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Riepilogo annotazioni per %5BGeorg_W._F._Hegel,_a_cura_di_Enrico_De_Negri%5D_Fen(BookZZ.

org):

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Lo spirito nella Vorstellung sa sé solo come altro da sé, solo come figura, come una divinità oggetto per la
sua coscienza > lo spirito eleva questa figura alla forma della coscienza stessa, cioè si rappresenta il dio
come un qualcosa di spirituale e non più come natura - che essa sia trovata o manipolata (cioè
spiritualizzata)
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L'artefice nella religione artistica abbandona l'operare sintetico, cioè non mischia più natura e spirito, non
sovrappone più natura e spirito, ma opera per la spiritualizzazione della materia naturale, che deve servire
come mezzo d'espressione dello spirito, mezzo d'espressione che deve dunque prender la forma più
consona al contenuto spirituale: il corpo umano.

Nascita dell'artista (artefice spirituale - geistiger Arbeiter)


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La religione artistica è dunque la forma di sapere tipica dello spirito vero, cioè del mondo greco che sa la
sostanza stessa come propria essenza e propria opera (si sa dunque come libero, perché le singole
individualità riconoscono nella sostanza non solo la propria essenza, ma anche la propria opera, si sanno
come cittadini)
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Rif. alla religione della luce che annulla in sé i singoli individui che riconoscono la propria effettualità altrove.
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Riferimento all'organizzazione in caste dei popoli indiani: queste caste sono costituite naturalmente e i loro
membri vi appartengono naturalmente, il loro ruolo sociale è rigidamente prescritto > L'organizzazione ha
cioè solo la parvenza di un intiero perfetto perché mancando la libertà si rivela coatta e inconsapevole.
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La città greca è la nazione libera, dove il costume, l'ethos, è la sostanza di tutti; e tutti e ciascun singolo
sanno l'effettualità e l'esserci di questa sostanza come la volontà propria e la propria opera. >la libertà greca
è però ancora immediata, è costituito dal suo essere coscienza del suo popolo, dal suo aderire
naturalmente alle leggi della città sentite intimamente come proprie [coincidenza del bene singolare e di
quello universale], non è ancora la libertà del moderno che consiste nel trovare in sé la propria legge> ciò
comporta che non è il singolo uomo ad essere libero ma l'uomo come cittadino (cfr. schiavitù)

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Solo il compimento dell'esperienza greca permette alla religione di essere il sapere di sé, la forma di
religione compiuta si dà dunque solo "nel distaccarsi dal suo sussistere", solo al tramonto, nel quale il
mondo effettuale nel suo dileguarsi è consegnato al sapere di sé [la classicità greca è al contempo il
massimo punto di consapevolezza di sé e il momento del superarsi dell'effettualità nel sapere].

Lo spirito vero non ha in sé il principio della singolarità dell'autocoscienza: il singolo non è capace di scelte
individuali, agisce secondo l'ethos (con il quale è in unità immediata) ed è libero solo il questo agire. > ma la
religione greca compiuta come effettualità del suo spirito supera questa immediatezza, ne diviene
consapevole e così ne rappresenta la rottura (la riflessione sull'immediatezza, come suo compimento
effettuale, ha la forma della sua confutazione e del suo superamento: d.h. nel conoscersi come
inconsapevole, supera questa inconsapevolezza e opera, rappresentandola, la dissoluzione del mondo di
cui è il sapere.e
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L'autocoscienza non è ancora tornata in se stessa dal suo quieto costume e dalla sua solida fiducia, il suo
operato si manifesta come la "quieta immobilità" dell'effettualità del suo ethos: non ha ancora tolto, non
essendo ancora tornata in se stessa, "il pensiero illimitato del suo libero Sé"
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L'uomo greco è appagato perché la sua vocazione di vita trova riscontro preciso nell'organizzazione della
sua comunità, nella pluralità dei suoi diritti e dei suoi doveri che risponde perfettamente al suo intendimento:
sente che il mondo intero è predisposto alla sua prassi naturale.

L'uomo greco ha dunque nella verità della sua comunità la certezza di se stesso.
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La coscienza greca è "felice", gioisce nel riconoscere nel mondo il mondo da lui voluto [commedia
aristofanea].

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PolyLine
L'immediatezza che tiene insieme la coscienza e la sostanza fa sì che la coscienza nel riconoscere nel
mondo la propria volontà si elevi ad autocoscienza, ritorna in se stessa e, nella presa di coscienza del
pensiero illimitato del suo libero Sé (homo faber), matura lo spazio per l'inquietudine soggettiva che è il
morire dell'Eticità che fondata sull'immediatezza di sostanza e coscienza, ha proprio nella presa di
coscienza di questa immediatezza, cioè nel suo inverarsi spirituale, il suo togliersi.
PolyLine
Elevata al di sopra dell'effettualità, lo spirito in sé certo, produce ora la sua essenza dalla purezza del sé:
nasce l'artista che, altro ormai dal suo mondo, a cui non è più legato da un rapporto immediato, produce da
sé il sapere di questo nel suo tramontare.
Square
L'arte assoluta è quella che opera la corrispondenza di sensibile e spirituale, è cioè la sola arte greca:
l'artista egizio è ancora immerso nell'esserci, per lui la colonna è solo la rappresentazione dell'albero che
sostituisce, gli dè sono ancora teriomorfi o teriantropici.
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L'arte cristiana "va oltre l'arte", in essa concetto ed opera d'arte sono la medesima cosa (la figura dell'opera
d'arte cristiana è il concetto del suo contenuto)
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Il ritornare della sostanza etica dal suo esserci nella sua autocoscienza pura, cioè la sua presa di coscienza
del fatto che il mondo che ha inconsapevolmente costruito ha assunto così un significato razionale, consiste
dunque nel rappresentare questo significato razionale, portato ad effettualità, in forma concettuale nell'opera
d'arte > libertà dell'opera d'arte: il patrimonio dell'Ethos diventa mezzo di rappresentazione del suo saperlo.

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Lo spirito che si è disincarnato in puro concetto, trova dunque nuova effettualità nell'operato dell'artista,
artista che lo spirito si sceglie come "ricettacolo del suo dolore" > l'artista con la sua opera dà parola alla
nuova realtà che si sta manifestando: il faticoso emergere di una soggettività capace di autonomia. > la
forza dell'universale che ha il singolo artista come veicolo è talmente forte che esso scompare, perde la
propria libertà: l'opera d'arte non è quindi espressione della finitezza del proprio creatore ma del senso
spirituale di cui questi è divenuto strumento e da cui viene costretto. >
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> ma l'artista ha in sé la potenza di smuovere l'universale, di concretarlo nell'opera, di dargli voce; la sua è
una potenza negativa che concreta l'astrattezza informe dell'universale, che dà figura ai suoi contenuti che
ne sono privi.
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La prima opera d'arte, astratta e singola, è la statua
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La seconda procede dalla prima, immediata e oggettiva, verso l'autocoscienza: l'inno come espressione
fluida di un'interiorità autocosciente.

