolfo Verson, La
natura e i Greci, in L’immagine del mondo, trad. it. cit., pp. 173-241.
Scrive in questo saggio Schrödinger: «Lo sviluppo moderno […] ha fat-
50  mauro bergonzi

arrivare a D. Hume, I. Kant e al positivismo di E. Mach,


con l’esplicito proposito di scoprire quali fossero i ‘punti
ciechi’ della scienza, ossia i difetti celati nelle pieghe delle
premesse indimostrabili poste alla base del metodo scien-
tifico. In sintesi, tali premesse si riducono per Schrödinger
a due fondamentali ipotesi: il postulato di intelligibilità,
secondo cui tutti i fenomeni della natura sarebbero co-
noscibili e spiegabili in base al pensiero razionale (logi-
co-matematico), e il postulato di oggettivazione, secondo
cui esisterebbe una realtà ‘oggettiva’ separata dal soggetto
conoscente, il quale sarebbe quindi in grado di osservarla
dall’esterno senza influenzarne in alcun modo il compor-
tamento.
Entrambi questi postulati indimostrabili, che pur come
semplici ‘ipotesi di lavoro’ hanno reso possibili gli straor-
dinari passi avanti della scienza e della tecnologia per circa
tre secoli, nel campo della fisica subatomica hanno rag-
giunto secondo Schrödinger il punto-limite della propria
applicabilità euristica e richiedono una profonda revisione
critica, alla quale il pensiero non-dualista orientale può of-
frire un utile contributo.
Per quanto riguarda il postulato di intelligibilità della
natura, lo sviluppo stesso di gran parte della filosofia oc-
cidentale moderna – per tacere dell’epistemologia di im-
pronta ‘costruttivista’ elaborata già secoli prima in India
dal pensiero buddhista e vedāntico55 – ha ridimensionato

to irruzione nello schema relativamente semplice della fisica, che verso


la fine del secolo decimonono sembrava poggiare su basi assai solide.
Questa intrusione ha, in certo modo, rovesciato ciò che era stato costruito
sulle fondamenta poste nel secolo decimosettimo, soprattutto da Galileo,
Huygens e Newton. Le fondamenta stesse sono state scosse. […] La te-
oria della relatività ha soppresso i concetti di Newton sullo spazio e sul
tempo assoluti […]. La teoria dei quanti, estendendo l’atomismo quasi al
di là di ogni limite, lo ha, nello stesso tempo, precipitato in una crisi più
grave di quanto la maggioranza della gente sia disposta ad ammettere. In
complesso, la crisi dei principi della scienza moderna rivela la necessità
di rivederne le fondamenta fino agli strati più profondi». In questa pro-
spettiva, lo studio del pensiero greco antico può offrire la possibilità di
«cogliere l’errore inveterato alla sua fonte, dove esso è più facilmente
riconoscibile». L’immagine del mondo, trad. it. cit., pp. 184 s.
55
 Vedi infra, pp. 77-88.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  51

sempre più l’idea che le descrizioni elaborate dall’intel-


letto umano corrispondano veridicamente ed esattamen-
te alla realtà ‘oggettiva’: Hume ha ridotto il principio di
causa/effetto (fondamentale per il pensiero scientifico) a
una semplice induzione di natura probabilistica derivante
dall’osservazione di ricorrenti sequenze omogenee56; Kant
ha relegato non solo il principio di causa/effetto, ma anche
lo spazio e il tempo a semplici categorie conoscitive a pri-
ori attraverso cui l’intelletto organizza in sequenze ordi-
nate l’esperienza (i fenomeni), senza mai poter conoscere
la ‘cosa in sé’ (il noumeno); in seguito, la filosofia del lin-
guaggio e il costruttivismo hanno in prevalenza sostenuto
che non si possa conoscere la realtà in sé (il ‘territorio’),
ma solo le nostre descrizioni della realtà (la ‘mappa’) ela-
borate dal pensiero linguistico-concettuale57. Nel campo
della fisica quantistica, esemplare è un’affermazione di
Bohr: «There is no quantum world. There is only an ab-
stract physical description. It is wrong to think that the task
of physics is to find out how nature is. Physics concerns
what we can say about nature»58.
Per quanto riguarda il postulato di oggettivazione, che
si fonda su un presunto dualismo fra soggetto e ogget-
to, nella sua analisi critica Schrödinger lo definisce come
«l’esclusione o omissione (dalla desiderata immagine

56
  Secondo Schrödinger il metodo probabilistico usato per investi-
gare le ‘leggi di natura’ (come avviene ad esempio nella teoria meccani-
ca del calore, nell’evoluzionismo darwiniano e nella fisica dei quanti),
non essendo in grado di conoscere precisamente tutte le innumerevoli
interazioni casuali presenti nello stato di partenza preso in esame, toglie
ogni vincolo di assoluta necessità ai due fondamentali principi di causa/
effetto e di induzione (su cui poggia la conoscibilità della natura), ren-
dendoli appunto soltanto ‘probabili’. Cfr. Erwin Schrödinger, Come la
scienza rappresenta il mondo, in L’immagine del mondo, trad. it. cit.,
pp. 122-138.
57
  Cfr. Alfred Korzybski, Science and Sanity: An Introduction to
Non-Aristotelian Systems and General Semantics, The Institute of Gen-
eral Semantics, New York 19945, p. 58: «The map is not the territory
[…]. The only usefulness of a map depends on similarity of structure
between the empirical world and the map».
58
  Cit. in Aage Petersen, The Philosophy of Niels Bohr, in «Bulletin
of the Atomic Scientists», XIX, 7 (1963), p. 12.
52  mauro bergonzi

intelligibile del mondo) del soggetto conoscente, che si


riduce alla condizione di osservatore esterno» e come
«l’ipotesi dell’esistenza del mondo esterno reale», ag-
giungendo poi:

Ritengo di affermare che si tratta di una semplificazione iniziale


inconscia e incompiuta del problema della natura, ottenuta esclu-
dendo per intanto il soggetto conoscente dal complesso di ciò che
deve essere compreso. […] L’ipotesi dell’intelligibilità e dell’og-
gettivazione non si possono in realtà separare. […] L’intelligibilità
è acquistata al prezzo che il soggetto scompaia, rendendo così pos-
sibile l’oggettivazione59.

Altrove, commentando un passo di Śaṅkara60, Schröd-


inger rileva poi che nel corso del processo conoscitivo – in
cui il soggetto osserva l’oggetto – l’osservatore non può
mai essere osservato come un oggetto che gli stia di fronte:
la coscienza, al pari dell’occhio, non può vedere se stes-
sa, perché sta sempre a monte dello sguardo rivolto verso
l’oggetto61. Di conseguenza, dato che la scienza può esa-
minare solo ciò che è ‘obiettivo’ (l’oggetto osservabile),

59
  Erwin Schrödinger, Come la scienza rappresenta il mondo, in
L’immagine del mondo, trad. it. cit., pp. 120 ss.
60
  Riportato in Max Müller, Three Lectures on the Vedanta Philo-
sophy, Longmans, Green and Co., London-New York 1894, pp. 62 s.
«Siccome è ben noto che soggetto e oggetto, che cadono sotto l’intu-
izione come Io e Non-io, sono opposti uno all’altro per tutta la loro
essenza, come tenebra e luce, e perciò uno non può sostituire l’altro, ne
segue che a più forte ragione anche i loro attributi non possono essere
scambiati. Perciò noi dobbiamo concludere che il trasferimento dell’og-
gettivo, che è percepito come Non-io, al soggettivo, che è percepito
come Io e che consiste nel pensare, o inversamente il trasferimento
del soggettivo all’oggettivo, è fondamentalmente errato». Cfr. Erwin
Schrödinger, L’immagine del mondo, trad. it. cit., p. 92.
61
  Cfr. Erwin Schrödinger, Der Geist der Naturwissenschaft, in
«Eranos-Jahrbuch», XIV (1946), pp. 491-520, trad. it. di Adolfo Ver-
son, Lo spirito della scienza, in L’immagine del mondo, trad. it. cit., pp.
92-115. Scrive Schrödinger: «Lo spirito è soggetto per eccellenza e si
sottrae perciò all’esame obiettivo. Esso è il soggetto della conoscenza
(Schopenhauer) e perciò non può mai esserne l’oggetto nel senso pro-
prio». Ivi, p. 92.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  53

tutti i suoi tentativi di studiare la coscienza come un og-


getto sono destinati a fallire in quanto autocontraddittori62.
Tuttavia per Schrödinger, diversamente da quanto pen-
sava Cartesio, la reciproca irriducibilità di soggetto e og-
getto sul piano epistemologico non ne sancisce affatto la
dualistica separazione sul piano ontologico: al contrario,
essi sono due aspetti inseparabili del processo conoscitivo,
come le due facce di una stessa moneta. L’osservazione è
sempre soltanto una, anche se si può considerare secondo
due prospettive apparentemente opposte: quella del sog-
getto (che vede), oppure quella dell’oggetto (che è visto).
Dunque, nell’osservare un oggetto, il soggetto resta ne-
cessariamente fuori dal campo di osservazione, invisibile
ma sempre presente63. Scrive ancora Schrödinger: «Invero
si può dire in pochissime parole quale sia la causa per cui
non s’incontra mai, nell’immagine del mondo, il nostro io
senziente e pensante: perché esso è quest’immagine del
mondo. Esso è identico col tutto e perciò non vi può essere
contenuto come parte»64.
In base a queste premesse epistemologiche, il supe-
ramento del dualismo di soggetto/oggetto concepito da
Schrödinger è ancor più drastico di quello che N. Bohr, W.
Heisenberg e altri hanno teorizzato sulla scorta della famo-
sa ‘interpretazione di Copenhagen’. Il loro punto di vista in
merito viene così riassunto da Schrödinger:

Rimane assodato che le recenti scoperte fisiche hanno condotto


fino al confine misterioso fra il soggetto e l’oggetto. Questo confine,
così si dice, non è affatto un confine preciso. Ci siamo potuti ren-
dere conto che non osserviamo mai un oggetto, senza che esso sia
modificato o influenzato dall’attività che abbiamo esplicata nell’os-

62
  Sull’impossibilità di oggettivare la coscienza per studiarla ‘scien-
tificamente’ cfr. infra, pp. 88-96..
63
  Cfr. Erwin Schrödinger, Lo spirito della scienza, in L’immagi-
ne del mondo, trad. it. cit., p. 94: «Se dunque l’Io, lo spirito, non può
mai essere oggetto di ricerca nel senso proprio, perché la conoscenza
obiettiva dello spirito è una contradictio in adiecto, d’altra parte ogni e
qualunque conoscenza è riferita ad esso, o più esattamente è in esso».
64
  Erwin Schrödinger, Come la scienza rappresenta il mondo, in
L’immagine del mondo, trad. it. cit., p. 157.
54  mauro bergonzi

servarlo. Ci siamo resi conto che l’urto dei nostri metodi raffinati
di osservazione e di pensiero sui risultati delle nostre esperienze ha
infranto questo misterioso confine fra il soggetto e l’oggetto65.

A questa interpretazione, abbastanza cauta pur nell’am-


bito di un rivoluzionario mutamento di prospettiva,
Schrödinger contrappone una forma ben più radicale di
non-dualismo fra soggetto e oggetto:

Il mondo mi è dato una sola volta, non c’è un mondo che esista e
uno che sia percepito. Soggetto e oggetto sono una sola cosa. Non si
può dire che la barriera fra l’uno e l’altro sia stata infranta in seguito
ai recenti risultati delle scienze fisiche, perché questa barriera non
esiste66.

L’identità fra coscienza e mondo ipotizzata da Schröd-


inger lo porta alla inevitabile conclusione che esista in real-
tà una sola coscienza: ognuno di noi è come una ‘finestra’,
dislocata nello spazio/tempo, attraverso cui un universo
cosciente osserva sé stesso67.
La negazione del dualismo implica dunque l’idea che
l’universo sia una totalità integrata e cosciente, in cui l’esi-
stenza di entità separate (postulata dalla meccanica classi-
ca di ascendenza newtoniana) è solo apparente, in perfetta
consonanza con la dottrina śaṅkariana dell’identità supre-
ma fra ātman (il sé cosciente) e brahman (l’essenza del
reale), la quale secondo Schrödinger potrebbe offrire alla
scienza un utile contributo per uscire dall’impasse del dua-
lismo cartesiano:

La pluralità non è che un’apparenza. Questa è la teoria delle


Upaniṣad. […] La nostra scienza (la scienza greca) è basata sull’og-
gettivazione, con la quale essa ha allontanato da sé la possibilità di
comprendere il soggetto della conoscenza, lo spirito. Ma io credo

65
  Ivi, pp. 158 s.
66
  Ivi, pp. 159 s. Questa posizione filosofica è perfettamente in linea
non solo con l’advaita-vedānta śaṅkarano, ma anche con la scuola cit-
tamātra del buddhismo mahāyāna. Cfr. infra, pp. 68 ss. e 40 s.
67
  Erwin Schrödinger, Come la scienza rappresenta il mondo, in
L’immagine del mondo, trad. it. cit., pp. 159 s.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  55

che è proprio in ciò che il nostro modo di pensare deve essere cor-
retto, forse con un po’ di trasfusione di sangue dall’Oriente. […]
Non desideriamo perdere la precisione logica raggiunta dal nostro
pensiero scientifico […]. Tuttavia un vantaggio può essere invocato
in favore della dottrina mistica dell’‘identità’ di tutti gli spiriti tra
loro e con lo spirito supremo – in contrapposto con la monadologia
di Leibniz. La dottrina dell’identità può affermare di essere sostenu-
ta dal fatto empirico che la coscienza non si incontra mai al plurale,
ma sempre al singolare. Non solo nessuno di noi ha mai avuto l’e-
sperienza di più di una coscienza, ma non esiste nessuna traccia di
prova circostanziata che ciò sia avvenuto in un tempo o in un luogo
qualsiasi68.

Sarebbe ovviamente ingenuo da parte di uno scienziato


così accorto e rigoroso come Schrödinger credere che la
propria visione non-dualista della realtà possa essere ‘di-
mostrata’ dalla meccanica quantistica: si tratta piuttosto
di un’implicazione filosofica non solo compatibile con la
fisica contemporanea, ma anche in grado di offrirle una co-
erente contestualizzazione ontologica.
Per Schrödinger l’idea di molteplici coscienze indivi-
duali dà luogo a due paradossi difficilmente risolvibili: di-
venta infatti arduo spiegare come da un lato tante diverse
coscienze individuali (simili a monadi leibniziane sprovvi-
ste di ‘finestre’) possano condividere un mondo unico69, e
dall’altro come una molteplicità di singole cellule indivi-
duali (costituenti il corpo umano e dotate ciascuna di vita
propria) possa originare l’esperienza unitaria di una sola
coscienza70. L’idea dell’identità fra coscienza e universo è

68
  Ivi, p. 161.
69
  Ivi, p. 160: «[Secondo Leibniz] ogni monade sarebbe un mondo
a sé, sprovvisto di finestre; il fatto che queste monadi siano d’accordo,
è un’armonia prestabilita. Sono pochi, credo, coloro il cui pensiero si
appaga di questa soluzione […]. La via d’uscita opposta è l’unificazione
della coscienza».
70
  Ivi, p. 163: «Non mi posso, ad esempio, assolutamente immagi-
nare come la mia unica coscienza sia sorta dall’integrazione delle co-
scienze delle cellule, o di alcune cellule, del mio corpo, o ne formi, per
così dire, in ogni momento la risultante, se questa coscienza non è di per
se stessa, per sua natura, unica».
56  mauro bergonzi

per Schrödinger la soluzione filosofica più semplice e ov-


via per risolvere tutti questi dilemmi:

Io propongo di esaminare se i due paradossi [il mondo unico che


risulta dalla collaborazione di parecchie menti e la coscienza unica
basata sulle molte vite cellulari] non potrebbero essere risolti […]
assorbendo nel nostro edificio della scienza occidentale la dottrina
orientale dell’identità. Lo spirito è, per sua propria natura, un singo-
lare tantum. Direi: il numero totale degli spiriti è proprio uno solo.
Oso chiamarlo indistruttibile, perché esso ha un impiego del tempo
particolare: cioè lo spirito è sempre ora, in questo momento. Non
esiste per lo spirito un prima o un dopo. C’è sempre un ‘ora’, che
include i ricordi e le speranze. Ma riconosco che il linguaggio non è
adeguato ad esprimere queste idee, e se qualcuno pensa che io parli
di religione e non di scienza, sono d’accordo – si tratta però di una
religione che non è contraria alla scienza, ma è sostenuta da ciò che
la ricerca scientifica disinteressata ha reso attuale71.

Ai fini del nostro discorso, non è irrilevante il fatto che,


prendendo spunto dal dialogo fra pensiero non-dualista
orientale e meccanica quantistica, una delle personalità che
hanno più influenzato la fisica attuale abbia elaborato una
visione filosofica della realtà perfettamente coincidente
con quella dell’advaita-vedānta indiano.

Interpretazioni della fisica quantistica

Le principali aree di dialogo fra le implicazioni filosofi-


che della fisica quantistica e il pensiero non-dualista orien-
tale possono essere messe a fuoco con maggior chiarezza
prendendo spunto dal teorema delle disuguaglianze di J.S.
Bell72, secondo cui, sulla base di un’inconfutabile dimo-
strazione logico-formale, la meccanica quantistica (finora
sempre puntualmente confermata dall’evidenza sperimen-
tale) può essere considerata una teoria valida e completa
soltanto se viene inficiato almeno uno dei seguenti assiomi:
a) il principio di realismo, che afferma l’esistenza di una
71
  Ivi, p. 166.
72
 Cfr. supra, p. 44.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  57

realtà ‘esterna’ dotata di proprietà intrinseche indipendenti


dalla osservazione, e quindi passibile di una descrizione
‘oggettiva’ in quanto separata dalla coscienza osservante
(dualismo di soggetto/oggetto); b) il principio di località,
che implica l’esistenza di una molteplicità di entità sepa-
rate, dislocate in punti diversi dello spazio/tempo e intera-
genti attraverso nessi causali73.
Si è già visto come da un lato il principio di realismo
sia stato messo fortemente in discussione dall’interpreta-
zione di Copenaghen con la critica alla separazione fra os-
servatore e osservato (per non dire della posizione ancor
più radicalmente non-dualista di Schrödinger74), e come
dall’altro anche il principio di località appaia seriamente
compromesso, soprattutto dopo le evidenze sperimentali
sul fenomeno dell’entanglement75.
Tutto ciò ha dato origine a differenti interpretazioni del-
la fisica quantistica, che divergono tra loro a seconda di
quale dei tre assunti presi in considerazione dal teorema di
Bell (validità della meccanica quantistica, del realismo e
della località) venga, per così dire, ‘gettato giù dalla torre’.
Alcuni, come A. Einstein, hanno preferito ridimensio-
nare il primo, insistendo sull’incompletezza della teoria
quantistica; altri, come N. Bohr e i sostenitori della inter-
pretazione di Copenaghen, hanno sacrificato il secondo,
rinunciando alla pretesa che le teorie della fisica quantisti-
ca possano fornire una descrizione veramente ‘oggettiva’
della presunta ‘realtà esterna’, data l’inestricabile inter-
connessione fra osservatore e osservato; altri ancora hanno
scelto di mettere in discussione il terzo assunto, invalidan-
do il principio di località alla luce della teoria dei campi e
del vuoto quantistico, dalle cui fluttuazioni e interferenze

73
  Cfr. Augusto Shantena Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto,
cit., p. 114: «La nozione di realismo […] consiste nell’assumere che le
proprietà di un sistema fisico siano intrinseche al sistema stesso e non
dipendano dall’osservatore. La località, d’altro canto, è l’ipotesi che i
sistemi fisici siano localizzati nello spazio e interagiscano unicamente
tramite azioni che si propagano nello spazio».
74
 Cfr. supra, pp. 53 ss. e infra, pp. 95.
75
  Cfr. supra, p. 44 s.
58  mauro bergonzi

emergono i fenomeni dislocati nello spazio/tempo, i qua-


li restano tuttavia inseparabilmente interconnessi per via
della loro ineliminabile interazione con i campi e il vuoto
quantistico. E. Del Giudice (che personalmente propende
per la terza ipotesi) riassume con chiarezza la situazione
nel modo seguente:

Di fatto il famoso teorema di Bell (1964) afferma in sintesi l’in-


compatibilità delle seguenti tre affermazioni: 1) vale la fisica quan-
tistica; 2) è possibile una descrizione oggettiva della realtà fisica;
3) la realtà fisica è un insieme di eventi localizzabili nello spazio e
nel tempo. Una delle tre precedenti affermazioni deve essere fatta
cadere. Einstein fece cadere la prima, per cui nella sua tarda età
espresse l’opinione che la fisica quantistica non potesse essere il
livello definitivo del divenire della teoria. Bohr e la maggior parte
dei fisici quantistici fecero cadere la seconda affermazione, dando
origine ai famosi paradossi. Restava l’affascinante possibilità di far
cadere la terza affermazione […]. Una descrizione quantistica obiet-
tiva della realtà, priva di concessioni al soggettivismo, doveva ne-
cessariamente includere l’esistenza di domini spaziali estesi in cui i
componenti fossero correlati in fase, dando luogo a comportamenti
sincronici (cioè non vincolati dal limite della velocità della luce),
proprio come auspicato da Jung nel suo dialogo con Pauli. […] La
possibilità di questi comportamenti era stata già anticipata nel 1916
da Walther Nernst che si chiese cosa sarebbe accaduto se le fluttua-
zioni quantistiche degli atomi, in principio non correlate fra di loro,
si fossero sintonizzate dando origine ad una comune oscillazione
del collettivo degli atomi; questa comune oscillazione avrebbe for-
nito all’oggetto la sua unità e possibilmente la sua finalità76.

Se, alla luce delle evidenze sperimentali finora raccolte,


viene confermata la validità della teoria quantistica, esclu-
dendo così – almeno per il momento – la prima interpreta-
zione (che la riteneva incompleta), resta da stabilire quale
delle altre due interpretazioni (che invalidano rispettiva-
mente il principio di realismo o quello di località) sia o non
sia corretta. Non esiste tuttavia alcun motivo per ritenerle
necessariamente alternative fra loro: il teorema di Bell si

76
  Emilio Del Giudice, Prometeo, ovvero l’anima passionale della
ragione scientifica, cit., pp. 136 s.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  59

limita infatti a dimostrare che, se è vera la teoria quantisti-


ca, deve essere falso almeno uno degli altri assunti, ma non
necessariamente soltanto uno dei due.
Non si può quindi escludere, sempre nei limiti di coe-
renza imposti dal teorema di Bell, la possibilità di un’ul-
teriore interpretazione, secondo cui la validità della fisica
quantistica viene confermata lasciando cadere entrambi
i principi (sia quello di realismo, sia quello di località)77,
come rileva A.S. Sabbadini:

L’esperimento di Aspect e gli altri esperimenti analoghi ci di-


cono qualcosa su com’è fatto il mondo: il mondo non è realistico e
locale. La nostra nozione ingenua di materia non si applica al mon-
do microscopico. Se prendiamo il realismo e la località come defini-
zione di ciò che intendiamo con ‘cosa’, ‘oggetto’, l’esperimento di
Aspect ci dice che il mondo non è fatto di cose78.

È proprio qui che le convergenze con il pensiero


non-dualista orientale si fanno più stringenti.
Infatti, in molte sue espressioni79, il pensiero non-dua-
lista orientale nega decisamente entrambi i summenzionati
principi, relegandoli a semplici ‘apparenze’ (più o meno
illusorie) di una realtà ‘relativa’ o ‘convenzionale’ (vya-
vahārika o saṃvṛtti-satya).

Critica alla molteplicità di entità separate

Per quanto riguarda il principio di località, con la sua


radicale critica al concetto di ‘sostanza’ il buddhismo80

77
  Questa sembra essere, ad esempio, la posizione assunta da Erwin
Schrödinger, come si è visto nel paragrafo precedente.
78
  Augusto Shantena Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto, cit.,
p. 116.
79
  In questo contesto si è scelto di menzionare, a titolo di esempio,
soltanto il buddhismo e l’advaita-vedānta, perché per molti versi essi
rappresentano due polarità opposte nella vasta gamma di espressioni
filosofiche riconducibili al pensiero non-dualista.
80
  Data l’enorme diversificazione delle posizioni filosofiche presen-
ti nelle varie scuole buddhiste, parlare di ‘buddhismo’ in generale è una
60  mauro bergonzi

considera la comune percezione di entità solide, perma-


nenti e separate soltanto una fittizia costruzione mentale:
quelle che sembrano ‘cose’ sono in realtà processi in con-
tinuo divenire (anitya) e totalmente interconnessi tra loro
in un’unica ‘rete’ di relazioni secondo la legge universale
di ‘interdipendenza funzionale’ o ‘co-originazione inter-
dipendente’ (pratitya-saṃutpāda), fino a formare un solo,
indivisibile processo che coincide con tutto l’universo per-
cepibile81. In questa prospettiva, l’individuo stesso non è
altro che una corrente ininterrotta di flussi psico-fisici sen-
za soluzione di continuità con l’ambiente che li circonda:
l’io separato è una semplice illusione mentale in quanto
ontologicamente ‘privo di sé’ (anātman).
L’advaita-vedānta82 invece, procedendo in modo altret-
tanto radicale nella direzione opposta, considera reale sol-

ipersemplificazione giustificata soltanto dalla necessità di articolare un


discorso comparativo che non sconfini oltre i limiti stabiliti dall’impo-
stazione di fondo del presente scritto. Si è comunque fatta particolare
attenzione, nell’uso generico del termine ‘buddhismo’, a menzionare
soltanto gli aspetti dottrinali più ampiamente diffusi e condivisi da quasi
tutte le scuole buddhiste. Per un’introduzione generale al buddhismo
cfr. Giuseppe Tucci, Il buddhismo, Campitelli, Foligno 1926; Buddhi-
sm: A Modern Perspective, ed. by Charles S. Prebish, The Pennsylvania
State University Press, University Park and London 1975; Storia del
buddhismo, a cura di Henri-Charles Puech, Laterza, Roma-Bari 1984;
Richard H. Robinson – Willard L. Johnson, The Buddhist Religion:
A Historical Introduction, Wadsworth Publishing Company, Belmont
(CA) 1997, trad. it. di Cristina Pecchia, La religione buddhista: un’in-
troduzione storica, Ubaldini, Roma 1998; Paul Williams – Anthony
Tribe, Buddhist Thought: A Complete Introduction to the Indian Tradi-
tion, Routledge, London 2000, trad. it. di Giampaolo Fiorentini, Il bud-
dhismo dell’India: un’introduzione completa alla tradizione indiana,
Ubaldini, Roma 2002.
81
 Questa concezione culmina nella grandiosa metafora della
‘rete di Indra’ contenuta nell’Avataṃsakasūtra e sviluppata dalla scuola
buddhista cinese hua-yen. Cfr. Paul Williams, Mahāyāna Buddhism:
The Doctrinal Foundations, Routledge, London 1989, trad. it. di Gior-
gio Milanetti, Il Buddhismo Mahāyāna: la sapienza e la compassione,
Ubaldini, Roma 1990, pp. 142-162.
82
  Per un’introduzione generale al pensiero dell’advaita-vedānta cfr.
Paul Deussen, The System of the Vedânta: According to Bâdarâyaṇa’s
Brahma-sûtras and Can̄ kara’s Commentary Thereon Set Forth As a
Compendium of the Dogmatics of Brahmanism From the Standpoint of
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  61

tanto un unico essere indiviso (brahman), che coincide con


la coscienza-sé (ātman) e costituisce lo sfondo costante e
immutabile su cui può manifestarsi nello spazio/tempo l’il-
lusione dualistica della molteplicità e del divenire (māyā),
proprio come in un cinematografo l’unica cosa reale è un
immobile schermo bianco, che rende possibile l’apparizio-
ne illusoria di un film composto da innumerevoli immagini
separate e in movimento83. L’identità di essere e coscienza
(sat-cit) al livello universale riduce l’idea di un io indivi-
duale (jiva) a un semplice miraggio.
Sebbene dunque il buddhismo e l’advaita-vedānta ten-
dano a seguire percorsi filosofici diametralmente opposti,
appare tuttavia evidente che sfociano entrambi in una for-
ma di non-dualismo che relega l’idea di entità separate
(compreso l’io individuale) al ruolo di mera apparenza84.

Çan̄ kara, trans. by Charles Johnston, Open Court Publishing Company,


Chicago (IL) 1912; Eliot Deutsch, Advaita Vedānta. A Philosophical
Reconstruction, University of Hawaii Press, Honolulu 1969; Mario
Piantelli, Śaṅkara e la rinascita del Brāhmanesimo, Editrice Esperien-
ze, Fiossano 1974.
83
  La metafora del cinematografo per illustrare il non-dualismo è
stata usata per la prima volta da Ramana Maharshi nel secolo scorso.
Cfr. per esempio Be As You Are. The Teachings of Sri Ramana Mahar-
shi, ed. by David Godman, Arkana, London 1985, p. 112: «We see so
much on the cinema screen. Nothing is real there except the screen»;
trad. it. di Sergio Peterlini, Sii ciò che sei: Ramana Maharshi e il suo
insegnamento, Il punto d’incontro, Vicenza 1982: .
84
  A causa della struttura intrinsecamente dualistica del linguaggio,
che tende a contrapporre concetti mutualmente esclusivi (come esse-
re e divenire, sostanza e attributi, ecc.), un procedimento assai diffuso
per esprimere la visione non-duale è negare uno dei due estremi (non
importa quale) assolutizzando l’altro fino al punto in cui, privato del
proprio opposto, non perde esso stesso ogni implicazione dualistica:
in tal senso, la visione ‘modale’ del buddhismo e quella ‘sostanziale’
dell’advaita-vedānta, per quanto agli antipodi nel loro radicale estremi-
smo, finiscono per sortire lo stesso effetto. Cfr. David Loy, Nonduality.
A Study in Comparative Philosophy, cit., pp. 202 ss.: «Both extremes, in
trying to eliminate duality, result in much the same description of non-
duality – just as one may travel east or west halfway around the world
to arrive in the same place. The problem is [...] that linguistic categories
are inherently dualistic and thus inevitably inadequate when we try to
use them to describe nonduality. The natural tendency, therefore, is to
eliminate one or the other of the dualistic pair, yet, whichever one is
62  mauro bergonzi

Critica al dualismo di soggetto e oggetto

Mentre la critica al principio di località nega la separa-


zione fra entità apparentemente discrete e localizzate nello
spazio/tempo, limitandosi dunque al versante ‘oggettivo’
dell’esperienza (la sfera degli oggetti osservabili), la criti-
ca al principio di realismo nega invece la separazione fra
entrambi i versanti dell’esperienza, quello del soggetto os-
servante e quello dell’oggetto osservato, suggerendo una
non-dualità fra coscienza e universo.
La profonda revisione epistemologica del pensiero
scientifico, che nel corso del XX secolo ha intaccato l’in-
fallibilità del modello basato sull’empirismo logico, ha
fortemente ridimensionato l’idea che si possano studiare
i fenomeni in modo del tutto ‘oggettivo’ descrivendoli
‘in terza persona’ attraverso l’esclusione del soggetto os-
servante85. Tale esclusione è ritenuta di fatto impossibile,
perché ‘soggetto’ e ‘oggetto’ non sono che termini diver-
si assegnati alle due estremità di uno stesso indivisibile
processo (l’osservazione): non esiste alcuna soluzione di
continuità fra loro, né alcun confine preciso in base a cui
si possa accertare dove precisamente finisca l’uno e inizi
l’altro. Il soggetto e l’oggetto di una qualsiasi osservazione
non sono dunque separabili, in quanto appartengono allo
stesso ‘campo esperienziale’. Scrive per esempio Jacob
Bronowski a proposito della teoria einsteiniana: «Rela-
tivity derives essentially from the philosophical analysis
which insists that there is not a fact and an observer, but
a joining of the two in an observation [...] that event and
observer are not separable»86.

removed, the resulting descriptions end up equivalent. [...] One cannot


eliminate the reality of modes without transforming the concept of sub-
stance, and viceversa. [...] The inner dynamism in each tradition led to
much the same understanding of nonduality».
85
 Cfr. supra, nota 26.
86
  Jacob Bronowski, The Common Sense of Science, Harvard Uni-
versity Press, Cambridge (MA) 1953, p. 77, trad. it. di Amerigo Gua-
dagnin, Il senso comune della scienza, Edizioni di Comunità, Milano
1961.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  63

Un’osservazione del tutto ‘oggettiva’ è inoltre insoste-


nibile per due fondamentali ragioni: da un lato, secondo
le scienze cognitive e il modello costruttivista, essa risulta
sempre ‘carica di teoria’ (theory-laden)87; dall’altro, secon-
do la meccanica quantistica, le procedure sperimentali di
osservazione perturbano inevitabilmente l’oggetto osser-
vato, al punto da rendere impossibile stabilirne la natura
‘oggettiva’ indipendentemente dall’osservazione stessa.
Infatti i fenomeni subatomici non possono essere di-
rettamente osservati a livello microscopico, per cui il pro-
cesso di misurazione implica una loro ferrea correlazione
(equivalente a un entanglement) con gli strumenti di mi-
sura che al livello macroscopico si dispongono lungo la
cosiddetta ‘catena di von Neumann’88, ossia una sequenza
di apparati, anch’essi tutti ‘intrecciati’ tra loro (entangled),
comprendente i dispositivi da laboratorio (rilevatori, com-
puter, ecc.), i sistemi neuro-fisiologici dello sperimentatore
(incluso il cervello) e infine la coscienza osservante.
Con il processo di misurazione si viene così a stabilire
un unico sistema entangled in cui a una estremità si trova
l’osservabile subatomica e all’altra la coscienza dello spe-
rimentatore. Varie evidenze sperimentali mostrano che il
87
 Cfr. Ponti sottili, trad. it. cit., pp. 34 ss.: «Gli studi condotti dagli
psicologi cognitivisti hanno messo in questione l’idea dell’osservazio-
ne pura, ossia dell’osservazione oggettiva. [...] Tutte le nostre osserva-
zioni sono in qualche modo colme di teorie precedenti. Riassumendo
con uno slogan: ‘L’osservazione è carica di teoria (theory-laden)’. [...]
Un secondo aspetto vuole che la terminologia con cui si descrivono le
osservazioni aggiunga un ulteriore strato teoretico e soggettivo a quel-
le che dovrebbero essere osservazioni oggettive. [...] Un terzo aspetto
di questo coinvolgimento di fattori soggettivi è dato dalla circostanza
per cui anche quanto viene riconosciuto quale fatto dipende dalla teoria
di un soggetto. [...] È stato rilevato come qualsiasi fatto, suggerito da
un’osservazione, che sia in contrasto con le teorie dominanti, tenda ad
essere accantonato, esattamente nel modo in cui altri ‘fatti’ vengono
creati a rinforzo delle teorie dominanti». Cfr. anche Frederick Suppe,
The Structure of Scientific Theories, University of Illinois Press, Chi-
cago (IL) 1977.
88
 Cfr. John von Neumann, Mathematische Grundlagen der Quan-
tenmechanik, Springer, Berlin 1932, trad. it. di Giovanni Boniolo, I fon-
damenti matematici della meccanica quantistica, Il Poligrafo, Padova
1998.
64  mauro bergonzi

processo di osservazione (comprendente necessariamente


anche una coscienza alla fine della catena di von Neumann)
influenza il modo in cui si comporta la materia al livello
subatomico rispetto a quando non viene osservata89, il che
suggerisce una non separazione fra soggetto e oggetto.
Non desta dunque meraviglia che i rappresentanti
dell’interpretazione di Copenaghen abbiano messo seria-
mente in discussione il fatto che nello studio dei fenomeni
subatomici sia possibile scindere il soggetto dall’oggetto,
come rileva per esempio Werner Heisenberg: «The com-
mon division of the world into subject and object, inner
world and outer world, body and soul, is no longer adequa-
te and leads us into difficulties»90.
Le radicali conseguenze filosofiche di questa intercon-
nessione fra il processo di osservazione e il comportamen-
to dei sistemi subatomici portano così a mettere in dubbio
la separazione di soggetto e oggetto, in linea con il pensie-
ro non-dualista orientale, come spiega Sabbadini:

In molte tradizioni mistiche soggetto e oggetto non sono con-


cepiti come due realtà dotate di esistenza indipendente, bensì come
aspetti complementari e coemergenti di un unico processo. Ogni
momento di esperienza comporta il coemergere di un soggetto
esperiente e di un mondo esperito che appare al soggetto come og-
gettivo, esterno e fatto di cose. In ogni momento di esperienza si ri-
produce la dualità di soggetto e oggetto, di coscienza e mondo, non
come due realtà esistenti in parallelo, bensì come inscindibili aspetti

89
  Per esempio, il summenzionato esperimento delle due fenditure
dimostra che la sovrapposizione di stati presente al livello subatomi-
co (l’elettrone attraversa entrambe le fenditure, comportandosi come
un’onda che interferisce con se stessa) cede il passo all’alternativa clas-
sica (l’elettrone attraversa una sola delle due fenditure, comportandosi
come una particella localizzata), quando è esposta alla ‘perturbazione’
di un processo di misura (il rilevatore applicato ad una delle due fen-
diture), il quale coinvolge una ‘catena di von Neumann’ comprendente
non solo gli apparati sperimentali e neurofisiologici degli scienziati, ma
anche la loro stessa coscienza, indispensabile affinché l’osservazione
abbia luogo.
90
  Werner Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Rowohlt
Taschenbuch Verlag, Reinbek 1955, p. 24; trad. ingl. di Arnold J. Pomer-
ans, The Physicist’s Conception of Nature, Hutchinson, London 1958.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  65

duali di un unico processo. La fisica quantistica sembra suggerire


un’analoga complementarità91.

