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PONTIFICIA FACOLTÀ TEOLOGICA DI SICILIA

«SAN GIOVANNI EVANGELISTA»

PALERMO

Nota di lettura

P. ABELARDO, Conosci te stesso o Etica, pp. 1-59

Allievo: Antonio Zarcone Teologia Morale Fondamentale

Matricola: IT 2006/27 Docente: prof. A. Parisi

Anno Accademico 2007 - 2008


Il presente lavoro vuole essere il frutto di una investigazione della riflessione etica che interessò
particolarmente l’ultima fase dell’attività del noto Pietro Abelardo. Più precisamente esso si incam-
mina per i sentieri dell’opera abelardiana “Conosci te stesso” o “Etica”. Riguardo la duplicità del
titolo possiamo affermare l’ipotesi che l’autore abbia inizialmente adoperato per quest’opera il
titolo di Ethica quando essa era ancor in via di compimento e che le abbia, invece, attribuito il tito-
lo ben significativo di “Scito te ipsum” – riprendendo il famoso detto delfico gnwqi sauton –
dopo che essa giunse al suo compimento in tutte le sue parti.
Come appare evidente fin dalle prime battute, l’autore, nel definire l’oggetto della sua “Ethica”,
parte col fare una chiara distinzione tra vizi e virtù del corpo e vizi e virtù dell’animo, escludendo i
primi dalla propria indagine etico-antropologica, dal momento che essi non possiedono insitamente
nulla di bene o di male, e attenzionando la propria indagine sui secondi, i quali incidono, invece,
sulla volontà dell’uomo, facendola propendere o verso il bene – nel caso delle virtù – o verso il
male – nel caso dei vizi: essi, pertanto, rendono l’uomo incline alle buone o alle cattive azioni.
Dopo aver fatto questa breve disamina, Abelardo fa una puntigliosa distinzione tra “vitium animi” e
“peccatum” per passare successivamente a quella tra “peccatum” e “actio mala”. Per “vitium”
l’autore intende una “corruptio naturae”, ovvero una qualità innata dell’uomo che prescinde total-
mente dall’iniziativa del soggetto morale, tale per cui esso va distinto dal peccato come l’essere in
potenza si differenzia dall’essere in atto. Esso è, volendo utilizzare un latinismo che ben è in grado
di trasmetterne l’insita natura, una “propassio”, una inclinazione naturale a compiere il male, scevra
tuttavia da qualsiasi legame col “consensus”. Quest’ultimo, infatti, contraddistingue costitutiva-
mente il peccato, il quale altro non è che quel consenso volontario dato all’inclinazione cattiva che
si traduce nel rifiuto da parte dell’uomo di inserire i comandamenti di Dio all’interno del proprio
orizzonte di vita. Se, dunque, dal punto di vista del soggetto il peccato è costitutivamente e
inscindibilmente legato al “consensus” e alla “intentio”, d’altra parte, dal punto di vista oggettivo,
esso si delinea come “disprezzo di Dio” e “offesa a Lui recata”, in quanto è un indurimento inten-
zionale del cuore dell’uomo all’amore e alle prescrizioni di Dio stesso. Abelardo continua, quindi,
la sua attenta analisi sul peccato differenziandolo dalla cattiva volontà, la quale rientra nella sfera
delle inclinazioni innate dell’uomo e appare perciò come quella debolezza necessaria affinché
l’uomo nella perseveranza, combattuta la buona battaglia, possa ottenere la corona di gloria, sul-
l’esempio dell’apostolo Paolo. Per attestare tale discrepanza tra la volontà e il peccato, l’autore
espone l’esempio del servo che, nel tentativo di aver salva la vita, uccide il padrone, dimostrando in
tal modo che può esserci cattiva volontà senza che si abbia per questo motivo il peccato e che,
viceversa, può esserci il peccato senza che vi sia, tuttavia, cattiva volontà. Nel caso qui menzionato,