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> essa toglie se stessa - come distinzione e contrasto posta di soggetto e divinità - nel culto attraverso la
compresenza di celebrante e celebrato.
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Errata corrige: "la figura, cioè, è là come cosa"
Square
Statua: il suo limite artistico è la sua cosalità, l'essere cioè altra nella sua fisicità dall'intimo spirito dell'artista.

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Distinzione tra la figura de Sé che è la statua e la materia inorganica della sua dimora, il tempio.

Il tempio greco ha superato l'astrazione intellettualistica, il mortuum dell'arte egizia dove l'architettura si
compone solo di rette e piani e non accetta entro sé l'incommensurabilità della curva.
La pura astrazione dell'arte egizia (dove la colonna non è che la rigida, intellettualistica imitazione
dell'albero) perviene ora a una nuova purificazione intellettuale dove la materia lungi dal determinare,
limitare il lavoro dell'artista, ne è materiale plastico che risponde compiutamente alla volontà dell'artista.
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Descrizione del passaggio dall'arte egizia alla greca per quanto riguarda la colonna rispetto al suo referente
naturale, l'albero.
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"La bestia per il Dio è solo una veste fortuita" > la divinità lascia le sue sembianze animali, esse ora la
affiancano ma sono abbassate a mero segno, hanno significato solo per altro (cfr. Zeus - aquila; Atena -
civetta, ulivo; Artemide - cerva, luna; Apollo - lupo, sole etc.)
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Coccoli corregge "loro" con "sua" [ihre] riferito a Gestalt.
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L'essenza del dio greco è l'unità del suo esser i come elemento di natura e della sua effettualità
autocosciente come singolo spirito nazionale.

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Ma l'esserci naturale del dio è il riflesso dello spirito nella natura: la trasfigurazione di questa operata dal
pensiero. > l'elemento naturale è quindi presente nella figura divina come un qualcosa di tolto
nell'effettualità nazionale, come un'oscura reminescenza > aufhebung delle figure elementari (i titani) in
figure spirituali e nazionali che mantengono come oscura rimembranza le elementarità di quelli (Elio >
Apollo; Ecate/Selene > Artemide; Oceano > Poseidone; Urano > Zeus etc.). Tuttavia, trattandosi di un
Aufhebung, le nuove divinità affondano le loro radici in questo mondo sepolto.

Le Vorstellung di questa Aufhebung sono ad esempio la titanomachia, la detronizzazione di Crono ecc.


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La statua rappresenta in un risultato quieto e fissato il suo vario movimento (mutabilità del materiale,
movimento proprio della figura determinata che rappresenta con una pluralità di caratteristiche contingenti;
pluralità della nazione "dispersa nelle masse particolari dell'operare e nei punti individuali
dell'autocoscienza")
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Di contro al resultato, come essenza, sta l'autocoscienza che l'ha prodotta: l'artista come "momento
dell'inquietudine" > solo alienandosi dalla propria particolarità, sacrificandola l'artista ha potuto esprimere
l'universale >

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La separazione tra artista (attività autocosciente) e opera si mostra irrisolvibile > la statua esprime i suoi
contenuti solo in una maniera statica, bloccata e il movimento che l'artista ha voluto riprodurre permane in
questa guisa solo nella sua autocoscienza

L'istantaneità della statua, il suo essere refrattaria al movimento di cui è rappresentazione costituiscono la
sua imperfezione: impediscono che questa forma d'arte come spirito possa essere soggetto da sé, e non
solo oggetto, senza che gli si ponga un'autocoscienza di fronte (che sia l'artista o uno spettatore).
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L'esperienza dello scultore è quella di non aver prodotto un'essenza a lui uguale, di non aver prodotto
un'essenza autonoma, di non aver rappresentato adeguatamente il dinamismo spirituale del suo atto
creativo. > quale che sia l'atteggiamento dello spettatore, giudizio (l'operare dell'artista supera ogni giudizio)
o venerazione (l'operare dell'artista piega alla sua volontà, è cioè padrone proprio ciò a cui lo spettatore si
inchina, ciò che venera) non è all'altezza dell'atto dell'artista, e quindi non può rimediare alla mancanza
dell'atto artistico con il proprio atteggiamento nei confronti dell'opera > dalla profondità della notte creativa
decade nel suo opposto, nell'esteriorità, nella determinazione della cosa priva di coscienza.

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Il linguaggio è "un esserci che è esistenza immediatamente autocosciente"
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Col linguaggio c'è la coincidenza dell'esser-per-sé e della molteplicità di Sé uniti universalmente > è l'anima
nel suo darsi concreto.
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Ora l'opera d'arte ha immediatamente (quindi in modo non consapevole, elementare) entro sé
l'autocoscienza che quando era cosa gli si contrapponeva > è l'esserci del puro pensiero, la singolarità
dell'universalità [e da ultimo l'indeterminatezza risultante dallo sforzo della coscienza di esprimere ciò che
per lei è inesprimibile> l'artista ha immediatamente la sua potenza spirituale dentro la sua opera.
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Lo spirito come questa universale autocoscienza, ha in sé - come essere semplice, tanto il suo esser-per-sé
(come interiorità) quanto il suo esser-per-altri del singolo > cfr. i fedeli che nell'invocazione condivisa sono
un unico soggetto spirituale, che però è un essere semplice in quanto è dato solo nell'atto, è privo di
concretezza e di articolazione.

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Oracolo come prima lingua necessaria della divinità, essa - come forma ancora estranea dello spirito -
passa alla comunità come parola del dio attraverso uno schiettamente universale esser per sé, cioè
attraverso il sacerdote del dio membro della propria comunità. Il Sé singolo che sia separato dalla coscienza
della comunità è il nemico [Antigone e Socrate come forme aurorali di ciò]
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L'elementarità del linguaggio oracolare dipende dall'elementarità della comunità religiosa da cui deriva >
questo si traduce nella sua ambiguità, nella sua universalità nebulosa, nella sua sublimità che infine si
mostra come banale.
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Il Sé, tolto da questo livello nell'esser-per-sé, domina il puro pathos della sostanza, e lo conosce
autonomamente - e non mediante l'estraneità e l'accidentalità naturale dell'oracolo, come "la sicura e non
scritta legge degli dei, la quale vive eternamente e della quale nessuno conosce da quando è apparsa" (cfr.
Antigone vv. 454-7)
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La verità universale si è qui ritratta nell'interiore ed è quindi sottratta alla forma del fenomeno accidentale.