Queste idee oltrepassano il modello meccanicistico ‘li-


neare’ di matrice newtoniana a favore di un nuovo para-
digma ‘olistico’ e ‘sistemico’92, che considera l’universo
come un insieme integrato di processi totalmente interdi-
pendenti93, sicché solo per convenzione e in astratto (tra-
mite gli arbitrari confini sovrapposti dall’apparato lingui-
stico-concettuale) è possibile isolarne frammenti separati
per esaminarli in forma di oggetti discreti come se fossero
disconnessi da tutto il resto, inclusa la coscienza che li os-
serva. Si tratta di una concezione già intuita con estrema
lucidità da Pierre Teilhard de Chardin nel seguente passo:

Finora abbiamo osservato la materia [...] come se ci fosse per-


messo di prenderne un frammento e studiarlo indipendentemen-
te dal resto. È ora di capire che tale procedura non è altro che un
inganno intellettuale. Considerato nella sua realtà fisica, concreta
[…] l’universo non può dividere se stesso; ma, come una sorta di
gigantesco ‘atomo’, esso forma nella sua totalità […] l’unico vero
indivisibile. […] Più lontano e profondamente noi penetriamo nel-
la materia, utilizzando metodi sempre più potenti, e più restiamo
confusi dall’interdipendenza delle sue parti. Ogni elemento del co-
smo è essenzialmente intrecciato a tutti gli altri. […] È impossibile
tagliare un simile tessuto per prenderne una parte, senza che
questa appaia logora e consumata ai bordi. Tutt’intorno, fin
dove l’occhio può vedere, la struttura dell’universo si mantiene

91
  Augusto Shantena Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto, cit.,
pp. 139 s.
92
  Sull’emersione di questo nuovo paradigma cfr. Fritjof Capra, Il
punto di svolta, trad. it. cit.; Fritjof Capra – Pier Luigi Luisi, Vita e
natura. Una visione sistemica, trad. it. cit.; Mauro Bergonzi, Riflessioni
sulla psicologia del misticismo, in La mente e l’estasi, a cura di Rosario
Conforti – Giuliana Scalera McClintock, Rubbettino, Soveria Mannelli
2010, pp. 241-255.
93
  Appare qui evidente la convergenza di questo paradigma con la
concezione buddhista che considera l’universo come una rete di pro-
cessi interdipendenti secondo il principio del pratitya-saṃutpāda. Cfr.
supra, pp. 59 s.
66  mauro bergonzi

compatta, per cui esiste un solo modo di comprenderla: considerarla


un indivisibile, unico tutto94.

Un contributo decisivo a favore di questa nuova pro-


spettiva è stato fornito dalla teoria generale dei sistemi ela-
borata da Ludwig von Bertalanffy, il quale scrive:

We may state as a characteristic of modern science that [the]


scheme of isolable units acting in one-way-causality has proved to
be insufficient. Hence the appearance, in all fields of science, of
notions like wholeness, holistic, organismic, gestalt, etc., which all
signify that in the last resort, we must think in terms of systems of
elements in mutual interaction95.

Persino il cosiddetto ‘individuo biologico’, se da un


lato presenta con l’autopoiesi una ‘chiusura operaziona-
le’, dall’altro resta sempre ‘termodinamicamente aperto’,
ossia non separabile dall’ambiente, in quanto non è altro
che un flusso sempre cangiante di sostanze nutritive che ne
mantengono momentaneamente intatta la forma seguendo
l’organizzazione di un pattern preordinato, in modo non
dissimile da come una corrente d’acqua sempre diversa,
girando intorno ad un centro vuoto, forma un gorgo solo
apparentemente stabile e separato dal resto del fiume: ne
consegue che i concetti di ‘interno’ ed ‘esterno’ diventano
aleatori e convenzionali.
Portando alle estreme conseguenze le premesse filoso-
fiche del nuovo paradigma scientifico fondato sull’idea di
un universo integrato, indivisibile e soltanto per conven-
zione sezionabile in parti separate attraverso le griglie del
pensiero, i termini ‘soggetto’ e ‘oggetto’, ‘osservatore’ e
‘osservato’, ‘coscienza’ e ‘mondo’ diverrebbero semplici

94
  Pierre Teilhard de Chardin, Le phénomène humain, Éditions du
Seuil, Paris 1955, trad. it. di Fabio Mantovani, Il fenomeno umano, Que-
riniana, Brescia 1995. Citazione tratta da Ken Wilber, Lo spettro della
coscienza, cit., pp. 54 s.
95
  Ludwig von Bertalanffy, General System Theory: Foundations,
Developments, Applications, George Braziller, New York 1968, p. 45;
trad. it. di Enrico Bellone, Teoria generale dei sistemi, Istituto Librario
Internazionale, Milano 1968.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  67

designazioni diverse e complementari per indicare una sola


e unica realtà, proprio come ‘acquisto’ e ‘vendita’ sono due
nomi diversi per designare una stessa transazione commer-
ciale, a seconda del punto di vista adottato.
In altre parole, la realtà (unica e indivisibile) si chiama
‘mondo’ se è descritta oggettivamente (in terza persona), si
chiama ‘coscienza’ se descritta soggettivamente (in prima
persona): ‘mondo’ e ‘coscienza’ sono due nomi diversi per
designare la stessa cosa. Questa è esattamente la prospet-
tiva condivisa da molte espressioni del pensiero non-dua-
lista orientale96.
Se, per usare l’immagine di Teilhard de Chardin, l’unico
vero ‘atomo’ indivisibile è l’universo, allora alla domanda
«Chi sono io?» si dovrebbe rispondere «Io sono l’intero
universo», perché nessuna porzione del tutto (compreso
ciò che denominiamo ‘organismo biologico’, ‘io’ o ‘indi-
viduo’) è veramente separabile da esso. Ciò contrasta tutta-
via con la comune percezione del proprio sé come limitato
a un ‘io’ individuale e separato, che A. Einstein ritiene una
specie di ‘illusione ottica della coscienza’:

Un essere umano è parte di un tutto che chiamiamo ‘universo’,


una parte limitata nel tempo e nello spazio. Sperimenta se stesso,
i pensieri e le sensazioni come qualcosa di separato dal resto, in
quella che è una specie di illusione ottica della coscienza. Questa
illusione è una sorta di prigione che ci limita ai nostri desideri per-
sonali e all’affetto per le poche persone che ci sono più vicine. Il
nostro compito è quello di liberarci da questa prigione, allargando
in cerchi concentrici la nostra compassione per abbracciare tutte le
creature viventi e tutta la natura nella sua bellezza97.

Si profila qui una questione filosofica di cruciale impor-


tanza per il pensiero non-dualista orientale.

96
  Ci riferiamo in particolare all’advaita-vedānta, al buddhismo
mahāyāna (soprattutto cittamātra e ch’an) e al taoismo.
97
  Citato in Ram Dass – Paul Gorman, How Can I Help?, Alfred A.
Knopf, New York 1985, qui nella trad. it. di Anna Rita Vignati Lucenti-
ni, Io e gli altri, Cittadella Editrice, Assisi 1990, p. 28.
68  mauro bergonzi

Identità e non-dualismo

L’interrogativo «Chi sono io?» riveste un ruolo centrale


nella tradizione sapienziale indiana, dove rientra nell’ambi-
to di quella che viene chiamata ātmavidyā (conoscenza del
sé) o ātmavicāra (investigazione del sé). Fin dalle antiche
Upaniṣad vediche, alle radici della nostra identità – ossia
alla sorgente misteriosa da cui scaturisce il nostro ‘sguar-
do’ sul mondo – è stato individuato un unico sé universale
(ātman), una coscienza sconfinata che viene a coincidere
col fondamento stesso di tutta la realtà (brahman), secondo
la ben nota equazione upaniṣadica ātman = brahman.
In seguito, il buddhismo ha svolto una critica radicale
a questa concezione: infatti un’accurata analisi fenomeno-
logica della diretta esperienza introspettiva evidenzia con
chiarezza che ogni auto-osservazione alla ricerca di un ‘sé’
può rilevare soltanto flussi mutevoli e impersonali di per-
cezioni, sensazioni, pensieri, ricordi (i cosiddetti skandha),
senza mai trovare un’entità solida e permanente identifica-
bile con l’‘io’ (a parte il pensiero o la parola ‘io’)98.

98
 Per un interessante parallelo fra l’investigazione buddhista
dell’anātman e la decostruzione dell’io operata dalla filosofia occiden-
tale, cfr. per esempio David Hume, A Treatise of Human Nature (1738),
ed. by Lewis A. Selby-Bigge, Clarendon Press, London 1896, I, IV, VI,
p. 252: «When I enter most intimately into what I call myself, I always
stumble on some particular perception or other, of heat or cold, light
or shade, love or hatred, pain or pleasure. I never can catch myself at
any time without a perception, and never can observe anything but the
perception. […] I may venture to affirm of the rest of mankind, that they
are nothing but a bundle or collection of different perceptions, which
succeed each other with an inconceivable rapidity, and are in a perpetual
flux and movement»; trad. it. di Armando Carlini – Enrico Mistretta,
Trattato sulla natura umana, in David Hume, Opere filosofiche, vol.
I, Laterza, Bari-Roma 2008. Le parole inglesi bundle e collection cor-
rispondono precisamente al significato del termine sanscrito skandha,
che indica i vari ‘aggregati’ in cui il buddhismo decostruisce per via
analitica il falso senso del sé, mentre l’espressione in a perpetual flux
and movement rappresenta l’esatto parallelo del concetto buddhista di
anitya (impermanenza). Sia Hume sia il buddhismo considerano infatti
l’‘io’ separato un mero concetto sovrapposto ad un sempre cangiante
flusso di percezioni.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  69

Inoltre, dato che in realtà non abbiamo alcun controllo


né sui processi fisici, né sulle percezioni, né sulle sensa-
zioni (piacevoli/spiacevoli), e nemmeno sui pensieri e le
emozioni che attraversano la mente, a nessuna di queste
esperienze mutevoli – con cui normalmente ci identifichia-
mo – può di fatto applicarsi la categoria di io/mio (aham/
mama); poiché, d’altro canto, al di là di questi fenomeni
non è rilevabile alcun ‘sé’, ne consegue che l’io indivi-
duale è una mera illusione percettiva costruita dal pensiero
e ‘vuota’ (śūnya) di ogni essenza intrinseca (svabhāva),
mentre la realtà è solo un insieme interdipendente di
processi totalmente impersonali99. La dottrina buddhista
dell’anātman arriva pertanto alla conclusione che l’idea di
un ‘sé’ personale e separato sia soltanto una costruzione
mentale priva di ogni fondamento ontologico, in linea con
la concezione modale e dinamica di un universo totalmen-
te interattivo, in cui le ‘cose’ non sono altro che illusorie
reificazioni di processi inestricabilmente collegati tra loro
in un’unica ‘rete’, in conformità col principio universale
della ‘interdipendenza funzionale’ o ‘co-originazione in-
terdipenente’ (pratitya-saṃutpāda)100.
Riallacciandosi alla tradizione upaniṣadica, l’investi-
gazione del sé condotta dall’advaita-vedānta parte dagli
stessi dati esperienziali di quella buddhista, ma li interpre-
ta in modo diametralmente opposto: alla luce dell’esame
introspettivo, che è in grado di rilevare soltanto fenomeni

99
  Va precisato tuttavia che questa concezione per alcune scuole
buddhiste di stampo più ‘dogmatico’ è una corretta descrizione filosofi-
ca della vera realtà, mentre per altre, con una impostazione più ‘critica’
e ‘pragmatica’, è solo un metodo per decostruire la credenza nell’io/
mio, considerata la fonte primaria di ogni attaccamento, egoismo e sof-
ferenza.
100
 Sul concetto di anātman e sulla vexata quaestio dell’identità
secondo la prospettiva buddhista cfr. Steven Collins, Selfless Persons:
Imagery and Thought in Theravada Buddhism, Cambridge University
Press, Cambridge (MA) 1982; Sue Hamilton, Early Buddhism: A New
Approach: The I of the Beholder, Curzon Press, Richmond, Surrey
2000; Giangiorgio Pasqualotto, Illuminismo e illuminazione. La ragio-
ne occidentale e gli insegnamenti del Buddha, Donzelli, Roma 1997,
pp. 33-53.
70  mauro bergonzi

mutevoli (percezioni, sensazioni, pensieri, ecc.) senza mai


poter individuare un ‘io’ solido e permanente, l’introva-
bilità del sé viene attribuita non già alla sua inesistenza,
bensì al semplice fatto che esso coincide con la coscienza,
la quale – in quanto soggetto di ogni conoscenza – sta sem-
pre dalla parte di chi osserva e non può quindi mai divenire
un oggetto osservabile. Scrive Śaṅkara a questo proposito:
«Il conoscitore non può conoscere se stesso, come il fuoco
non può bruciare se stesso»101. Altrove egli articola il suo
pensiero con una serie di argomentazioni razionali:

Colui che è cosciente di tutte le cose, sarà soltanto cosciente, e


non già oggetto di coscienza, né vi è un secondo cosciente che possa
esser cosciente di tale cosciente. S’esso fosse oggetto di coscien-
za a se stesso, vi sarebbero due ātman: l’uno, di cui il cosciente è
oggetto di coscienza, e l’altro, che è oggetto di coscienza. Ovvero,
l’unico ātman, per divenir cosciente ed insieme oggetto di coscien-
za, sarebbe attraversato da una fenditura come una canna di bambù.
Ora, entrambe queste prospettive sono assurde […]. Inoltre il co-
sciente, mentre è cosciente dell’oggetto di coscienza, non ha tempo
che avanzi per esser cosciente anche di se stesso nel corso di tal
esser cosciente102.

In altri termini, come il fatto stesso che appaiano forme


visibili dimostra inconfutabilmente l’esistenza dell’occhio,
sebbene esso resti sempre al di fuori del proprio campo vi-
sivo, così l’evidente percezione consapevole dei fenomeni
dimostra l’esistenza certa di un sé cosciente, sebbene esso
non possa mai osservare sé stesso come un oggetto.
L’investigazione vedāntica del sé si basa sul presuppo-
sto che l’essenza della nostra vera ‘identità’, come sugge-
risce il termine, consista in ciò che rimane sempre ‘iden-
tico’ a sé stesso, ossia costante attraverso tutte le mutevoli
esperienze che lo attraversano. Il criterio per rispondere
alla domanda «Chi sono io?» diventa dunque la progressi-
va esclusione di tutto ciò che credevo di essere, ma che in
101
  Commento alla Kenopaniṣad II.1 (trad. mia): na hi veditā vedi-
turvedituṃ śakyo ‘gniriva dagdhumagneḥ dagdhuḥ.
102
  Commento all’Aitareyopaniṣad, I.3.13. Cit. in Mario Piantelli,
Śaṅkara e la rinascita del Brāhmanesimo, cit., pp. 132 s.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  71

realtà non appartiene all’essenza della mia vera identità in


quanto va e viene, mentre ‘io’ sono sempre presente.
Alla fine di questa indagine, una volta scartato tutto
ciò che cambia (percezioni, sensazioni, pensieri, ricordi,
ecc.), il residuo che rimane sempre immutato è il fatto puro
e semplice che ‘io’ esisto e sono cosciente. L’essere-co-
scienza (sat-cit) non solo costituisce per l’advaita-vedānta
il vero sé, ma è anche un’evidenza incontrovertibile, per-
ché – come il cogito cartesiano – anche per negarlo devo
prima esistere ed essere cosciente: epistemologicamente,
esso costituisce il presupposto indispensabile di ogni espe-
rienza, dato che niente può apparire se prima non ci sono
‘io’ a percepirlo.
In quanto puro soggetto, il sé costituito di essere-co-
scienza è privo di ogni altra qualificazione: infatti tutti i
tratti che normalmente caratterizzano una specifica ‘per-
sona’ (connotati fisici, atteggiamenti, pensieri, emozioni,
ricordi, ecc.), essendo mutevoli oggetti percepiti dalla co-
scienza, non partecipano della sua vera essenza.
Ma se la mia vera identità è soltanto essere-coscienza
senza attributi, in che modo il ‘mio’ sé è diverso da quello
di un ‘altro’, dal momento che tutto ciò che ci distingue,
essendo percepito, si trova dalla parte degli oggetti di espe-
rienza che non rientrano nell’essenza del sé?
La conclusione dell’advaita-vedānta è radicale: non c’è
alcuna distinzione fra la mia vera identità e quella di un
altro, perché in realtà esiste un unico sé universale (ātman)
essenziato di coscienza e identico al fondamento dell’esse-
re (brahman).
Di conseguenza, l’idea di un ‘io’ individuale e separato
(jiva) è soltanto un’illusione che sorge quando il pensiero
identifica erroneamente la coscienza universale con uno
specifico organismo psico-fisico, le cui mutevoli esperien-
ze vengono osservate dal puro soggetto come semplici
oggetti di percezione: il vero sé è dunque impersonale e
coincide con l’intero universo103.

103
  Si è già visto come anche Schrödinger arrivi a questa stessa con-
clusione. Cfr. supra, pp. 54 ss.
72  mauro bergonzi

L’equazione upaniṣadica ātman = brahman si risolve


così nell’annullamento della falsa dualità di soggetto/og-
getto, a favore di una realtà ineffabile e totalmente inacces-
sibile al pensiero discorsivo.
Ancora una volta, pur percorrendo sentieri antitetici, il
buddhismo e l’advaita-vedānta finiscono per convergere
su una medesima decostruzione del dualismo di soggetto/
oggetto: il primo spogliando il sé di ogni fondatezza onto-
logica, il secondo estendendone i confini fino a farli coin-
cidere con il tutto104.
Per entrambi, inoltre, l’idea di un ‘io’ individuale e se-
parato (fonte di ogni sofferenza) si riduce – per usare la
felice espressione di A. Einstein – a una ‘illusione ottica
della coscienza’, ossia a una mera costruzione del pensie-
ro, che appare e scompare sullo sfondo di una realtà scon-
finata, inconoscibile e impersonale.

Fisica quantistica e percezione dualistica

A questo punto sorge inevitabilmente una domanda:


se – come suggerisce la prospettiva non-dualista presen-
te non solo in diversi indirizzi del pensiero orientale, ma
anche in alcune implicazioni filosofiche desumibili dalla
fisica quantistica – la natura fondamentale della realtà non
si conforma ai principi di località (separazione fra oggetti
localizzati) e di realismo (separazione fra soggetto e og-
getto), allora come si spiega il fatto che ciascuno di noi,
nella propria esperienza quotidiana, ha la netta sensazione

104
  Cfr. David Loy, Nonduality. A Study in Comparative Philosophy,
cit., p. 210: «Buddhism says there is no self, there is only the world (the
dharmas); Śaṅkara says the world is the Self. To say that there is no
self, or that everything is the self [...] both descriptions amount to the
same thing. What is clear in each case is that there is no longer a duality
between an object that is observed and a consciousness that observes it,
or between the external world and the self which confronts it. Neither
tradition is denying one side of the dualistic relation in order to assert
the other relative side. Both are attempts to describe nonduality, and
because each makes absolute a relative term, neither is more or less
satisfying than the other».
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  73

di essere un soggetto contrapposto a un mondo ‘là fuori’,


fatto di oggetti separati e localizzati nello spazio/tempo?
In sintesi, come sorge la comune ‘percezione dualistica’?
Per rispondere a questa domanda, il pensiero non-dua-
lista orientale si concentra sull’analisi fenomenologica dei
processi mentali di percezione-ideazione, mentre le varie
teorie interpretative della fisica quantistica si focalizzano
sull’investigazione del processo di misura, soprattutto nel
passaggio dal livello ‘microscopico’ a quello ‘macrosco-
pico’, senza peraltro aver ancora raggiunto un consenso
unanime in proposito.
L’origine della percezione dualistica viene dunque
spiegata secondo due prospettive diverse, che però, lungi
dall’essere mutualmente esclusive, una volta collegate in-
sieme possono risultare altamente complementari. Nei ter-
mini propri della meccanica quantistica, la domanda viene
espressa con chiarezza da Sabbadini:

Se a livello microscopico il mondo non è realistico-locale, non è


fatto di cose, se lo stato generale di un sistema microscopico è una
sovrapposizione di stati in cui sono compresenti alternative clas-
sicamente incompatibili, come mai il mondo macroscopico di cui
facciamo esperienza ci appare invece solido, fatto di cose localiz-
zate nello spazio e dotate di proprietà ben definite, di cose che si
comportano sotto ogni aspetto – eccetto quando sono sottoposte ai
sofisticati esperimenti della fisica quantistica – come i buoni vecchi
oggetti della fisica classica e della nostra rappresentazione ingenua
del mondo? Il problema posto da questa domanda riguarda il raccor-
do fra due livelli di descrizione della realtà: il livello microscopico
descritto dalla fisica quantistica e il livello macroscopico a cui si ap-
plicano le nozioni del buon senso ordinario e della fisica classica105.

Questo problema risulta di particolare rilevanza
nell’ambito della fisica quantistica, per via del fatto che da
un lato essa possiede un’efficacissima validità predittiva
dei fenomeni (sia pure su base probabilistica), ma dall’al-
tro descrive l’universo in modi quanto mai discordanti dal-

105
  Augusto Shantena Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto, cit.,
p. 116.
74  mauro bergonzi

la nostra usuale percezione della realtà, alla quale si adatta-


no molto meglio i modelli della fisica classica, il che pone
un interrogativo ancor oggi occasione di accesi dibattiti fra
le varie correnti interpretative: le sue formule matematiche
sono veramente una descrizione attendibile del livello fon-
damentale della realtà, oppure sono soltanto formidabili
artifici per predire con estrema precisione l’evolversi degli
eventi osservati?
Per diverso tempo la seconda ipotesi è apparsa più plau-
sibile, grazie al successo ottenuto dalla interpretazione ‘or-
todossa’ di Copenaghen, con la sua rinuncia all’idea che la
fisica quantistica possa accedere a una conoscenza ‘ogget-
tiva’ della realtà.
Ma, con l’accumularsi di nuove evidenze sperimenta-
li e lo sviluppo di teorie interpretative diverse, allo stato
attuale della ricerca l’opinione prevalente è più a favore
della prima ipotesi. Tuttavia, per trovare un raccordo fra la
sovrapposizione di stati (non realistico-locale) del livello
microscopico e l’alternativa classica (realistico-locale) del
livello macroscopico, è inevitabile affrontare quello che è
stato chiamato il ‘problema quantistico della misura’106.
Come si è visto in precedenza, i dati sperimentali mo-
strano che la sovrapposizione di stati e l’entanglement
prevalenti nel livello microscopico dei fenomeni quanti-
stici cedono il passo all’alternativa classica del livello ma-
croscopico quando si effettua una misura su di essi (cioè
quando vengono osservati): tecnicamente, questo passag-
gio viene denominato ‘collasso della funzione d’onda’ o
‘collasso del vettore di stato’107.
Il problema quantistico della misura consiste nel fat-
to che tale collasso è incompatibile con la legge generale
che regola l’evoluzione temporale dei sistemi quantisti-
ci: secondo la linearità di tale legge – fondamentale per
la meccanica quantistica – anche il livello macroscopico
dovrebbe mantenere la stessa sovrapposizione di stati di

  Ivi, pp. 116-140.


106

  Questo concetto è stato introdotto da Heisenberg e formula-


107

to matematicamente da von Neumann, sulla base della equazione di


Schrödinger.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  75

quello microscopico, e nel processo di osservazione l’ap-


parecchio di misura dovrebbe risultare in uno stato di en-
tanglement col sistema osservato.
Nel corso del tempo si sono formate varie contrastanti
interpretazioni della meccanica quantistica per risolvere
questo problema, le quali finiscono necessariamente per
sconfinare sul terreno insidioso delle sue fondamentali
premesse filosofiche. Senza entrare nel dettaglio, è possi-
bile ripartire tali teorie in tre gruppi principali: quelle che
negano alla meccanica quantistica ogni pretesa di poter
descrivere il mondo ‘oggettivamente’, riducendola a mero
artificio matematico dotato soltanto di una pragmatica ef-
ficacia predittiva; quelle secondo cui il collasso del vettore
di stato è un evento che accade realmente nel passaggio
dal livello microscopico al livello macroscopico; e quelle
secondo cui la natura fondamentale della realtà è sempre e
soltanto quella descritta dalla meccanica quantistica, men-
tre il collasso del vettore di stato è solo apparente108.

108
  La teoria più rappresentativa del primo gruppo è l’interpretazio-
ne di Copenaghen; il secondo gruppo contiene diverse teorie, come per
esempio quella di Ghirardi-Rimini-Weber o l’interpretazione di Penro-
se sulla ‘riduzione oggettiva’; nel terzo gruppo prevale la teoria della
decoerenza quantistica, accanto ad altre di minore plausibilità, come
quella del multiverso. Va specificato però che tutte queste diverse inter-
pretazioni riguardano la meccanica quantistica (QM), ma non si appli-
cano necessariamente al punto di vista della teoria dei campi quantistici
(QFT). Fin dal 1928, anno in cui fu redatta l’equazione di Dirac, diversi
ricercatori ritennero che la formulazione teorica della meccanica quan-
tistica, a parte piccoli dettagli formali, fosse ormai quasi conclusa e co-
minciarono sempre più ad occuparsi della teoria dei campi quantistici,
che è la teoria con cui si studia, da allora, la fisica delle particelle, della
materia condensata, e la cosmologia. Non che la meccanica quantistica
non dia o non possa dare ancora ottimi risultati, ad esempio in ottica
quantistica o in altri settori applicativi. Tuttavia, per lo studio di gran
parte dei fenomeni relativi a sistemi aperti (dissipativi), che sono gli
unici sistemi con cui ci si confronta nella realtà, essa deve sempre più
cedere il passo alla teoria dei campi quantistici. L’equazione di Dirac
descrive, ad esempio, non il singolo elettrone, ma un sistema ad infiniti
gradi di libertà che è il campo dell’elettrone, in continua, ineliminabile
interazione con il campo elettromagnetico da esso stesso generato e con
le sue fluttuazioni. Secondo tale prospettiva, non si prende più in consi-
derazione il singolo elettrone libero, che è la soluzione di un’equazione
76  mauro bergonzi

Ulteriori evidenze sperimentali – come le varie versioni


del cosiddetto quantum eraser (‘cancellino quantistico’)109
– hanno mostrato che, senza ricorrere all’idea di un reale
collasso del vettore di stato, la sovrapposizione quantisti-
ca del livello microscopico assume al livello macrosco-
pico l’aspetto di alternativa classica soltanto se permane
una traccia del processo di misura in un qualunque punto
della catena di von Neumann (dagli apparati sperimentali
di laboratorio alla memoria nel cervello dell’osservatore),
mentre resta invariata se la ‘informazione’ del processo di
misura viene successivamente cancellata. Tale cancella-
zione è però di fatto ottenibile solo al livello subatomico
mediante esperimenti assai complessi, perché al livello
macroscopico (in cui tutto viene amplificato e diffuso) è
impossibile che non permanga una sia pur minima traccia
del processo di misura lungo la catena di von Neumann.
Inoltre, siccome gli esperimenti del quantum eraser
evidenziano un fenomeno che può essere esteso a qualun-
que generico processo di osservazione, diventa plausibile
ipotizzare, come fa Sabbadini, che anche la ordinaria per-
cezione dualistica nel mondo macroscopico della nostra
esperienza quotidiana (coincidente con l’alternativa clas-
sica) sia dovuta al fatto che la comune osservazione della
realtà lascia sempre una traccia ‘registrata’ come informa-
zione nel nostro organismo (per esempio nel cervello sotto
forma di memoria):

Non c’è esperienza del mondo senza la formazione di una trac-


cia, senza registrazione di informazione. Come minimo questa trac-
cia include una qualche configurazione di segnali elettrici che viag-
giano nel nostro cervello. Questo fatto fa sì che il mondo esperito ci
appaia oggettivo, ovvero descrivibile in termini di alternative clas-
siche. Quale che sia la natura ultima della realtà, se pure il mondo è
qualcosa come la compresenza di potenzialità descritta dalla fisica
quantistica, questa compresenza è velata dalla persistenza dell’in-

lineare come quella di E. Schrödinger, e di conseguenza perdono rile-


vanza, oltre alla linearità dell’equazione, anche il principio di sovrappo-
sizione ad essa conseguente, la funzione d’onda e il suo collasso.
109
  Cfr. Augusto Shantena Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto,
cit., pp. 131-136.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  77

formazione in ogni nostra esperienza. […] Il mondo, come abbiamo


visto, non è locale, non è fatto di cose e non è fatto di alternative
classiche. Ma ci appare come fatto di cose, ci appare come fatto di
alternative classiche, perché ogni esperienza comporta la formazio-
ne di una traccia. L’apparenza di un mondo oggettivo discende da
una caratteristica essenziale del processo del conoscere: è una con-
seguenza del nostro essere soggetti incarnati nel mondo110.

Altre teorie interpretative – meno diffuse fra i fisici
quantistici per via dell’ipotesi di stampo ‘idealista’ secon-
do cui sarebbe la coscienza stessa dell’osservatore a causa-
re il collasso del vettore di stato – sostengono che, durante
il processo di misura, la sovrapposizione di stati si mantie-
ne lungo tutti i sistemi fisici della catena di von Neumann,
cedendo il passo all’alternativa classica solo quando una
coscienza osserva il risultato finale111, oppure postulano
addirittura l’esistenza di un ‘osservatore universale’ al di
fuori dello spazio/tempo112.

Pensiero non-dualista orientale e percezione dualistica

Partendo dalla premessa fondamentale che in realtà


non esistono effettive separazioni, il pensiero non-dualista
orientale ritiene che la percezione apparentemente ‘duali-
stica’ della comune esperienza ordinaria, lungi dall’essere
diretta e immediata, venga ‘costruita’ in base ai processi
linguistico-concettuali (vikalpa) del pensiero. Su questo
punto quasi tutti i sistemi non-dualisti orientali convergo-

110
  Ivi, pp. 137 s.
111
  Questa interpretazione della fisica quantistica risale originaria-
mente a Eugen Wigner e John von Neumann, i quali la proposero fin dai
primi anni Trenta del Novecento.
112
  Vedi, per esempio, Amit Goswami – Richard E. Reed – Maggie
Goswami, The Self-Aware Universe: How Consciousness Creates The
Material World, Jeremy Tarcher/Putnam Books, New York 1993; Ashok
Narasimhan – Menas C. Kafatos, Wave-particle Duality, the Observer
and Retrocausality, disponibile a questo indirizzo: <https://www.sci-
enceandnonduality.com/?post_type=post&p=100895> (ultimo accesso:
1 settembre 2018).
78  mauro bergonzi

no non solo tra loro, ma anche con la consolidata corrente


filosofica occidentale denominata ‘costruttivismo’113.
Infatti, nel tentativo di superare il dubbio radicale di
Cartesio (che aveva messo seriamente in discussione la co-
noscibilità del reale), già il criticismo kantiano aveva do-
vuto ammettere che la ‘cosa in sé’ (noumeno) è al di là di
ogni conoscenza diretta: l’essere umano può soltanto per-
cepire ciò che di essa ‘appare’ (fenomeno) dopo che i suoi
dati siano stati ordinati e organizzati attraverso categorie a
priori dell’intelletto (soggettive, ma universali) compren-
denti anche il tempo, lo spazio e la causalità114.
In seguito, con Wittgenstein e la filosofia analitica,
l’investigazione delle strutture che plasmano la percezio-
ne della realtà si è focalizzata sul linguaggio: è apparso
sempre più evidente che la comune esperienza della realtà
non è affatto ‘immediata’ e ‘diretta’, bensì ‘costruita’ attra-
verso i filtri linguistico-concettuali del pensiero, secondo
una prospettiva denominata appunto ‘costruttivismo’, che
ha ricevuto continue conferme – anche sul piano sperimen-

113
  Per un’analisi comparativa fra il costruttivismo filosofico occi-
dentale e il pensiero sapienziale indiano in riferimento all’esperienza
mistica, cfr. Mauro Bergonzi, Riflessioni sulla psicologia del mistici-
smo, cit., pp. 241-255.
114
  È evidente qui la convergenza fra il criticismo kantiano e alcune
forme di non-dualismo orientale di cui vedremo a breve alcuni esempi.
Tuttavia Kant crede di poter dimostrare l’esistenza di una ‘cosa in sé’ (il
noumeno) al di là dell’esperienza (il fenomeno) ricorrendo ad argomen-
tazioni basate sul principio di causalità, il quale però, per sua stessa am-
missione, appartiene unicamente alla sfera dell’esperienza fenomenica,
per cui questa impropria estensione del principio di causa/effetto oltre
il suo legittimo orizzonte applicativo vanifica la certezza dell’esistenza
di un noumeno oltre il fenomeno: infatti, secondo il pensiero critico di
stampo empirista che accomuna lo scetticismo di Hume e l’idealismo
di Berkeley, è impossibile dimostrare l’esistenza di una realtà esterna
all’esperienza. Al contrario di Kant, invece, diverse forme di non-dua-
lismo indiano, come per esempio l’advaita-vedānta e il buddhismo cit-
tamātra, mantengono il proprio pensiero razionale saldamente ancora-
to all’equazione esperienza = realtà, intesa come non-separazione fra
coscienza e universo, il cui fondamento ultimo resta inaccessibile alla
conoscenza concettuale e dunque, a differenza del noumeno, non è solo
impercettibile, ma anche impensabile.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  79

tale – dalle scienze neuro-cognitive115. Non esistono dun-


que percezioni ‘pure’, ossia ‘non mediate’ dal pensiero: il
background culturale, linguistico e concettuale condizio-
na, plasma, costruisce e media ogni esperienza.
Di conseguenza, da un lato non è possibile percepire
distintamente ciò per cui non si possiede una precisa de-
signazione verbale, e dall’altro tutto ciò che si percepisce
attraverso nomi diversi appare frammentato in una serie di
entità discrete. Nel campo della linguistica, queste idee ri-
entrano nell’ambito della cosiddetta ‘ipotesi Sapir-Whorf’,
che Benjamin L. Whorf preferiva chiamare ‘principio di
relatività linguistica’ in quanto, a suo avviso, comportava
implicazioni simili a quelle della teoria della relatività di
Einstein:

We say ‘See that wave’. [...] But without the projection of lan-
guage no one ever saw a single wave. [...] Scientists, as well as all,
unknowingly project the linguistic patterns of a particular type of lan-
guage upon the universe, and SEE them there, rendered visible on the
very face of nature. [...] Segmentation of nature is an aspect of gram-
mar. [...] We cut up and organize the spread and flow of events as
we do, largely because, through our mother language, we are parties
to an agreement to do so, not because nature itself is segmented in
exactly that way for all to see [...]. We dissect nature along lines laid
down by our native languages. The categories and types that we iso-
late from the world of phenomena we do not find there because they
stare every observer in the face; on the contrary, the world is presen­
ted in a kaleidoscopic flux of impressions which has to be organized
by our minds – and this means largely by the linguistic systems in our
minds. We cut nature up, organize it into concepts and ascribe signifi-
cances as we do, largely because we are parties to an agreement to or-
ganize it in this way – an agreement that holds throughout our speech
community and is codified in the patterns of our language. [...] We

115
  La percezione visiva, per limitarci ad un solo esempio, organizza
le frequenze elettromagnetiche della luce – che stimolano il nervo otti-
co – in immagini ‘costruite’ da complessi processi cognitivi che com-
prendono la contrapposizione figura/sfondo, il senso della prospettiva,
il riconoscimento linguistico, ecc. Cfr. William H. Ittelson – Franklin P.
Kilpatrick, Experiments in Perception, in «Scientific American», 185
(1951), pp. 50-55; Ulric Neisser, The Processes of Vision, in «Scientific
American», n. 219 (1968), pp. 204-214.
80  mauro bergonzi

are constantly reading into nature fictional acting entities, simply be-
cause our verbs must have substantives in front of them. We have to
say [...] ‘A light flashed’, setting up an actor, [...] ‘light’, to perform
what we call an action, ‘to flash’. Yet the flashing and the light are
one and the same! [...] By these more or less distinctive terms we as-
cribe a semifictitious isolation to parts of experience. English terms,
like ‘sky, hill, swamp’, persuade us to regard some elusive aspect of
nature’s endless variety as a distinct THING. [...] Thus English and
similar tongues lead us to think of the universe as a collection of ra­
ther distinct objects and events corresponding to words116.