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Abelardo, quale teologo morale dotato di singolari e straordinarie intuizioni, riesce a scrutare l’atto
morale preso in esame alla luce della migliore etica descrittiva. Egli, infatti, afferma con ragione
che nell’uccisione da parte del servo del suo padrone vi è senz’altro peccato poiché il servo ha tra-
sgredito il divieto di uccidere proveniente da Dio. Ciò nonostante va precisato che nel servo non vi
è cattiva volontà, in quanto egli fu spinto nel suo agire dall’inclinazione naturale di aver salva la
propria vita. D’altra parte, come risulta evidente nel caso in cui si desideri una donna senza tuttavia
dare il proprio consenso alla concupiscenza, può esservi una “mala voluntas” senza che vi sia ad
ogni modo alcun peccato. La cattiva volontà, nell’ottica presentata dall’autore, si presenta, dunque,
come la condizione esistenziale che rende l’uomo incline a compiere il male, l’eterno nemico con
cui egli dovrà battagliare fino alla morte e che dovrà sopportare per il trionfo finale di Dio. Nel
corso del suo lungo viaggio sugli incantevoli altipiani dell’etica Abelardo fa fronte poi ai sentieri
impervi dell’ascetismo monastico e dell’estremismo ascetico. Tale dottrina relegava tutta quanta la
corporeità nell’ambito dell’ “intrinsece malum”, considerando di conseguenza la vita morale come
negazione e mortificazione della carne: per attestare la propria posizione essa si fondava su alcuni
passi biblici (cf Sal 50,7; 1 Cor 7,5.6) da cui faceva derivare la propria condanna della corporeità e
della sessualità. A tal proposito, lo stesso S. Bernardo considerava gli uomini corrotti “ab aeterno”
a causa della carne in cui essi erano stati generati. Contro tale concezione Abelardo afferma che,
quando Davide disse di essere stato generato nella colpa, egli si riferiva probabilmente alla con-
danna del peccato originale cui è soggetto ogni uomo e che deriva dalla colpa dei propri progenitori,
i quali hanno condotto l’uomo alla pena esistenziale e conflittuale della concupiscenza. Perciò, nel
momento in cui un uomo è spinto a desiderare una donna che ha appena visto, se, tuttavia, egli
respinge il consenso interiore all’inclinazione cattiva allora egli non avrà peccato. Colui il quale
vedendo una donna l’avrà desiderare avrà allora già commesso adulterio nel suo animo, ovvero sarà
colpevole di peccato sebbene manchi ancor l’effetto pratico: secondo l’autore, <<qualsiasi azione
non ha nulla a che vedere con un aumento del peccato; niente può in modo alcuno inquinare
l’anima, se non ciò che procede dall’anima, vale a dire il consenso, che solo abbiamo detto che è
peccato>>. Non di meno, infatti, per Abelardo, Dio tiene conto non tanto delle azioni in sé compiute
dall’uomo, bensì dell’animo con cui si fanno, per cui il merito e la lode o la condanna del soggetto
morale non deriveranno dalle sue azioni, ma dalle sue intenzioni. Parte da qui la grande intuizione
abelardiana della “intentio”, che ne ha fatto, se così possiamo dire, lo scopritore in una certa misura
dell’importantissima e necessaria distinzione tra il piano dell’atteggiamento e quello del comporta-
mento. Abelardo riuscì a cogliere, infatti, che il principio dell’agire morale è il momento volitivo,
che ha il suo luogo vitale nel cuore dell’uomo, sede dell’intenzionalità e dell’orientamento fonda-
mentale dell’uomo stesso. Tale questione fu l’oggetto di una delle più significative dispute della

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storia: la controversia fra Abelardo e S. Bernardo. Contrariamente a quanto faceva la morale già ca-
sistica al tempo di S. Bernardo, Abelardo non commise l’errore di trasferire sull’atteggiamento il
giudizio morale formulato sul comportamento. Egli, infatti, nella sua Ethica afferma che l’inten-
zione è buona per se stessa, mentre l’azione è buona non perché implichi qualcosa di buono in se
stessa, ma perché procede da una buona intenzione. L’autore ha così gettato le basi costitutive per la
distinzione tra l’atteggiamento e il comportamento, fondando su tale differenziazione la sua etica
dell’intenzione. L’intenzione – e, dunque, l’atteggiamento – dovrà dirsi buona qualora, credendo di
agire bene secondo quanto piace a Dio, essa non si tradisca da se stessa in questa sua convinzione.
Momento esemplificativo della disputa fra Abelardo e S. Bernardo di Chiaravalle fu senz’altro il
caso di quei Giudei che crocifissero Cristo: secondo S. Bernardo essi peccarono perché compirono
l’azione più turbe della storia; secondo Abelardo, invece, non si può affermare se essi peccarono fin
quando non si prova che essi avevano l’intenzione di uccidere il Figlio di Dio. In S. Bernardo e
nella cosiddetta morale casistica appare evidente la concezione secondo la quale l’atteggiamento è
moralmente buono o cattivo in base alla rettitudine morale o meno del comportamento. Secondo, in-
vece, la concezione abelardiana, che sembra seguire la logica adottata da Cristo (cf. Mt 12,33 e Mt
10,15-20), il comportamento dovrò scaturire dall’atteggiamento, e non viceversa (cf. Bernardo e la
morale casistica, che, come abbiamo precedentemente ricordato, trasferivano sull’atteggiamento il
giudizio morale formulato sul comportamento) e che l’atteggiamento moralmente buono, per essere
veramente tale e per non autocondannarsi inaridendosi, dovrà pur sempre essere orientato verso la
realizzazione di comportamenti moralmente retti, sullo sfondo dell’opzione fondamentale assunta.
L’opera abelardiana, sebbene non è riuscita a cogliere, come afferma l’etica contemporanea, che vi
possono essere ben quattro diverse combinazioni tra atteggiamento e comportamento – atteggia-
mento buono/comportamento retto; atteggiamento buono/comportamento scorretto; atteggiamento
cattivo/comportamento retto; atteggiamento cattivo/comportamento scorretto – è riuscita, tuttavia, a
compiere con argomentazioni degne di nota un attentissima disamine sul peccato, distinguendolo
dal “vitium”, dall’ “actio mala” e dalla “voluntas”, e a ben rintracciare i diversi livelli di atteggia-
mento e comportamento. La sua Ethica, pertanto, sebbene allora sia stata condannata dallo stesso
Bernardo di Chiaravalle al sinodo di Sens nel 1141, rappresenta senz’altro una tra le pietre miliari
dell’etica contemporanea per il suo fondamentale contributo che ha saputo dare nel secolo scorso,
nel momento in cui l’etica si trovava ancora ingabbiata nella posizione di arroccamento della
morale casistica.

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