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L'oracolo delfico ora parla chiaramente, non più ambiguamente, al singolo.
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Interiorizzazione del l'universalità che diventa possesso del singolo. [gnôthi sautón] > il demone socratico
rimane questo sapere accidentale e particolarizzante.
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La determinazione intellettuale per ciò che riguarda la contingenza da parte cel singolo ha un carattere
paragonabile a quello oracolare, perché nei casi particolari della vita le scelte determinate dall'intelletto sono
comunque inficiate dal contesto (in questo senso chi per le scelte contingente consulta un oracolo manifesta
un maggiore distacco dai diversi casi della vita): "sapendo questa stessa azione ponderata come qualcosa
di accidentale" [unilateralità dell'azione umana]

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La fluidità dell'inno si contrappone alla salda consistenza della statua: all'una manca l'altra e così la fluidità
dell'inno, che non va oltre la pura devozione, la disposizione d'animo, si manifesta come esserci e non
esserci assieme [cfr. tempo]
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Culto come costituzione dell'unità di inno e statua come opposte unilateralità (ineffettualità dell'inno e mera
oggettività della statua) > la divinità dev'essere tolta alla sua trascendenza, immanentizzata nel luogo
(tempio) e nella prassi (culto)
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Già l'inno manifesta in realtà questa comunanza col divino
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Il fedele nella comunione con la divinità si dissolve in essa, fa uno con la sua essenza.
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Ma questa comunione nella sua immediatezza è ancora astratta > il percorso di comunione è un percorso di
spoliazione, di alienazione delle particolarità per far emergere il divino che è in noi (cfr. Orfismo). Non c'è
ancora la purificazione che attiene alla consapevolezza rappresentata del proprio male (peccato originale)

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Nt. prec.
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Misteriosità dell'attuazione del culto, sua ineffettualità: permane al livello dell'astrazione, dell'autocoscienza
pura mentre il suo oggetto rimane qualcosa di trascendente che gli sfugge > solo nel sacrificio la relazione
umano-divino si sostanzia effettualmente.
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Cultualità misteriosa e ineffettuale dei riti orfici
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Bilateralità del sacrificio: il togliersi dell'inessenziale dell'oggetto sacrificato nel sacrificio attraverso
l'enthousiasmós, immanentizza il divino e pone il sacrificante (come coscienza effettuale) davanti alla
divinità, all'universalità e così ne toglie l'inessenzialità e lo universalizza.

Per il sacrificante (come coscienza pura) il sacrificato è dapprima l'inessenzialità elevata ad universalità:
proprio questa elevazione pone il sacrificante nella possibilità di togliersi la propria inessenzialità.

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Il sacrificio consiste dapprima nella pura offerta di un oggetto posseduto > il proprietario rinuncia quindi a far
ritornare in sé la propria attività (nel consumo) e riflette la sua azione nell'universale attraverso l'olocausto, il
far andare completamente in fumo del sacrificato.
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Il sacrificio dell'oggetto legato alla divinità olimpica supera la prima forma sacrificale (legata agli déi inferi)
con la congestione di tale oggetto che realizza effettualmente la comunione col dio (l'enthousiasmós).

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L'animale sacrificato è però il segno di un dio, vale a dire ha già in sé il divino, non è una pura offerta.
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Affinché nel sacrificio il dio si offra, la sua essenza ("quella più alta") dev'essere già presente nel suo
oggetto (cioè nell' "immediata effettualità dell'essenza", che viene tolta nella rappresentazione dell'essenza
nell'esserci), nessun astuzia altrimenti potrebbe avvicinarla > questa unione col divino non è più pura
perdita, pura rinuncia ("destino soltanto negativo") perché ora il sacrificante consuma l'oggetto che ha in sé
l'essenza del divino ed è la compiuta unione di esserci ed essenza, singolarità e universalità ("ma ha valore
positivo").
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Solo nel sacrificio al mondo infero si fa rinunzia totale di ciò che si è sacrificato
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Nel sacrificio agli dei olimpici si distrugge solo ciò che non è utilizzabile della vittima

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Il consumo della vittima sacrificale ha lo straordinario potere di negare l'essenza, la strappa dalla lontananza
in cui dimora e in pari tempo mangiando le carni del dio nel convivio mi universalizzo partecipando
all'esperienza rituale condivisa > l'onore reso al dio diviene onore reso all'uomo nell'affermazione della sua
unione con il dio, del suo rapporto affermativo, che però è ancora imperfetto: l'esteriorità degli dèi fa sì che
questa unione, questa identificazione debba passare per il consumo esteriore dell'elemento naturale.
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L'effettualità della pratica cultuale non ha però permanenza oggettiva: il dio nella sua consumazione
dilegua; è necessario dunque che l'azione cultuale conquisti la possibilità della permanenza nella
costruzione del tempio, nel particolare lavoro che ciascuno può compiere nella comunità: non è più l'operare
del singolo artista a esprimere l'universalità ma quello di tutti e di ciascuno, della comunità e dei cittadini,
che nelle loro azioni intuiscono il Sé del dio in loro stessi.
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Nel mondo greco, il lavoro peraltro non onora il solo dio ma con esso onora lo stesso lavoratore che è in
rapporto con lui: la ricchezza offerta al dio rimane ad uso dell'uomo [mentre la statua è alienata nella sua
oggettività dall'artista che ne costituisce la controparte autocosciente, il tempio costruito per il dio, come
duratura architettura, è immediatamente luogo di incontro, luogo familiare, luogo aperto e gratificante, per gli
uomini che l'hanno costruito; il tesoro offerto al dio è immediatamente la ricchezza della nazione]; nella festa
l'uomo fa sfoggio della magnificenza non solo del dio, ma anche di sé, della propria comunità: l'offerta al dio
non si traduce nella speranza di una "tardiva effettualità" della sua gratitudine (paradiso del mondo giudaico-
cristiano) ma nell'immediato godimento del suo stesso lavoro, nell'immediata soddisfazione per la propria
esistenza (l'onore per il dio è immediatamente per l'uomo), nel possesso di ciò che è donato, possesso il
quale è garantito dal rapporto di comunione e di elezione tra il dio e la propria comunità, tra il dio e il singolo
uomo.

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Nt. prec.
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Il popolo ebraico è sì il popolo del suo Dio ma rispondendo ad esso con cieca e assoluta obbedienza, si
dilegua in esso che è pura potenza annientante.
Questo tremendo Dio e pura forza ed è perciò irrappresentabile, esso procura ai suoi fedeli soltanto la
sussistenza, la loro sostanza semplice (consapevolezza di essere popolo) ma non il loro sé effettuale
(mancano cioè di libertà, di consapevolezza: se l'uomo greco agisce secondo l'ethos della comunità perché
quello è immediatamente anche il suo ethos, l'uomo ebraico vive la sua azione come dettata da una volontà
superiore che lo schiaccia e di cui egli non conosce i motivi: "le vie del signore sono imperscrutabili)
cosicché appare a questi come una profondità vuota, una volontà assoluta davanti alla quale per il federe
c'è solo l'illibertà, il rapporto di servitù, l'essere puro tramite della sua volontà.
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La religione greca manca però di questa astratta semplicità d'essenza, manca della possibilità di purificare il
divino da tutto ciò che è naturale, da rappresentarselo come un Uno che trascenda la natura.