In altri termini, il pensiero assegna, attraverso il lin-


guaggio, nomi specifici ai vari aspetti dell’insieme indi-
visibile chiamato ‘universo’, originando la percezione
illusoria di molteplici forme non solo diverse, ma anche
separate tra loro.
Ogni parola diventa così una ‘cornice’ che traccia un
confine arbitrario intorno a un singolo aspetto del tutto, di-
stinguendo un ‘dentro’ contrapposto a un ‘fuori’ e generan-
do l’illusione che quella specifica forma (per esempio una
‘mela’) sia indipendente e separata dalle altre forme desi-
gnate con nomi diversi (‘fiore’, ‘ramo’, ‘albero’, ‘seme’,
‘terra’, ‘acqua’, ‘nuvola’, ‘sole’ e così via), mentre appar-
tengono tutte a un unico processo integrato, che chiamia-
mo ‘universo’.
Inoltre i nomi sono statici, incapaci di cogliere il movi-
mento: la loro ‘cornice’ isola i vari aspetti della realtà non
solo nello spazio, ma anche nel tempo, rendendoli ‘fissi’
proprio come fa la fotografia quando, per esempio, è co-
stretta a ritrarre la corsa di un unico uomo con tante foto
diverse di uomini immobili.
Così, attraverso il linguaggio, viene scambiata per realtà
una sua inadeguata descrizione fatta di molteplici entità fisse
e separate, mentre l’universo è un unico processo che appare
come una fantasmagoria di aspetti diversi, ma non separati.

116
  Benjamin L. Whorf, Language, Thought, and Reality: Selected
Writings of Benjamin Lee Whorf, ed. by John B. Carroll, MIT Press,
Cambridge (MA) 1956, pp. 262 s., trad. it. di Francesco Ciafaloni, Lin-
guaggio, pensiero e realtà: Benjamin Lee Whorf, Boringhieri, Torino
1970.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  81

Nel pensiero non-dualista indiano, l’arcaico precursore


di questa prospettiva costruttivista è il concetto di nām-
a-rūpa. Nāma significa ‘nome’ e rūpa ‘forma percepibi-
le’. I due termini sanscriti sono uniti in un solo composto
per indicare che si può percepire soltanto ciò per cui si ha
un nome: nessun nome, nessuna forma; molti nomi, molte
forme. Pertanto la percezione di molteplici entità separate
deriva dal linguaggio, come è scritto nell’antica Bṛhadā-
raṇyaka Upaniṣad:

Tutto l’universo era un tempo indifferenziato. Fu poi reso distin-


to secondo il nome e la forma [nāma-rūpa] con le parole: ‘Questi si
chiama così, costui ha questa determinata forma’. Ancor oggi tutto
[l’esistente] si distingue secondo il nome e la forma […]. Ed egli
(l’ātman) vi è penetrato fino alla punta delle unghie. Come un raso-
io nascosto nel fodero, […] egli non si vede. Soltanto parziale è [la
sua apparizione]: quando respira si chiama respiro, quando parla,
voce, quando vede, occhio, quando ode, orecchio, quando pensa,
mente. Ma queste sono soltanto denominazioni per le [sue] attività.
Colui che lo venera in una singola apparizione, non lo conosce ve-
ramente: soltanto parzialmente infatti egli compare nelle sue singole
[manifestazioni]. Bisogna venerarlo sotto forma di ātman: e allora
tutte le varie [manifestazioni] si unificano. Quello che è l’ātman
[dentro di noi] è la traccia che permette di giungere all’intero uni-
verso: per suo tramite infatti si conosce tutto l’universo117.

Volendo cercare un equivalente di questa concezione


nell’antico pensiero non-dualista cinese, un’idea analoga
compare fin dai primi versi del Daodejing di Laozi, con-
siderato tradizionalmente la fonte originaria del taoismo:

Il Dao di cui si può parlare non è l’eterno Dao.


I nomi che si possono nominare non sono nomi eterni.
Senza nome, l’origine di cielo e terra.
Con nome, la madre dei diecimila esseri118.

117
  Bṛhadāraṇyakopaniṣad I.4.7 (Upaniṣad, qui nella trad. it. di
Carlo Della Casa, UTET, Torino 1976, pp. 71 s.).
118
 Laozi, Daodejing, I. (cfr. Lao Tzu, Tao Te Ching, trad. it. cit.,
pp. 39-43).
82  mauro bergonzi

Col passare del tempo, il pensiero indiano ha elabora-


to un’epistemologia dell’esperienza ordinaria sempre più
complessa e articolata, secondo cui la comune percezio-
ne della realtà (solo apparentemente diretta e immediata)
risulta ‘costruita’ e largamente condizionata dall’apparato
linguistico-concettuale119 e da impulsi inconsci120 che la fil-
trano, plasmano e distorcono in base a cognizioni, opinio-
ni, emozioni, automatismi, intenzioni e aspettative.
Secondo la filosofia dell’advaita-vedānta, per esempio,
l’esperienza ordinaria (verrebbe da dire ‘newtoniana’) di
molteplici entità separate e interagenti nello spazio-tem-
po in base al principio di causalità, si fonda su un’illusio-
ne percettiva (proprio come il senso di prospettiva nella
vista), dovuta al fatto che il pensiero discorsivo proiet-
ta sulla realtà una mera descrizione convenzionale che
viene poi scambiata per la realtà stessa. Di conseguenza,
l’ingannevole percezione della molteplicità è dovuta alla
‘sovrapposizione’ (adhyāsa) di complesse griglie lingui-
stico-concettuali (vikalpa) sulla realtà non-duale, confi-
nandola apparentemente entro ‘limiti’ (upādhi) illusori
che, pur esistendo soltanto nella mente, plasmano l’espe-
rienza in modo tale da far sembrare reale una pluralità di
oggetti separati.
Nel suo commento ai Brahmasūtra, Śaṅkara descri-
ve la percezione ordinaria come una ‘sovrapposizio-
ne’ (adhyāsa) di passati contenuti mnemonici sulla viva
119
  Nelle fonti indiane, i termini più ricorrenti per indicare il con-
dizionamento linguistico-concettuale sono nāma-rūpa (‘ideazione-per-
cezione’), vikalpa (il dispiegarsi dei filtri linguistico-concettuali che
‘costruiscono’ la percezione), vijñāpti (la ‘designazione cognitiva’ che
conferisce un nome alle cose, differenziandone la percezione), prapāñca
(la proliferazione discorsiva, immaginativa ed emotiva dei pensieri),
upādhi (le ‘limitazioni’ attraverso cui la mente frammenta l’indivisa
totalità del reale in entità discrete e separate), adhyāsa (la ‘sovrapposi-
zione’ dei filtri concettuali sulla realtà, che ne viene limitata e distorta).
120
  I termini più comunemente usati nei testi indiani per indicare
questi fattori sono saṃskāra (impulsi e coefficienti mentali che con-
dizionano le dinamiche psichiche), vasanā (‘impregnazioni’ psichiche
e predisposizioni del passato), kleśa (contaminazioni mentali), bha-
vanga-sota (flusso psichico inconscio), anusaya (inclinazioni latenti o
‘dormienti’).
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  83

realtà del presente, che la fa apparire diversa da com’è:


«[adhyāsa] è l’apparente presentarsi (avabhāsa) [alla co-
scienza], sotto forma di memoria (sṃṛtirūpah), di qualcosa
percepito precedentemente (pūrvadṛṣṭa) su qualcos’altro
(paratra)»121.
In tal modo l’indivisibile realtà non-duale appare come
una molteplicità di entità discrete, limitate dalle rispettive
designazioni verbali: le ‘sovrapposizioni’ (adhyāsa) e le
‘limitazioni’ (upādhi) operate attraverso nomi e concetti
danno origine all’illusione di māyā.
Nel caso del buddhismo, fin dall’antico canone in lingua
pāli l’analisi fenomenologica della percezione descrive nel
dettaglio come l’immediato contatto sensoriale (phassa)
venga sottoposto istantaneamente a un processo di costru-
zione ed elaborazione attraverso i filtri linguistico-concet-
tuali ed emotivi accumulati nella memoria, in una rapida
successione di fasi sempre più complesse che traducono,
interpretano e distorcono i dati percettivi122. Tale processo
viene per esempio così descritto nel Madhupiṇḍikasutta:

121
  Śankara, Brahmasūtrabhāśya, I. 1 (trad. mia). Per una spiegazi-
one più articolata sul senso di questo passo, cfr. Eliot Deutsch, Advaita
Vedānta, cit. pp. 33 s.: «Superimposition takes place, then, when the
qualities of one thing not immediately present to consciousness are,
through memory, given to, or projected upon, another thing that is pres-
ent to consciousness and are identified with it. In the stock example
of the rope and the snake, the rope (the thing immediately present to
consciousness) is taken as a snake through the erroneous attribution of
qualities remembered from previous perceptions».
122
  Non a caso gli studi sulla psicologia buddhista hanno rilevato
significative convergenze con le scienze cognitive: cfr. Guy Claxton,
Meditation in Buddhist Psychology, in The Psychology of Meditation,
ed. by Michael A. West, Clarendon Press, Oxford 1987, pp. 23-38; Id.,
Neurotheology: Buddhism, Cognitive Science and Mystical Experience,
in The Psychology of Awakening: Buddhism, Science, and Our Day-
to-Day Lives, ed. by Gay Watson – Stephen Batchelor – Guy Claxton,
Rider, London 1999, pp. 90-111; Michael M. Delmonte, Me­ditation:
Contemporary Theoretical Approaches, in The Psychology of Medita-
tion, cit., pp. 39-53; Susan Blackmore, Who Am I? Changing Models of
Reality in Meditation, in Beyond Therapy: The Impact of Eastern Reli-
gions on Psychological Theory and Practice, ed. by Guy Claxton, Wis-
dom Publications, London 1986, pp. 70-85; James Low, The Structures
of Suffering: Tibetan Buddhist and Cognitive-Analytic Approaches, in
84  mauro bergonzi

In connessione condizionata (paticca) con l’occhio e la forma


visibile, sorge la coscienza visiva (cakkhu-viññāṇa). Da questi tre
si forma il contatto sensoriale (phassa). In connessione condizio-
nata col contatto, sorge la sensazione (vedanā). Ciò che si sente
(vedeti), quello si percepisce (sañjānāti). Ciò che si percepisce,
quello si dipana nel pensiero discorsivo (vitakketi). Ciò che si di-
pana nel pensiero discorsivo, quello si dispiega nelle prolifera-
zioni proiettivo-concettuali (papañceti). Ciò che si dispiega nelle
proliferazioni proiettivo-concettuali, dà origine all’irruzione di in-
numerevoli proliferazioni cognitive e percettive (papañca-saññā-
sankā) sotto forma di cognizioni visive appartenenti a passato,
presente e futuro123.

L’analisi particolareggiata della ‘costruzione’ percettiva


sarà in seguito sviluppata a livelli speculativi di estrema
complessità dagli epistemologi buddhisti Dignāga e Dhar-
makīrti124, ma le idee di base compaiono regolarmente
anche in molti famosi Sūtra del mahāyāna. Specialmente
il Lankāvatārasūtra osserva che le categorie di pensiero
attraverso cui si struttura la nostra esperienza della realtà
vengono stabilite dal linguaggio, in perfetta sintonia con
la prospettiva costruttivista125. La principale funzione del
vikalpa consiste proprio nel separare le ‘cose’ tramite nomi
diversi: «Per vikalpa si intende ciò attraverso cui si stabili-
scono i nomi in modo da indicare le apparenze»126.

The Psychology of Awakening, cit., pp. 250-270; John Pickering, Self-


hood is a Process, in The Authority of Experience: Essays on Buddhism
and Psychology, ed. by John Pickering, Curzon Press, Richmond, Sur-
rey 1997, pp. 152-169; Brian L. Lancaster, The Mythology of anatta:
Bridging the East-West Divide, in The Authority of Experience, cit., pp.
173-202.
123
  Majjhima Nikāya, I, 112; Sutta n. 18 (trad. mia). Per un’ap-
profondita analisi di questi aspetti nel buddhismo antico, cfr. Bhikkhu
Ñāṇananda, Concept and Reality in Early Buddhist Thought, Buddhist
Publication Society, Kandy 1971.
124
  Cfr. Theodore Stcherbatsky, Buddhist Logic, Mouton, Den Haag
1958.
125
  Sulle convergenze fra il Lankāvatārasūtra e il costruttivismo cfr.
Robert K.C. Forman, Mysticism, Mind, Consciousness, State University
of New York Press, Albany (NY) 1999, pp. 82 s.
126
  Lankāvatārasūtra, VI. 83 (trad. mia). Il termina sanscrito vikal-
pa è formato dal prefisso distributivo vi- e dalla radice √kḷp, che si-
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  85

Pur condividendo le stesse premesse, il costruttivismo


occidentale e il pensiero sapienziale indiano divergono
tuttavia su un punto fondamentale: mentre per il primo
(almeno nelle sue espressioni più diffuse) non è possibile
altra conoscenza del reale se non quella ‘costruita’ dall’ap-
parato linguistico-concettuale, per il secondo riconoscere
i limiti del pensiero discorsivo e delle apparenze da esso
generate dischiude l’accesso all’intuizione immediata e
non-concettuale della ‘realtà ultima’, identificata spesso
con una pura coscienza non-duale. È scritto ancora nel
Lankāvatārasūtra:

Language is not the ultimate truth; [...] by means of speech one


can enter into the truth, but words themselves are not the truth. It is
the self-realization inwardly experienced by the wise through their
supreme wisdom, and does not belong to the domain of words,
discrimination, or intelligence; and, therefore, discrimination does
not reveal the ultimate truth itself. [...] Words are incapable of pro-
ducing it, and again as the ultimate truth is in conformity with the
view that the visible world is no more than our own mind, and as
there are no such external objects appearing in their multifarious
aspects of individuation, the ultimate truth is not subject to discri-
mination127.

Le due principali scuole filosofiche del buddhismo
mahāyāna, fatte salve le notevoli differenze dottrinali che
le separano, concordano entrambe su questo punto: una
volta ‘decostruita’ la percezione condizionata dal pensiero
discorsivo, ciò che resta è l’ineffabile realtà non-duale, li-
bera da ogni separazione.
Nāgārjuna128, il fondatore della scuola madhyamika,
dopo aver tracciato la distinzione fra il livello di esperien-

gnifica ‘formare’, ‘costruire’: vikalpa indica il dispiegarsi delle griglie


linguistico-concettuali che organizzano, strutturano e ‘costruiscono’ la
percezione dualistica della realtà.
127
  Citato in Daisetz T. Suzuki, Studies in the Lankāvatāra Sūtra,
Routledge & Kegan Paul, London 1968, pp. 244 s.
128
  Sulla filosofia di Nāgārjuna cfr. Tirupattur R.V. Murti, The Cen-
tral Philosophy of Buddhism: A Study of the Mādhyamika System, Allen
& Unwin, London 1955, trad. it. di Fabrizio Pregadio, La filosofia cen-
trale del buddhismo, Ubaldini, Roma 1983; Musashi Tachikawa, An In-
86  mauro bergonzi

za ‘relativo’ (sāṃvṛti) o ‘convenzionale’ (vyavahārika),


accessibile al linguaggio e al pensiero, e quello ‘assoluto’
(paramārtha) della vera realtà oltre la portata del pensiero
discorsivo129, così scrive:

Cessata la sfera della mente (citta-gocara), anche ciò che può


essere designato verbalmente (abhidātavya) viene a cessare. Come
il nirvāṇa, la natura del reale (dharmatā) è senza inizio (anutpanna)
e senza fine (aniruddha)130.

Non correlata ad altro (apara-pratyaya), pacificata (śānta), non


dispersa nelle proliferazioni proiettivo-concettuali (aprapañcita),
libera dalle discriminazioni linguistico-concettuali (nirvikalpa), non
diversificata (anānārtha): ecco i contrassegni della realtà131.

Per la scuola madhyamika132 il pensiero discorsivo è ap-


plicabile soltanto al livello di verità relativa o convenzio-
nale (sāṃvṛti-satya), mentre diventa il principale ostacolo
alla liberazione quando pretende di cogliere la verità asso-
luta (paramārtha-satya) attraverso le proprie ‘convinzioni’
(dṛśti)133.
La tendenza ‘costruttivista’ del buddhismo mahāyāna
culmina nella scuola cittamātra134, secondo cui esistono tre

troduction to the Philosophy of Nāgārjuna, Motilal Banarsidass, Delhi


1977; Christopher Lindtner, Nagarjuniana: Studies in the Writings and
Philosophy of Nāgārjuna, Motilal Banarsidass, Delhi 1987.
129
  Cfr. Nāgārjuna, Madhyamakakārikā, XXIV, 8-10.
130
  Ivi, XVIII. 7 (trad. mia)
131
  Ivi, XVIII. 9 (trad. mia).
132
  Sugli sviluppi storici del pensiero madhyamika cfr. Richard H.
Robinson, Early Mādhyamika in India and China, Motilal Banarsidass,
Delhi 1976; Peter Della Santina, Madhyamaka Schools in India, Motilal
Banarsidass, Delhi 1986.
133
  Nāgārjuna riprende dal buddhismo delle origini la critica a tutte
le ‘convinzioni’ (sanscrito: dṛśti; pāli: ditthi), particolarmente attestata
nel Suttanipāta, uno dei testi più antichi del canone pāli. Cfr. Luis O.
Gomez, Proto-mādhyamika in the Pāli Canon, in «Philosophy East and
West», XXVI, 2 (1976), pp. 137-165.
134
  Altrimenti denominata yogācāra, vijñāṇāmātra o vijñāptimātra.
Per un’introduzione generale a questa scuola di pensiero buddhista
cfr. Ashok K. Chatterjee, The Yogācāra Idealism, Motilal Banarsidass,
Delhi 1975; Gadjin M. Nagao, Mādhyamika and Yogācāra, Sri Satguru
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  87

distinti livelli di esperienza (trisvabhāva): quello ‘costru-


ito’ (parikalpita) dalle discriminazioni linguistico-concet-
tuali, in cui appare come reale l’illusoria percezione del
dualismo fra ‘io’ e ‘mondo esterno’, ossia fra ‘soggetto’
(grāhaka) e ‘oggetto’ (grāhya); quello ‘interdipendente’
(paratantra), in cui si evidenzia l’indissolubile intercon-
nessione fra i costrutti mentali e gli ‘oggetti’ solo apparen-
temente ‘esterni’; quello ‘assoluto’ (pariniṣpanna), in cui
la vera realtà non-duale coincide con una coscienza priva
della contrapposizione fra soggetto e oggetto135.
Attraverso la consapevolezza critica del processo costrut-
tivista favorita dalla meditazione, si sospende la tendenza
della mente a oggettivare un mondo ‘esterno’ separato dal-
la coscienza, annullando così il falso dualismo fra soggetto
(grāhaka) e oggetto (grāhya). Scrive Vasubandhu:

Qualsiasi sfera di esperienza (vastu) venga rappresentata discor-


sivamente (vikalpyate) attraverso costruzioni linguistico-concettua-
li (vikalpa), ha soltanto una natura (svabhāva) costruita dalla mente
(parikalpita) e non esiste in realtà136.

Quando la coscienza (vijñāṇa) non apprende più (na upalabha-


te) alcun oggetto (alambhana), allora dimora nello stato di pura co-
scienza (vijñāṇamātra), poiché, in assenza di un oggetto percepibile
(grāhya), non c’è più alcuna percezione (grāha) di esso. Senza men-
te (acitta) e senza percezione (anupalambha), così è la conoscenza
(jñāṇa) che trascende il mondo condizionato (lokottara)137.

Publications, Delhi 1991. Sulle convergenze fra questo indirizzo filo-


sofico (con particolare riferimento a Paramārtha) e il costruttivismo,
cfr. Robert K.C. Forman, Paramārtha and Modern Constructivists on
Mysticism: Epistemological Monomorphism versus Duomorphism, in
«Philosophy East and West», XXXIX, 4 (1989), pp. 393-418, e Id.,
Mysticism, Mind, Consciousness, cit., pp. 81-92. Più in generale sul
concetto di ‘mente’ e ‘coscienza’ nel buddhismo antico cfr. Rune E. A.
Johansson, Citta, Mano, Viññāṇa: A Psychosemantic Investigation, in
«The University of Ceylon Review», XXIII, 1-2 (1965), pp. 163-215.
135
 Sui trisvabhāva cfr. Paul Williams, Mahāyāna Buddhism, cit.,
pp. 82-85.
136
  Vasubandhu, Triṃśikākārikā, 20 (trad. mia).
137
  Ivi, 28-29 (trad. mia).
88  mauro bergonzi

Questi ultimi cenni alla filosofia della scuola cittamātra


riportano dunque al centro della nostra indagine il contro-
verso concetto di ‘coscienza’.

Il problema della coscienza

Alla luce di tutte le considerazioni svolte sin qui, è in-


negabile che il nuovo paradigma scientifico fondato sulla
concezione di un universo totalmente integrato, interatti-
vo e soltanto per convenzione sezionabile in astratte parti
separate (attraverso le ‘misurazioni’ del pensiero) presenti
notevoli affinità con la prospettiva non-dualista: una volta
messe da parte le griglie linguistico-concettuali attraver-
so cui la mente sovrappone confini apparenti alla realtà,
creando la falsa percezione di entità separate, prevale la
visione di un tutto indivisibile, in cui anche l’illusoria se-
parazione fra soggetto e oggetto si dissolve nell’identità fra
coscienza e realtà.
Da questo punto di vista, per mantenere la propria ‘og-
gettività’ e coerenza interna, il metodo scientifico deve
ricorrere all’artificio convenzionale di studiare ciò che
osserva come se fosse veramente indipendente e separato
dall’osservatore. Ma il costo di questa inevitabile astrazio-
ne è un ben preciso limite epistemologico: la visione della
realtà che ne deriva sarà sempre incompleta, in quanto ap-
punto confinata solo nell’ambito degli oggetti osservabili,
da cui resta comunque escluso l’osservatore, ossia la co-
scienza. Ogni procedura di indagine scientifica, per restare
valida, non può che avvenire entro l’orizzonte di questa
coscienza, che resta sempre a monte rispetto a tutte le og-
gettivazioni operate dalla ricerca scientifica138.

138
  Cfr. Erwin Schrödinger, Lo spirito della scienza, in L’immagi-
ne del mondo, trad. it. cit., p. 93: «L’oggetto della scienza è la natura
nel senso più lato [...]. Il soggetto di ogni scienza è sempre lo spirito
[…]. D’altra parte, non ci aspetteremo che la scienza ci dia un’indica-
zione diretta su ciò che è in realtà lo spirito: non potremo sperare di
poterne investigare la natura, per quanto vasto sia ciò che ricaviamo
dalla fisica e dalla chimica di quei processi materiali al cui decorso si
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  89

In altri termini, dato che siamo inseparabili dall’uni-


verso e che in esso si manifesta il fenomeno della co-
scienza, il processo di osservazione può essere descritto
in due modi diversi, ma equivalenti: possiamo dire (dal
punto di vista del dualismo) che noi osserviamo la real-
tà, oppure (dal punto di vista del non-dualismo) che l’u-
niverso sta osservando sé stesso attraverso noi. Questa
seconda prospettiva implica che ogni sistema totale, per
osservare sé stesso, deve sempre suddividersi in una parte
osservante e una parte osservata (soggetto e oggetto); ma
la parte osservante, mentre osserva, non può mai osser-
vare sé stessa, come spiega brillantemente George Spen-
cer-Brown:

Let us then consider, for a moment, the world as described


by the physicist. It consists of a number of fundamental particles
which, if shot through their own space, appear as waves […]. Now
the physicist himself, who describes all this, is, in his own account,
himself constructed of it. He is, in short, made of a conglomeration
of the very particulars he describes […]. Thus we cannot escape the
fact that the world we know is constructed in order (and thus in such
a way to be able) to see itself. […] But in order to do so, evidently
it must first cut itself up into at least one state which sees, and at
least one other state which is seen. In this severed and mutilated
condition, whatever it sees is only partially itself. We may take it
that the world undoubtedly is itself […], but, in any attempt to see
itself as an object, it must, equally undoubtedly, act so as to make
itself distinct from, and therefore false to, itself. In this condition it
will always partially elude itself139.

collegano oggettivamente la percezione e il pensiero; né avremo da


temere che una conoscenza per quanto esatta del meccanismo e delle
leggi di questi processi – una conoscenza, il cui soggetto è e resta
sempre lo spirito – possa vincolare lo spirito stesso, cioè a costringer-
ci […] a considerare la sua partecipazione alla vita come ‘meccani-
camente predestinata’, forse perché si manifesta con fatti fisiologici
meccanicamente predestinati, soggetti alle leggi della natura. Una
tale conclusione sarebbe una παράβασις εἴς ἄλλο γένος, una trasposi-
zione delle qualità dell’oggetto al soggetto, riprovata con ragione da
Ṡaṅkara come completamente errata».
139
  George Spencer-Brown, Laws of Form, Julian Press, New York
1972, pp. 104 s.
90  mauro bergonzi

Dunque ogni sistema auto-osservante implica sempre


un ‘residuo’ che resta inconoscibile, vale a dire la co-
scienza. Infatti qualsiasi osservazione o teoria riguardo
alla realtà ‘oggettiva’ non può mai includere la coscienza,
che è la sorgente stessa di ogni osservare o teorizzare140:
essa non può mai essere ‘osservata’ o ‘conosciuta’ per-
ché è situata sempre a monte di ciò che si osserva e si
conosce141. Ne consegue che è impossibile per la scienza
studiarla ‘oggettivamente’ (descrivendola in terza perso-
na), perché si dà sempre in prima persona, ed è proprio
questo il suo tratto distintivo: ogni volta che la scienza
tenta di esaminare la coscienza, è costretta a includerla
nel campo degli oggetti osservati, falsandone la natura
essenziale di soggetto osservante, attraverso un cortocir-
cuito epistemologico. Proprio in ragione di ciò, lo stu-
dio della coscienza è diventato per la scienza non tanto
un hard problem, quanto un unsolvable problem, o – per
usare una felice espressione di Michel Bitbol142 – il suo
‘punto cieco’.
Una delle teorie attualmente più diffuse nel campo
delle scienze neuro-cognitive considera la coscienza una
proprietà secondaria che ‘emerge’ – oltre un certo gra-
do di complessità – da un supporto materiale organico
chiamato cervello’. Tuttavia il ricorso alla teoria emer-

140
  Questa prospettiva epistemologica presenta una corrisponden-
za ‘analogica’ col secondo teorema di incompletezza di K. Gödel nel
campo logico-matematico e col ‘principio di indeterminazione’ di W.
Heisenberg nel campo della fisica subatomica: vedi supra, pp. 39 ss.
Evidente è anche la convergenza con il pensiero śaṅkariano intorno
all’inconoscibilità dell’ātman: vedi supra, pp. 30 s.
141
  Cfr. Franco Bertossa – Roberto Ferrari, Lo sguardo senza oc-
chio, cit.
142
  Cfr. Michel Bitbol, À propos du point aveugle de la science, in
Science, conscience et environnement. Penser le monde complexe, ed.
par Gérald Hess – Denis Bourg, Presses Universitaires de France, Paris
2016.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  91

gentista143 è in questo caso inappropriato per più di una


ragione144.

143
  L’‘emergentismo’ è in generale una prospettiva filosofica secondo
cui da un insieme interconnesso di elementi semplici emergono proprietà
nuove che non sono presenti nei singoli componenti, in linea con un’idea
di base condivisa anche dalla teoria generale dei sistemi e dalla psicolo-
gia della Gestalt: l’insieme delle parti è più della loro somma. Da questo
punto di vista, la teoria emergentista è già stata proficuamente applicata
in molti campi della scienza, dall’etologia alla cibernetica, dalla biolo-
gia alla chimica, dalle neuroscienze alla sociologia. Per esempio, mentre
l’osservazione isolata di una formica come individuo biologico mostra
comportamenti abbastanza stereotipati e prevedibili, lo studio dell’intero
formicaio come se fosse un unico animale rivela invece l’‘emergere’ di
comportamenti assai più intelligenti, imprevedibili ed adattativi rispetto
a quelli delle singole formiche. La stessa cosa di fatto si può dire delle
prestazioni del cervello nel suo complesso rispetto a quelle dei singo-
li neuroni che lo compongono. Sulla prospettiva emergentista nelle sue
varie diramazioni cfr. Mario Bunge, Emergence and the Mind, in «Neu-
roscience», 2 (1977), pp. 501-509; Timothy O’Connor, Emergent Proper-
ties, in «American Philosophical Quarterly», 31, 2, (1994), pp. 91-104;
David J. Chalmers, The Conscious Mind: In Search of a Theory of Con-
scious Experience, Oxford University Press, New York 1996, trad. it. di
Alfredo Paternoster – Cristina Meini, La mente cosciente, McGraw-Hill,
Milano 1999; Michael Silberstein, Emergence and the Mind-Body Prob-
lem, in «Journal of Consciousness Studies», 5, 4 (1998), pp. 464-482;
John H. Holland, Emergence: From Chaos to Order, Oxford University
Press, Oxford-New York 1998; William Hasker, The Emergent Self, Cor-
nell University Press, Ithaca (NY) 1999; Robert Van Gulick, Reduction,
Emergence and Other Recent Options on The Mind/Body Problem: A
Philosophic Overview, in  «Journal of Consciousness Studies», 8, 9-10
(2001), pp. 1-34; Philip Clayton – Paul Davies, The Re-Emergence of
Emergence: The Emergentist Hypothesis from Science to Religion, Ox-
ford University Press, Oxford-New York 2006; New Perspectives on Re-
duction and Emergence in Physics, Biology and Psychology, ed. by Max
Kistler, special issue of «Synthese», 151, 3 (2006), pp. 311-312; Mark
A. Bedau – Paul Humphreys, Emergence: Contemporary Readings in
Philosophy and Science, MIT Press, Cambridge (MA) 2008; Antonella
Corradini – Timothy O’Connor, Emergence in Science and Philosophy,
Routledge, New York 2010; Cynthia Macdonald – Graham Macdonald,
Emergence in Mind, Oxford University Press, Oxford-New York 2010;
Andrea Zhok, Emergentismo. Le proprietà emergenti della materia e lo
spazio ontologico della coscienza nella riflessione contemporanea, ETS,
Pisa 2011.
144
 Per un’approfondita analisi critica sulle falle epistemologiche
della teoria che postula un’origine ‘organicista’ della coscienza (at-
tualmente la più condivisa nel mainstream delle scienze biologiche e
92  mauro bergonzi

In primo luogo, per carenza di accuratezza filosofica,


molti neuroscienziati confondono la ‘coscienza in sé’ con i
‘contenuti della coscienza’: attraverso il metodo sperimen-
tale è possibile e lecito studiare tutti gli oggetti di cui si
è coscienti (percezioni, sensazioni, pensieri, ricordi, emo-
zioni, immagini, ecc.), in quanto risultano chiaramente
correlati alle funzioni cerebrali (e quindi anche passibili di
un’interpretazione emergentista), ma il fatto puro e sempli-
ce di essere coscienti non può essere osservato dalla scien-
za come se fosse un oggetto, perché è la sorgente stessa di
ogni osservazione.
In secondo luogo, la teoria emergentista si limita a con-
statare che, oltre una certa soglia di complessità, da una
rete interattiva di componenti ‘semplici’ possono emergere
nuove proprietà sotto forma di qualità o comportamenti del
tutto assenti in precedenza; tuttavia la coscienza in sé non
è né un ‘comportamento’ né una ‘qualità’: è il vissuto in
prima persona che osserva l’apparire e lo svanire di ogni
qualità o comportamento, e come tale si sottrae all’ambito
degli oggetti osservabili, ai quali soltanto è applicabile la
teoria emergentista.
In terzo luogo, considerare la coscienza un deriva-
to secondario del cervello presuppone un ordine causale
gerarchico che va dalla materia biologica (fattore prima-
rio) alla coscienza (fattore secondario): l’esistenza di y (la
coscienza) dipende da x (il cervello). Ma com’è possibile

neuro-cognitive), cfr. David J. Chalmers, Facing Up to the Problem


of Consciousness, in «Journal of Consciousness Studies», 2, 3 (1995),
pp. 200-219; Michel Bitbol, Is consciousness primary?, in «Neuro-
Quantology», 6, 1 (2008), pp. 53-72; Id., À propos du point aveugle
de la science, cit.; Michel Bitbol – Pier Luigi Luisi, Science and the
Self-Refe­rentiality of Consciousness, in «Journal of Cosmology», 14
(2011), pp. 207-223; Franco Bertossa – Roberto Ferrari, Lo sguardo
senza occhio, cit.; Evan Thompson, Waking, Dreaming, Being: Self and
Consciousness in Neuroscience, Meditation, and Philosophy, Columbia
University Press, New York 2015; Mauro Bergonzi – Pier Luigi Lui-
si, The Consciousness of Space, the Space of Consciousness, in Space,
Time and the Limits of Human Understanding, ed. by Shyam Wuppuluri
– Giancarlo Ghirardi, Springer International Publishing, Cham 2017,
pp. 359-369.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  93

asserire la priorità del cervello sulla coscienza, se soltanto


grazie a quest’ultima diventa possibile percepire, conosce-
re e studiare il cervello? Quale fondamento scientifico è
attribuibile a una teoria secondo cui y dipende da x, quando
è altrettanto vero che x dipende da y, a meno che non si
riconosca che entrambi sono soltanto due facce della stessa
medaglia?
Premesso dunque che la natura della coscienza in sé non
può essere studiata attraverso alcun metodo scientifico, la
domanda su di essa va riformulata nei termini seguenti:
quale ipotesi sulla coscienza risulta filosoficamente più
plausibile in base all’immagine dell’universo che emerge
dalla fisica quantistica?
Sebbene non possa affermare nulla di certo sulla natura
della coscienza in sé, tuttavia la fisica quantistica solleva
una questione filosoficamente assai rilevante quando giu-
dica imprescindibile introdurre nel proprio assetto teorico
e sperimentale il concetto di ‘osservazione’. Scrive a que-
sto proposito A.S. Sabbadini:

A differenza della fisica classica, che consente di descrivere il


mondo in termini puramente materiali, la fisica quantistica fornisce
una descrizione del mondo così come esso appare a una coscienza
osservante, rimettendo in questione la separazione cartesiana fra res
cogitans e res extensa145.