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Ma nella religione greca, in virtù del rapporto di comunione che i greci intrattengono con i propri dèi
"l'essenza è immediatamente unificata con il sé", i fedeli sono cioè consapevoli della propria identità e
libertà.

Gli ebrei al contrario avendo il Dio come una pura essenza oltre di loro, nella sua assoluta trascendenza,
sono esclusi dai suoi imperscrutabili disegni.

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La sostanza, la notte dell'indeterminatezza, diviene ora per sé, cioè si individualizza nei singoli credenti (se
nell'astrattezza i singoli si annientano, escono fuori da sé, nella concretezza del culto greco essi ritornano in
sé arricchiti della presenza del divino > si supera così anche l'esperienza dello scultore che nella rigidità
oggettiva del marmo non ritrovava il proprio movimento autocosciente) > dall'intuizione della divinità lontana,
ora il divino come pathos diventa principio del loro stesso movimenti, essi lo sentono in loro, sanno la
manifestazione di sé come manifestazione del dio.
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In Grecia si assiste al tramonto, cioè alla determinazione del pathos, cioè dell'essenza che in Oriente era
sorta in forma aurorale (cfr. struttura eliotropica del movimento storico) > la natura come essere per sé
raggiunge la sua massima perfezione nell'esser nutrimento per l'uomo (principio femminile del nutrimento e
maschile della forza autocosciente) > l'uomo nel cibarsi della natura ne riconosce inconsciamente la
subalternità.
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Mangiata e bevuta - grano e vino - Cerere/Demetra e Bacco/Dioniso

Pagina 237:
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Il mistero è la rivelazione a cui il Sé assiste nel sapersi unum atque idem con l'essenza > nella
consumazione del pasto sacro, nella celebrazione del mistero, l'essenza trascendente si immanentizza >
attraverso
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Unità di sentimento e ragione nella comunione concreta con il divino, unilateralità di Kant (ragione) e
Schleiermacher (Cuore)
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Lo spirito assurge dalla sua notte occulta alla coscienza.
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"Lo schietto impulso è l'essenza della luce nascente dei molti nomi e della sua orgiastica vita che dimessa
sua volta dal suo astratto essere, si dà prima raccolta nell'esserci oggettivo del frutto, poi, donandosi tutta
l'autocoscienza, consegue in essa l'effettualità propriamente detta, e ora si aggira come un'orda di femmine
trasognate, - orgia indomita della natura in figura autocosciente".

L'unificazione tra umano e divino è ancora all'inizio e infatti si incarna nella donna che trattiene l'elemento
autocosciente sulla soglia della natura, come la consapevolezza intorpidita della baccante, ibride nello
sconvolgimento dovuto all'irruzione della divinità come natura, come animalità.

Pagina 238:
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Cfr. nt. prec. > la divinità arcaica (Cerere e Bacco - misteri e baccannali) entra in comunione solo come
spirito immediato, femminile come "schietto impulso", "essenza della luce nascente dai molti nomi",
naturalità e animalità: solo nel sacrificio agli dèi olimpici il divino è presente in forma autocosciente, in un
individuo in cui la comunità riconosce la sua
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All'autocoscienza non si è ancora sacrificato lo spirito autocosciente e dunque il pane e il vino non sono
ancora carne e sangue.

"Il mistero del pane e del vino non è ancora mistero della carne e del sangue"
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L'inquietudine bacchica per raggiunge l'autocoscienza deve togliersi in un risultato calmo, non più la mera
oggettività priva di vita della statua ma l'armoniosa perfezione semidivina dell'atleta.
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Il Sé vivente è l'atleta
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Il culto del dio vivente, di cui l'atleta è l'enthousiástēs, sono i grandi giochi di Olimpia, Delfi, Corinto > in
questi culti i greci onorano nel migliore di loro la propria umanità; in tal modo questo culto pone il
fondamento per l'incarnazione cristiana (cioè il momento in cui lo spirito "assume essenzialmente figura
umana") ma non ne è ancora all'altezza, l'essenza non è ancora spirito, la presenza del dio nell'uomo è
ancora immediata, data per natura > dio non diviene ancora umano per essenza, l'unificazione del dio e
dell'uomo è ancora astratta.
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"Uno si leva che è il movimento fatto figura, la levigata elaborazione e la fluida forza di ogni membro, -
animata, vivente opera d'arte, la quale alla sua bellezza accoppia il vigore, e a cui come premio della sua
forza spetta l'ornamento col quale si onorava la statua, nonché l'onore di essere, fra il suo popolo, invece
del dio di pietra, la più alta rappresentazione corporea della loro essenza."

Pagina 239:
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Emersione dell'unilateralità: all'entusiasmo bacchico, al suo "selvaggio balbettio" manca la bella corporeità e
l'armonia dell'atleta, alla bella corporeità manca l'entusiasmo: ad essa l'essenza spirituale rimane esterna,
come all'entusiasmo bacchico è il sé ad essere fuori di sé.

La mediazione è ancora una volta il linguaggio che ha la capacità unica di rendere manifesta l'interiorità
mantenendola immediatamente dentro di sé > parlando si manifesta senza residui la propria interiorità che
però viene immediatamente universalizzata rendendo il suo contenuto eminentemente singolare patrimonio
di tutti.
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Il linguaggio però non è più quello accidentale e contenutisticamente singolare dell'oracolo, né quello
dell'inno sentimentale e ancora particolare (si rivolge al singolo dio), né certo l'insensato balbettio della
baccante
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Il linguaggio ha così raggiunto il suo contenuto chiaro e universale: la sua chiarezza è la forma
dell'autocoscienza di cui si è foggiato l'entusiasmo, il riempimento spirituale.

In questo senso l'atleta ha come espressione tutta esteriore nell'aedo che canta il suo epinicio l'espressione
della sua interiorità.

La sua universalità è data dall'entusiasmo che pur foggiato nella forma chiara è il movimento stesso che dà
vita alla nuova opera d'arte, movimento che supera la singolarità della statua e dell'inno e fa della singola
occasione l'opportunità per la manifestazione dello spirito dell'umanità greca e non più delle sue particolarità
nazionali > l'aedo diviene rappresentante panellenico che toglie le particolarità nazionali (depone "le
particolari impressioni e risonanze della natura che in sé racchiudeva come spirito effettuale di una
nazione") nell'universalità dell'esistenza umana (la cui consapevolezza deriva proprio dalla deposizione
delle particolarità nazionali) > la corporeità può essere così superata in una figura artistica dell'essenza
puramente spirituale, in cui le genti greche possano unanimemente riconoscersi (epos panellenico)

Pagina 240:
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Nt. prec.
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Gli spiriti nazionali si unificano in un Pantheon
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L'unità naturale di Spirito e nazione del popolo greco è rappresentata miticamente dalla panellenica impresa
troiana e dall'unità religiosa del mondo omerico ("un solo popolo e quindi un solo cielo"). Cfr. Erodoto:
Omero ed Esiodo hanno creato ai Greci i loro dei (Est. II p. 1386)
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Questa unità spirituale rimane però ingenua, immediata, non si rispecchia ancora nell'unità politica > per
l'azione comune è messa provvisoriamente da parte la libertà di partecipazione di tutti e di ciascuno, il
sentimento di tutti è rivolto all'eroe come rappresentante del proprio popolo e tra gli eroi al comandante
supremo come rappresentante dell'intera nazione greca > non è cioè rivolto se non in modo rappresentativo
alla comunità e alla nazione.
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Si tratta di una libera alleanza di individui, non di una unificazione forzata basata su un dominio del pensiero
astratto, c'è cioè "autoconsapevole partecipazione alla volontà e all'operazione dell'intiero"

Pagina 241:
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Il ciclo di figure dell'Epos greco abbraccia "l'intera natura e l'intero mondo etico", abbraccia cioè
geograficamente e culturalmente l'intero ambito della grecità > gli eroi, rappresentanti delle loro comunità,
riconoscono sì a uno di loro il comando (Befehl, per la sua eccellenza) ma non la signoria (Herrschaft):
glielo affidano liberamente nello stesso modo in cui le singolo comunità lo affidano liberamente ai propri
capi.
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L'eroe omerico nell'azione rappresenta il suo popolo, ma solo in modo immediatamente vissuto > se più
avanti avrà valore il rapporto del singolo cittadino con il suo governo, ora nell'immediatezza quello che vale
è il rapporto tra il singolo cittadino e la persona del re.
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L'Epos rappresenta l'aurora del rapporto immanente tra l'uomo e l'essenza divina come rapporto amichevole
tra il popolo e il suo re, inteso come cittadino che intrattiene un rapporto d'elezione con la divinità.
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Qui la comunione tra il popolo e la sua divinità non è più qualcosa di semplicemente agito come nel culto
ma assume consapevolezza di sé sebbene ancora in forma rappresentativa e non concettuale, appare cioè
come contenuto del canto dell'aedo: Omero ha preso coscienza del suo mondo e ne oggettiva nel proprio
canto le caratteristiche (la lingua epica "contiene il contenuto universale come completezza del mondo,
sebbene non come universalità del pensiero"; è cioè "primo linguaggio", ancora ingenuo, rappresentativo
cioè narrativo, inconsequenziale, incapace ancora di cogliere la struttura concettuale stessa delle azione
perciò autoesponentesi che è caratteristica propria della tragedia).
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L'aedo ha come pathos Mnemosyne, la reminescenza davanti alla quale egli dilegua giacché "non il suo
proprio Sé è quello che conta, ma la sua musa, il suo canto universale"; cfr. i proemi di Iliade e Odissea)
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Medio tra l'universalità degli dèi e la singolarità dell'aedo è la particolarità solo rappresentata e quindi anche
universale degli eroi.

Pagina 242:
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Nt. prec.
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Oggetto della rappresentazione dell'Epos è il rapporto tra uomo e dio che il culto attua in sé. Nell'Epos si
rappresenta, cioè si media col pensiero e il ricordo, ciò che nel culto era immediato. > l'evento veramente
epico esprime "un'azione ramificata nella totalità della sua epoca e delle condizioni nazionali" (Est. II, p.
1391)
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Rif. al libro XI dell'Odissea
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Il poeta attraverso il rapporto tra eroi e divinità rappresenta il rapporto trai popoli e le istanze che fondano
l'azione nel mondo, trai popoli e i loro valori (ipostatizzati nelle divinità): questa struttura rappresentativa è la
congiunzione sintetica dell'esserci autocosciente e dell'esserci esteriore: l'aedo non può che rappresentare
l'universo di valori che motiva le azioni del singolo con un Pantheon celeste.

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La relazione tra il lato individuale e quello universale risulta per noi del tutto accidentale: il poeta illustra
rappresentativamente il legame tra il valore e l'azione subordinando l'azione a un intervento divino > in
questo modo il poeta introduce nel mondo un'incongrua partecipazione divina, che nella rappresentazione
appare ingiustificatamente altrettanto particolare e arbitraria che quella umana, ai fatti umani che si spinge
fino al ridicolo (cfr. critica platonica, Resp. II-III ) e gli uomini vedono così vanificati i loro sforzi davanti alle
decisioni amēchanài degli dèi

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Ma gli dèi come "impotenti generalità" hanno "qualcosa da fare" solo per mezzo degli "affannati mortali che
sono il nulla" ma che in pari tempo sono "il possente Sé che si assoggetta le essenze universali" e procura
loro "un interesse dell'agire" (cfr. i parteggiamenti degli dèi per le fazioni umane nell'Epos omerico).

Solo gli eroi danno realtà concreta ai valori di cui gli dèi sono espressione.
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Ma al contempo le divinità come universalità nella loro olimpica distanza sono capaci di risolvere ogni
individualità nella fluidità del loro quieto esistere. > realtà contraddittoria degli dèi (azione multiforme e
trasformatrice dell'eroe e perfezione immota del dio)
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La contraddittorietà degli dèi si manifesta nel loro essere al contempo universali e particolari, determinati
nelle loro relazioni con altri universali: ma questa relazione ad altri, che secondo la sua opposizione è una
lite con essi, è un comico auto-oblio della loro natura eterna" (la contraddizione in questi termini è tra la
perfezione del dio e la sua individuazione singolare da cui consegue la molteplicità che spezza
inevitabilmente la completezza e l'indipendenza)

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La determinazione di ognuno degli dèi, che è rappresentazione inconseguente dell'unica forza divina, si
manifesta come un'accidentale partecipazione alle vicende narrate e in un'incongruente contrapposizione di
divinità che ha la forma dell'innocuo e vano gioco sicuro di se stesso. Le azioni degli dèi sono quindi prive
della pura forza del negativo necessaria al progresso di qualsiasi azione > la coscienza epica che nega agli
dèi - alla quale attribuisce una bella ma mera serenità e un innocuo gioco - la pura forza del negativo, se la
rappresenta come destino, fato, "estrema potenza sopra la quale essi [gli dei stessi] nulla possono"
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Tutti gli dèi sono sostanzialmente l'unica invincibile forza divina.
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Se il singolo Sé, il mortale, non può nulla contro il positivo universale degli dèi, il Sé universale del destino
"si libra quindi come il vuoto aconcettuale della necessità" che supera persino la rappresentazione stessa
che è l'Epos e che appare come una necessità incomprensibile per gli stessi dèi, vuota perché
"aconcettuale". Uomini e dèi si comportano nei confronti di questa forza come "privi di sé e afflitti", incapaci
di penetrare la necessità del destino che nella sua purezza è, per le loro determinazioni, vuota.