Come si è visto in precedenza, nella fisica quantisti-


ca molte evidenze sperimentali (dalla doppia fenditura
al quantum eraser) suggeriscono una interpretazione della
realtà secondo cui il passaggio dal livello microscopico (in
cui prevale la sovrapposizione di stati e l’entanglement)
al livello macroscopico della comune esperienza ordinaria
(in cui prevale l’alternativa classica) dipende dall’inter-
vento di una ‘misura’, cioè dal processo di osservazione,
che necessariamente include (nella catena di von Neu-
mann) anche la coscienza in prima persona. Ne consegue
che la coscienza non è separabile da ciò che ci appare co-

145
  Augusto Shantena Sabbadini, Pellegrinaggi verso il vuoto, cit.,
p. 98.
94  mauro bergonzi

munemente come realtà ‘oggettiva’, ma partecipa anzi in


qualche modo alla sua costituzione, al contrario di quanto
afferma il principio del realismo. In altri termini, nella de-
scrizione dell’universo che emerge dalla fisica quantistica,
la non-località, il non-realismo, l’entanglement e la teoria
dei campi quantistici evidenziano, anche su base sperimen-
tale,  caratteristiche della struttura del reale che relativiz-
zano radicalmente (o addirittura vanificano) il concetto di
separazione, non solo fra entità localizzate nello spazio,
ma anche fra soggetto e oggetto. Questa prospettiva sug-
gerisce l’ipotesi che la coscienza, lungi dall’essere solo
una molteplicità frammentata di ‘osservatori’ all’interno
dei singoli individui, potrebbe coincidere con tutto ciò che
appare come ‘oggettivo’.
Una possibile alternativa per evitare l’impasse dei para-
dossi epistemologici sollevati ogniqualvolta la scienza cer-
ca di studiare la coscienza (che è sempre in prima perso-
na), snaturandola in un oggetto descritto in terza persona, è
dunque prendere in seria considerazione l’ipotesi filosofica
di considerarla un dato primario – ossia un postulato di
base irriducibile ad altre cause – che coincide con la real-
tà non solo sul piano epistemologico (perché tutto ciò che
chiamiamo ‘realtà’ è un’esperienza che può apparire sol-
tanto in una coscienza già presente), ma anche ontologico:
un’idea non estranea alle teorizzazioni di alcuni esponenti
della meccanica quantistica146. A questo proposito già M.
Planck aveva dichiarato: «I regard consciousness as funda-
mental. I regard matter as derivative from consciousness.
We cannot get behind consciousness. Everything that we
talk about, everything that we regard as existing, postu-
lates consciousness»147.

146
  Ci riferiamo, ovviamente, a posizioni minoritarie e periferiche
rispetto al mainstream della ricerca nel campo della fisica quantistica,
come per esempio alla teoria cosmologica di A. Goswami, secondo
cui la coscienza è la sorgente stessa dell’universo materiale: cfr. Amit
Goswami – Richard E. Reed – Maggie Goswami, The Self-Aware Uni-
verse, cit.
147
  «The Observer», 25 January 1931.
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  95

Dal canto suo, E. Schrödinger concordava pienamente


con questa idea: «Consciousness cannot be accounted for
in physical terms. For consciousness is absolutely funda-
mental. It cannot be accounted for in terms of anything
else»148. Egli ipotizzava inoltre esplicitamente l’esistenza
di un’unica, indivisa coscienza coincidente con l’intero
universo:

The only possible alternative is simply to keep to the immedi-


ate experience that consciousness is a singular of which the plural
is unknown; that there is only one thing and that what seems to be
a plurality is merely a series of different aspects of this one thing,
produced by a deception; […] in the same way Gaurisankar and
Mt. Everest turned out to be the same peak seen from different
valleys149.

Come si è già rilevato, questa posizione concorda pie-


namente con la prospettiva non-dualista dell’advaita-ve-
dānta, secondo cui sia l’io individuale (identificato con
un singolo organismo psico-fisico), sia i cosiddetti oggetti
‘esterni’, sono soltanto i contenuti di un’unica coscienza
universale, che comprende l’intero esistente: niente può
essere percepito se anzitutto la consapevolezza non è già lì,
poiché qualsiasi oggetto appare sempre alla, nella e come
coscienza. Nella tradizione filosofica occidentale il prima-
to della coscienza è stato già asserito con argomentazioni
inoppugnabili da G. Berkeley, secondo il quale, in base
all’evidenza della nostra esperienza diretta, tutto quanto
concerne la materia ‘esterna’ è in primo luogo un oggetto
di percezione che appare nella coscienza150.
148
  «The Observer», 11 Juanuary 1931.
149
  Erwin Schrödinger, What is Life?: The Physical Aspect of the
Living Cell; with Mind and Matter, Cambridge University Press, Lon-
don 1967, p. 139, trad. it. di Mario Ageno, Che cos’è la vita?, Adelphi,
Milano 19958.
150
  Cfr. George Berkeley, A Treatise Concerning the Principles of
Human Knowledge, Aaron Rhames for Jeremy Pepyat, Dublin 1710,
§ 3: «The table I write on I say exists, that is, I see and feel it; and if I
were out of my study I should say it existed – meaning thereby that if
I was in my study I might perceive it, or that some other spirit actually
does perceive it. There was an odour, that is, it was smelt; there was a
96  mauro bergonzi

Secondo il pensiero non-dualista, tuttavia, il prima-


to della coscienza dal punto di vista epistemologico non
conduce necessariamente a una ontologia di tipo esplici-
tamente idealistico, in quanto dimostra soltanto che è im-
possibile provare l’esistenza di un mondo a parte, ‘esterno’
alla coscienza, data l’inseparabile coesistenza di entrambi:
in realtà, poiché appaiono sempre insieme, non sono due
entità separate, bensì due aspetti diversi della stessa realtà.
È quindi impossibile dividere l’esperienza in due ‘metà’
separate (il soggetto ‘qui dentro’ e l’oggetto ‘là fuori’), in
quanto si implicano a vicenda e il confine che apparente-
mente le separa è solo una fittizia creazione mentale: ‘sog-
getto’ e ‘oggetto’ sono semplici nomi assegnati dal pensie-
ro a un’unica indivisibile esperienza a seconda del punto di
vista da cui la si considera, ragion per cui anche i termini
‘coscienza’ e ‘mondo’ si riferiscono soltanto a due diverse
prospettive (in prima o in terza persona) che descrivono
una stessa, unica realtà, proprio come ‘salita’ e ‘discesa’
sono due parole diverse per indicare il medesimo pendio, a
seconda del verso in cui lo si percorre151.

sound, that is, it was heard; a colour or figure, and it was perceived by
sight or touch. This is all that I can understand by these and the like ex-
pressions. For as to what is said of the absolute existence of unthinking
things without any relation to their being perceived, that seems perfect-
ly unintelligible. Their esse is percepi, nor is it possible they should
have any existence out of the minds or thinking things which perceive
them»; trad. it. di Daniele Bertini, Saggio su una nuova teoria della
visione-Trattato sui principi della conoscenza umana. Testo inglese a
fronte, Bompiani, Milano 2004.
151
  La diretta e immediata esperienza sensoriale, una volta affran-
cata dalle interpretazioni del pensiero e del linguaggio, sembra confer-
mare questa prospettiva. Per esempio, una sola ed unica esperienza può
essere denominata ‘udire’ (se descritta dal punto di vista del soggetto)
o ‘suono’ (se descritta dal punto di vista dell’oggetto). In base a questa
distinzione linguistica, la mente elabora un modello di realtà che consi-
dera ‘io’ e ‘mondo esterno’ come due entità separate. Tuttavia, durante
l’effettiva esperienza immediata, è impossibile individuare una precisa
linea di confine in cui finisca il suono ‘là fuori’ e cominci l’udire ‘qui
dentro’. In realtà c’è un’unica e indivisibile esperienza, e soltanto dopo,
nel descriverla, il pensiero discorsivo costruisce una frase («Io odo un
suono») in cui le regole stesse del linguaggio (che necessitano di un
‘soggetto’, un ‘verbo’ e un ‘complemento oggetto’) generano l’illusione
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  97

La danza del vuoto

Tirando le fila di questo studio, si può concludere che


alcune implicazioni filosofiche desumibili dalla fisica
quantistica offrono un valido contributo al superamento
del dualismo finora prevalente nella tradizione scientifica e
filosofica occidentale, aprendo nel contempo una ‘finestra’
di dialogo interculturale con il pensiero non-dualista orien-
tale, da cui potrebbero anche derivare interessanti ricadute
su un più generale ambito antropologico152.
Per riassumere i tratti salienti in cui si è articolato il
nostro discorso, va anzitutto rilevato che la prospettiva
non-dualista orientale tende, in molte sue espressioni, a
considerare la realtà come un tutto indivisibile, mentre la
percezione di entità separate (compresa l’idea di un ‘io’
individuale situato ‘dentro’ un singolo organismo psico-fi-
sico) non è che un semplice costrutto mentale senza alcun
valido fondamento ontologico.
Al contrario, la coscienza in sé, vale a dire il puro e
semplice fatto di essere coscienti – sempre presente in
qualsiasi esperienza particolare, ma da non confondere
con i suoi specifici ‘contenuti’ che di volta in volta appa-
iono sotto forma di percezioni, sensazioni o pensieri – co-
stituisce una realtà fondamentale che non può mai essere
‘spiegata’ riconducendola a una qualunque causa fisica o
psichica, perché, senza il presupposto di una coscienza già
presente, nessuna ‘causa’ e nessuna ‘spiegazione’ potreb-
bero mai manifestarsi.

che ad esse corrisponda veramente anche nella realtà un dualismo di


soggetto/oggetto. Invece, di fatto, ‘suono’ e ‘udito’ non sono due entità
distinte, ma soltanto due nomi diversi per indicare un’unica esperienza
(l’udire) che appare nella coscienza.
152
  Per esempio, la sensibilità ecologista – spesso unilateralmente
proiettata verso la dimensione ambientale ‘esterna’ di tipo socio-poli-
tico, economico e tecnologico, a scapito di una altrettanto importante
‘ecologia’ dell’interiorità e dei rapporti interpersonali (in grado di scor-
gere l’inconsistenza della contrapposizione fra ‘sé’, ‘altri’ e ‘mondo’)
– potrebbe trarre vantaggio da un più consapevole radicamento nella
visione non-dualista di un universo totalmente interattivo e privo di reali
separazioni.
98  mauro bergonzi

Pertanto la coscienza rappresenta un principio episte-


mologicamente irriducibile che viene prima di ogni pen-
siero, sensazione o percezione. La sua innegabile evidenza
si mostra nella certezza immediata con cui chiunque, per
sua diretta e indubitabile esperienza, può verificare in qual-
siasi momento di esistere e di essere consapevole.
Poiché dunque ogni fenomeno si può percepire, investi-
gare o spiegare solo alla luce di una coscienza già presente,
non è possibile far derivare quest’ultima da altri fenomeni
senza incorrere in un paradosso epistemologico: qualsiasi
osservazione o teoria circa la realtà ‘oggettiva’ non può
mai riguardare la coscienza, che è lo sfondo nascosto di
ogni osservare o teorizzare. È questa l’intrinseca misterio-
sità della coscienza secondo la prospettiva non-dualista: da
un lato, la sua esistenza è innegabile ed evidente per il fatto
stesso che siamo coscienti; dall’altro, essa è inafferrabile e
inconoscibile proprio perché si trova a monte di ogni pos-
sibile osservazione, per cui non può mai essere ridotta a
mero oggetto di conoscenza.
Ciò che viene prima della coscienza (in senso non tem-
porale, ma ontologico), al di là della fittizia dualità di sog-
getto/oggetto, non è né esperibile, né percepibile, né co-
noscibile secondo le categorie del pensiero: è la sorgente
ignota di ogni cosa, l’ineffabile e indescrivibile fondamen-
to della realtà, spesso indicato apofaticamente attraverso
termini negativi, come per esempio ‘vuoto’ o ‘non-esse-
re’153. Seng Ts’an, il terzo patriarca del buddhismo ch’an,
lo esprime con queste parole:

153
  Il concetto di ‘vacuità’, ‘nulla’ o ‘non-essere’ è ben attestato in
molte tradizioni sapienziali d’Oriente e d’Occidente. A seconda dei di-
versi contesti, può assumere connotazioni epistemologiche (come nella
scuola buddhista madhyamika), cosmogoniche (come nei Veda e nel
taoismo), o contemplative (in quasi tutte le tradizioni). Per un approfon-
dimento ad ampio raggio di questo concetto cfr. Giangiorgio Pasqua-
lotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente,
Marsilio, Venezia 1993; Sergio Givone, Storia del nulla, Laterza, Ro-
ma-Bari, 1995; Raimundo Panikkar, El Silencio del Dios, Guadiana de
Publicaciones, Madrid 1970, trad. it. di Uma Marina Vesci – Gian Paolo
Violi, Il silenzio di Dio, Borla, Roma 1985; Choong Mun-keat, The No-
tion of Emptiness in Early Buddhism, Motilal Banarsidass, Delhi 1999;
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  99

Object is object because of the subject; / Subject is subject be-


cause of the object. // Know that the two / Are originally one emp-
tiness. // In one emptiness the two are the same, / Containing all
phenomena. // […] Existence is precisely emptiness; / Emptiness is
precisely existence. // […] The path of words is cut off; / There is no
past, no future, no present154.

La ‘vacuità’ di cui parla Seng Ts’an (la quale chiara-


mente non è il nulla assoluto, in quanto contiene tutti i
fenomeni) trova corrispondenza in altre simili espressioni
apofatiche appartenenti a diverse tradizioni non-dualiste
orientali: dal ‘non-essere’ (asat) che alcuni saggi dell’India
antica postulavano all’origine del cosmo155, alla doppia ne-

Bhikkhu Buddhadāsa, Heartwood from the Bodhi Tree: The Buddha’s


Teachings on Voidness, trans. by Dhammavicayo, Wisdom Publications,
Boston 1990, trad. it. di Gianpaolo Fiorentini, Il cuore dell’albero della
bodhi, Ubaldini, Roma 1990; Tirupattur R.V. Murti, The Central Philo-
sophy of Buddhism, cit.; Fernando Tola – Carmen Dragonetti, On Void-
ness: A Study on Buddhism Nihilism, Motilal Banarsidass, Delhi 1995;
Khenpo Tsultrim Gyamtso, Progressive Stages of Meditation on Empti-
ness, trans. by Shenpen Hookham, Longchen Foundation, Oxford 1986,
trad. it. del Centro Milarepa, Meditazione sulla vacuità, Centro Mila-
repa, Pinerolo 1980; Keiji Nishitani, Religion and Nothingness, trans.
by Jan Van Bragt, University of California Press, Berkeley (CA) 1982,
trad. it. di Carlo Saviani, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma
2004; Donald W. Mitchell, Spirituality and Emptiness: The Dynamics of
Spiritual Life in Buddhism and Christianity, Paulist Press, Mahwah (NJ)
1991, trad. it. Gabriele Bonetti, Kenosi e nulla assoluto. Dinamica della
vita spirituale nel buddismo e nel cristianesimo, Città Nuova, Roma
1993; Bernhard Welte, Das Licht des Nichts: von der Möglichkeit neuer
religiöser Erfahrung, Patmos Verlag, Düsseldorf 1980, trad. it. di Gior-
gio Penzo – Ursula Penzo Kirsch, La luce del nulla. Sulla possibilità di
una nuova esperienza religiosa, Queriniana, Brescia 1983.
154
 Seng Ts’an, Hsin Hsin Ming, cfr. Verses on the Faith-Mind,
trans. by Richard B. Clarke, White Pine Press, Buffalo (NY) 1973. Cfr.
anche Sheng-Yen, Faith in Mind, Dharma Drum Publications, Elmhurst
(NY) 1987, pp. 7-10 e 69; trad. it. di Letizia Baglioni, Credere nella
mente, Ubaldini, Roma 1991.
155
  Asat compare nel famoso inno cosmogonico riportato in Ṛg-
Veda, X.129.4: «I saggi trovarono la connessione dell’essere nel non
essere cercando con riflessione nel loro cuore» (Inni del Ṛg-Veda, qui
nella trad. it. di Valentino Papesso, Zanichelli, 1929-1931, ristampato
da Ubaldini, Roma 1979, p. 223). Vedi anche Chāndogya Upaniṣad, VI.
2.1: «A questo proposito alcuni dicono: Al principio questo [Universo]
100  mauro bergonzi

gazione ‘né… né’ (neti… neti) con cui le Upaniṣad sottoli-


neavano l’inesprimibilità dell’assoluto156, fino al ‘supremo
non(-essere)’ (wuji), il ‘senza-limite’ che secondo i taoisti
designa la misteriosa matrice da cui sorgono gli opposti
(yin/yang) e l’intero universo157.
Viene da chiedersi a questo punto se sia ipotizzabile
che le esperienze illuminative su cui si fondano questi con-
cetti abbiano intuito, per vie assai diverse da quelle della
scienza occidentale, qualcosa di simile a ciò che tentano
di descrivere le teorie sul ‘vuoto fluttuante’ elaborate da
alcuni esponenti contemporanei della fisica quantistica158.

era soltanto Non essere (asat), unico, senza secondo. Di poi dal Non
essere nacque l’Essere» (Upaniṣad, trad. it. cit., p. 242).
156
 Vedi Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, II.3.6: «Ora la formula: Non
così, non così! (Neti, neti). Non v’è cosa superiore a questo ‘Non così’
(iti na). Il nome del [brahman] è realtà della realtà» (Upaniṣad, trad. it.
cit., p. 89).
157
 Vedi per esempio Laozi, Daodejing XL: «Nel mondo tutte le
cose nascono dall’essere. L’essere nasce dal non-essere» (Lao Tzu, Tao
Te Ching, trad. it. cit., p. 323).
158
  Il concetto di ‘vuoto quantistico’ è definito in meccanica quanti-
stica (QM) e soprattutto nella teoria dei campi quantistici (QFT) come
lo ‘stato fondamentale’ del sistema in cui tutti i campi presenti sono nel
loro ‘stato di energia minima’, tale che non ci sono particelle, ma posso-
no presentarsi strutture condensate, per cui la sua energia non è propria-
mente nulla. Pertanto l’annullamento dell’energia (E = 0) non equivale
necessariamente al totale annullamento di un campo: infatti l’energia
di un sistema quantistico non è mai precisamente definibile, poiché
subisce continue oscillazioni casuali secondo il principio di indetermi-
nazione. La formula matematica che descrive tali fluttuazioni è ΔE Δt
≈ ħ, dove ΔE indica l’indeterminazione dell’energia nell’intervallo di
tempo Δt e ħ la costante di Planck. In sostanza, la formula asserisce che,
ai livelli microscopici indicati dalla costante di Planck, l’energia di un
sistema quantistico subisce fluttuazioni tanto più ampie quanto minore
è il tempo in cui avvengono (ΔE ≈ ħ/Δt), per cui alcune fluttuazioni, se
il tempo in cui si manifestano è abbastanza breve, possono sviluppare
energia sufficiente a creare particelle ‘virtuali’ (ossia momentanei stati
eccitati del campo quantistico), per poi sparire di nuovo alla fine di quel
breve intervallo temporale. Nei termini della metafora usata da A. S.
Sabbadini in una comunicazione personale per illustrarmi la questione,
si potrebbe vedere il vuoto quantistico come una costante danza di cre-
azione e riassorbimento, tanto più energica quanto più breve è l’inter-
vallo di tempo preso in considerazione: tale danza è come un ‘prendere
energia a prestito dal vuoto’, energia che va tanto più prontamente re-
fisica quantistica e pensiero non-dualista orientale  101

Ovviamente la domanda resta senza risposta, ma sul piano


filosofico apre tuttavia un interessante terreno di dialogo
interculturale.
Nell’arte indiana, uno dei simbolismi più efficaci per rap-
presentare il non-dualismo è l’immagine di Śiva Naṭarāja,
che nella sua incessante danza cosmica incarna l’unione
dinamica di tutti gli opposti: creazione e distruzione, vita
e morte, piacere e dolore159. Si tratta anche di una calzan-
te metafora per illustrare il non-dualismo fra l’assoluto (il
danzatore) e il relativo (la danza). Infatti danzatore e danza
non sono separati, eppure presentano significative diffe-
renze tra loro: il danzatore è uno, la danza molteplice nelle
sue varie movenze; il danzatore resta sempre lo stesso, la
danza muta di continuo; il danzatore può sussistere anche
senza la danza, mentre la danza non può apparire senza
il danzatore, essendone una semplice attività; il danzatore
conosce la danza, mentre la danza non può conoscere il
danzatore.
Questa metafora non-dualista potrebbe forse avere una
qualche ‘risonanza intuitiva’ con le teorie della fisica quan-
tistica sulla inseparabilità di osservatore/osservato e sulla
danza di creazione e distruzione evocata dalle fluttuazioni
energetiche del vuoto quantistico?

stituita quanto maggiore è la quantità presa in prestito. Pertanto, invece


di reificare la nozione di ‘vuoto quantistico’ in qualcosa di sostanziale,
sarebbe più corretto considerarla un semplice indicatore del fatto che
l’energia dei campi che pervadono l’universo, anche quando è minima,
non è mai totalmente nulla, perché continua incessantemente a fluttuare
in una continua danza di creazione e distruzione. Comunque sia, alcune
teorie cosmologiche (allo stato attuale ancora ampiamente speculative)
ipotizzano che il nostro intero universo sia nato da una fluttuazione del
vuoto quantistico seguita da un processo di inflazione. Sulla nozione di
‘vuoto quantistico’ cfr. Peter W. Milonni, The Quantum Vacuum. An In-
troduction to Quantum Electrodynamics, Academic Press, Boston 1994;
Emilio Del Giudice, Fisica quantistica e vuoto, in «Rivista di filosofia
neo-scolastica», 2 (2010), pp. 253-263.
159
  Cfr. Ananda K. Coomaraswamy, The Dance of Ṡiva: Fourteen
Indian Essays, New York Sunwise Turn, New York 1918, trad. it. di
Giampiero Marano, La danza di Ṡiva, Adelphi, Milano 2011, pp. 107-
124.
102  mauro bergonzi

Si tratta probabilmente di interrogativi troppo aleatori


e azzardati, ma non sarà forse un caso che nella sede del
CERN di Ginevra (l’Organizzazione Europea per la Ricer-
ca Nucleare) troneggi proprio una statua di Śiva Naṭarāja160.

160
  La targa alla base della statua riporta la seguente citazione di F.J.
Capra: «Hundreds of years ago, Indian artists created visual images of
dancing Shivas in a beautiful series of bronzes. In our time, physicists
have used the most advanced technology to portray the patterns of the
cosmic dance. The metaphor of the cosmic dance thus unifies ancient
mythology, religious art and modern physics».
La teoria quantistica dei campi e la fisica del-
la materia vivente.
Un’ipotesi sui fenomeni psichici
Emilio Del Giudice

Premessa1

Emilio del Giudice è stato un uomo che non ha mai sal-


tato un appuntamento con l’originalità. La sua, tuttavia, era
una originalità più ‘originale’ delle altre: non crediamo di
recare torto alla sua memoria definendola un’originalità
del ‘buon senso’. Nulla vi era, del pensiero di Emilio, che
provenisse da eccentriche trovate per l’editoria dell’ultimo
grido o che facesse da coreografia alla processione dei re-
centi occasionalismi da riporto. La sua scienza, come la sua
filosofia, era bella e assennata, paragonabile a un mirabile
manufatto di artigianato povero che non vuole stupire. Emi-
lio del Giudice non amava confondere i suoi interlocutori,
il suo uditorio: era prima di tutto un maieuta, un raffinato
divulgatore del sapere ‘per tutti’, prodigo nel guidare l’altro
alla scoperta della verità, quella verità che è sempre sempli-
ce, mai ovvia, lontana dagli effetti passeggeri dei più spen-
dibili giochi di prestigio.
La realtà che Emilio ci ha mostrato, procedeva per gradi,
con estrema lentezza. Ogni coordinata della parabola onto-
logica da lui disegnata, veniva dedotta in modo sequenziale
a partire da un meccanismo di stallo. Un modello episte-
mologicamente insufficiente, una teoria scientifica esausta,

1
  La premessa e la trascrizione dell’intervento di Del Giudice sono
a cura di Michele Lucantoni e Domenico Fiormonte. Ringraziamo An-
tonella De Ninno e Silvia Morgani per averci aiutato a rivedere il testo,
correggendo varie imprecisioni e sviste.
104  emilio del giudice

erano luoghi prediletti per poter depositare quell’inconfon-


dibile seme di ironia, a cui affidava il compito di smaschera-
re miti e dogmi dell’industria cultural-accademica odierna.
Oggi, scorrendo l’indice della sua inestimabile eredità
intellettuale, desideriamo soffermarci sulla preannunciata
alleanza tra ‘buon senso’ e talento scientifico, che ha ca-
ratterizzato una spregiudicata carriera da pensatore libero.
In questo suo ultimo testo tutto emerge con chiarezza, più
chiaro che nella performance orale – bella, divertente, ma
in cui il desiderio di Emilio di catturare l’uditorio faceva a
volte passare in secondo piano l’importanza, il peso, l’ever-
sività profonda del suo messaggio. Invece, calato il sipario,
egli ci offre una costruzione argomentativa in cui tutto con-
verge e si risolve nel pirotecnico finale, dove si dicono due
frasi sulla coscienza: ma sono frasi che... abracadabra! Ci
sono le negligenze e le storiche reticenze della scienza. C’è
la macchina come metafora della nostra ignoranza e della
nostra infantile arroganza. C’è la necessità di un approccio
scientifico che includa ciò che fino a oggi abbiamo esclu-
so – chiamandola sfera spirituale, ma che forse altro non è
se non un modo nuovo di fare scienza. C’è il superamento
dell’ossessione del ‘fare’ dell’uomo occidentale – la produ-
zione di energia come scopo essenziale e auto-distruttivo
dell’uomo. C’è lo yoga, con i guṇa: rajas, l’energia in movi-
mento, e tamas, l’inerzia; e c’è il vuoto – la pausa del respi-
ro del cosmo – come supporto alla ri-generazione. Il vuoto,
probabile luogo e mezzo dell’incontro con puruṣa (vedi in
questo stesso volume i saggi di Bergonzi e Fiormonte). C’è
la danza, come strumento di esplorazione della ‘fase’ e di
sperimentazione e mimesi dell’Uno. C’è l’amore e la mor-
te. E c’è soprattutto Platone (e Śaṅkara?), che vince sia su
Eraclito sia su Parmenide.

***
Partiamo da una metafora sullo sviluppo della scienza
negli ultimi millenni. La metafora consiste nel paragonare
questo sviluppo a quello che fa un bambino quando qual-
cuno gli regala un giocattolo. La scienza sarebbe il bambi-
no e il giocattolo sarebbe la natura. All’inizio il bambino
gioca seguendo le istruzioni del giocattolo, se poi si scopre
abbastanza vivace, il bambino vuole vedere come è fatto
dentro, e allora rompe il giocattolo – per la disperazione
di chi glielo ha regalato. Smontato il giocattolo in mille
pezzettini, nella maggior parte dei casi il bambino rimane
lì a guardarlo in attesa del prossimo giocattolo. Esiste però
anche la possibilità che il bambino provi a rimontarlo, otte-
nendo un giocattolo simile al precedente, perché composto
degli stessi pezzi. Vi sono dunque tre fasi dell’approccio
al giocattolo, che corrispondono esattamente alle tre fasi
della scienza. All’inizio gli esseri umani hanno guardato
intorno la natura e hanno cominciato a fare dei cataloghi
[…] l’elenco di tutto ciò che esiste – il che è un lavoro gi-
gantesco. Tra l’altro, bisogna stabilire empiricamente delle
correlazioni, cosa tutt’altro che facile. Un esempio, il gran-
de colpo di genio dell’umanità nel capire come nascono
i bambini: stabilire una correlazione tra un atto sessuale
avvenuto in un certo giorno, e la nascita del bambino nove
mesi dopo, è una cosa non banale – significa seguire una
concatenazione causale a lunga distanza.
Capite che la prima fase della scienza è tutt’altro che
banale e, di fatto, ha richiesto millenni – pensate a capire
le regolarità di tutti i moti celesti...
106  emilio del giudice

Questa prima fase è durata, almeno nel mondo occiden-


tale, fino al Rinascimento – anche se si potrebbe dire che
questa prima fase si sia conclusa in periodo ellenistico, ma
a causa di alcuni ‘intoppi’, come l’ascesa dell’impero ro-
mano, il processo di sviluppo della scienza ha rallentato
enormemente.
Nel Rinascimento prese piede un altro approccio, che
consisteva nel fare a pezzettini la natura. Ovviamente, la
natura smontata non è più la natura: smontare la natura è
un atto di morte, si uccide il vivente per vedere come è fat-
to dentro – la morte come parte essenziale della vita. Che
cosa si scopre così? Rimanendo nel campo del vivente, si
scopre che quest’ultimo è fatto di cellule, che a loro vol-
ta sono composte di nucleo e citoplasma. Poi vengono le
molecole, atomi, protoni ed elettroni, fino ai quark – non
ulteriormente scomponibili – in un’organizzazione che po-
tremmo dire ‘a matrioska’.
Ci troviamo ora sulla frontiera della terza fase, che si-
gnifica ricomporre il tutto e vedere come si tiene insieme.
Naturalmente ci sono i superficiali, ovvero coloro che vo-
gliono arrivare alla terza fase senza lasciare la seconda.
Cito alcune cose sinceramente ridicole. Nel campo della
biologia, è andato di moda negli ultimi decenni – da quan-
do ai biologi è stata insegnata l’esistenza delle molecole
– cercare di scoprire quale sia la molecola che esprime una
determinata funzione biologica. Naturalmente, la funzione
biologica è un prodotto collettivo di interazione tra miglia-
ia di molecole. Leggo a un certo punto, che è stato sco-
perto il gene responsabile della voglia di fumare. Siccome
la voglia di fumare è nata storicamente cinquecento anni
fa – ci vuole ovviamente la pianta del tabacco per avere la
voglia, prima il problema non esisteva. Allora mi chiedo:
dato che lo sviluppo dei geni, procede a tempi molto lenti
e non a velocità come queste, cinquecento anni fa, que-
sto gene cosa faceva? Come si era formato questo gene?
Non di certo in prospettiva delle necessità del fumo. Allora
qualcuno deve averlo progettato. Potete ben vedere, che a
discapito delle apparenze, la scienza positivista e la teolo-
gia, lottano molto spesso insieme. Qualcuno ha previsto la
la teoria quantistica dei campi e la fisica della materia vivente  107

scoperta della pianta del tabacco, pertanto avrebbe proget-


tato un gene che interagisse con questa scoperta. Il gene
ha dunque esercitato una spinta affinché si accelerasse il
processo di scoperta della pianta... Capite quindi, che si
tratta di stupidaggini totali. Non c’è mai nessuno di più
stupido dell’esperto: perché l’esperto è uno che crede di
sapere tutti i dettagli di una cosa, quando in verità ne co-
nosce un piccolo pezzo. C’è un proverbio cinese che dice:
chi per vedere il cielo si mette in fondo a un pozzo non ne
può vedere molto. La caratteristica dell’atomismo è stata
anche l’estrema specializzazione, per cui c’è l’esperto del
ginocchio sinistro che è diverso dall’esperto del ginocchio
destro. Chi ha dolore al ginocchio sinistro va subito dal re-
lativo esperto, senza contare che quel dolore può provenire
da tutt’altra parte... Insomma, l’esistenza degli specialisti
è stata una disgrazia totale per lo sviluppo della scienza.
Ciononostante, l’umanità ha molte risorse e riesce anche
a superare questa impostazione. Notate che nell’ultimo se-
colo, le grandi scoperte le hanno sempre fatte i non esperti:
per esempio la teoria della deriva dei continenti viene da
un meteorologo. La fisica quantistica è nata sulla base del
lavoro dei chimici e viceversa la chimica moderna è nata
sulla base del lavoro dei fisici. Ma non bisogna preoccu-
parsi: basta che qualcuno si interessi di cose che non gli
competono e acquisisce la possibilità di fare una scoperta.
Un’altra delle grandi stupidaggini della scienza mo-
derna è quella di trattare il cervello umano come un com-
puter, o meglio, un super computer. Sembra che ci siano
100.000.000.000 di neuroni nel cervello umano – non so
come li abbiano contati. Ci sono 100.000.000.000.000 di
connessioni sinaptiche. Capite che la ricomposizione par-
tendo dagli atomi è semplice quando i componenti sono
pochi, ma di fronte a queste cifre diventa veramente un
problema molto complesso, che però vedremo si mostrerà
più semplice rispetto a una apparente semplicità.
Il cervello umano occupa 1,2 litri di volume e ha una
memoria stimata di 3,5x1015 byte, e opera a una velocità
di 2,2x1015 operazioni al secondo – siccome si tratta di af-
fermazioni poco importanti sono sicuramente vere! Tutta
108  emilio del giudice

questa meraviglia ha una spesa energetica piccolissima: 20


watt. Esistono dei super computer corrispondenti? Vedia-
mo: ne esiste uno giapponese, testato nel giugno 2011, il
Fujitsu «K». Questo computer è grande come una grossa
stanza, ha una memoria di 30 in 1015 byte – una memoria
dieci volte quella del cervello umano – e viaggia a una
velocità di 8,2x1015 operazioni al secondo. Quindi entro un
fattore 10, il più grosso super computer esistente è compa-
rabile come prestazioni a un cervello umano – diciamo che
è circa dieci volte meglio. Ma dov’è la differenza? Que-
sto oggetto consuma non 20 watt, ma 12,6 milioni di watt
– cioè ha un consumo energetico un milione di volte più
alto di quello del cervello. C’è la necessità infatti di grossi
sistemi di raffreddamento, altrimenti fonderebbe tutto. Un
anno dopo, il computer K è stato soppiantato da un altro
computer che si chiama Sequoia – della IBM – che lavora
a 16,325x1015 operazioni al secondo – un miglioramento
del 100%. C’è stato anche un miglioramento energetico –
consuma il 37% meno del computer K. A oggi, il computer
più avanzato è cinese e lavora a 30,7x1015 operazioni al
secondo. Qui il punto che fa la differenza è il consumo
energetico: con un joule di energia, un super computer
compie 10.000.000 di operazioni, mentre un cervello uma-
no compie 100.000.000.000.000 di operazioni (centomila
miliardi).
Il cervello dunque non è un super computer per questio-
ni energetiche. Ci vorrebbe un’intera centrale elettrica per
farci funzionare. La produzione energetica del cervello è di
fatto piccola2. Possibile dunque costruire un computer che
non consumi 20.000.000 di watt? Il problema da affrontare
è di natura concettuale.
Come mai noi esseri viventi consumiamo così poca
energia? Tutto il corpo consuma all’incirca come un mo-
tore di 300 watt. Se volessimo simulare le nostre funzio-
ni biologiche con dei robot, il consumo energetico delle
2
  Apro un inciso sulle fonti energetiche: il problema non è produrre
nuove fonti energetiche, bensì sviluppare una tecnologia capace di con-
sumare pochissima energia. A 20 watt di consumo, come per il cervello,
qualsiasi fonte di energia va bene.
la teoria quantistica dei campi e la fisica della materia vivente  109

macchine sarebbe molto più alto del nostro. Perché? Cos’è


l’energia?
L’energia è il risultato dell’applicazione di una forza
(fisica di base). La fisica classica che nasce con Galilei
si fonda sul principio della scomposizione della natura in
pezzettini (specialmente per gli atomi e la loro relazione).
Abbiamo i principi della dinamica che ci dicono: in
principio, questo oggetto, se isolato, è inerte. Si muoverà
in moto rettilineo uniforme per l’eternità, se si vuole ap-
portare un cambiamento c’è bisogno di applicare una forza
esterna, ovvero qualcuno deve spingere o tirare. Viene in
mente una metafora – perché la scienza è prima di tutto
una metafora. Prendiamo due oggetti: un’automobile con
il serbatoio quasi vuoto e un gatto che non mangia da qual-
che giorno. Abbiamo due sistemi quindi ‘affamati’, quasi
privi di energia. Mentre il gatto usa la poca energia rima-
sta per cercare cibo, l’automobile invece rimane ferma e
deve essere spinta fino al distributore da qualcuno. L’au-
to si rivela dunque passiva, mentre il gatto è attivo. Ecco,
la fisica classica studia gli oggetti passivi. Ogni volta che
vedete una variazione nello stato di moto uniforme di un
corpo, dovete inferire che c’è una forza che sta agendo. La
forza quando agisce consuma energia o alternativamente
impulso. Quindi, se un oggetto classico deve muoversi nel
mondo, ha bisogno di energia, dunque qualunque lavoro di
costruzione nel mondo necessita di energia. Qui nasce il
mito dell’energia: ci vuole energia per tutto. Costruire un
vivente su questa base diviene dunque impossibile. Come
si fa a riprodurre la capacità di autonomia dell’essere vi-
vente, in termini di fisica della passività? Per fare quello
che fa un cervello in 20 watt serve un’energia 12 milioni di
volte più grande. La maggior parte del pensiero scientifico
tradizionale ignora questo aspetto, ignora la bolletta ener-
getica che si pagherebbe se le proprie fesserie fossero vere.
Allora qual è la via d’uscita?
Esattamente 113 anni fa è nata la fisica quantistica. Qual
è la differenza tra fisica quantistica e fisica classica? Come
è avvenuto il passaggio nel riconoscere che la fisica classi-
ca era insufficiente per spiegare certi fenomeni? Il criterio
110  emilio del giudice

consiste nel portare alle estreme conseguenze il ragiona-


mento della fisica precedente. Ecco perché è importante la
fisica teorica: con rigore logico, si possono derivare tutte
le conseguenze dei principi. Quando si incappa in una ‘fes-
seria’ si è costretti a iniziare una rivoluzione concettuale.
Dunque il problema da esaminare è quello che va sotto
il nome di calore specifico dei corpi solidi a bassa tempe-
ratura. Il calore specifico è la quantità di energia neces-
saria per alzare di un grado la temperatura di un corpo.
La temperatura è il grado di agitazione delle molecole, è
l’energia cinetica media che le molecole hanno in un dato
stato. La temperatura assoluta di un corpo è il valore medio
dell’energia cinetica dei componenti. La temperatura asso-
luta differisce dalla temperatura centigrada (la temperatura
normale di un corpo) per un numero: 273. Significa che
bisogna spostare la scala. A 0°, temperatura a cui fonde il
ghiaccio, corrispondono, sulla scala assoluta, 273° asso-
luti. Allo zero assoluto, che si ha quando tutte le molecole
sono ferme, la temperatura assoluta è 0. Questo capita a
273° sotto 0, che corrisponde dunque allo 0 della tempe-
ratura assoluta. Quindi temperatura assoluta = temperatura
centigrada + 273. Quindi la mia temperatura che è di 37° è
anche di 310 gradi Kelvin – lo scienziato che scoprì questa
unità di misura. Il calore specifico dipende dalla grandezza
del corpo.
Il corpo è una mole. Una mole è una porzione di mate-
ria composta da 6, (ventitré 0) molecole (numero di Avo-
gadro). Fissiamo per ogni sostanza una mole, e prendiamo
il calore specifico molare. Per alzare di un grado la tempe-
ratura di questo corpo io devo alzare l’energia cinetica di
una quantità ben definita, il salto che devo fare è ben de-
finito. Però, se io do energia a un dato corpo, questa ener-
gia può essere impiegata in due maniere: 1) può dar luogo
a modifiche strutturali del corpo (per esempio passare da
solido a liquido); 2) può aumentare la temperatura. Però i
cambiamenti strutturali avvengono a temperature ben de-
finite. Allora abbasso la temperatura fino ad andare al di
sotto dell’ultima trasformazione strutturale. Al di sotto di
questa temperatura l’unico modo per utilizzare l’energia
la teoria quantistica dei campi e la fisica della materia vivente  111