"Nell'Epos, e non nel dramma, come comunemente si crede, domina il destino [...] p" (Est. II, p. 1417)
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L'opera d'arte tragica è dove "il gioco delle loro azioni consegue in loro stessi il suo rigore e il suo valore",
dove si dà ordine all' "inconseguenza e [al]l'accidentalità del loro operare"

Il destino è per noi "Sé universale", "pura forza del negativo", una forza ordinatrice che dà senso al corso
pratico, proprio il contrario di quella necessità aconcettuale, cioè vuota, che appare agli eroi dell'Epos. Se
l'eroe dell'Epos ha nel destino un imperscrutabile, cieco e vuoto oltre di lui, l'eroe della tragedia ha nella sua
azione niente altro che il compimento del destino: il destino appare nella tragedia ciò che è veramente:
l'effettualità dell'azione singolare.
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Achille che in quanto eroe è "la singolarità salda in se tessa ed effettuale" che tuttavia deve stare
all'incomprensibile astratta ineffettualità del destino.
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Cfr. il sillogismo in [26] dove l'eroe è riconosciuto come medio, in quanto nella sua singolarità è comunque
rappresentazione universale.
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La necessità è "l'astratto ineffettuale", la vuotezza del destino che non partecipa alle azioni dell'eroe ma le
determina in modo necessario ma inconseguente e aconcettuale.

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L'aedo narra da semplice spettatore e perciò fuori dal contenuto, esso deve trasformarsi da spettatore in
personaggio.
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Come l'aedo deve diventare da spettatore "persona", prósōpos che sa narrarsi nell'azione e sa dirne per
primo il significato, così il destino deve andare a combaciare con l'effettualità dell'eroe col quale nell'epos
non ha apparentemente legami, deve diventare cioè la legge di questa effettualità.
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Nell'Epos il mondo essenziale (gli dèi) e quello agente (gli eroi) sono dispersivi nella loro molteplicità, la
poesia tragica stringe più da vicino questi due termini, la riduce alla semplicità della dicotomia, alla pura
contrapposizione di universale (essenziale) e particolare (agente), solo la filosofia vedrà in questa
contrapposizione, o meglio in questa contraddizione conciliata e conciliazione contraddittoria, il concetto.
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Se la narrazione dell'Epos è una Vortellung, il "più alto linguaggio" della tragedia è una Darstellung, un
autoesposizione, in cui il singolo prósōpos è consapevole di agire per l'universale e esprime nel suo
linguaggio questa consapevolezza e quest'essenza (pathos come universale), egli è esente da
tentennamenti e contraddizioni interne, sa cosa deve fare perché incarna il suo destino, incarna
quell'universalità che è l'unica di cui riconosce il diritto. Il carattere tragico classico non è dunque un
carattere moderno, che ha - nella tragedia moderna - per contenuto l'interiorità soggettiva. (Est. II, p. 1619)
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Il carattere tragico è finalmente effettuale e non rappresentato.
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Perché solo così ha senso in quanto cioè esprime l'intenzione del suo autore.

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Attraverso la maschera l'attore abbandona la propria particolarità e viene a esprimere un significato
universale. (Cfr. anche Est. II, 1573-5)
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Il testo tedesco reca "wahre eigentliche Selbst", pertanto "suo" non ha referenti nel testo originale.

Riferimento alla commedia aristofanea come dimensione artistica di centralizzazione del "Sé vero e
peculiare" che è perciò dimensione di superamento dell'arte, nella quale cioè il vero sé, il Sé agente, diventa
lo spettatore e non più il Sé rappresentato.
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Il "terreno generale", cioè lo sfondo [sta all'eroe tragico come il tempio alla statua; Est. II, p. 1605], è il Coro,
"la sostanza reale della vita", la collettività non individualizzata, dalla quale sono emerse - come fiori da un
terreno dal quale sono condizionati - le due soggettività particolari che si contrappongono (Est. II, 1604) > il
coro è ancora nella dimensione linguistica dell'Epos ("è la coscienza della prima lingua rappresentativa"), sa
solo rispecchiare la varietà delle vicende a cui assiste senza coglierne il significato unitario, e lascia perciò il
contenuto per esso privo di Sé "alla disgregazione", senza avvertire la necessità e l'urgenza dell'azione
eroica.
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Il coro dell'Età matura è il rappresentante del basso popolo, della parte inetta all'azione (vecchi e donne), "il
materiale positivo e passivo dell'individualità del governo che gli si contrappone" e lo fa oggetto delle sue
decisioni, che disperde la ricchezza del divino in una molteplicità slegata e dispersa di dèi singoli e
indipendenti da onorare, senza domarla e tenerla insieme.

Il coro perciò non entra attivamente nell'azione ma esprime teoricamente il suo giudizio senza esercitarne il
diritto (Est. II, p. 1605); esso manca "della potenza del negativo", non è cioè capace di muovere la realtà,
accetta indiscriminatamente l'accadere davanti al quale non può nulla.

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Il rigore del concetto che frantuma gli individui di cui si serve per inverarsi.
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Il coro di fronte al rigore del concetto si rifugia nella tranquillizzante coscienza del destino estraneo, di fronte
al quale non si può nulla.

Paura di fronte al conflitto tra principi universali che stritola i singoli e compassione per gli eroi nelle cui
dolorose vicende si sa coinvolto in qualche modo ma del cui operare allo stesso tempo ignora la necessità.

La passività del coro si manifesta innanzitutto come volontà di flebile placazione di fronte a quello che
intende come un destino estraneo.

Pagina 247:
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Nt. prec.
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Il coro, come il pubblico, è un terreno indifferente, una coscienza spettatrice per la quale però lo spirito non
sorge più, come nell'Epica, nella sua dispersa varietà ma nella scissione nelle sue due potenze estreme. Il
coro come rappresentante e controfigura del
pubblico fa sì che il pubblico ritrovi in questa la sua immagine attiva, la sua propria rappresentazione
"esprimente se stessa".
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Le elementari essenze universali sono in pari tempo "individualità autocoscienti, eroi che pongono la loro
coscienza in una sola di queste potenze, hanno in essa la determinatezza del carattere e ne costituiscono
l'attivazione e l'effettualità"

Cfr. Est. I, p. 310


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La folla di spettatori ha nel coro la sua immagine (Gegenbild "controfigura"), la sua rappresentazione.
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Rif. all'inizio del VI c. > il momento artistico (Antigone nel VI c.), in quanto momento cosciente dello spirito
del popolo ["sua più pura e semplice figurazione"] , da cui è prodotto, più del fatto storico può esprimere
appieno la sostanza, come "natura e realizzamento", di quel popolo.

L'artista è per la Grecia del V a.C. la forma più pura di coscienza intorno a sé che sia possibile raggiungere.

Pagina 248:
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Un'ulteriore distinzione dei caratteri è da ascrivere alla personalità contingente, è cioè solo un'inespungibile
residuo di particolarità nell'individualità universale dell'ethos (carattere) tragico.
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Ripresa del tema della parzialità pratica (unione di sapere e non-sapere, di consapevolezza e
inconsapevolezza; cfr. VI [30]) > il personaggio tragico "desume il suo fine dal carattere, e lo sa come
l'essenza etica" ma "a causa della distintezza del carattere egli sa solo l'una potenza della sostanza e l'altra
è per lui occulta"
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Riferimento a Oreste che, "infantilmente fiducioso" eseguendo il comando parziale di Febo, erra di fronte
alla legge familiare e suscita le Erinni della madre; a Edipo ("colui che sapeva dischiudere l'enigmatica
sfinge") che, agendo in modo da non inverare l'ingannevole oracolo delfico, lo invera.

In questo senso la sacerdotessa del dio della luce non è diversa dalle strega del Macbeth (le ambigue
sorelle del destino) "che spingono al delitto con le loro promesse, e nel senso ambiguo di ciò che spacciano
per sicuro ingannano chi si è fidato del senso manifesto"

Pagina 249:
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Nt. prec.
Square
"Quindi la coscienza che più pura dell'ultima che crede alle streghe e più consigliata e profonda della prima
che confida nella sacerdotessa e nel bello iddio, esita a vendicarsi alla rivelazione che lo spirito stesso del
padre fa del diritto che lo ha ucciso, e dispone altre prove, - giacché quello spirito rivelatore potrebbe anche
essere un demone."

Amleto, rispetto a Macbeth e Oreste, appare più vicino alla sensibilità moderna, maggiormente consapevole
della complessità del reale e più fiducioso nella capacità della ragione umana.
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L'azione nel suo compiersi fa emergere proprio quella potenza che la nega e che ora, in quanto offesa, "urla
vendetta": così proprio l'uccisione della madre da parte di Oreste, che risponde al suo dovere di vendicare il
padre, capovolge il dovere in delitto, il merito in colpa, e fa emergere le Erinni della madre che affermano
con pari forza la proibizione di versare il sangue materno cosicché il soggetto non ha potuto seguire una
legge, la propria, che infrangendo l'altra, quella che immediatamente non riconosce.

Le Eumenidi fanno dunque emergere la necessità, mediata dallo Zeus del confronto, di osservare eguali
onori agli dèi superi e agli inferi ("questo diritto infero siede con Zeus sul trono e gode con il manifesto e
sapiente iddio di eguale considerazione") sicché le Erinni divengono appunto Eumenidi.

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Così la sostanza greca si articola in tre momenti: la quiete della sostanza (l'ethos della polis), il momento
della singolarità e dell'opposizione, lo Zeus che ricompone ciclicamente il conflitto in unità.
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Prima essenza: unità di legge familiare e statale, la sostanza non si individualizza in due diverse figure
particolari ma immediatamente nei caratteri naturali complementari tra loro (donna e uomo) ha la sua realtà
effettiva.
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Seconda essenza: il singolo, nell'opposizione, è l'intera differenza; se nel contenuto esclude del tutto l'altra
legge che non riconosce, in quanto alla forma si sa come il tutto > questa opposizione interna alla Sostanza
è rappresentata dall'opposizione divina di Apollo e delle Erinni, opposizione che ha in Zeus il momento
necessario del suo superamento.

Pagina 250:
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Nt. prec.
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La pacificazione propria del mondo greco è la rassicurazione a sé chiara della certezza (basata sul fatto che
"la differenza, ond'è la coscienza effettuale, ha il suo fondamento nell'essenza interiore che la cancella": la
differenza è interna alla Sostanza che, pur per sé scissa, è in sé semplice, è cioè scissa solo nel punto di
vista parziale dell'individualità che, una volta che ha ricompreso la sostanza semplice come suo
fondamento, fa decadere l'opposizione), ha però per propria conferma l'oblio, la cancellazione del conflitto, il
ripristino della situazione iniziale, un livellamento del conflitto che non ne è vera risoluzione ma che lo rende
dimenticabile, inconsistente: nel mondo greco non c'è pertanto posto per l'autonomia del soggetto
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L'azione tragica muove dall'opposizione e ha la sua effettualità nella delegittimazione di questa e
nell'emersione del diritto della legge lesa di insorgere contro l'attore (chi compie l'azione).
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La tragedia attica rappresenta la parzialità del sapere, la sua ambiguità, ingannevolezza attraverso la sua
natura oracolare di segno ammonitore o essere trascendente.

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La parzialità dei termini dell'opposizione fa sì che entrambi abbiano eguale diritto ed eguale torto: il
compimento perciò è il tramontare d'entrambi e il loro ritornare nella "una" e semplice sostanza originaria.
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Il Lete, del mondo infero è la morte (l'esser dileguato, l'oblio, dell'effettualità; l'Antigone), quello del mondo
supero è l'assoluzione dal peccato [e non dall'innegabile colpa] (l'esser dileguato, l'oblio, delle potenze del
pensiero astratto del bene e del male; le Eumenidi e l'Edipo a Colono) > la sostanza, nel mondo greco, è
dunque il non vitale e immoto "semplice Zeus" dell'uguaglianza e dell'indifferente ineffettualità di quelli che
non sono più termini opposti; l'inattività della famiglia e del governo.

Sulla conciliazione tragica, cfr. Est. II, p. 1612-15


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"Semplice Zeus"
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Il risultato della tragedia mette fine all'inadeguatezza dell'ingenua rappresentazione che del divino fa l'Epos
> l'autore tragico rappresenta il divino senza attribuirgli tratti inessenziali e togliendolo dalla quotidianità
umana (cfr. la critica ai comportamenti umani attribuiti agli dèi nell'Epos in [59])
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Rif. a Senofane e al suo rifiuto della rappresentazione antropomorfa del divino.

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I personaggi della tragedia sono quindi "caratteri assoluti" che esprimono il profondo e universale pathos
della propria esistenza.
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L'un carattere assoluto della tragedia "conosce e riconosce" una sola potenza suprema ed è pertanto
disposto a onoraresolo uno Zeus, il poliéo (Creonte) o l'efestio (Antigone)

> "i momenti che ulteriormente si dispargono dalla rappresentazione" sono invece esterni, inessenziali,
scivolano nell'accidentalità della passione privata, che è per questo lodata dal coro inconsapevole
("mancante di Sé") dell'universalità del pathos inflessibile.
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Ma, come si è visto, anche i caratteri in cui sono incarnati i valori assoluti tornano nella sostanza quieta e
semplice: ma questa forza che dopo che l'eroe ha scosso il mondo, riporta la quiete annientando l'eroe
stesso, come destino, appare all'eroe come una forza incomprensibile che egli non riconosce come il
risultato della sua azione > "il Sé compare assegnato soltanto ai caratteri, ma non come il medio del
movimento", l'universalità
dei caratteri non è nella tragedia ancora riconosciuta come ciò da cui scaturisce la necessità dell'esito, il
destino > alla tragedia manca nell'esito e nel principio ciò che all'Epos mancava anche nel corso, l'esito (il
destino) e il principio (la sostanza, la legge) sono ancora in balia di una necessità astratta, separata, non
sono ancora riconosciuto come determinato dalla libertà del soggetto agente, così come le leggi della polis
non sono riconosciute come prodotti del popolo greco ma sono ancora considerate una sostanza a sé: per
questo la soggettività greca può manifestarsi o come l'eroe che incarna il pathos dell'universale che
riconosce, o come il pubblico e il coro che di fronte al destino non possono che provare inattivamente paura
e condoglianza. (cfr. Est. II p. 1587 per l'eco aristotelica).