è la variazione di temperatura. Dunque ci posizioniamo


nell’intervallo tra lo zero assoluto e la temperatura a cui
è avvenuta l’ultima trasformazione strutturale, e in questo
intervallo, il calore deve corrispondere al gradiente ener-
getico che ho apportato. Ne deriva la legge secondo cui a
bassa temperatura i calori specifici devono essere costanti,
cioè indipendenti dalla temperatura, poiché l’energia ne-
cessaria per superare il primo gradino è uguale all’energia
che mi serve per superare il ventiduesimo. Questa è una
legge che è andata sotto il nome di Dulong e Petit e so-
stiene che i calori specifici dei solidi a bassa temperatura
devono essere costanti. Questo ragionamento ‘non fa una
grinza’ poiché discende linearmente dai principi di con-
servazione dell’energia. Però c’è una sorpresa: se questo
fosse vero, quella quantità misteriosa che si chiama entro-
pia, nel limite della temperatura assoluta che va a 0, di-
venterebbe infinita. Siccome l’energia necessaria per com-
piere una qualunque trasformazione fisica è proporzionale
all’entropia, vorrebbe dire che vicino allo 0 assoluto nes-
suna trasformazione diverrebbe possibile, perché richiede-
rebbe una energia infinita. Significherebbe che l’universo
non diviene più. Poiché l’universo si trova a temperatura
molto bassa – 2 o 3 gradi assoluti nello spazio cosmico –
diventerebbe una sorta di Essere parmenideo. Eraclito ne
uscirebbe deluso. Tuttavia l’osservazione dà più ragione a
Eraclito che non a Parmenide, perciò ci deve essere qual-
cosa di sbagliato nel ragionamento. Di conseguenza la leg-
ge della costanza dei calori specifici non può essere vera.
Bisogna prima capire se la legge è vera o falsa, nonostante
la lineare ragionevolezza.
Il grande chimico tedesco Walther Nernst – ci vuole
sempre il non esperto – usando tutti i progressi della tec-
nologia disponibili a cavallo tra Ottocento e Novecento –
all’epoca, le misurazioni sperimentali si fermavano ai 20°
Kelvin – sembrava non poter sostituire la legge di Dulong
e Petit. Tuttavia riesce ad abbassare la temperatura da 20
fino a 5° Kelvin, esplorando altri quindici gradi. Con gran-
de sollievo del partito termodinamico, scopre che la legge
risultava falsa, ovvero il calore specifico calava al calare
112  emilio del giudice

della temperatura e tendeva allo 0 della temperatura asso-


luta3. Se ciò fosse vero, cadrebbe l’argomento dell’entropia
infinita, che tenderebbe invece allo 0. Le trasformazioni
avverrebbero dunque con grande facilità. Eraclito trionfa e
Parmenide si sta zitto!
Ora però sono i fisici a preoccuparsi. Come si fa a spe-
cificare il fatto che il calore specifico non è costante? Uti-
lizziamo un’altra metafora – molto accessibile nei tempi
in cui Equitalia ha cominciato a utilizzare il redditometro.
Supponiamo che io venga chiamato in causa, e la finanza
mi richieda di esibire le spese e il reddito degli ultimi cin-
que anni. Supponendo che vengano a scoprire che le mie
spese sono rimaste costanti, ma i miei guadagni diminuiti,
mi ritroverei nella situazione fisica per cui devo compie-
re un salto costante ma l’energia che il mondo mi offre è
sempre di meno. Il passaggio da 0° a 1° non richiede pra-
ticamente niente, da 1° a 2° è richiesta un po’ di energia,
da 2° a 3° un po’ di più, finché arrivo fino a 20° e vado in
saturazione. Come reagirebbe la guardia di finanza rispetto
a questo quadro? Affermerebbe che ci sono dei pagamenti
in nero.
In altri termini, Nernst – che prima di svolgere il la-
voro aveva evidentemente passato una vacanza a Napoli
– scoprì una specie di contrabbando di energia, qualcosa
che fornisce surrettiziamente energia al sistema senza che
nessuno se ne accorga. Questa energia non viene dall’in-
terazione con altri corpi, altrimenti ce ne accorgeremmo,
essendo il sistema isolato in studio. Facendo dunque un
conto di tutte le variabili di interazione, il conto non torna.
È da qui che nasce la rivoluzione quantistica. Da dove vie-
ne dunque questa energia che non passa attraverso le mo-
lecole? Con grande audacia intellettuale Nernst risponde:
dal vuoto! Ma il vuoto non è il nulla? Evidentemente no.
Evidentemente l’idea che la natura si componga di og-
getti immersi in uno spazio inerte che è il vuoto è falsa.
3
  Cfr. Walther Nernst, Die theoretischen und experimentellen Grun-
dlagen des neuen Wärmesatzes, Wilhelm Knapp, Halle 1918, trans. by
Guy Barr, The New Heat Theorem, Its Foundations in Theory and Ex-
periment, Methuen and Co., London 1926.
la teoria quantistica dei campi e la fisica della materia vivente  113

Evidentemente il vuoto svolge una funzione dinamica,


altrimenti l’entropia diventerebbe infinita e saremmo tutti
fregati. Questa è la nascita della fisica quantistica. La fisica
quantistica nasce da una crisi logica della fisica classica. Si
dimostra falso il fatto che i corpi siano inerti e separati, che
possano ricevere energia solo ed esclusivamente dall’inte-
razione con altri corpi. Esiste allora una fluttuazione spon-
tanea di tutti i corpi in connessione con la loro interazione
col vuoto, siccome il vuoto è dappertutto, si tratta di un’in-
terazione a cui non si può sfuggire. Se così dunque fosse,
significherebbe non poter più disporre del corpo isolato,
principio che sta alla base della concettualizzazione della
fisica classica.
Nessun corpo può essere più isolato, perché grazie alle
sue fluttuazioni nel vuoto comunica sempre con altri corpi,
esiste sempre un’interazione. Per quasi un secolo, questo
risultato – che è una rivoluzione del pensiero – è passato
inosservato ed è stato nascosto dietro l’idea dell’esisten-
za di paradossi, interpretazioni che attribuivano all’osser-
vatore e alla sua interazione il motivo della fluttuabilità
spontanea dei corpi. L’osservatore che perturba: l’atomo è
piccolo, l’osservatore è grande, quest’ultimo non può che
perturbare.
Tuttavia sono stati scoperti sistemi quantistici macro-
scopici come i superconduttori. Posso avere un cavo su-
perconduttore lungo cento miglia e i rapporti di grandezza
si invertono (l’osservatore diventa microscopico). Non si
tratta dunque di interazione con l’osservatore, bensì di in-
terazione col vuoto, in cui il corpo è esposto alle fluttuazio-
ni di tutti gli altri corpi dell’universo. Ci avviciniamo alla
conclusione.
Per riassumere dal punto di vista formale i risultati della
fisica quantistica è importante ricordare il teorema di Bell,
un fisico che ha posto in termini di logica formale gli esiti
della fisica quantistica. Egli sostiene:

Il seguente insieme di tre affermazioni è logicamente incompa-


tibile, per cui una delle tre deve necessariamente cadere: 1) la realtà
fisica è descritta dalla fisica quantistica; 2) la realtà fisica è suscet-
114  emilio del giudice

tibile di descrizione oggettiva – nel senso di indipendente dall’os-


servatore; 3) la realtà fisica è descrivibile come un insieme di eventi
localizzati nello spazio e nel tempo. Queste tre affermazioni non
possono stare tutte e tre insieme4.

Einstein, che è stato anche uno dei padri della fisica


quantistica e ha anticipato le connessioni formalizzate da
Bell, era geniale ma aveva dei blocchi psicologici. Per Ein-
stein la realtà doveva essere oggettiva e allo stesso tempo
localizzabile. E diceva (cito a memoria): «se per capire un
oggetto devo sapere anche cosa sta accadendo nella costel-
lazione di Andromeda allora la scienza è finita. La scienza
è possibile solo se posso localizzare gli oggetti»5. Era una
persona fortemente legata alla oggettività. La sua afferma-
zione implicava la falsità della fisica quantistica, che di-
viene solo un’approssimazione alla realtà, in attesa di una
teoria più vera.
Quindi il partito di Einstein, che è rimasto minoritario,
fa cadere la prima delle tre affermazioni.
Niels Bohr e tutta la scuola di Copenaghen che ha do-
minato la fisica del Novecento, fa cadere invece la seconda
affermazione riguardante l’oggettività. E dice: «siccome la
fisica quantistica è vera e resta il problema della localiz-
zabilità, vorrà dire che gli oggetti ancora prima di essere
localizzati producono queste fluttuazioni incredibili che
conducono all’indeterminismo»6. Supponete che io ab-
bia una barca e non voglia ammettere la relazione con i
moti marittimi lontani, posso dichiarare che alcune volte la
barca produce da sé dei moti inconsulti. Questa è una via
sciocca, perché tiene conto dell’oggettività apparente ma
non va molto lontano.

4
  John S. Bell, On the Einstein-Podolsky-Rosen Paradox, in «Phy­
sics», 1, 3 (1964), pp. 195-200.
5
  Albert Einstein – Boris Podolsky – Nathan Rosen, Can Quan-
tum-Mechanical Description of Physical Reality be Considered Com-
plete?, in «Physical Review», 47 (1935), pp. 777-780.
6
  Niels Bohr, Can Quantum-Mechanical Description of Physical
Reality be Considered Complete?, in «Physical Review», 48 (1935),
p. 700.
la teoria quantistica dei campi e la fisica della materia vivente  115

David Bohm fa invece cadere la terza affermazione. E


dice più o meno ‘non è vero che si può concepire la realtà
come un insieme di oggetti separati’7. Questo è il punto
più importante. Data la fluttuazione di ogni corpo, il corpo
dà luogo a un potenziale elettromagnetico, il quale viaggia
lontano e connette gli altri corpi. La fluttuazione di un cor-
po viene immediatamente comunicata agli altri corpi, che
producono una specie di danza collettiva. Naturalmente
l’ampiezza di queste oscillazioni può variare in grandezza,
per cui le conseguenze sperimentali possono essere anche
piccole e quindi a volte la fisica classica non riesce a regi-
strarle, specie quando lavora sulle alte temperature – che
significa che le fluttuazioni prodotte dalle forze esistenti
sono abbastanza grandi da coprire le micro-fluttuazioni. Se
però si lavora a bassa temperatura queste micro-fluttuazio-
ni riemergono e sono osservabili – motivo per cui la fisica
quantistica venne scoperta a bassa temperatura. Una volta
capito il meccanismo, posso fare la seguente affermazio-
ne conclusiva. È possibile che le diverse fluttuazioni dei
vari corpi separati si sintonizzino tra di loro, per cui nasca
un movimento collettivo che ingigantisce la fluttuazione
d’insieme. Supponete che io abbia tanti suonatori, ognu-
no produce un sussurro in fase l’uno con l’altro, alla fine
emerge un concerto colossale. L’importante è mettere in
fase le proprie fluttuazioni.
Qui l’energia conta poco. L’energia esce come risultato
finale. Quello che è importante è il ritmo, la fase, che non
ha contenuto energetico. Se gli elementi di un sistema sono
in fase, questo può funzionare con un consumo energetico
infinitesimale. Questa è la principale differenza tra compu-
ter e cervello. Il computer è fatto da oggetti che non sono in
fase, per cui ogni elemento del computer per fare qualcosa
deve compiere una spesa energetica. Se però si usasse il
gioco delle fluttuazioni spontanee – che non costano nulla
perché sono prodotte naturalmente – e si riuscisse a pilo-
tarle in modo da produrre una sinfonia in fase, quello che

7
  Cfr. David Bohm, Quantum Theory, Prentice Hall, New York,
1951.
ne uscirebbe sarebbe una musica e non il solito rumore
della discordanza. Questo è quello che succede veramente.
Abbiamo visto che l’acqua liquida emette naturalmente un
suono che ha la struttura di una partitura musicale. Questa
è la base fisica per capire come la materia, a un certo grado
di sviluppo produce una psiche. Cos’è una psiche se non
un logos? E cos’è un logos se non un insieme di fluttuazio-
ni armonizzate che producono un significato? Ma a questo
punto mi fermo. Lasciandovi con la curiosità di come pro-
seguo: così mi invitate un’altra volta!
L’esperienza del vuoto nello yoga.
Un incontro con la fisica quantistica
Domenico Fiormonte

Premessa con ringraziamenti

Questo lavoro nasce da un triplice incontro. Nel novem-


bre 2008, al ritorno dal primo mio viaggio in India, fui col-
pito da un attacco di sciatica che mi tenne paralizzato per
circa quaranta giorni. Il dolore fisico e psichico furono solo
alcuni degli aspetti di quel periodo, ma il mio incontro, o
meglio rincontro, con lo yoga, si deve a quell’esperienza e
dunque in un certo senso sono grato alla malattia. Ancora
non del tutto ristabilito e pieno di paure, mi consegnai a un
insegnante, Antonio Olivieri, che per sette anni mi ha gui-
dato con autorevolezza, semplicità, attenzione. Qualità che
mi hanno conquistato e tenuto legato a lui e alla tradizione
del viniyoga che egli rappresenta. A lui va dunque il mio
secondo ringraziamento.
Sulla via della guarigione iniziai anche un’altra impor-
tante esperienza legata a gruppo di persone speciali. Non è
necessario fornirne i dettagli, ma lo ricordo perché da quel
momento iniziarono una serie di esplorazioni, scoperte e
riscoperte. La ricerca, che è anche la professione della mia
vita, mutò di direzione e di senso. Durante una di queste
esplorazioni incontrai Emilio Del Giudice. Così, dopo la
malattia e l’inizio della pratica (potrei dire immerso in ta-
pas e svādhyāya), feci il terzo incontro. Dopo anni di ina-
ridimento accademico Emilio arrivò come l’esplosione di
una supernova. La sua prima conferenza a Roma Tre, dedi-
cata all’incontro fra scienze umane e scienze della natura,
118  domenico fiormonte

fu la rivelazione non solo di un pensiero che finalmente


riusciva a ‘tenere uniti’ (yuj!) mondi tenuti artificialmen-
te separati, ma del legame profondo fra le visioni di una
scienza finalmente libera e la spiritualità. E di tutto ciò egli
non ne faceva mistero – professandosi al contempo ateo…
Per Emilio infatti non potevano esistere separazioni fra
scienza e ricerca spirituale e perciò, per come la vedeva
lui, tutte le etichette, anche quelle più intoccabili, doveva-
no crollare. Come direbbe Amit Goswami1, un altro grande
fisico quantistico e ‘cugino indiano’ di Emilio, egli era un
(inconsapevole?) quantum yogin e lavorava per un cam-
biamento profondo e globale della conoscenza – e dunque
delle coscienze. A lui va il terzo ringraziamento, quello del
cuore.

Introduzione

All’inizio di Il Karma e le professioni in relazione con


la vita di Goethe, Rudolf Steiner, parlando della vita di
Goe­the, descrive sommariamente il sistema dei corpi se-
condo i principi teosofici. Tale sistema è imparentato con
quello dei kośa: grosso modo il corpo fisico corrisponde ad
annamaya-kośa, l’eterico a prāṇamaya-kośa e il mentale a
manomaya-kośa; mentre risulta meno diretta la corrispon-
denza con il corpo astrale, detto anche «corpo dei deside-
ri» o corpo kama. Ma senza troppo addentrarci nella que-
stione, è interessante notare come Steiner legga la vita del
grande poeta tedesco alla luce della relazione fra i corpi:

Che cosa avvenne dunque in Goethe con la malattia di Lipsia? Si


verificò come un allentamento del corpo eterico entro il quale erano
attive sino ad allora le forze dell’anima; un allentamento tale che,
dopo la malattia, non si ricostituì più la salda connessione tra corpo
eterico e corpo fisico che Goethe possedeva prima di ammalarsi.

1
  Cfr. Amit Goswami, The Visionary Window: A Quantum Physi-
cist’s Guide to Enlightenment, Quest Books, Wheaton (IL) 2006, trad.
it. di Anna Lamberti Bocconi, Guida quantica all’illuminazione. L’in-
tegrazione di scienza e coscienza, Edizioni Mediterranee, Roma 2007.
l’esperienza del vuoto nello yoga  119

Il corpo eterico è l’elemento sovrasensibile in noi che ci permette


di pensare, di formarci delle rappresentazioni. Le rappresentazioni
astratte che abbiamo nella vita ordinaria […] originano dal fatto che
il corpo eterico è strettamente legato al corpo fisico, legato per così
dire da un vincolo magnetico2.

La possibilità di «allentamento» del legame fra corpo


fisico ed eterico, fra corpo e prāṇa, suggerisce l’idea di
uno spazio con il quale veniamo a contatto e di cui faccia-
mo esperienza anche nella pratica yoga. Uno degli scopi
di questo lavoro è investigare come (e dove) si articoli il
rapporto fra questi due livelli energetici, ipotizzando che le
pause del respiro, e in particolare la ritenuta a vuoto, siano
un plausibile strumento-momento di passaggio – l’inter-
faccia fra corpo eterico e corpo fisico. Il prāṇayama nel
suo complesso sarebbe dunque in grado di gestire, come
una porta che gira sui suoi cardini, aperture e chiusure, nel
senso di possibilità di percepire quel sottile confine ener-
getico che lega i due corpi, permettendo alla coscienza di
affacciarsi3. Ma che cosa avviene durante questo momento
di passaggio? Chi sono e come si comportano gli attori
della mediazione pranica?
Nel prosieguo della conferenza Steiner sottolinea come
l’esperienza di Goethe fu fondamentale per sviluppare in
senso spirituale la sua intera esistenza:

Quando l’uomo si trova con l’io e il corpo astrale fuori dal capo,
egli non si sviluppa soltanto, come si è detto, un intimo legame con

2
  Rudolf Steiner, Das Karma des Berufes des Menschen in Anknüp-
fung an Goethes Leben: Zehn Vorträge, gehalten in Dornach vom 4.
bis 27. November 1916, Verlag der Rudolf-Steiner-Nachlaßverwaltung,
Dornach 19642, qui nella trad. it. di Leila Trevese, Il Karma e le profes-
sioni in relazione con la vita di Goethe. Dieci conferenze tenute a Dor-
nach dal 4 al 27 novembre 1916, Antroposofica, Milano 2010, pp. 40 s.
3
  «Per mezzo del prāṇayama, cioè prolungando sempre più l’espi-
razione e l’inspirazione (lo scopo di questa pratica è quello di lasciare
trascorrere un intervallo, il più lungo possibile, tra questi due momen-
ti della respirazione), lo yogin può dunque penetrare tutte le modalità
della coscienza». Cfr. Mircea Eliade, Le yoga: immortalité et liberté,
Payot, Paris 1954, qui nella trad. it. di Giorgio Pagliaro, Lo Yoga. Im-
mortalità e libertà, Rizzoli, Milano 1999, p. 65.
120  domenico fiormonte

il restante organismo tramite il sistema dei gangli e il sistema spina-


le; ma sviluppa anche, dall’altra parte, legami spirituali con il mon-
do spirituale. Sviluppa dunque anche questi ultimi. Possiamo dire
pertanto che, a una connessione particolarmente attiva con il siste-
ma spinale e il sistema dei gangli, fa riscontro una viva connessione
animico-spirituale con il mondo spirituale4.

Sono convinto che la possibilità di tale sviluppo sia le-


gata all’emergere della coscienza. A questa ipotesi e al
ruolo fondante svolto dal concetto di vuoto nella tradizio-
ne del pensiero sapienziale antico-indiano e nella fisica
quantistica si legano le riflessioni che seguono. Natural-
mente non è mia intenzione suggerire nessuna analogia
fra yoga e fisica quantistica, né cercare di ‘tradurre’ una
dimensione nell’altra, banalizzando e confondendo conte-
sti e obiettivi diversi. Queste riflessioni sono il risultato di
un incontro fra l’esperienza professionale, la ricerca spi-
rituale e la pratica dello yoga. In modo assai modesto l’o-
biettivo è contribuire a mantenere vivo un dialogo, quello
fra scienza e spiritualità, che oggi sembra arrivato a un
punto di maturazione.

1. La mediazione del prāṇa

Il nostro percorso per avvicinarci a questa ‘emersione’


inizia dunque da un breve esame del concetto di prāṇa5.
Derivato dal prefisso pra- e dalla radice indeuropea an-
(respirare, inalare) il termine prāṇa «indica il soffio vitale
4
  Rudolf Steiner, Il Karma e le professioni in relazione con la vita
di Goethe, trad. it. cit., p. 71.
5
  È interessante notare che in latino spiritus vuol dire ‘respiro’: «in
molte antiche tradizioni filosofiche e religiose occidentali e orientali il
significato originale del termine spirito è respiro vitale. Poiché la respi-
razione è effettivamente un aspetto centrale del metabolismo di tutte le
forme viventi, tranne le più elementari, il respiro della vita sembra una
metafora perfetta dei processi metabolici che definiscono tutti i sistemi
viventi. Lo spirito – il respiro della vita – è ciò che abbiamo in comune
con tutti gli esseri viventi: ci nutre e ci mantiene vivi». Fritjof Capra
– Pier Luigi Luisi, Vita e natura. Una visione sistemica, Aboca, Sanse-
polcro 2014, p. 352.
l’esperienza del vuoto nello yoga  121

che pervade il corpo e lo anima, dura fin che dura la vita e


svanisce allo svanire di questa, ma designa anche l’energia
che circola nel corpo attraverso le nāḍī (i canali del ‘cor-
po sottile’)»6. Questo doppio statuto o ‘ruolo’ del prāṇa
va sottolineato perché nello yoga il respiro è «il punto di
collegamento fra il corpo e la mente»7, che perciò non si
identifica con prāṇa, ma ne è piuttosto il veicolo. Patañjali
introduce il concetto nel I libro degli Yogasutra:

I. 34 pracchardana vidhāraṇābhyāṁ vā prāṇasya


Oppure [la stabilità della mente si ottiene] attraverso l’espira-
zione e la ritenzione del respiro (prāṇasya)8

Così commenta il sūtra Chandra K. Cuffaro: «Il men-


tale distratto può cambiare qualità quando ci si impegna in
una pratica di respirazione. Quando si espelle tutto quello
che non serve con l’aiuto dell’espirazione completa, senza
ritenere nulla, la mente si calma»9.
Che il prāṇa sia al centro del processo di purificazio-
ne e acquietamento della mente diverrà più chiaro nel II
libro, quando Patañjali descriverà il prāṇāyāma, ovvero
quell’insieme di tecniche respiratore sviluppate per il con-
trollo del soffio vitale. Questa energia che anima il corpo
è «la stessa energia che sostiene l’intero universo». Detto
in termini ancora più pregnanti prāṇāyāma è «la relazione
con il respiro e con l’energia della vita»10:

6
  Enciclopedia dello Yoga, a cura di Stefano Piano, Magnanelli, To-
rino 2008, p. 259.
7
 Alberto Stipo, Appendice didattica, in Swami Svātmārāma, La
lucerna dello Haṭha-yoga (Haṭhayoga-pradīpīka), a cura di Giuseppe
Spera, Magnanelli, Torino 2013, p. 115.
8
  Patañali, Yoga Sūtra. Il più antico testo di yoga con i commenti
della tradizione, a cura di Massimo Vinti – Piera Scarabelli, Mimesis,
Milano-Udine 2012, p. 67.
9
  Supporto verbale agli Yoga Sūtra di Patañali: Sāmadhi e Sādhana
Pāda, a cura di Chandra Klee Cuffaro, Centro Studi Yoga Sooryachan-
dra, 2010-2014, p. 15.
10
  Ivi, p. 41.
122  domenico fiormonte

II. 49 tasmin sati śvāsa-praśvāsyor-gati-vicchedaḥ prāṇāyāmaḥ


Conseguito tutto questo, (si giunge al) prāṇāyāma, che consiste
nella sospensione del movimento dell’inspiro e dell’espiro [incon-
sapevole]11

L’ottenimento del respiro consapevole è una tappa fon-


damentale del processo che conduce alla liberazione della
mente. Patañjali infatti dopo aver descritto in II. 50 le mo-
dalità del prāṇāyāma e aver menzionato in II. 51 il «quar-
to» prāṇāyāma, che trascende il respiro, conclude che

II. 52 tataḥ kṣīyate prakāśa-āvaraṇam


Allora viene rimosso il velo che copre la luce

Dunque la pratica costante del prāṇāyāma rimuove il


velo delle impurità facendo riscoprire la propria «luce in-
terna»12. Così commenta Raphael:

Vi è un quarto stadio del prāṇāyāma che trascende quello pret-


tamente fisiologico: la coscienza si ritira completamente nel corpo
vitale, da lì si attua la respirazione pranica dirigendo coscientemente
le correnti vitali lungo determinati centri o parti del corpo. In questa
condizione il corpo fisico denso rimane totalmente quiescente, rigi-
do, in catalessi, per cui lo schermo che copre la luce dei piani più
sottili è rimosso13.

11
  Patañali, Yoga Sūtra, cit., p. 141. Simile la traduzione di Raphael:
«Realizzato questo si ha prāṇāyāma che è la cessazione del movimento
di inspirazione ed espirazione». Patañali, La via regale della realizza-
zione (Yogadarśana), a cura di Raphael, Edizioni Āśram Vidyā, Roma
1992, p. 83. Ho aggiunto fra parentesi [inconsapevole] per evitare
fraintendimenti, giacché śvāsa-praśvāsa è il ciclo respiratorio che «ha
luogo inconsciamente». Enciclopedia dello Yoga, cit., p. 348. Trattasi
di un passo complesso che così viene sciolto da T.K. Desikachar: «Il
prāṇāyāma è la regolazione conscia e volontaria del respiro che sosti-
tuisce la respirazione involontaria. È possibile solo quando si possegga
una certa padronanza della pratica degli āsana». Tirumalai Krishna-
macharya V. Desikachar, The Heart of Yoga: Developing a Personal
Practice, Inner Traditions International, Rochester (VT) 1995, qui nella
trad. it. di Gianpaolo Fiorentini, Il cuore dello Yoga. Come sviluppare
una pratica personalizzata, Ubaldini, Roma 1997, p. 199.
12
  Supporto verbale agli Yoga Sūtra di Patañali, cit., p. 42.
13
  Patañali, La via regale della realizzazione, cit., pp. 84 s.
l’esperienza del vuoto nello yoga  123

E tuttavia siamo solo agli inizi di quella completa tra-


sformazione della mente che, passando attraverso i suc-
cessivi aṅga, ovvero il ritiro dei sensi (pratyāhāraḥ), la
concentrazione (dhārāṇa) e la meditazione (dhyāna) potrà
condurre lo yogin al samādhi, lo stato di perfetto racco-
glimento – e di qui finalmente alla completa liberazione
(kaivalyam).

Tutto questo mondo, comunque sia, vibra [ejati = trema] nel


prāṇā, da lui essendo stato espresso. Coloro che conoscono questo
grande tremore, questa folgore brandita, divengono immortali14.

Il respiro crea lo spazio sacro in cui avviene il contatto


con quello stato di coscienza superiore che nella tradizione
yogica assume diverse forme, gradi e nomi.
Negli Yogasutra è centrale il concetto di puruṣa, il princi-
pio immutabile che può manifestarsi nell’ascesi. Ontologia
e fenomenologia del puruṣa sono fra i temi più complessi
del pensiero sapienziale indiano: innumerevoli sono stati i
tentativi per spiegare essenza e manifestazione di un princi-
pio la cui manifestazione sfugge agli stati ordinari della co-
scienza. Nel Ṛgveda appare una delle più antiche occorrenze
del termine, legato alla cosmogonia: «Tutto ciò che esiste
è trasformazione di questo ente originario», scrive Saverio
Sani15, e le prime strofe del bellissimo inno recitano:

1. puruṣa aveva mille teste, mille occhi, mille piedi. Ricopriva


tutta la terra da ogni parte e la superava ancora di dieci dita. // 2.
puruṣa è tutto questo universo, sia ciò che è stato, sia ciò che deve
ancora essere. Egli è anche il signore degli immortali che fa crescere
sempre di più con il cibo sacrificale16.

Nello yoga (e nel sāṃkhya), puruṣa può essere defini-


to come ‘l’osservatore’, il ‘testimone’, ma anche ‘anima’
o ‘spirito’: in termini più vicini alla cultura occidentale
14
  Katha-Upaniṣad, II 6.2. qui. Upaniṣad Antiche e medie, a cura di
Pio Filippani-Ronconi, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 356.
15
  Ṛgveda. Le strofe della sapienza, a cura di Saverio Sani, Marsilio,
Venezia 2000, p. 248.
16
  Ṛgveda X,90, qui Ṛgveda, cit., p. 67.
124  domenico fiormonte

potremmo anche definirlo «coscienza spirituale»17. Ma


questa ‘coscienza’ ha una sua particolare fenomenolo-
gia, perché pur abitando (visitando?) il nostro corpo non
può manifestarsi per ciò che è, facendogli filtro e ostaco-
lo citta, la mente. In altre parole l’oggetto di conoscenza
(viṣayā) viene percepito in modo deformato a causa delle
incessanti mutazioni della mente – e in generale di prakṛti.
Prāṇāyāma perciò svolge un ruolo attivo nel rimediare
all’erronea identificazione di puruṣa e prakṛti che è fonte
primaria di sofferenza18.
A proposito del rapporto fra puruṣa e prāṇa, sono par-
ticolarmente calzanti le osservazioni di T.K.V. Desikachar
quando parla di haṭhayoga:

Possiamo considerare l’haṭha yoga come parte del rāja yoga, che
viene descritto come il processo in cui il prāṇa, amico di puruṣa, ri-
sale gradualmente verso l’alto. Quando raggiunge la cima, il puruṣa
si libera e il re dentro di noi si manifesta19.

2. Il vuoto

Nel rapporto fra le due energie «amiche» appena richia-


mate da Desikachar manca però un elemento. Se possiamo
escludere che puruṣa si contamini con il corpo, dobbiamo

17
  Elementi di base dello Yoga nella tradizione di T. Krishnama-
charya e T.K.V. Desikachar, a cura di Antonio Olivieri, Centro Studi
Yoga Sooryachandra, Roma 2010-2014, p. 4.
18
  Si tratta in sostanza di una identificazione del trascendente col
transeunte: «Ciò che avviene al puruṣa è che dopo samyoga entra nel-
la manifestazione della prakṛti attraverso la buddhi [l’intelletto], che è
la categoria più vicina al puruṣa, e comincia a identificarsi con essa.
Per questo la buddhi può apparire senziente, ma in realtà è il puruṣa a
esserlo. Il puruṣa, penetrando sempre di più nella prakṛti, perde la sua
identità apparendo agente, quando in realtà rimane immobile. Da questo
errore primario proviene il dolore umano, poiché il puruṣa, senziente,
si fa carico dell’impermanenza della prakṛti (non senziente)». Sāṃkhya,
in Appunti del corso di formazione Yoga, a cura di Antonio Olivieri,
Associazione Studi Yoga Viniyoga, Roma 2010-2014, p. 2.
19
  Tirumalai Krishnamacharya V. Desikachar, Il cuore dello Yoga,
trad. it. cit., p. 166.
l’esperienza del vuoto nello yoga  125

ipotizzare che tale processo si svolga altrove – in un certo


senso in territorio ‘neutro’. Siamo dunque arrivati al cuo-
re della mia ipotesi. Se gli Yogasutra non sembrano men-
zionare specificatamente questo particolare ‘luogo’ (śūnya
appare in I. 9 ma in un diverso contesto), nel buddhismo e
in altri testi yogici il vuoto (śūnya) assume un ruolo impor-
tante: «Nella metafisica dello śivaismo del Kashmir […] il
‘vuoto’ è un modo di essere della Coscienza divina, che per
intraprendere la manifestazione del cosmo, deve oscurare
o negare la propria infinitezza e presentarsi come vuoto
assoluto, trascendente e privo di contenuti»20.
La connessione fra śūnya e prāṇa è esplicitamente ri-
chiamata in più punti della Haṭhayogapradīpīka di Svātm-
ārāma:

IV. 10. Dopo che la grande Śakti Kuṇdalinī è stata risvegliata


grazie ai vari āsana e ai diversi kumbhaka e mudrā, allora il prāṇa si
dissolve nel Vuoto (il brahmarandhra). […]

IV. 12. Quando il prāṇa percorre la suśumnā e il manas si dis-


solve nel Vuoto, allora colui che conosce lo yoga estirpa la radice
di tutte le azioni21.

IV. 38. Benché le venerabili śāmbhavi e khecarī siano differenti


per la posizione e il luogo, in entrambe è la beatitudine della mente
che si dissolve nel Vuoto, la cui natura è letizia della coscienza22.

Sebbene la visione del «dissolvimento» possa suggerire


la scomparsa di qualcosa, in realtà, come vedremo a breve,
si sta parlando di una trasformazione e di un «passaggio».
Il curatore così commenta: «Il Vuoto è il Brahman che è al
di là del tempo, dello spazio e della materia. […] inoltre in

20
  Enciclopedia dello Yoga, cit., p. 339. «Nel vuoto della mente si
realizza la pienezza infinita della pura Consapevolezza non duale (ātm-
an-Brahman)». Glossario Sanscrito, a cura del Gruppo Kevala, Edizio-
ni Āśram Vidyā, Roma 2011, p. 123.
21
  Swami Svātmārāma, La lucerna dello Haṭha-yoga (Haṭhayoga-
-pradīpīka), cit., p. 82.
22
  Ivi, pp. 86 s.
126  domenico fiormonte

esso non c’è più distinzione fra cose differenti, uguali, né


vi è differenziazione»23.
Śūnya nelle Upaniṣad è anche accostato a turīya, «il
quarto stato», lo stato della coscienza che si illumina, «in
cui si realizza l’unione con il brahman»24:

Turīya è la pura e assoluta Coscienza non duale, priva di mo-


dificazioni (vṛtti), sovrapposizioni (upādhi) e oggetti; può essere
realizzato con il nirvikalpasamādhi25 e, in quanto Coscienza pura,
è l’essenza di ogni conoscenza, quindi Conoscenza pura, di là da
oggetto e soggetto26.

Śūnya e sūnyatā («vacuità») sono termini fondamentali


della metafisica della scuola buddista dei Mādhyamika
che hanno indubbiamente influenzato lo Haṭhayogapradī-
pīka27.
Riassumendo quanto detto sin qui, l’energia del prāṇa,
controllata attraverso le tecniche di prāṇāyāma (che nel
«quarto» stato viene trasceso28), ci guida nel contatto con
la coscienza-puruṣa. Tale contatto è veicolato dal vuoto
che però, come vedremo fra breve, secondo la fisica quan-
tistica non è assenza di materia, ma uno stato energetico
qualificato di essa.

2.1 La risonanza cosmica: Emilio Del Giudice

Secondo la fisica quantistica la materia è «intrinseca-


mente fluttuante» e il suo stato minimo di energia viene
chiamato in gergo vuoto: «non è perciò più lo stato in cui a
causa dell’assenza di forze esterne c’è un vuoto di energia,

23
  Ivi, pp. 82 e 87.
24
  Upaniṣad Antiche e medie, cit., p. 500.
25
  Nirvikalpasamādhi, ‘raccoglimento senza distinzione’ (Enciclo-
pedia dello Yoga, cit., p. 230) è un termine usato nel vedānta e corri-
sponde nello yoga a asamprajñāta-samādhi.
26
  Glossario Sanscrito, cit., p. 307.
27
  Enciclopedia dello Yoga, cit., pp. 338 s.
28
 Cfr. Yogasutra II. 51.
l’esperienza del vuoto nello yoga  127

ma è lo stato ‘pieno’ delle fluttuazioni spontanee dell’og-


getto dato»29. Scrive Emilio Del Giudice:

D’altronde il vuoto quantistico è un oggetto che precede la ma-


teria, per cui esso precede anche lo spazio ed il tempo. Il vuoto
quantistico è perciò privo di struttura spazio-temporale e questo
fatto lo rende profondamente diverso dal vecchio etere. Gli oggetti
interagenti tra di loro attraverso il vuoto quantistico non sono perciò
connettibili in modo causale. Questa proprietà è stata simultanea-
mente percepita dal fisico Albert Einstein e dallo psicologo analitico
Carl G. Jung, sia pure nell’ambito del dialogo serrato avuto con il
fisico Wolfgang Pauli30.

Dunque il vuoto non è nemmeno un ‘luogo’, ma più esat-


tamente un continuum di possibilità31. La metafora del con-
tatto con la coscienza-puruṣa è appunto una metafora, giac-
ché la coscienza non si attinge, ma emerge, accade: in tale
senso noi ne facciamo esperienza. Continua Del Giudice:

L’importanza della scoperta del vuoto quantistico fu colta an-


che al di fuori dell’ambiente dei fisici, ma, a differenza di Einstein,
alcuni studiosi dei vari aspetti del vivente accolsero con interesse
ed entusiasmo questo nuovo mondo che si apriva. Mi limito a se-
gnalare il caso di Carl Gustav Jung, legato al fisico Wolfgang Pauli
da uno stretto rapporto e di cui ora possiamo leggere l’epistolario.
Jung riconobbe, senza essere turbato dallo scetticismo di Einstein,
l’esistenza di due tipi di processi naturali, i processi diacronici e i
processi sincronici. I primi si svolgono nello spazio e nel tempo e
obbediscono al principio di causalità nell’accezione di Einstein; i
secondi invece connettono le entità interagenti al di fuori dello spa-

29
  Emilio Del Giudice – Giuseppe Vitiello, Fisica. Quando il vuoto
è pieno, in «Megachip. Democrazia nella comunicazione», 14 ottobre
2014, disponibile all’indirizzo  <http://www.sinistrainrete.info/teoria/3108
-edel-giudice-gvitiello-quando-il-vuoto-e-pieno.html> (ultimo accesso: 1
settembre 2018).
30
  Emilio Del Giudice, Una via quantistica alla teoria dei sistemi,
in Strutture di Mondo, a cura di Lucia Urbani Ulivi, Il Mulino, Bologna
2010, p. 53.
31
  Cfr. Fritjof Capra, The Tao of Physics: An Exploration of the
Parallels between Modern Physics and Eastern Mysticism, Shambhala
Publications, Boulder (CO) 1975, qui nella trad. it. di Giovanni Salio, Il
tao della fisica, Adelphi, Milano 1995, pp. 248 s.
128  domenico fiormonte

zio-tempo e sono accessibili a chiunque si ponga in uno stato inte-


riore meditativo nel senso della tradizione orientale, cioè prescinda
dall’osservazione analitica dell’ambiente circostante e risuoni con il
proprio ritmo interiore che ha a sua volta la possibilità di risuonare
con le oscillazioni del cosmo32.

Potremmo dire che nello yoga tale «stato interiore me-


ditativo» che ci pone in comunicazione col cosmo coincida
con il samādhi, il quale oltre ad avere diverse qualità e li-
velli33 si manifesta attraverso un processo detto saṁyama:

III. 1. deśa-bandhaḥ cittasya dhāraṇā


La concentrazione (dhāraṇā) consiste nel fissare la mente in un
punto (deśa).
III. 2. tatra pratyaya-ikatānatā dhyānam
La meditazione (dhyāna) è la facoltà di mantenervi
l’attenzione.
III. 3. tadeva-artha-mātra-nirbhāsaṁ svarūpa-śūnyam-iva-
samādhiḥ
Quando (dhyāna) brilla della sola luce dell’oggetto, privo per
così dire della propria natura, si ha il samādhi.

Ma non siamo ancora nella piena risonanza: i tre aṅga


appena menzionati infatti contemplano ancora la presenza
di un oggetto «rispetto al samādhi senza-seme (nirbīja),
che viene definito anche asaṁprājñāta, cioè privo della
conoscenza di un oggetto»34. Si tratta ancora di un «mezzo
di realizzazione esteriore […] ma non potrà mai cogliere la
natura del puruṣa individuale»35.
Ipotizzerei dunque che lo stato di «risonanza cosmi-
ca» descritto poco sopra da Del Giudice, pur includen-
do il livello interiore-individuale, coincida con il nirbīja
samādhi.
Altro punto fondamentale di contatto è la nozione di
tempo (abbiamo letto sopra che nel vuoto quantistico si

32
  Emilio Del Giudice, Una via quantistica alla teoria dei sistemi,
cit., p. 55.
33
 Cfr. Yogasutra, I. 41-51.
34
  Patañali, Yoga Sūtra, cit., p. 158.
35
  Ibidem.
l’esperienza del vuoto nello yoga  129

dissolve la concezione ordinaria dello spazio-tempo). Alla


fine del III libro Patañali scrive:

III. 52. kṣaṇa-tat-kramayoḥ saṁyamāt vivekajaṁ-jñānam


La conoscenza che viene dalla discriminazione [si ottiene] col
fare saṁyama sull’istante e sulla sua successione.

Per tutti i commentatori il sūtra esprime l’idea che il


tempo sia una creazione della mente priva di realtà e invece
il momento, l’istante, sia l’unità percepibile nel saṁyama:

Per lo yoga, come risulta chiaro dagli aforismi III, 13 e soprattutto


III, 52 e dai rispettivi commenti di Vyāsa, il tempo come entità a sé
stante non esiste, è una pura costruzione mentale di cui bisogna sba-
razzarsi. L’unica realtà è l’istante o momento (kṣaṇa) presente, prece-
duto e seguito da una serie ininterrotta di momenti uguali, equivalenti
ciascuno allo spostamento di un atomo da un punto all’altro36.

Giustamente a tale proposito osserva Raphael: «La


scienza yoga, già in epoche lontane, aveva preso in consi-
derazione la questione del tempo, ma anche dello spazio e
della causa, e da quanto possiamo apprendere ha precorso
certe impostazioni scientifiche dell’era moderna»37.
Tuttavia insieme alla forti analogie non possiamo na-
scondere le differenze che a prima vista sembrano marcare
le due concezioni di ‘vuoto’: da un lato infatti abbiamo un
vuoto mediatore e approdo verso il distacco totale dalla
materia (la nozione di vacuità starebbe a dimostrare il «ca-
rattere insostanziale e illusorio del mondo, sia, più modera-
tamente, per constatare l’inconoscibilità razionale della re-
altà»38); dall’altro abbiamo lo stato minimo di energia della
«materia fluttuante»: «L’elemento essenziale della attività
della materia è il suo rapporto con il vuoto»39. In un altro
saggio il fisico scrive:

36
  Patañali, Gli aforismi sullo Yoga (Yogasūtra), a cura di Corrado
Pensa, Bollati Boringhieri, Torino 1978, p. 213.
37
  Patañali, La via regale della realizzazione, cit., p. 120.
38
  Enciclopedia dello Yoga, cit., p. 339.
39
  Emilio Del Giudice, Una via quantistica alla teoria dei sistemi,
cit., p. 68.
130  domenico fiormonte

L’apparizione del vuoto come agente fisico faceva crollare un


pilastro della fisica classica, cioè la nozione di corpo isolato. Nessun
corpo era più isolabile, perché, anche se esso poteva essere tenuto
al riparo dall’influenza degli altri corpi, non poteva essere mai di-
sconnesso dal vuoto. Attraverso il vuoto tutti i corpi interagivano e,
poiché l’arrivo di una ‘ondata’ dal vuoto non poteva essere prevista,
ogni singolo corpo individuale era soggetto a fluttuazioni ‘quantisti-
che’ imprevedibili. Non l’interazione dell’oggetto con l’osservato-
re, ma la sua interazione con il vuoto è all’origine delle fluttuazioni
quantistiche40.

L’opposizione materiale-immateriale (fisico-metafisi-


co?) sembrerebbe dunque rendere inconciliabili le due no-
zioni di vuoto. Ma è veramente così? E soprattutto, siamo
sicuri che qui valgano ancora le nozioni comuni di mate-
rialità e immaterialità? La rivoluzione della fisica quanti-
stica consiste anche in questo: rendere obsolete le nostre
rassicuranti concezioni occidentali di ‘corpo’, ‘forma’ e
‘materia’. Ma non accade lo stesso quando studiamo e fac-
ciamo esperienza dello yoga?
In effetti qui non abbiamo una materia che si contrappo-
ne a śūnya e un vuoto quantistico che si oppone a puruṣa
(o brahman):

Nonostante l’uso di termini come vacuità e vuoto, i saggi orientali


fanno capire che essi non intendono la normale vacuità quando par-
lano di Brahman, del Śūnyata o del Tao, ma, al contrario, intendono
un vuoto che ha un potenziale creativo infinito. Dunque, il vuoto dei
mistici orientali è certamente paragonabile al campo quantistico della
fisica subatomica. Come il campo quantistico, esso genera una infini-
ta varietà di forme che sostiene e, alla fine, riassorbe41.

Anche nello yoga la natura-prakṛti non è in opposizione


alla coscienza-puruṣa, ma è in fondo ciò che ne permette la
manifestazione (sebbene gravida di conseguenze negative).
Si tratta infatti di due polarità, due principi dalla cui con-

40
  Emilio Del Giudice, Prometeo ovvero l’anima passionale della
ragione scientifica, in Scienza e società, a cura di Patrice Poinsotte,
Aracne, Roma 2008, p. 139.
41
  Fritjof Capra, Il tao della fisica, trad. it. cit., p. 246.
l’esperienza del vuoto nello yoga  131

giunzione (saṃyoga), secondo il sāṃkhya, si origina l’uni-


verso. Il fatto che il percorso dello yoga sia lo strumento per
rimediare all’errore di identificazione di puruṣa con prakṛti
non presuppone la necessità di eliminare la seconda (o il
primo!). La fisica quantistica non può negare né affermare
l’esistenza di una coscienza immutabile e trascendente, ma
solo aiutarci a meglio definire e comprendere le basi fisiche
(non materiali!) dell’interazione. A tale scopo la nozione di
vuoto quantistico non appare in contrapposizione con l’as-
sunto che la mente (manas), nel processo dello yoga, venga
riassorbita nel vuoto («in cui si realizza l’unione con il Brah-
man»42). Al contrario, affermare che «l’elemento essenziale
della attività della materia è il suo rapporto con il vuoto»43
può essere interpretato come una conferma della relazione,
paradossale ma necessaria, fra spirito e manifestazione del-
la materia, fra puruṣa e prakṛti44. Tale relazione-interazione,
come ribadito in precedenza, avviene nel vuoto, il luogo del-
le potenzialità generatrice della materia (tale è il brahman),
attraverso la mediazione del prāṇa.
Sull’identità fra śūnya (soprattutto in corrispondenza
col buddhismo) e vuoto quantistico, come abbiamo visto
sopra, aveva già riflettuto a lungo Fritjof Capra nel celebre
(ma da molti dimenticato) Il tao della fisica45:

Il campo46 esiste sempre e dappertutto, non può mai essere eli-


minato. Esso è il veicolo di tutti i fenomeni materiali. È il ‘vuoto’
dal quale il protone crea i mesoni π. L’esistere e il dissolversi delle

42
  Upaniṣad Antiche e medie, cit., p. 500.
43
  Emilio Del Giudice, Una via quantistica alla teoria dei sistemi,
cit., p. 68.
44
  «La situazione dello spirito (puruṣa), com’è concepita dal
Sāṃkhya e dallo Yoga, è un po’ paradossale; benché puro, eterno e in-
tangibile, lo spirito si presta ad associarsi, sebbene in modo illusorio,
con la materia; del pari, per prendere conoscenza del proprio modo di
essere e di ‘liberarsi’, esso è ancora costretto a servirsi di uno strumento
creato dalla prakṛti (nel caso specifico, l’intelligenza)». Mircea Eliade,
Lo Yoga. Immortalità e libertà, trad. it. cit., p. 44.
45
  Fritjof Capra, Il tao della fisica, trad. it. cit.
46
  Si riferisce alla teoria quantistica dei campi. «Campo» sembre-
rebbe qui un altro modo per definire il vuoto (ricordiamo che il testo di
Capra fu scritto originariamente nel 1975). L’autore nel virgolettato sta
132  domenico fiormonte

particelle sono semplicemente forme di moto del campo. Infine, la


distinzione tra materia e spazio vuoto dovette essere abbandonata
quando divenne evidente che le particelle virtuali possono generarsi
spontaneamente dal vuoto, e svanire nuovamente in esso […]. Il
vuoto è bel lungi dall’essere vuoto. […] La relazione tra le particelle
virtuali e il vuoto è una relazione dinamica; il vuoto è certamente
un ‘Vuoto vivente’, pulsante in ritmi senza fine di creazione e di-
struzione47.

Dunque un cosmo pulsante o «oscillante», per usare il


termine preferito da Del Giudice, è impegnato in una «in-
cessante danza cosmica di energia»48. La liberazione di cui
parla lo yoga potrebbe essere letta come la possibilità di
trascendere la manifestazione ‘diacronica’ della materia (i
guṇa, cfr. infra Conclusioni), come dire l’hic et nunc di
essa, e riconnettersi alla fonte origine di tutte le manife-
stazioni.
Ovviamente, ancora una volta, occorre intenderci sull’e-
spressione ‘fenomeno materiale’, evitando di considerare
puruṣa un elemento al di là della ‘materia’. Se infatti lo
yoga, come molte altre tradizioni con radici mistico-spiri-
tuali, è anche esperienza, allora potremmo ipotizzare che
l’immutabilità del puruṣa è fatta di ‘altra materia’, ma cer-
tamente non del tutto ‘immateriale’ (almeno in senso oc-
cidentale) o al di là della fisica. Chissà che non sia questo
forse il terreno sui cui sia possibile iniziare a ricomporre
secoli di fratture e incomprensioni fra scienza e spiritualità.

citando Walter Thirring, Urbausteine der Materie, in «Almanach der


österreichischen Akademie der Wissenschaften», 118 (1968), p. 159.
47
  Fritjof Capra, Il tao della fisica, trad. it. cit., p. 258.
48
  Ivi, p. 259. «Data la fluttuazione di ogni corpo, il corpo dà luogo
a un potenziale elettromagnetico, il quale viaggia lontano e connette
gli altri corpi. La fluttuazione di un corpo viene immediatamente co-
municata agli altri corpi, che producono una specie di danza colletti-
va». Cfr. Emilio Del Giudice, La teoria quantistica dei campi e la fi-
sica della materia vivente. Un’ipotesi sui fenomeni psichici, a cura di
Domenico Fiormonte – Michele Lucantoni, in «Megachip. Democrazia
nella comunicazione», 19 aprile 2014, disponibile all’indirizzo <https://
pt.scribd.com/doc/219109968/La-teoria-quantistica-dei-campi-e-la-fi-
sica-della-materia-vivente-Un-ipotesi-sui-fenomeni-psichici-Del-Giu-
dice> (ultimo accesso 1 settembre 2018).
l’esperienza del vuoto nello yoga  133

2.2 Il quantum Yoga di Amit Goswami

Se Fritjof Capra aveva compiuto un passo importante


verso il collegamento fra fisica e saggezza orientale e Del
Giudice si sporge sull’orlo di śūnya, Amit Goswami va ol-
tre. Il fisico indiano nella sua opera usa le basi teoriche
della fisica quantistica, interpretate alla luce del pensiero
sapienziale, per affermare che la coscienza è in grado di
costruire la nostra esperienza, ovvero che «la materia esi-
ste come possibilità all’interno della coscienza»49. Il suo
libro The Visionary Window: A Quantum Physicist’s Guide
to Enlightenment50 è un audace excursus fra vedānta, Upa-
niṣad, meccanica quantistica, scienze cognitive, biologia,
filosofia, storia delle religioni, ecc. il cui obiettivo esplicito
è operare una sintesi fra scienza e spiritualità. Tale sforzo è
costato a Goswami moltissime critiche, ma il suo approc-
cio è molto più sottile di quanto possa apparire a una lettu-
ra superficiale. Il suo progetto non è tanto portare ‘prove’
che giustifichino scientificamente la sua idea di coscienza
(così come fanno molti guru New Age), ma fondare una
teoria unitaria di essa. Il problema di fondo però è sempre
lo stesso: accostare risultati scientifici a ipotesi mistiche
è visto come un’operazione indebita fin quando – come
asserisce lo stesso Goswami – le nostre idee di scienza e
spiritualità rimarranno confinate nell’alveo delle culture ed
epistemologie che le hanno generate. Come evitare allora
fraintendimenti e incomprensioni? Tanto per iniziare cia-
scuno dovrebbe svestirsi dei propri panni. Noi occidenta-
li dovremmo liberarci dell’idea di ‘purezza’ delle scienze
e prendere atto che i sistemi di pensiero dell’antica India
considerano centrale l’esperienza «diretta e personale […]
cui si accompagna un totale coinvolgimento del sogget-
to pensante […] che […] cerca di individuare il tragitto
della sua intera avventura mondana inscrivendola nel con-
testo – non solo cognitivo, ma soprattutto trasformativo –
49
  Amit Goswami, Guida quantica all’illuminazione. L’integrazio-
ne di scienza e coscienza, trad. it. cit., p. 59.
50
  Cfr. Amit Goswami, The Visionary Window: A Quantum Physi-
cist’s Guide to Enlightenment, cit.
134  domenico fiormonte

dell’Assoluto»51. Dunque un Assoluto assolutamente pre-


sente, guidato e sostenuto dalla presenza di una comunità
di riferimento e di un maestro che ci accompagnano nella
trasformazione: qualcosa di ben diverso dalla filosofia oc-
cidentale e dai suoi soggetti disincarnati. In definitiva, per
legittimare operazioni come quella di Goswami è necessa-
rio resettare le nostre conoscenze a partire, come accenna-
vo poco sopra, dalla rifondazione di concetti chiave come
«materia» e «spirito». È probabile che la fisica quantistica
in questo percorso possa aiutarci a ricomporre un quadro
che da secoli non fa che sospingerci in un baratro di inco-
municabilità.
Al di là del fatto se il fisico indiano sia riuscito o meno
nell’impresa, la sua ricerca ci aiuta ad aggiungere alcuni
tasselli al nostro tema, in particolare al rapporto fra vuoto,
coscienza e tecniche di ascesi (fra cui naturalmente lo yoga).
Il libro è suddiviso in tre parti: nella prima viene pre-
sentata una sintesi della fisica quantistica, nel secondo e
nel terzo tale sintesi diviene la base per riconciliare le vi-
sioni della scienza e della spiritualità sulle origini del co-
smo e della vita.
La discontinuità, l’incertezza e l’indeterminatezza che
scaturiscono dall’osservazione dei fenomeni quantistici52
suggeriscono a Goswami che l’osservatore, ovvero la co-
scienza, abbiano un ruolo primario nella ‘costruzione’ del-
la realtà (e non solo): «Quando la coscienza fa collassare

51
  Raffaele Torella, Il pensiero dell’India. Un’introduzione, Caroc-
ci, Roma 2008, p. 12.
52
  «[…] gli elettroni sono onde di possibilità. Quando non è sot-
toposto a osservazione, un elettrone, a causa della sua interazione col
campo elettromagnetico, diventa una sovrapposizione d’essere su due
(o più) orbite alla volta, benché come possibilità. Quando osserviamo
un elettrone, la sua possibilità di trovarsi in due (o più) luoghi diventa
attualità e allora l’elettrone in quel momento si trova in un determi-
nato punto, e nel contempo viene emesso un quanto di luce. Questo
collasso dell’onda di possibilità dell’elettrone nell’elettrone attuale che
noi vediamo ha luogo istantaneamente. È discontinuo; non vi è collasso
localizzato nello spazio in termini di velocità finita in tempo finito. La
discontinuità del salto quantico rimane». Amit Goswami, Guida quanti-
ca all’illuminazione, trad. it. cit., p. 45 (corsivi miei).
l’esperienza del vuoto nello yoga  135

l’attualità dalle possibilità, c’è spazio per il libero arbitrio,


per la creatività, per il disegno divino»53. Sebbene usino un
linguaggio profondamente diverso e uno si dichiari ateo e
l’altro mostri tendenze misticheggianti, le posizioni di Del
Giudice e Goswami alla fine non paiono così distanti. Per il
primo la coscienza emergerebbe dalla capacità-possibilità
di risuonare con il proprio ritmo interiore e con le oscilla-
zioni del cosmo; il secondo scrive:

L’onda di possibilità è situata in una potenzialità trascendente, in


un dominio che trascende spazio e tempo. L’influsso non locale è un
influsso trascendente: influenza la realtà manifesta ma non implica
segnali nello spazio-tempo. Un influsso non locale agisce dall’e-
sterno dello spazio tempo, ma ha effetto all’interno di esso. […] Gli
oggetti quantici sono in potenza onde trascendenti, ma collassano
come particelle localizzate quando sono osservati54.

Questa paradossalità – abbastanza familiare per prati-


canti e studiosi di yoga – viene ribadita dopo aver illustrato
l’esperimento della doppia fenditura (sulla natura ondula-
toria e corpuscolare degli oggetti quantici):

Siete voi, decidendo l’assetto sperimentale, a scegliere il modo


in cui l’elettrone si rivelerà. La natura dell’elettrone è indipendente
da voi, come vorrebbe la dottrina dell’oggettività forte? No. Non
è così semplice. Questo non è l’unico contesto in cui la coscienza
sceglie la realtà. […] Il matematico John Von Neumann affermò che
la questione ha una sola risposta ragionevole: la coscienza sceglie
– noi scegliamo – il punto in cui un elettrone si manifesterà in un de-
terminato evento. […]. Dove va a finire l’oggettività (forte) in fisica,
se la coscienza è essenziale nel determinare le manifestazioni della
realtà? E se la coscienza ha il potere causale di scegliere la realtà
materiale, può essere considerata un epifenomeno della materia?55

Goswami nella seconda parte del suo lavoro affronta di-


rettamente anche le questioni che riguardano, per così dire,
la ‘pratica’ dell’illuminazione, illustrando i concetti e le

53
  Ivi, p. 49.
54
  Ivi, p. 50.
55
  Ivi, p. 54.
136  domenico fiormonte

tecniche dello yoga direttamente connessi alla sua idea di


«coscienza quantistica». E qui è interessante notare che, in
accordo con la tradizione yogica più autentica, egli affer-
ma che lo spirito ha bisogno della materia, ovvero «sen-
za corpo fisico non si possono fa collassare le esperienze
mentali»56. Possiamo accostare tale ipotesi alle riflessioni
di un altro fisico quantistico (molto legato a Del Giudice)
che sembrerebbe sostenere un dualismo funzionale all’e-
sperienza della coscienza:

There is no conflict between the subjectiveness of the first person


experience of consciousness and the objectiveness of the external
world. Without such an objectiveness there would be no possibility
of ‘openness’ (openness on what?), no dissipation out of which con-
sciousness could arise. Objectiveness of the external world is the
primary, necessary condition for consciousness to exist57.

Anche se il termine «oggettività» può essere fuorvian-


te nel nostro contesto (e certamente lontano da Goswami),
possiamo convenire sul fatto che l’apertura è resa possibile
dalla presenza di un ‘esterno’, così come il respiro e lo spa-
zio creano le condizioni e la base per l’esperienza del vuoto.
Nel processo di avvicinamento alla coscienza svolge un
ruolo fondamentale la meditazione. Una delle prove portate
come esempio della «non località» della coscienza furono gli
esperimenti del neurofisiologo messicano Jacobo Grinberg
Zylberbaum58. In questi esperimenti, poi ripetuti negli anni
successivi in altre istituti di ricerca del mondo59, due persone
riuscivano a stabilire una connessione tramite la meditazio-
56
  Ivi, pp. 128-130.
57
  Giuseppe Vitiello, The Dissipative Brain, in Brain and Being. At
the Boundary Between Science, Philosophy, Language and Arts, ed. by
Gordon G. Globus – Karl H. Pribram – Giuseppe Vitiello, John Benja-
mins, Amsterdam 2004, pp. 315-334.
58
  Cfr. Jacobo Grinberg-Zylberbaum – Manuel Delaflor –Leah Attie
– Amit Goswami, The Einstein-Podolsky-Rosen Paradox in the Brain:
The Transferred Potential in «Physics Essays», 7, 4 (1994), pp. 422-
428.
59
  Cfr. Amit Goswami – Renee Slade – Ri Stewart, The Quantu-
mactivist. La rivoluzione che sta cambiando la scienza, Cesena, Mt0
– Macroticonzero (Libro e DVD), 2011.
l’esperienza del vuoto nello yoga  137

ne60; in effetti i tracciati degli encefalogrammi mostravano


evidenti sovrapposizioni nonostante i due soggetti meditas-
sero in stanze elettromagneticamente isolate (gabbie di Fa-
raday). Le conclusioni di Goswami ci riportano a una delle
immagini preferite da Capra e Del Giudice, la danza: «la
coscienza fa collassare stati simili di realtà in entrambi i cer-
velli […]. Correlazione fra due oggetti vuol significa correla-
zione nelle loro fasi di movimento, la particolare condizione
del loro moto ondulatorio. La coerenza di fase – l’esempio
dei ballerini del musical – è un esempio di correlazione»61.
Va sottolineato che l’interesse di Goswami per lo yoga
e la meditazione non è solo di tipo scientifico o intellettua-
le, ma deriva dalla sua personale esperienza di praticante.
La prospettiva quantistica dunque diventa lo strumento per
addentrarsi ulteriormente «nella spiegazione dei processi
cognitivi che hanno luogo quando ci si immerge nel re-
gno degli eventi collassanti della consapevolezza»62. In più
punti il fisico indiano insiste sulla necessità di applicare
qui e ora i principi della teoria quantistica, trasformando la
propria esistenza. Anche per questo dedica grande spazio
agli Yogasutra di Patañali, illustrando in dettaglio il pro-
cesso del samādhi63. L’attenzione del fisico si concentra
soprattutto sul nirvikalpasamādhi (come abbiamo visto so-
pra corrispondente all’asamprajñāta-samādhi dello yoga),
introducendo anche turīya64, il «quarto stato» al quale ab-
biamo già accennato:

60
 Amit Goswami, Guida quantica all’illuminazione, trad. it. cit.,
p. 82.
61
  Ivi, pp. 83 s.
62
  Ivi, p. 179.
63
  Ivi, pp. 176-181.
64
  «I saggi pensano che il Quarto, che non ha conoscenza né degli
oggetti interni né di quelli esterni, né, contemporaneamente, di questi e
di quelli, che non è sintesi di conoscenza, <poiché> non è né conoscente vanno bene?
né non conoscente, che è invisibile, non agente, incomprensibile, inde-
finibile, impensabile, indescrivibile, è la sicura essenza fondamentale
dell’ātman, nella quale è totalmente cessata ogni traccia di manifesta-
zione, ed è pienezza di pace e beatitudine, senza dualità: questo è l’ātm-
an». Cfr. Māṇḍūkyaupaniṣad II. 7, in Upaniṣad antiche e medie, cit., p.
373; cfr. anche Glossario Sanscrito, cit., pp. 306 s.
138  domenico fiormonte

Inoltre, c’è la possibilità di cadere negli spazi vuoti tra un col-


lasso di consapevolezza secondaria e l’altro, nei processi inconsci:
questo è il nirvikalpa samādhi. Riveste una speciale importanza lo
stato stesso della consapevolezza primaria, in cui il sé quantico bril-
la nella sua pienezza e colui che conosce, ciò che è conosciuto e il
campo della conoscenza convergono. In questo stato non vi sono
riflessi della memoria del passato […]. In questo stato, si instaura
la saggezza che la tradizione chiama turīya, la saggezza definitiva e
ineffabile della coscienza in se stessa65.

Da un certo punto in poi Goswami sembra esplicita-


mente abbandonare le vesti di fisico. Le sue ‘ipotesi’ scien-
tifiche si fondono e mescolano con la riflessione spirituale
e i testi sapienziali a essa collegati, molto di più di quanto
lo stesso Capra avesse osato ne Il tao della fisica:

Quando la coscienza scende, essa dimentica anche se stessa e


così si lega all’ignoranza […]. I sottili corpi quantici intellettuale e
mentale presentano alla coscienza strutture di possibilità che con-
tengono contesti di pensiero e pensieri veri e propri. La coscienza
e le sue possibilità mentali e contestuali sono ancora un intero in-
diviso. Ad ogni modo, quando la coscienza autoreferenziale fa col-
lassare le possibilità in attualità a un livello inferiore (quello fisico)
[…] ciò crea l’apparente separazione tra soggetto e (pensatore) e
pensiero (oggetto), che conduce all’oblio dell’unità66.

È facile leggere in queste righe l’eco del sāṃkhya,


sebbene ancora più esplicito sia il riferimento alle Upaniṣad
e al vedānta67. Dunque l’emergere della coscienza può es-
sere descritta come un «collassamento» spazio-temporale
che si verifica ogni qual volta entriamo in connessione col
vuoto. Il percorso dello yoga, in cui «il respiro è il nostro
maestro»68, è lo strumento che ci permette di arrivare alle

65
 Amit Goswami, Guida quantica all’illuminazione, trad. it. cit.,
p. 179.
66
  Ivi, p. 137.
67
  Ivi, pp. 121-132.
68
  Tirumalai Krishnamacharya V. Desikachar, Il cuore dello Yoga,
trad. it. cit., p. 80.
l’esperienza del vuoto nello yoga  139

soglie di śūnya-turīya69, lì dove spazio e tempo si annulla-


no, permettendo di far trapelare ciò che normalmente rima-
ne soffocato, nascosto, velato: puruṣa.

3. Conclusioni

Come notava anche Mauro Bergonzi nel saggio conte-


nuto in questo volume, le nostre abitudini epistemologi-
che, ovvero le cornici all’interno del quale si muovono le
nostre conoscenze e le nostre interpretazioni di tali cono-
scenze, non rendono facilmente praticabili i parallelismi
che abbiamo sin qui tentato. Più di duemila anni separano
la speculazione yoga dalle scoperte della fisica quantistica
e non possiamo aspettarci di trovare gli stessi strumenti e
le stesse definizioni per determinati fenomeni. Oltre a ciò
lo yoga non è una scienza né una filosofia, ma uno stru-
mento con un obiettivo preciso: la liberazione. Meta finale
dello yogin è il kaivalya:

IV. 34. puruṣa-artha-śūnyānāṁ guṇānāṁ-pratiprasavaḥ kai-


valyaṁ svarūpa-pratiṣṭhā vā citiśaktiriti
Il kaivalya consiste nel ritorno dei guṇa, ormai privi di scopo
nei confronti del Puruṣa, alla loro condizione originaria o, (detto
altrimenti) nel dimorare del potere della consapevolezza nella pro-
pria forma.

Liberation (kaivalya) fulfills the goal of the true self (puruṣa);


matter (guṇa) is transcended. The true nature of being and the force
of absolute knowledge are then revealed.

69
  «Negli āśram himalayani di Hardwar, Rishikesh, Svargashram,
dove sono rimasto tra il settembre 1930 e il marzo 1931, numerosi san-
nyasi mi hanno dichiarato che il fine del prāṇāyāma era di far entrare
il praticante nello stato turīya o stato ‘catalettico’. Io stesso ho avuto
modo di vederne alcuni passare buona parte del giorno e della notte in
una profonda ‘meditazione’, durante la quale la respirazione era appena
percettibile». Mircea Eliade, Lo Yoga. Immortalità e libertà, trad. it.
cit., p. 65 n.
140  domenico fiormonte

Ho accostato questa traduzione inglese del sūtra perché


mi sembra rendere meglio come nella liberazione la mate-
ria (i guṇa, le qualità primarie di prakṛti) vengano trascese
e puruṣa cessi di essere sottoposto all’impero della men-
te diacronica. Desikachar così traduce: «Quando lo scopo
supremo della vita è raggiunto, le tre qualità fondamentali
non trovano più risposta nella mente. Questa è la libertà. In
altre parole, il Percettore non è più influenzato dalla men-
te»70. Ancora più belle le parole del commento: «C’è pace
tanto nell’azione che nell’inazione. Non c’è più alcun sen-
so di obbligo rispetto all’accettare una responsabilità o al
declinarla. Le tre qualità non si combinano più per disgre-
gare l’individuo. Siamo perfettamente consci dello stato di
pura chiarezza e conserviamo questo livello elevatissimo
per tutta la vita. La mente è il fedele servitore del suo pa-
drone, il Percettore»71.
Sono parole che ‘risuonano’ fortemente sia con lo spirito
orgogliosamente laico di Emilio Del Giudice sia con le spe-
ricolate incursioni del suo ‘gemello’ mistico Amit Goswa-
mi. Entrambi illuminano la strada di un dialogo possibile fra
scienza e spiritualità. Come scrivono Fritjof Capra (fisico) e
Pier Luigi Luisi (biologo), anche se gli oggetti dell’osserva-
zione di mistici e scienziati sono profondamente diversi (l’u-
no esplora la coscienza, l’altro osserva la natura), è possibile
ritrovarsi sullo stesso percorso: «Esplorando sempre più a
fondo il regno della materia [il fisico], diventa consapevole
dell’unità essenziale di tutti i fenomeni naturali. E ancora di
più comprende che lui stesso e la sua coscienza sono parte
integrante di questa unità. Così, il mistico e il fisico giungo-
no alla stessa conclusione; uno a partire dal mondo interiore,
l’altro dal mondo esterno»72.

70
  Tirumalai Krishnamacharya V. Desikachar, Il cuore dello Yoga,
trad. it. cit., p. 226.
71
  Ibidem.
72
  Fritjof Capra – Pier Luigi Luisi, Vita e natura, trad. it. cit., p. 363.
Il problema della coscienza sullo sfondo
delle scienze della mente e del cervello
Massimo Marraffa

La tradizione della metafisica moderna ci ha propo-


sto una concezione forte del soggetto. Si parte dall’alto,
dall’autoconoscenza introspettiva del filosofo, per poi gua-
dagnare tutto il resto. Il soggetto è trasparente a sé stesso,
e la consapevolezza riflessiva che la mente ha della sua
struttura e dei suoi contenuti produce una conoscenza dota-
ta di un particolare tipo di certezza, che si contrappone alla
conoscenza del mondo materiale. D’altro lato questa ‘cer-
tezza’, la certezza della coscienza di sé, a lungo è sembrata
essere complementare alla conoscenza del mondo esterno,
tanto che non si riusciva a concepire l’una senza l’altra:
in pratica, si dava per scontato che in ogni momento gli
esseri umani, in quanto esseri ragionanti e senzienti, di-
stinguessero con sufficiente chiarezza fra coscienza di sé
e coscienza di oggetto. E l’idea che potesse esistere una
coscienza d’oggetto senza coscienza di sé, per esempio nei
bambini piccoli e negli animali, ha molto faticato a farsi
strada, sullo sfondo di una separazione ontologica, data per
scontata, fra chi dispone di una coscienza ‘piena’, o matu-
ra, e quindi ha una vita mentale vera e propria, e chi invece,
come appunto il bambino piccolo e l’animale, si relaziona
con l’ambiente esclusivamente in virtù di un insieme di
riflessi, o di tropismi meccanici ed elementari.
Nell’indagare la soggettività, le scienze della mente e
del cervello hanno invertito la rotta. Fedele alla lezione
anti-idealistica di Darwin, esse hanno proceduto dal bas-
so verso l’alto, sforzandosi di spiegare come le funzioni
142  massimo marraffa

psicologiche complesse che sono alla base dell’autocono-


scenza introspettiva dell’adulto, evolvono da funzioni più
basilari. Il punto di approdo di questo rovesciamento me-
todologico è una critica della soggettività, che ci rivela che
il mondo fenomenologico della coscienza non possiede un
carattere primario e fondante rispetto al resto della vita psi-
chica. È questo il tema del presente scritto.

1. L’inconscio freudiano

Alla fine del XIX secolo l’idea di inconscio si propo-


ne con insistenza. Le neonate discipline della neurologia e
della psichiatria, unitamente allo studio dei fenomeni ipno-
tici, avevano richiamato l’attenzione su fenomeni difficili
da far quadrare con il mentalismo coscienzialistico di de-
rivazione cartesiana1. Tale ideologia, dopo aver dominato
a lungo la psicologia filosofica empirista e razionalista, si
apprestava a dar forma alla prima psicologia sperimentale.
Si capisce allora l’imbarazzo di filosofi, psicologi e neuro-
scienziati al cospetto di fenomeni che sembravano esibire
una natura mentale ma al tempo stesso trascendevano la
sfera della consapevolezza e del controllo cosciente.
Due strategie furono adottate al fine di riconciliare l’e-
sistenza di fenomeni mentali apparentemente inconsci con
il dogma dell’autotrasparenza della mente: (i) negare che
tali fenomeni fossero autenticamente inconsci; (ii) negare
che tali fenomeni fossero autenticamente mentali2.L’op-
zione (i) si sforzava di reinterpretare le prove in favore di
stati mentali inconsci come prove della possibilità di una
«scissione» o «dissociazione» della coscienza. Si ipotiz-
zava cioè che la coscienza potesse scindersi in due o più
sotto-coscienze che non avevano accesso l’una agli stati
dell’altra. L’opzione (ii) cercava di riconcettualizzare le

1
  Fenomeni quali la «grande isteria» convulsiva, la fuga dissociati-
va (o psicogena), l’amnesia dissociativa (o psicogena) e il disturbo di
personalità multipla (oggi «disturbo dissociativo di identità»).
2
  Cfr. David Livingstone Smith, Freud’s Philosophy of the Uncon-
scious, Kluwer, Dordrecht 1999.
la coscienza e le scienze della mente  143

prove addotte in favore dell’esistenza di stati mentali in-


consci come prove che attestavano disposizioni neurofisio-
logiche per stati autenticamente mentali3.
Nell’ultimo decennio del XIX secolo Freud interviene
in questa controversia prendendo posizione contro il men-
talismo coscienzialistico della prima psicologia sperimen-
tale e in favore dell’esistenza di fenomeni mentali «occor-
renti» e intrinsecamente inconsci.
Freud imprime però al concetto di inconscio curvatu-
re particolari. Innanzitutto, egli propone l’idea di una ses-
sualità dell’inconscio, una tesi strettamente legata a una
concezione materialista della psiche. L’ipotesi è che gli
atti della vita quotidiana e gli elaborati del pensiero sono
influenzati fino ai loro livelli più elevati da qualcosa – l’in-
conscio – che si infiltra nella mente cosciente a partire da
fattori biologici, materiali, istintuali, attinenti alla viscera-
lità e soprattutto alla sessualità. La ragione e l’autocoscien-
za sono a tal punto influenzate da questi fattori inconsci
da indurci ad affermare che «l’Io non è padrone in casa
propria»4.
Il referente storico più evidente di questo discorso freu-
diano è Nietzsche. Infatti, in questo filosofo – e prima an-
cora in Schopenhauer – troviamo l’idea che quella sogget-
tività che noi chiamiamo ‘io’ non sia primaria ma l’effetto
di qualche cosa. L’io – dice Nietzsche – non è qualcosa che
è dato, ma è qualcosa che è fatto. «‘Io’ dici tu, e sei orgo-

3
  Queste due strategie – sostiene Livingstone Smith (ibidem) – sono
opzioni ancora disponibili sul mercato filosofico. L’approccio «parti-
zionista» all’autoinganno proposto da Davidson (cfr. Donald David-
son, Paradoxes of Irrationality, in Philosophical Essays on Freud, ed.
by Richard Wollheim – James Hopkins, Cambridge University Press,
Cambridge, MA, 1982) e Pears (cfr. David Pears, Motivated Irratio-
nality, Oxford University Press, New York 1984) è una riformulazione
dell’opzione (i); mentre la teoria degli stati non occorrenti elaborata da
Searle (cfr. John R. Searle, The Rediscovery of the Mind, MIT Press,
Cambridge, MA, 1992) è una riproposizione dell’opzione (ii).
4
  Sigmund Freud, Una difficoltà della psicoanalisi (1917), in Opere
di Sigmund Freud, vol. 8: Opere 1915-1917: Introduzione alla psico-
analisi e altri scritti, a cura di Cesare L. Musatti, Bollati Boringhieri,
Torino 1978, p. 663.
144  massimo marraffa

glioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande, cui


tu non vuoi credere – il tuo corpo e la sua grande ragione:
essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’»5. La sfera della corporeità
domina l’uomo e determina il suo io, o meglio determina il
suo io come illusione di essere individuo intero, autolegit-
timato e autodeterminato. Del resto, come osservano Jer-
vis e Bartolomei, «le concezioni freudiane furono accolte
dalla cultura europea degli anni Venti e Trenta come parte
di un processo di revisione della concezione della natura
umana, che aveva avuto in Schopenhauer e soprattutto in
Nietzsche i suoi principali esponenti filosofici, e in Darwin
il suo precursore sul piano delle scienze biologiche»6.
Si può perciò dire che con la teoria dell’inconscio Freud
offre una formulazione psicologica di temi che fino a quel
momento avevano avuto espressione soltanto in filosofia e
in letteratura. E così facendo, entra in polemica non solo
con il mentalismo centrato sulla coscienza della prima
psicologia sperimentale, ma anche – e soprattutto – con
l’immagine dell’essere umano tipica dell’etica della bor-
ghesia dell’Ottocento, per cui l’essere umano, nella sua
espressione più alta, quella del gentiluomo civilizzato, è
caratterizzata dal pieno dominio dell’autocoscienza sul-
la mente, sul comportamento7. Questa concezione tende
ad avvicinare, e perfino a identificare, l’autocoscienza in
senso cognitivo, ossia come facoltà naturale della mente
umana, con l’autocoscienza come tensione di valutazione
e di autoappropriazione morale delle proprie azioni in uno
scenario interpersonale e sociale.
La seconda idea che caratterizza il concetto freudiano
di inconscio è quella di rimozione. Freud congetturò l’e-

5
  Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra, Verlag von Ernst
Schmeitzner, Chemnitz; C.G. Neumann, Leipzig 1883-1885, trad. it. di
Mazzino Montinari, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di Giorgio
Colli – Mazzino Montinari, vol. VI, tomo 1, Adelphi, Milano 1964, p.
34; su cui cfr. Remo Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazio-
ne delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 85 s.
6
  Giovanni Jervis – Giorgio Bartolomei, Freud, NIS, Roma 1996,
p. 31.
7
 Cfr. Giovanni Jervis, Psicologia dinamica, Il Mulino, Bologna
2001, p. 50.
la coscienza e le scienze della mente  145

sistenza di meccanismi psicologici difensivi deputati a ri-


muovere, ossia ad escludere attivamente dalla consapevo-
lezza una serie di contenuti (ricordi, pensieri, fantasie) che,
proprio in seguito alla rimozione, divenivano inconsci. In
tal modo, il termine ‘inconscio’ rinvia al tema del ‘non vo-
ler sapere’, del rifiutare verità scomode8.
Qui il discorso di Freud rinvia al classico tema della
malafede. Siamo agiti dalla realtà pulsionale del nostro
corpo biologico ma abbiamo un interesse (inconscio) a
mantenere non accessibile questa verità. Privo della garan-
zia ontologica su cui può contare l’io-sostanza cartesiano,
l’Io freudiano è un insieme di manovre difensive volte a
dissimulare la sua vera natura. L’Io ci appare, nel «sen-
so dell’io» (Ichgefühl), autonomo (selbständig), unitario
(einheitlich), contrapposto a ogni altra cosa (gegen alles
andere gut abgesetzt)9. Ma in realtà esso è eterogeneo,
eteronomo e secondario: l’Io è infatti la parte organizzata
dell’Es, pulsionalità totalmente inconscia e non organizza-
ta, con cui l’Io è in continuità senza alcuna delimitazione
netta e rispetto a cui funge da ‘facciata’. Questa facciata
non è peraltro mera apparenza:

la sua autonomia è illusoria, ma la sua struttura ci è preziosa. La


struttura dell’Io ci garantisce la possibilità di viverci come indivi-
dui, attraverso l’automatico sovrapporsi, necessario per le attività
della vita quotidiana, fra il sentimento della soggettività, o io sog-
gettivo, e l’autopresentarsi apparentemente autonomo dell’Io nella
sua parte cosciente. Ma così come l’Io freudiano non è autonomo,
così l’io soggettivo, che presume di esserne il centro e la fonte, non
vive la propria autonomia se non negandone il carattere illusorio.
Questa illusione è ciò che concede all’essere umano di cogliersi
come persona10.

8
  Cfr. Giovanni Jervis, Pensare dritto, pensare storto. Introduzione
alle illusioni sociali, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 136.
9
 Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, in Opere di Sigmund
Freud, vol. 10: Opere 1924-1929. Inibizione, sintomo e angoscia e altri
scritti, a cura di Cesare L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1978, p.
561.
10
  Giovanni Jervis, Presenza e identità. Lezioni di psicologia, Gar-
zanti, Milano 1984, pp. 59 s. (corsivo mio).
146  massimo marraffa

È dunque quanto mai appropriato collocare Freud fra gli


esponenti della ‘scuola del sospetto’. Ciò che lo accomuna
a Marx e Nietzsche – dice Ricoeur – è il dubbio sistematico
sull’autolegittimazione della coscienza. La coscienza nel
suo insieme è coscienza ‘falsa’:

Con ciò, [Marx, Nietzsche e Freud] riprendono, ognuno in un di-


verso registro, il problema del dubbio cartesiano, ma lo portano nel
cuore stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla scuola
di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono;
ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa
[…]; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo
il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza11.

La psicoanalisi è dunque una forma di autocoscienza


critica, l’articolazione di un dubbio metodico sulle pretese
tradizionali di autolegittimazione dell’autocoscienza:

Freud raccoglie, esemplifica, sistematizza un dubbio, una crepa


nell’autocoscienza: raccoglie e spalanca una crisi. Egli dimostra che
l’uomo non sa veramente perché agisce in un certo modo: la chiave
delle azioni umane non sta nella loro giustificazione morale ufficia-
le, e non può essere appresa direttamente con una buona volontà
introspettiva che appare, ora, intrisa di malafede12.

Una crepa nell’autocoscienza che – come ora mostreremo


– assume le dimensioni di una frana rovinosa in alcuni filoni
di ricerca delle odierne scienze della mente e del cervello.

2. Prima l’intenzionalità, poi la coscienza

Se negli ultimi decenni del XIX secolo la psicologia


scientifica nasce come analisi introspettiva dei contenuti di

11
  Paul Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Sigmund Freud, Le
Seuil, Paris 1965, trad. it. di Emilio Renzi, Della interpretazione. Sag-
gio su Freud, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 47.
12
  Giovanni Jervis, Psicologia, in La cultura del Novecento, a cura
di Alfonso Berardinelli – Costanzo Di Girolamo, Mondadori, Milano
1981, pp. 318 s.
la coscienza e le scienze della mente  147

coscienza, nel corso del Novecento essa muta radicalmen-


te fisionomia per diventare prima un’analisi delle strutture
del comportamento e quindi, a partire dagli anni Cinquan-
ta, dei rapporti fra comportamento e funzioni cognitive.
Oggi la psicologia è più freudiana di Freud. I cognitivi-
sti ricorrono sistematicamente a spiegazioni del comporta-
mento in cui i processi mentali sono operazioni inconsce
condotte su stati rappresentazionali altrettanto rigorosa-
mente inconsci; e in effetti, il ricorso teorico all’inconscio
– «cognitivo» secondo Kihlstrom13, «computazionale» se-
condo Dennett14 – è stato così accentuato da indurre Fodor
ad asserire che «praticamente tutti gli stati cognitivi psico-
logicamente interessanti sono inconsci»15.
Questo modo di accostarsi al mentale – ci rammenta
ancora Fodor16 – non sarebbe stato possibile nell’universo
concettuale pre-freudiano, dove veniva stabilito un nesso
intrinseco tra coscienza e intenzionalità. A Freud va il me-
rito di aver sciolto questo legame, conferendo plausibilità
all’idea che la spiegazione del comportamento non può far
a meno di ipotizzare stati mentali intenzionali ma inconsci.
Un’idea, conclude Fodor, che nel Novecento ha trovato
ampie conferme, soprattutto nella linguistica chomskiana
e in psicologia cognitiva17.

13
  Cfr. John F. Kihlstrom, The Cognitive Unconscious, in «Sci-
ence», 237 (1987), pp. 1445-1452.
14
  Cfr. Daniel C. Dennett, How to Study Human Consciousness Em-
pirically, in «Synthese», 53 (1982), pp. 159-180; cfr. anche The New
Unconscious, ed. by Ran R. Hassin – James S. Uleman – John A. Bargh,
Oxford University Press, Oxford-New York 2005; Social Psychology
and the Unconscious: The Automaticity of Higher Mental Processes, ed.
by John A. Bargh, Psychology Press, New York 2007.
15
  Jerry A. Fodor, The Modularity of Mind: An Essay on Faculty
Psychology, MIT Press, Cambridge (MA) 1983, p. 86. Cfr. anche Max
Velmans, Is Human Information Processing Conscious?, in «Behavior-
al and Brain Sciences», 14 (1991), pp. 651-726.
16
  Cfr. Jerry A. Fodor, Too Hard for Our Kind of Mind? in «London
Review of Books», 13, 12, 27 giugno 1991.
17
  Per una discussione dell’idea che la spiegazione psicologica del
comportamento richiede che vengano postulati stati rappresentazion-
ali al livello «subpersonale» o «subdoxastico», cfr. Stephen P. Stich,
Beliefs and Subdoxastic States in «Philosophy of Science», 45 (1978),
148  massimo marraffa

Questa annotazione storica richiede però una correzione


importante: il cognitivismo non si è limitato a confermare
la nozione freudiana di inconscio ma è andato molto oltre.
Infatti, Freud non si chiede mai che cosa sia la coscienza e
dà quindi per scontata la sua definizione. Il suo concetto di
inconscio si definisce ‘per differenza’ rispetto a un concet-
to di coscienza inteso come dato primario (la mente auto-
cosciente adulta)18. Del resto, nella psicoanalisi freudiana
l’ipotesi che la coscienza non sia condizione necessaria
della mentalità trova la sua applicazione solo in alcuni casi
eccezionali o anomali (lapsus, nevrosi, ecc.) e sullo sfondo
di una concezione del mentale come essenzialmente co-
sciente19. Concettualmente, insomma, la teoria freudiana
dell’inconscio non riesce a districarsi fino in fondo dalla
psicologia della coscienza del XIX secolo.
Le cose mutano profondamente nella psicologia cogni-
tivista. Quest’ultima definisce la mente come un processo
di costruzione e trasformazione di rappresentazioni. Ora,
una rappresentazione è una struttura di informazioni (co-
dificata in qualche modo nel cervello), individuata esclusi-
vamente dal ruolo causale-funzionale che svolge nel com-
portamento, e dunque interamente a prescindere dalle sue
(eventuali) componenti fenomenologiche.
Consideriamo, ad esempio, la teoria computazionale
della visione di David Marr20. In questa teoria lo schizzo
2½-D è uno stato portatore di informazioni sul mondo, e
dunque ha un contenuto. Tuttavia esso è inaccessibile ai

pp. 499-518, e Martin Davies, Tacit Knowledge and Subdoxastic States,


in Reflections on Chomsky, ed. by Alexander George, Basil Blackwell,
Oxford-New York 1989.
18
  Cfr. Giovanni Jervis, Prime lezioni di psicologia, Laterza, Ro-
ma-Bari 1999, pp. 21-22; Giovanni Jervis – Giorgio Bartolomei, Freud,
cit., p. 58.
19
  Cfr. Neil Manson, ‘A Tumbling-Ground for Whimsies’? The His-
tory and Contemporary Role of The Conscious/Unconscious Contrast,
in History of the Mind-Body Problem, ed. by Tim Crane – Sarah Patter-
son, Routledge, London-New York 2000, p. 163.
20
  Cfr. David Marr, Vision: A Computational Investigation into the
Human Representation and Processing of Visual Information, MIT
Press, Cambridge (MA) 2010 (ed. or. 1982).
la coscienza e le scienze della mente  149

meccanismi della coscienza introspettiva: non vi è alcun


momento nel corso della percezione di una scena visiva in
cui si diviene consapevoli dell’esistenza o del contenuto
informativo dello schizzo 2½-D. Ma anche se così non fos-
se, e lo schizzo 2½-D fosse una rappresentazione coscien-
te21, il suo carattere cosciente sarebbe solo una proprietà
contingente dal momento che nelle teorie computazionali
le presunte proprietà fenomeniche coscienti delle rappre-
sentazioni non svolgono alcun ruolo esplicativo. Anzi, an-
cor più radicalmente, si può dire che le rappresentazioni
«in quanto computazionali, non sono coscienti, nel senso
che […] sono individuate esclusivamente sulla base di cri-
teri funzionali intrateorici, nei quali gli aspetti fenomenici
non svolgono alcun ruolo»22.
Si può dunque affermare che è stata la psicologia dell’e-
laborazione di informazioni a fornire, per la prima volta,
le basi per l’edificazione di un’autentica teoria dell’in-
conscio. Questa teoria è parte integrante di una strategia
metodologica ben descritta da Daniel Dennett. Prima si
costruisce una teoria del contenuto che sia indipendente
dalla coscienza e più fondamentale di essa. Una teoria del
contenuto «in grado di trattare in ugual maniera qualsiasi
forma di fissazione di contenuto inconscia (nei cervelli, nei
calcolatori, nel riconoscimento da parte dell’evoluzione di
progetti selezionati)»23. Quindi, su queste basi, si procede a
sviluppare una teoria della coscienza, concepita come «un
fenomeno avanzato o derivato» e non già, idealisticamen-
te, come «il fondamento di tutta l’intenzionalità, di tutta la
mentalità»24.

21
  Così sostiene Jackendoff (cfr. Ray S. Jackendoff, Consciousness
and the Computational Mind, MIT Press, Cambridge [MA] 1987), in
contrasto con Fodor (cfr. Jerry A. Fodor, The Modularity of Mind, cit.),
che ritiene che solo i modelli 3-D siano coscienti.
22
  Alfredo Paternoster, Putnam contro le rappresentazioni mentali:
il caso della percezione, in «Rivista di Estetica», 32, 2 (2006), p. 161.
23
  Daniel C. Dennett, Consciousness Explained, Little, Brown &
Co., Boston (MA) 1991, trad. it. di Lauro Colasanti, Coscienza. Che
cosa è, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 457.
24
  Daniel C. Dennett, Review of Searle, The Rediscovery of the
Mind, in «Journal of Philosophy», 60, 4 (1993), p. 193.
150  massimo marraffa

Nel chiedersi non già come sia possibile l’inconscio ma


come sia mai possibile la coscienza, il cognitivista acco-
glie in pieno l’impostazione metodologica anti-idealistica
di Darwin che, assumendo la continuità tra la mente ani-
male e quella umana, prescrive di portare avanti lo studio
della coscienza a partire dal basso, ricostruendo il proces-
so che dalle funzioni psicologiche più elementari (indaga-
bili nell’animale e nel neonato) conduce a quelle funzioni
psicologiche più complesse che rendono possibile la mente
autocosciente adulta. Questa prospettiva – nota opportu-
namente Jervis25 ‒ coincide con ciò che Piaget ha definito
decentramento del soggetto: «l’attività del soggetto pre-
suppone un continuo decentramento che lo libera dal suo
spontaneo egocentrismo intellettuale»26.
Col portare alla luce il carattere non primario ma deri-
vato, costruito e ‘parziale’ della coscienza, la psicologia
cognitivista si propone come un’antifenomenologia. L’e-
spressione è di Ricoeur, che la utilizza per definire la psico-
analisi – questa, egli dice, è «une anti-phénoménologie, qui
exige, non la réduction à la conscience, mais la réduction
de la conscience»27. Ma poiché – come si è detto – la teoria
freudiana dell’inconscio prende le mosse da una coscienza
presa come data, la psicoanalisi va considerata piuttosto
«una variante dialettica della fenomenologia»28. La psico-
logia cognitivista, invece, forte di un concetto di intenzio-
nalità distinto da quello di coscienza, ha tutte le carte in
regola per qualificarsi come un’antifenomenologia.
Qui si misura tutta la distanza che separa il nuovo
mentalismo cognitivista da quello coscienzialistico del-
la psicologia ottocentesca. Sotto l’influenza del positivi-

25
  Giovanni Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica, Feltrinelli,
Milano 1993, p. 243.
26
  Jean Piaget, Le structuralisme, P.U.F., Paris 1968, p. 170, trad. it.
di Andrea Bonomi, Lo strutturalismo, Il Saggiatore, Milano 1994.
27
  Paul Ricoeur, La question du sujet: le défi de la sémiologie, in Le
conflit des interprétations, Le Seuil, Paris 1969, p. 137, trad. it. di Ro-
dolfo Balzarotti – Francesco Botturi – Giuseppe Colombo, Il conflitto
delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 2007.
28
  Giovanni Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica, cit., p. 320,
nota 15.
la coscienza e le scienze della mente  151

smo, l’introspezionismo reificava la soggettività, propo-


nendosi come il progetto – irrealizzabile in quei termini
– di studiare oggettivamente la soggettività esperienziale.
I primi psicologi sperimentali non intendevano (per lo
più) la coscienza in senso esperienziale, o soggettivo; la
intendevano piuttosto come «un campo oggettivo», al cui
interno doveva «essere possibile scomporre, in quanto
oggetti misurabili, le sensazioni, i ricordi, i pensieri»29.
In tal modo, «ogni forma di soggettività veniva, per così
dire, scavalcata, a favore di una descrittività di stampo
positivistico»30.
Come antidoto a questo vano tentativo di oggettiviz-
zare l’esperienza fenomenologica, oggi le scienze della
mente e del cervello ci offrono una serie di strumenti per
penetrare più profondamente la natura della soggettività,
rendendo possibile pensare i dati fenomenologici non già
come oggetti tangibili e misurabili bensì come l’esito del
presentarsi alla coscienza di alcune funzioni psicobiologi-
che inconsce.

3. Prima la coscienza, poi l’intenzionalità

Obiezioni a questo approccio ‘dal basso’ alla coscien-


za sono state sollevate da alcuni filosofi che hanno fatto
leva sulla nozione di coscienza fenomenica per imbastire
argomenti in favore del dualismo delle proprietà. La no-
zione di coscienza fenomenica rinvia agli aspetti soggetti-
vo-qualitativi dell’esperienza cosciente, spesso denomina-
ti ‘proprietà fenomeniche (o fenomenologiche)’ o qualia31.
L’essenza di queste proprietà consiste nell’essere colte da
un punto di vista in prima persona – insomma, sono acces-
sibili solo al soggetto che le esperisce.

29
  Giovanni Jervis – Giorgio Bartolomei, Freud, cit., p. 61.
30
  Giovanni Jervis, Fondamenti di psicologia dinamica, cit., p. 186.
31
  Il termine ‘qualia’ (singolare: ‘quale’) è stato coniato nel 1929 da
Clarence Irving Lewis.
152  massimo marraffa

Alla coscienza fenomenica viene contrapposto un altro


tipo di coscienza, la coscienza «di accesso»32 o «cogniti-
va»33: un costrutto teorico volto a spiegare la capacità di
un sistema di aver accesso ai propri stati interni al fine di
espletare compiti cognitivi di alto livello quali l’inferenza
e la verbalizzazione. Ora, mentre la coscienza di accesso
si definisce in base al ruolo causale che svolge nella vita
mentale di un agente, la coscienza fenomenica pare recal-
citrante a un trattamento funzionalista. Questa diagnosi è
sorretta da vari argomenti: esaminiamone tre.
Il primo argomento è quello (che risale a Locke) dei
qualia invertiti. Immagina che un organismo A abbia una
visione cromatica ‘normale’, ossia, per esempio, non soltan-
to vede il colore delle foglie simile sotto qualche aspetto al
colore dell’erba, ma percepisce anche la somiglianza fra il
colore delle foglie e quello dell’erba in modo analogo a noi:
le cose verdi appaiono ad A nel modo in cui appaiono a noi.
Consideriamo ora l’organismo B. B rileva la stessa trama di
somiglianze e differenze di colori che rileva A. Per esempio,
sia B che A giudicano che le foglie e l’erba sono simili sotto
l’aspetto cromatico più di quanto ognuna di esse è simile
ai pomodori o alle carote. Tuttavia, fra A e B sussiste la se-
guente differenza: gli oggetti verdi (come l’erba e le foglie)
appaiono a B come gli oggetti rossi (come i pomodori e le
carote) appaiono ad A (e a noi). In altre parole, il carattere
qualitativo della sensazione di B quando vede un pomodoro
è identico al carattere qualitativo della sensazione di A quan-
do vede una foglia, e ciò a parità di ogni altra cosa nell’orga-
nizzazione funzionale di A e B.
Vi è poi l’obiezione dei qualia assenti, che evoca la
possibilità di entità equivalenti a noi sotto il profilo funzio-
nale ma i cui stati mentali sono privi di qualsiasi carattere
qualitativo. Block34 immagina che, per riprodurre l’orga-

32
  Cfr. Ned J. Block, Consciousness, Function, and Representation:
Collected Papers, MIT Press, Cambridge (MA) 2007, vol. 1, cap. 9.
33
  Cfr. David J. Chalmers, The Conscious Mind: In Search of a Theo­
ry of Conscious Experience, Oxford University Press, New York 1996.
34
  Ned J. Block, Consciousness, Function, and Representation, cit.,
pp. 70-73.
la coscienza e le scienze della mente  153

nizzazione funzionale di una mente umana, venga reclutata


l’intera popolazione della Cina (questa scelta si giustifica
col fatto che il numero degli abitanti della Cina si appros-
sima al numero dei neuroni che costituiscono il cervello
umano). A ciascun cinese viene assegnato il compito di
eseguire una singola istruzione di una macchina di Turing
che sta simulando i processi cognitivi di una mente umana.
Un sistema di satelliti rende visibile a ogni cinese un se-
gnale che indica in quale stato si trova in quel momento la
macchina, e una ricetrasmittente consente a ciascun cinese
sia di sapere quale simbolo è letto dalla macchina, sia di
svolgere l’azione prevista dall’istruzione che è incaricato
di eseguire. Per il funzionalismo, il sistema costituito dagli
abitanti della Cina che comunicano fra loro via radio più
il sistema di satelliti è funzionalmente equivalente a una
mente umana. Tuttavia, sostiene Block, è assai improbabi-
le che un simile sistema «omuncolare» avrebbe anche stati
qualitativi (oltre a quelli posseduti da ciascun individuo).
Ciò dimostrerebbe che un sistema può essere in stati fun-
zionalmente equivalenti a stati cognitivi senza però posse-
derne le caratteristiche qualità.
Infine, è stata formulata anche l’obiezione opposta a
quella dei qualia assenti: il ruolo causale non è necessario
per il carattere qualitativo. Quando avvertiamo una fitta di
dolore, siamo consapevoli di una qualità intrinseca della
nostra esperienza, nel senso che essa è quella che è senza
alcun riferimento ad altri stati mentali: la dolorosità del do-
lore è quella che è in se stessa, indipendentemente dal suo
ruolo causale. Pertanto – conclude il critico del funziona-
lismo – questa qualità dell’esperienza, in quanto proprietà
non-relazionale, non può essere colta da una definizio-
ne funzionale, dal momento che quest’ultima si riferisce
esclusivamente a relazioni tra input percettivi, stati mentali
e output comportamentali.
Riassumendo, se i primi due argomenti contemplano
la possibilità di creature caratterizzate dalla nostra stessa
organizzazione funzionale e tuttavia in possesso di qualia
inversi o addirittura sforniti di qualia, il terzo argomento
154  massimo marraffa

sembra rendere concepibili creature dotate di qualia ma


prive della nostra organizzazione funzionale.
La tesi che si ritiene così guadagnata, che la coscienza
fenomenica si sottrae a un approccio funzionalista, ci porta
alle obiezioni rivolte all’approccio bottom up alla coscien-
za da parte di quei filosofi che pensano che quello fenome-
nico sia l’unico senso legittimo di coscienza, in tal modo
restaurando il primato classico della fenomenologia della
prima persona.
Per esempio, Searle ha sostenuto, cartesianamente, che
la coscienza è coestensiva con la sfera del mentale: «Poi-
ché i fenomeni mentali sono essenzialmente collegati con
la coscienza, e poiché la coscienza è essenzialmente sog-
gettiva, ne consegue che l’ontologia del mentale è essen-
zialmente un’ontologia della prima persona»35. A garantire
questo nesso intrinseco tra i fenomeni mentali e la coscien-
za è il principio di connessione:

Soltanto un essere in grado di avere stati intenzionali coscienti


può avere stati intenzionali, e ogni stato intenzionale inconscio è
almeno potenzialmente cosciente. Esiste una connessione concet-
tuale tra coscienza e intenzionalità, dalla quale consegue che una
teoria completa dell’intenzionalità richiede una spiegazione della
coscienza36.

Una volta restaurato il tradizionale nesso intrinseco fra


coscienza e intenzionalità, la strada è spianata per la dele-
gittimazione dello sforzo di attingere una comprensione
dell’intenzionalità della mente umana partendo dal basso,
ovvero da sistemi intenzionali più semplici ed elementari.
Il principio di connessione ammonisce che a tale strategia
rimarrà per sempre precluso il livello dell’intenzionali-
tà umana, giacché l’essenza di quest’ultima risiede nella
coscienza fenomenica. A quest’ultima è così attribuito un
carattere primario e fondante rispetto al resto della vita
psichica.

35
  John R. Searle, The Rediscovery of the Mind, cit. p. 20.
36
  Ivi, p. 132.
la coscienza e le scienze della mente  155

4. Due strategie per risolvere il problema della coscien-


za fenomenica

Sono disponibili almeno due strategie (fra loro inte-


grabili) per risolvere (o dissolvere) il problema della co-
scienza fenomenica. La prima consiste nel sostenere che
la coscienza fenomenica può essere ridefinita in termini
funzionali e/o rappresentazionali; la seconda consiste nel
negare l’esistenza della coscienza fenomenica o, quanto
meno, di quelle fra le sue proprietà che si oppongono alla
naturalizzazione.
La prima strategia è ben illustrata dalla teoria della co-
scienza di Lycan37. Per questo studioso, la coscienza è un
sistema di automonitoraggio del cervello, per cui gli stati
di coscienza sono esperienze di (altri) stati mentali38. Una
classica illustrazione di questa teoria è quella proposta da
Armstrong39. Nel corso di un lungo viaggio, un guidatore
si rende improvvisamente conto di essere al volante. Non
vi è dubbio che fino a quel momento il suo comportamento
sia stato governato da una rappresentazione del percorso
– la sua guida, infatti, si è di volta in volta adattata alle
condizioni della strada e agli spostamenti repentini degli
altri veicoli. In questo senso, il guidatore era ‘cosciente’
o ‘consapevole’ del percorso (ne aveva una coscienza di
primo ordine). Non era però consapevole di questa consa-
pevolezza: e dunque, in un altro senso, non era cosciente
37
  Cfr. William G. Lycan, Consciousness, MIT Press, Cambridge
(MA) 1987; Id., Consciousness and Experience, MIT Press, Cambridge
(MA) 1996.
38
 La teoria delle esperienze di ordine superiore di Armstrong e
Lycan si distingue dalla teoria dei pensieri di ordine superiore in quan-
to non fa dipendere la consapevolezza di ordine superiore dall’inter-
vento di un atto di giudizio, ossia da una rappresentazione concettuale
dell’esperienza in questione. Per un’introduzione alle «higher-order
theories of consciousness» cfr. Peter Carruthers, Higher-order Theories
of Consciousness, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, ed. by
Edward N. Zalta, 2016, disponibile all’indirizzo <http://plato.stanford.
edu/archives/fall2016/entries/consciousness-higher/> (ultimo accesso:
1 settembre 2018).
39
  Cfr. David M. Armstrong, The Nature of Mind and Other Essays,
Cornell University Press, Ithaca (NY) 1981.
156  massimo marraffa

dell’ambiente circostante e delle decisioni che prendeva


(non ne aveva una coscienza di ordine superiore).
Nel contesto di questa visione della coscienza come
«senso interno», Lycan propone la tesi secondo cui i qua-
lia sono contenuti intenzionali, proprietà rappresentate di
oggetti rappresentati40. In questa prospettiva, se sto osser-
vando una banana, l’esperienza della sua giallezza non è
nient’altro che il vedere la banana come gialla; l’esperien-
za del dolore non è nient’altro che il modo in cui ci rappre-
sentiamo un disturbo o una lesione a una parte del corpo.
In breve, non c’è differenza qualitativa che non faccia una
differenza di contenuto. Inoltre, Lycan colloca questa teo-
ria rappresentazionalista dei qualia in una prospettiva fun-
zionalista, il che gli consente di riassorbire pienamente la
coscienza fenomenica nella coscienza d’accesso.
Per Lycan i qualia esistono in quanto identici a stati rap-
presentazionali. Vi è però una famiglia di teorie che nega
l’esistenza degli stati qualitativi, considerandoli un’illu-
sione della psicologia del senso comune. Le più radicali
respingono totalmente la nozione di coscienza in quanto
ritengono che la distinzione cosciente/non-cosciente non
consenta di ritagliare la realtà psichica lungo le sue arti-
colazioni reali41. Tali teorie asseriscono che la nozione di
coscienza è talmente confusa da meritare l’eliminazione e
la sostituzione da parte di concetti e distinzioni che rispec-
chiano maggiormente la vera natura della mente42.

40
  Per un’introduzione alle (molte) teorie rappresentazionaliste dei
qualia, cfr. William Lycan, Representational theories of consciousness,
in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, cit., disponibile all’ind-
irizzo <http://plato.stanford.edu/archives/sum2015/entries/conscious-
ness-representational/> (ultimo accesso: 1 settembre 2018).
41
  Cfr. per esempio Kathleen Wilkes, Is Consciousness Important?,
in «British Journal for the Philosophy of Science», 35 (1984), pp. 223-
243; Id., Yishi, Duo, Us and Consciousness, in Consciousness in Con-
temporary Science, ed. by Anthony J. Marcel – Edoardo Bisiach, Ox-
ford University Press, Oxford 1988.
42
  Cfr. per esempio Patricia S. Churchland, Consciousness: The
Transmutation of a Concept, in «Pacific Philosophical Quarterly», 64
(1983), pp. 80-95.
la coscienza e le scienze della mente  157

Nella maggior parte dei casi, però, l’eliminazionismo


non investe l’intera nozione di coscienza ma solo alcune
delle sue proprietà, come i qualia43, l’io cosciente44 o il co-
siddetto «teatro cartesiano»45. Pertanto, accade spesso che
un’eliminazione selettiva sia proposta nel quadro di una
teoria positiva di quegli aspetti della coscienza che sono
giudicati reali. Una di queste teorie – oramai classica – è il
modello delle molteplici versioni di Dennett46.
Il modo migliore di comprendere questo modello è di
contrapporlo a una dottrina che il filosofo chiama «mate-
rialismo cartesiano», ovvero la risultante di tre tesi. (1) La
corrente della coscienza rivela l’esistenza di un luogo cen-
trale dove le esperienze si presentano all’occhio della men-
te («il teatro cartesiano»). Gli stati mentali coscienti sono
lo spettacolo rappresentato in questo teatro. (2) In questo
luogo centrale vi è un singolo punto nel tempo in cui, dato
un particolare stimolo sensoriale, si forma la coscienza del-
lo stimolo (per esempio, sono intento a scrivere, squilla il
telefono, perdo la concentrazione: deve esserci stato – così
mi sembra – un momento in cui il suono del campanello ha
avuto inizio e ha interrotto la concentrazione). (3) Esiste
un io, ossia un’entità che, all’interno del teatro, assiste allo
spettacolo. In breve, il materialismo cartesiano è

la posizione a cui arrivi quando scarti il dualismo cartesiano senza


però abbandonare l’immagine di un teatro centrale (ma materiale)
dove ‘tutto converge’; […] è la concezione secondo cui esiste un
confine o una linea d’arrivo cruciale in qualche parte del cervello,
che segna un luogo in cui l’ordine di arrivo equivale all’ordine di

43
  Cfr. Daniel C. Dennett, Quining qualia, in Consciousness in Con-
temporary Science, cit.
44
  Cfr. Daniel C. Dennett, The Origins of Selves, in «Cogito», 3
(1989), pp. 163-173; Id., The Self as the Center of Narrative Gravity,
in Self and Consciousness: Multiple Perspectives, ed. by Frank S. Kes-
sel – Pamela M. Cole – Dale L. Johnson, Lawrence Erlbaum, Hillsdale
(NJ) 1992.
45
  Cfr. Daniel C. Dennett – Marcel Kinsbourne, Time and the Ob-
server: The Where and When of Consciousness in the Brain, in «Beha­
vioral and Brain Sciences», 15, 2 (1992), pp. 183-247.
46
  Cfr. Daniel C. Dennett, Consciousness Explained, cit.
158  massimo marraffa

‘presentazione’ nell’esperienza perché ciò che si verifica lì è ciò di


cui sei cosciente47.

Questa è un’immagine che tiene saldamente prigioniera


la nostra fenomenologia, ma – sostiene Dennett – l’analisi
filosofica e la scienza cognitiva ci consentono di scorgerne
il carattere illusorio. È qui che inizia a prendere forma la
sua teoria positiva della coscienza, ossia il modello delle
molteplici versioni.
Secondo questo modello, ogni attività mentale è realiz-
zata da una moltitudine di processi che elaborano l’input in
parallelo e «multitraccia». Le informazioni che penetrano
nel sistema sono continuamente sottoposte a «editazione»:
«aggiunte, fusioni, emendazioni e riscritture del contenuto,
in vari ordini»48. Che l’esperienza è mediata da processi
neuronali che interpretano l’informazione in ingresso è
un fatto riconosciuto dalla maggior parte delle teorie della
percezione. Il modello delle molteplici versioni se ne di-
stingue però in quanto specifica che

rilevazioni o discriminazioni delle caratteristiche devono essere


fatte una volta sola. Ossia, una volta che una parte specializzata e
localizzata del cervello ha compiuto una particolare ‘osservazione’
di una certa caratteristica, il contenuto informativo così fissato non
deve essere inviato da qualche parte per essere nuovamente discri-
minato da un discriminatore capo. In altri termini, la discriminazio-
ne non conduce a una ri-presentazione della caratteristica già discri-
minata a beneficio del pubblico nel teatro cartesiano – giacché non
esiste nulla di simile49.

Queste fissazioni di contenuto danno luogo a qualco-


sa che assomiglia a una sequenza narrativa, un incessante
flusso di contenuti sottoposto a una continua opera di edi-
tazione. L’analogia con una narrazione è però solo parzia-
le a causa della natura molteplice del flusso dei contenuti:
«in ogni istante, vi sono molteplici ‘versioni’ di frammenti

47
  Ivi, p. 107.
48
  Ivi, p. 112.
49
  Ivi, p. 113.
la coscienza e le scienze della mente  159

narrativi, a differenti stadi di editazione, in vari luoghi del


cervello»50.
L’apparenza di una sequenza lineare di eventi che si
snoda nella coscienza introspettiva non è dunque prova
dell’esistenza di un luogo o di un tempo nel cervello in cui
i contenuti di coscienza sono unificati. Tale apparenza si
genera solo nel momento in cui la corrente della coscienza
è monitorata. Per tornare all’esempio fatto sopra, la mia
coscienza del suono del campanello si è formata quando
ho ‘sondato’ in un determinato punto il flusso delle mol-
teplici versioni. Questo ‘sondaggio’ fissa il mio contenuto
di coscienza; e per Dennett, non vi sono fatti riguardanti la
corrente della coscienza al di là di questi particolari ‘son-
daggi’.
E l’apparenza di una sequenza di lineare di eventi non
è nemmeno prova dell’esistenza di un io che osserva gli
eventi all’interno del teatro cartesiano. La coscienza unita-
ria dell’io è semplicemente un effimero ‘capitano virtuale’
che si produce in conseguenza del fatto che una piccola
coalizione di fissazioni di contenuto ha temporaneamente
avuto la meglio su altre coalizioni nella contesa per il con-
trollo di attività cognitive quali l’automonitoraggio e l’au-
todescrizione (self-reporting). Si è portati a considerare
questi fenomeni transitori come qualcosa di più di quello
che sono vuoi perché ciascuno di essi costituisce il ‘me’ del
momento, vuoi perché la memoria autobiografica collega
questi fenomeni a precedenti sé transitori.
Dennett mette alla prova il suo modello con il fenome-
no phi colorato, descritto dagli psicologi Paul Kolers e Mi-
chael von Grünau. Nell’illusione phi colorata, due punti
luminosi di diverso colore, separati da un angolo visivo di
non più di 4 gradi, sono accesi per 150 msec ciascuno, con
un intervallo di 50 msec. Supponendo che il primo punto
luminoso sia rosso e il secondo verde, al soggetto sem-
brerà di vedere il punto rosso che inizia a muoversi per poi
diventare improvvisamente verde a metà della traiettoria
illusoria verso il secondo punto (Fig. 1).

50
  Ibidem.
160  massimo marraffa

Fig. 1. L’illusione phi colorata. In alto, gli stimoli come sono presentati.
In basso, come gli stimoli ci appaiono. Le righe verticali indicano una
luce rossa; le linee orizzontali tratteggiate indicano una luce verde51.

La domanda che pone Dennett è: come può sembrarci


che il primo punto luminoso da rosso diventi verde prima
di aver osservato il secondo punto? Il filosofo esamina due
possibilità.
Prima possibilità. L’osservatore perviene a una conclu-
sione e poi modifica il proprio ricordo quando vede la se-
conda luce. Dennett definisce questa revisione post-espe-
rienziale ‘orwelliana’, richiamando il sinistro scenario di
1984 di George Orwell, in cui la storia è costantemente
riscritta dal Ministero della Verità. Secondo questa ipotesi,

51
  Fonte: Kathleen Akins, Lost the Plot? Reconstructing Dennett’s
Multiple Drafts Theory of Consciousness, in «Mind and Language», 11,
1 (1996), pp. 1-43.
la coscienza e le scienze della mente  161

non appena il punto verde accede alla coscienza introspet-


tiva, il cervello inventa una storia circa gli eventi che han-
no avuto luogo tra le due accensioni, incluso il mutamento
di colore a metà della traiettoria illusoria. In memoria è co-
dificata soltanto questa sequenza di eventi fittizia, mentre
non lo è la sequenza di eventi autentica.
Seconda possibilità. Gli eventi sono trattenuti nella
«sala di editazione» del cervello prima di fare il loro in-
gresso nella coscienza introspettiva. Più specificamente,
il punto rosso arriva nel pre-conscio; poi, quando arriva
il punto verde, viene creato del materiale intermedio; ed
infine l’intera sequenza modificata è proiettata nella sala
cinematografica della coscienza. Pertanto la sequenza che
accede alla coscienza introspettiva è già stata editata con
il materiale intermedio illusorio. Dennett definisce questa
seconda possibilità «staliniana», riferendosi ai processi vo-
luti da Stalin, in cui erano inscenate false testimonianze e
finte confessioni per giungere a un verdetto già deciso.
Quale delle due interpretazioni è quella giusta? La rispo-
sta di Dennett è: non c’è modo, nemmeno in linea di prin-
cipio, per scegliere un’interpretazione piuttosto che l’altra,
poiché non vi è modo di individuare nel cervello il luogo o
il tempo in cui il materiale penetra nella coscienza. Inoltre,
poiché non si può decidere fra le due interpretazioni, tra di
esse non vi è alcuna differenza; tutto quello che abbiamo è
«una differenza che non fa differenza»52. Il filosofo conclude
che l’impossibilità di distinguere tra le due interpretazioni
conferisce plausibilità al modello delle molteplici versioni:
infatti, secondo tale modello non vi è alcun luogo o tempo in
cui il materiale è o non è nella coscienza.
Dennett sostiene che la coscienza umana non è un siste-
ma biologico, bensì una macchina virtuale «neumanniana».
Questa macchina è il prodotto di comportamenti appresi (il
filosofo li chiama «buoni trucchi» o «memi»), che hanno ri-
programmato i nostri cervelli biologici. Tali comportamenti
hanno natura linguistica: acquisiamo la coscienza attraverso
forme di «autostimolazione» linguistica, come ad esempio

52
  Daniel C. Dennett, Consciousness Explained, cit., p. 125.
162  massimo marraffa

Fig. 2. Il Pandemonio di Selfridge53 è un sistema di riconoscimento di con-


figurazioni composto da quattro strati. Vi sono numerose unità, chiamate
«demoni». A ciascun livello, i demoni che ricevono l’input dal demone
delle immagini (il quale si limita a registrare le immagini in ingresso)
estraggono informazioni dal livello precedente. In tal modo, il demone di
una certa caratteristica risponde positivamente quando riscontra la pre-
senza della propria caratteristica nell’immagine; e un demone cognitivo
risponde al grado in cui sono attivi gli appropriati demoni delle caratteri-
stiche per la sua lettera. Infine, il demone della decisione sceglie la lettera
del demone cognitivo più attivo tra gli altri54.

53
  Cfr. Oliver G. Selfridge, Pandemonium: A Paradigm for Learn-
ing, in Proceedings of the Symposium on the Mechanization of Thought
Processes, ed. by D.V. Blake – A.M. Uttley, Her Majesty’s Stationery
Office, London 1959.
54
  Peter H. Lindsay – Donald A. Norman, Human Information Pro-
cessing: An Introduction to Psychology, Academic Press, New York
1977.
la coscienza e le scienze della mente  163

parlare a se stessi, producendo, ripetendo e riorganizzando


enunciati nel soliloquio manifesto o silenzioso. Questo flus-
so di verbalizzazione interna trasforma l’attività del cervello
biologico, facendo sì che la sua architettura parallela simuli
il comportamento di un elaboratore seriale, che opera sugli
enunciati delle lingue naturali. Dennett definisce questo si-
stema la macchina joyciana:

Nel nostro cervello c’è un’aggregazione un po’ abborracciata di


circuiti cerebrali specializzati, che, grazie a svariate abitudini incul-
cate in parte dalla cultura e in parte dall’autoesplorazione individua-
le, cospirano assieme al fine di produrre una macchina virtuale più o
meno ordinata, più o meno efficiente, più o meno ben progettata: la
macchina joyciana. […] Questa macchina virtuale, questo software
del cervello […] crea un comandante virtuale dell’equipaggio55.

Ma che tipo di programma gira su questa macchina? In


Dennett56 questo programma è il modello Pandemonio di
Oliver Selfridge, un precursore del connessionismo (Fig. 2).
Il Pandemonio possiede due caratteristiche importanti
per Dennett. Primo, la sua architettura è a parallelismo ele-
vato, e quindi non ha bisogno di postulare un esecutivo
centrale. Secondo, il pandemonio impiega la scomposi-
zione ricorsiva, un requisito indispensabile dal momento
che come nel caso dell’omuncolo-interprete che minaccia
l’ipotesi del linguaggio del pensiero, anche nel teatro car-
tesiano si annida un super-omuncolo da «scaricare»57.
Dennett ha esaminato anche un’altra architettura fun-
zionale compatibile con il modello delle molteplici versio-
ni: la teoria dello spazio di lavoro globale (GWT, Global
Workspace Theory) di Bernard Baars58.

55
  Ivi, p. 228. Cfr. Coscienza. Che cosa è, trad. it cit., pp. 255 s.
(leggermente modificata).
56
  Cfr. Daniel C. Dennett, Consciousness Explained, cit.
57
  Cfr. Daniel C. Dennett – Marcel Kinsbourne, Time and the Ob-
server, cit.
58
  Cfr. Bernard J. Baars, A Cognitive Theory of Consciousness,
Cambridge University Press, Cambridge (MA) 1988; Id., In the Theater
164  massimo marraffa

L’idea guida del modello di Baars è che la coscienza


è una sorta di «spazio di lavoro» al quale diversi sottosi-
stemi di elaborazione specializzati possono o meno acce-
dere. Quando un sottosistema vi accede, le informazioni
che esso elabora diventano disponibili a (e processabili da)
molti altri elaboratori di informazione. La funzione della
coscienza consiste quindi nel rendere disponibili le infor-
mazioni elaborate da un sottosistema a molti altri sottosi-
stemi («globalmente», per l’appunto). L’accesso allo spa-
zio di lavoro può essere pensato come l’obiettivo per cui
competono diverse coalizioni neuronali che coinvolgono
le aree frontali e quelle sensoriali. Le coalizioni vincenti
sono quelle che diventano coscienti.
Questa descrizione è fondamentalmente funzionale, nel
senso che astrae da molti dettagli neurofisiologici e descrive
l’emergenza della coscienza in termini piuttosto astratti; tut-
tavia, di recente, la GWT è entrata in simbiosi con la neuro-
scienza cognitiva, soprattutto per merito di Stanislas Deha-
ene e i suoi collaboratori dell’INSERM-CEA di Parigi59.
Secondo questi ricercatori nel cervello sono presenti due
spazi computazionali, ognuno caratterizzato da un diverso
pattern di connettività. Il primo spazio è costituito dai sot-
tosistemi di elaborazione ipotizzati dalla GWT, ognuno dei
quali è specializzato nel trattare un particolare tipo di infor-
mazione – per esempio, nella corteccia occipito-temporale
l’elaborazione del colore ha luogo in V4, l’elaborazione del
movimento in MT/V5, l’elaborazione dei volti umani nell’a-
rea fusiforme delle facce. L’operare di questi elaboratori
modulari si avvale di connessioni locali limitate e di medio
raggio. Il secondo spazio è lo spazio di lavoro globale neu-
ronale (per cui ora si parla di una Global Neuronal Workspa-
ce Theory, GNWT): esso è costituito da neuroni distribuiti,
tenuti assieme da connessioni di lunga distanza, particolar-
mente densi nell’area prefrontale, nel cingolato e nelle regio-

of Consciousness: The Workspace of the Mind, Oxford University Press,


Oxford-New York 1997.
59
  Cfr. Stanislas Dehaene, Consciousness and the Brain: Deciphe­
ring How the Brain Codes Our Thoughts, Penguin Books, New York
2014.
la coscienza e le scienze della mente  165

ni parietali. L’ingresso dell’informazione in questo spazio di


lavoro è il correlato neuronale dell’accesso alla coscienza.
Tra le connessioni di lunga distanza stabilite dai neuroni
dello spazio di lavoro globale, quelle top down svolgono un
ruolo essenziale nella mobilitazione temporanea di un dato
contenuto nella coscienza. Il principale fattore che determina
la trasmissione globale è infatti l’attenzione. Quest’ultima
può essere bottom up, causata da stimoli fortemente salienti,
come improvvisi mutamenti dell’ambiente, o stimoli di rile-
vanza emozionale innati o appresi (per esempio il proverbia-
le serpente nel prato, un forte rumore, un volto sorridente,
il suono del proprio nome). Oppure può essere top down,
guidata dagli scopi di alto livello del soggetto e dai suoi in-
teressi per il contesto. L’amplificazione attentiva top down
è il principale meccanismo in virtù del quale gli elaboratori
modulari possono essere temporaneamente mobilitati e resi
disponibili allo spazio di lavoro globale (Fig. 3).

Figura 3. Gerarchia di connessioni fra elaboratori cerebrali (cia-


scuno raffigurato da un cerchio). I livelli superiori di questa gerarchia
sono tenuti assieme da connessioni di lunga distanza, formando in tal
modo lo spazio di lavoro globale neuronale. Uno stato di attività ampli-
ficato nello spazio di lavoro, che riunisce vari elaboratori periferici in
un pattern di attivazione distribuito e coerente (cerchi neri), può coesi-
stere con l’attivazione automatica di molte catene locali di elaboratori
fuori dallo spazio di lavoro (cerchi grigi)60.

60
  Fonte: Stanislas Dehaene – Lionel Naccache, Towards a Cogni-
tive Neuroscience of Consciousness: Basic Evidence and a Workspace
166  massimo marraffa

Fig. 4. (A) Il metodo del visual backward masking permette di confron-


tare nello stesso soggetto l’attività fMRI per l’elaborazione inconscia
e conscia di parole presentate visivamente. (B) Un altro studio fMRI
condotto su stimoli uditivi, circa la metà dei quali sono stati rilevati
al livello cosciente61. Le aree uditive bilaterali hanno esibito un’atti-
vazione inconscia, che è stata amplificata e diffusa alle aree parietale
inferiore, prefrontale e cingolata62.

Framework, in «Cognition», 79 (2001), pp. 1-37.


61
  Cfr. Sepideh Sadaghiani – Guido Hesselmann – Andreas Klein-
schmidt, Distributed and Antagonistic Contributions of Ongoing Acti­
vity Fluctuations to Auditory Stimulus Detection, in «Journal of Neuro-
science», 29, 42 (2009), pp. 13410-13417.
62
  Fonte: Stanislas Dehaene – Jean-Pierre Changeux, Experimental
and Theoretical Approaches to Conscious Processing, in «Neuron», 70,
2 (2011), pp. 200-227.
la coscienza e le scienze della mente  167

Il modello GNWT ha ricevuto una serie di importanti


conferme sperimentali. In uno studio fMRI, Dehaene et al.63
hanno utilizzato il paradigma del priming di mascheramen-
to per porre a confronto l’elaborazione lessicale inconscia
con quella cosciente. Una parola veniva proiettata su uno
schermo per poche decine di millisecondi, subito seguita da
un’altra immagine (la «maschera») che impediva al sogget-
to di percepire la parola a livello conscio. In genere la parola
diviene cosciente quando l’intervallo fra essa e la maschera
è di circa 50ms. I risultati sono stati i seguenti. Le parole
mascherate (inconsce) hanno indotto un’attività locale nelle
parti della corteccia visiva deputate al riconoscimento di pa-
role. Le parole visibili (coscienti) hanno generato un’inten-
sa attività anche nei lobi parietale e frontale. Dunque, come
vuole la GNWT, l’elaborazione di informazioni cosciente
recluta risorse cerebrali fortemente distribuite, mentre l’ela-
borazione inconscia è più localizzata (Fig. 4).
Il modello di Baars e Dehaene ha diversi pregi, tra cui
quello di dar conto di taluni aspetti relativi al funzionamen-
to della coscienza sui quali si è raggiunto un certo accordo,
primo fra tutti il carattere distribuito della coscienza: lungi
dall’esservi una sede o area specifica che ‘realizza’ la co-
scienza o in cui si produce la sintesi (binding) delle infor-
mazioni provenienti dai diversi sottosistemi sensoriali (per
esempio la combinazione in un percetto visivo unitario e
coerente delle informazioni relative al colore, al contorno,
al movimento, ecc.), la coscienza è distribuita nel cervello,
nei circuiti dedicati alle varie funzioni cognitive, somato-
sensoriali e motorie; in questo senso essa non è una funzio-
ne che si sovraimpone in modo gerarchico alle altre attivi-
tà cognitive, ma le interseca ‘orizzontalmente’. Altrimenti

63
  Cfr. Stanislas Dehaene – Lionel Naccache – Laurent Cohen –
Denis LeBihan – Jean-François Mangin – Jean-Baptiste Poline – De-
nis Rivière, Cerebral Mechanisms of Word Masking and Unconscious
Repe­tition Priming, in «Nature Neuroscience», 4, 7 (2001), pp. 752-758;
Stanislas Dehaene – Jean-Pierre Changeux – Lionel Naccache – Jérôme
Sackur – Claire Sergent, Conscious, Preconscious, and Subliminal Pro-
cessing: A Testable Taxonomy, in «Trends in Cognitive Sciences», 10
(2006), pp. 204-211.
168  massimo marraffa

detto, essa emerge in forza dell’ampiezza di ‘circolazione’


delle informazioni nel cervello.
Dennett64 ha indicato vari punti in comune fra la GNWT
e il modello delle molteplici versioni. Primo fra tutti, il ri-
corso al parallelismo elevato; e in effetti, la GNWT ricorda
abbastanza da vicino il Pandemonio, in cui le informazioni
sono inviate allo spazio di lavoro allorché i ‘demoni’ che
competono per l’accesso allo spazio ‘gridano’ abbastanza
forte da riuscire ad accedere.
Il modello delle molteplici versioni è rappresentazio-
nalista in quanto analizza la coscienza esclusivamente in
termini di relazioni di contenuto. Ed è anche, in una certa
misura, una teoria di ordine superiore dal momento che
considera l’io un aspetto virtuale o emergente della nar-
razione approssimativamente seriale e coerente che è co-
struita attraverso il gioco interattivo dei contenuti all’in-
terno del sistema. Molti di questi contenuti si riuniscono
al livello intenzionale in quanto fissazioni effettuate da un
punto di vista temporalmente esteso e relativamente unita-
rio; vale a dire, essi si accordano nei loro contenuti come se
fossero le esperienze di un io. Ma è l’ordine di dipendenza
che è essenziale per il modello delle molteplici versioni. I
contenuti pertinenti non sono unificati perché sono tutti os-
servati da un io, ma è precisamente l’opposto: è perché essi
sono unitari e coerenti al livello del contenuto che possono
essere considerati le esperienze di un io – quanto meno di
un io virtuale. È sotto questo aspetto che il modello delle
molteplici versioni condivide alcune caratteristiche con le
teorie di ordine superiore:

i contenuti che compongono la narrazione seriale sono almeno im-


plicitamente i contenuti di un io attuale, seppure virtuale; e sono
questi contenuti che hanno maggiore probabilità di essere espressi
nei rapporti verbali che il soggetto fornisce circa il proprio stato
cosciente in risposta ai vari sondaggi (probes). Questi contenuti ri-
chiedono perciò un certo grado di riflessività o autoconsapevolezza,
quel tipo di riflessività che gioca un ruolo essenziale nelle teorie di

64
  Cfr. Daniel C. Dennett, Are We Explaining Consciousness Yet?, in
«Cognition», 79 (2001), pp. 221-237.
la coscienza e le scienze della mente  169

ordine superiore. Tuttavia l’aspetto di ordine superiore è una pro-


prietà implicita del flusso dei contenuti più che una proprietà pre-
sente in quel tipo di stati di ordine superiore espliciti e distinti che si
trovano nelle teorie di ordine superiore standard65.

Poiché non vi è alcun luogo dove ‘tutto converge’, nes-


suna linea il cui attraversamento stabilisce la fine dell’e-
laborazione pre-conscia e l’inizio della valutazione co-
sciente, Dennett ritiene che molte tesi filosofiche circa la
fenomenologia umana siano, a dispetto della loro tradizio-
nale evidenza, semplicemente erronee. Questo vale soprat-
tutto per i qualia. Questi sono proprietà che i filosofi pre-
tendono di identificare per ostensione ed esempio – «È il
profumo del caffè o il modo in cui ti appare questa sfuma-
tura di rosso». Ma allora, osserva il filosofo, essi sono de-
finiti come proprietà che sono (in modo evidente) indipen-
denti da tutte le proprie disposizioni reattive, proprietà che
sono proprietà di particolari stati coscienti piuttosto che le
cause o gli effetti di tali proprietà. Tuttavia, ciò richiede
il materialismo cartesiano – l’identificazione, in linea di
principio, di un punto privilegiato nelle catene causali tra
gli organi sensoriali e il comportamento che è successivo
a tutti gli aggiustamenti pre-esperienziali e antecedente a
tutte le reazioni post-esperienziali. Nessun luogo privile-
giato di questo tipo può essere coerentemente definito. Per-
tanto, conclude Dennett66, esperimenti di pensiero come
quelli dello spettro invertito e dei qualia assenti appaiono
fondamentalmente mal concepiti, e ciò in quanto ricalcano
il senso comune nell’adottare nei riguardi dei qualia una
forma troppo forte di realismo.
Il modello delle molteplici versioni ha esercitato un for-
te influenza tanto in filosofia della mente che nell’indagi-
ne scientifica sulla coscienza; ma è anche stato oggetto di

65
  Cfr. Robert Van Gulick, Consciousness, in The Stanford Encyclo-
pedia of Philosophy, cit., § 9.4, disponibile all’indirizzo <http://plato.
stanford.edu/archives/win2016/entries/consciousness/> (ultimo acces-
so: 1 settembre 2018).
66
  Daniel C. Dennett, Self-Profile, in A Companion to the Philoso­phy
of Mind, ed. by Samuel Guttenplan, Blackwell, Oxford 1994, p. 242.
170  massimo marraffa

numerose critiche, specialmente da parte di coloro che lo


hanno giudicato compromesso con un’impostazione veri-
ficazionista67. Molti critici riconoscono il grande valore del
modello ma sostengono che non coglie tutte le dimensioni
della coscienza68. Dennett69 ha fornito risposte incisive a
queste (e altre) critiche; e nel complesso la sua teoria della
coscienza rappresenta, a nostro avviso, uno degli esempi
più raffinati di come la scienza cognitiva possa esercitare
una critica nei confronti dei meccanismi di autoillusione
della soggettività autocosciente.

67
  Cfr. per esempio Ned J. Block, What is Dennett’s Theory a Theo­
ry of?, in «Philosophical Topics», 22 (1994), pp. 23-40, rist. in Ned J.
Block, Consciousness, Function, and Representation, cit., cap. 8.
68
  Cfr. per esempio Kathleen Akins, Lost the plot?, cit.
69
  Cfr. per esempio Daniel C. Dennett, «Get Real» (Reply to My
Critics), in «Philosophical Topics», 22 (1994), pp. 505-568; Id., Sweet
Dreams: Philosophical Obstacles to a Science of Consciousness, MIT
Press, Cambridge (MA) 2005.
Gli autori

Mauro Bergonzi ha insegnato Religioni e Filosofie


del­l’India e Psicologia generale presso l’Università degli
Studi di Napoli L’Orientale. È socio ordinario della Inter-
national Association for Analytical Psychology (I.A.A.P.)
e psicologo analista didatta del Centro Italiano di Psico-
logia Analitica (C.I.P.A.). Ha pubblicato articoli e saggi
sui processi meditativi nel buddhismo antico, sulla psico-
logia del misticismo, sul simbolismo religioso, sul com-
paratismo filosofico, sulla psicologia analitica di Carl G.
Jung, sul pensiero filosofico non-dualista, sull’incontro tra
Oriente religioso e Occidente contemporaneo, sul dialogo
interculturale fra psicologie sapienziali orientali e psico-
logia occidentale e sulle problematiche epistemologiche
negli studi scientifici sulla coscienza.

Emilio Del Giudice (Napoli 1940 – Milano 2014). Fisi-


co teorico, Prigogine Medal 2009. La sua ricerca è passata
dalla fisica delle alte energie alla fisica del vivente. In que-
sto percorso è stato autore di oltre cento pubblicazioni su
riviste scientifiche peer-reviewed, di presentazioni a con-
vegni nazionali ed internazionali ed autore di libri scien-
tifici e divulgativi. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo:
Omeopatia e bioenergetica. Le medicine alternative: dalla
stregoneria alla scienza (con Nicola del Giudice, Cortina
International, Verona 1984); Il segreto delle tre pallottole
con Maurizio Torrealta, Ambiente «VerdeNero», Milano
2010 ); Essere umani: prospettive per il futuro (con Alber-
172  gli autori

to Giansanti, Franco Angeli, Milano 2013). Obiettivo fina-


le della sua ricerca è stata la comprensione di come psiche
e dimensione estetica potessero emergere dalla dinamica
della materia vivente. Per Emilio Del Giudice fare scien-
za significava contribuire alla crescita e all’emancipazione
dell’uomo da ogni limite: aveva una profonda ed intrinseca
valenza rivoluzionaria.

Antonella De Ninno è ricercatrice presso il Centro Ri-


cerche ENEA di Frascati (Roma) dove si occupa di fisica
dello stato condensato, di biofisica e di tecniche spettro-
scopiche. Per la sua attività di ricercatrice ha pubblicato,
su riviste di settore peer-reviewed, un centinaio tra lavo-
ri scientifici e presentazioni a convegni internazionali.
Ha collaborato a libri monografici di natura scientifica:
Low-Energy Nuclear Reactions Sourcebook (a cura di Jan
Marvan e Steven B. Krivit, American Chemical Society
Symposium Series, 998, e-book, 2008); Preparata’s Pa-
thway, how quantum fields keep all matter together (a cura
di Franco Buccella, Renata Mele e Yogendra Srivastava,
Bibliopolis, Napoli 2016). Si interessa alla divulgazione
della scienza in chiave filosofica e sociale.

Domenico Fiormonte è ricercatore in Sociologia dei


processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di
Scienze Politiche dell’Università di Roma Tre. Fra i suoi
libri: Manuale di scrittura (con Ferdinanda Cremasco-
li, Bollati Boringhieri, Torino 1998); Scrittura e filologia
nell’era digitale (Bollati Boringhieri, Torino 2003); The
Digital Humanist. A Critical Inquiry (con Teresa Nume-
rico e Francesca Tomasi, Punctum Books, Brooklyn, NY,
2015); Per una critica del testo digitale. Letteratura, filo-
logia, rete (Bulzoni, Roma 2018). Dal 2008 collabora a
progetti educativi e culturali in India e Nepal con la Onlus
Centro Studi Platone (www.ilmondodelleidee.it). Nel 2014
Si è diplomato come insegnante Yoga della tradizione Vi-
niyogah di TKV Desikachar con Antonio Olivieri.
gli autori  173

Michele Lucantoni. Ricercatore indipendente, ha con-


seguito la sua laurea in Filosofia della Biologia presso l’U-
niversità di Roma Tre nel 2012. Oltre a essere impegnato
come saggista e ad aver collaborato con diversi progetti
di ricerca interdisciplinari (AIEMS, New Humanities), at-
tualmente coopera con l’associazione culturale Universa-
lia Atlantidea, e con l’associazione di promozione sociale
Cortona Friends. Le sue pubblicazioni sono reperibili su
<https://independent.academia.edu/MicheleLucantoni>.

Massimo Marraffa ha studiato Filosofia e Psicologia;


attualmente insegna Filosofia della mente e Filosofia della
psichiatria presso l’Università Roma Tre. Fra le sue pubbli-
cazioni più recenti: The Self and its Defenses (con Michele
Di Francesco e Alfredo Paternoster, Palgrave-Macmillan,
London 2016); L’identità personale (con Cristina Meini,
Carocci, Roma 2016); Filosofia della mente. Corpo, co-
scienza, pensiero (con Michele Di Francesco e Alfredo To-
masetta, Carocci 2017). Per i nostri tipi ha curato il volu-
me Identità e persona (Istituto Italiano di Studi Germanici,
Roma 2017).
Finito di stampare nel mese di novembre 2018
presso O.GRA.RO S.r.l.
vicolo dei Tabacchi, 1 - 00153 Roma

Potrebbero piacerti anche