Ma l'eroe, come si è visto, è solo carattere, cioè universalità che veste i panni di una singolarità, e perciò la
sua azione è "coazione" (cooperazione), egli è cioè coatto e la sua è una recita, un'ipocrisia.

Perciò di fronte a questo limite concettuale dell'unificazione tra singolare e generale, la tragedia esaurisce il
suo compito e l'arte greca procede concettualmente oltre: l'eroe si disgrega nella maschera (si potrebbe dire
che dilegua con la maschera quando l'attore se la toglie) > dalla persona tragica si passa all'attore comico,
che è Sé effettuale, soggetto concretamente vivente nella sua realtà.

Pagina 253:
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Nt. prec.
Line
Il soggetto è divenuto capace nella commedia di riconoscere nel destino e nella potenza assoluta la propria
materia, di riconoscersi come destino di questi, nel quale il pubblico in virtù della sua concretezza di
soggetto reale può finalmente riconoscersi.
Line
Il soggetto, nella commedia, indossando la maschera, ironizza sulla pretesa essenzialità di quelle essenze
astratte incarnate dalle individualità tragiche.

Line
Il Soggetto è ora, nella commedia, un individuo particolare che indossa la maschera dell'universalità con
malizia ("gioca con la maschera") solo per il proprio tornaconto (fa mostra del fatto che l'ethos condiviso, la
sostanza, non fonda più i convincimenti profondi della città, che cioè il cittadino non è più del tutto
l'autocoscienza della sua comunità e che essa non è più la sua sostanza) > nella commedia la maschera,
l'attore e lo spettatore vengono a coincidere ("[il personaggio] fuori da questa parvenza [di universalità] si
esibisce altrettanto presto nella sua nudità e nella sua condizione abituale, che esso mostra non essere
distinta dal Sé vero e proprio, dall'attore come dallo spettatore.")

Pagina 254:
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Il dissolvimento dell'universalità nell'individualità particolare, la mostra del fatto che i valori universali non
fondano più i costumi della città, che il cittadino in ultima istanza non è più autocoscienza della sua
sostanza, ha un valore serio, drammatico per la polis che vive questo momento, messo in scena nella
commedia, come un momento cruciale nel quale tanto gli dèi inferi (essenza naturale) quanto gli dèi superi
(essenza etica) partecipano della dissoluzione.
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Per quanto riguarda i tributi dovuti agli dèi inferi (l'elemento naturale), il soggetto - nella commedia - inizia a
diventar conscio dell'ironia che ne costituisce il fondamento: il soggetto mostra di sapersi come il destino
dell'autoessenzialità della natura, riconosce di produrre lui stesso il pane e il vino e di riempirne il tempio, e
mostra quindi finalmente di esser consapevole dell'ironia insita del riappropriarsi di questi prodotti, e con
essi del divino valore di intima essenza, attraverso il rituale e il mistero.
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L'essenza etica come demos (Stato che provvede ai cittadini) cioè legge umana, luce, sapere, divinità
supere, e genos (famiglia che provvede al singolo individuo) cioè legge divina, tenebra, non-sapere, divinità
infere.
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Riferimento ai Cavalieri, il popolo - Demos - i cui cittadini in quanto autocoscienze della propria sostanza
dovrebbero saper scegliere i propri reggitori - è in realtà frammentato in singole individualità ognuna a
caccia del proprio tornaconto particolare: perciò la commedia mette in scena "il ridicolo contrasto" tra
"l'opinione di sé" (l'autocompiacimento per la propria grandezza) del soggetto che si sa immediatamente
come autocoscienza della propria comunità, come cioè incarnazione di valori universali, e il "suo esserci
immediato" che manifesta invece la sua particolarità, la grettezza del suo egoismo e la volgarità.

La commedia mette quindi in scena il contrasto del soggetto tra autocoscienza immediata e esserci, tra la
pretesa di necessità e l'effettiva accidentalità, tra l'universalità cosciente e la volgarità effettuale che è pure
niente altro che l'effettiva emersione della soggettività come libera affermazione di sé.

Cfr. LSF II, p. 86


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La singolarità che, separata dall'universale, (non è più dunque l'autocoscienza della sostanza) emerge nella
figura dell'effettualità [cioè assume un ruolo politico, comunitario] e si arroga la comunità, è in realtà la sua
"segreta rovina": l'emersione della nuova soggettività coincide con la mostra della sua natura
necessariamente distruttiva per la bella comunità greca, fondata fino ad allora sull'identità essenziale di
autocoscienza e sostanza > questa compromissione viene fuori come "contrasto dell'universale come teoria
[l'ethos come rispetto delle leggi] e di ciò che è da farsi nella prassi [il reale comportamento che si fa beffe
delle leggi e persegue solo il suo tornaconto personale]

Qui il riferimento è a Paflagone-Cleone che incarna la nuova soggettività che compie "la completa
liberazione dei fini dell'immediata singolarità dall'ordinamento universale, e lo scherno gettato dall'una
sull'altro".
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Nt. succ.

Pagina 255:
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Cfr. [70] per il riferimento al rifiuto filosofico dell'antropomorfismo.

Il riferimento è qui al Socrate delle Nuvole: la riflessione filosofica, nella sua volontà di sottrarre il divino
all'accidentalità della sua figurazione, è un'esplicita critica al ricco mondo di valori proprio della saggezza
corale e popolare, saggezza "priva di concetto" che "ostenta ogni sorta di massime etiche e fa valere una
gran quantità di leggi e di certi concetti di diritti e doveri", che la filosofia "solleva [...] alle idee semplici del
bello e del buono"

Cfr. LSF II, p. 66


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Il movimento dell'astrazione del divino dalla sua accidentalità figurale è un movimento che li porta a
dileguare, che dilegua la loro validità assoluta, che ne mostra l'inadeguatezza (cfr. il procedimento della
dialettica socratica in LSF II, pp. 55-57), che li rende nient'altro che "nuvole": l'astrazione filosofica del divina
dalla sua accidentalità, è uno svuotamento, lo rende inconsistente, vano.
Line
Il nuovo contenuto del divino, che è il bello e il buono svuotati dalla loro determinatezza, è così in balìa
dell'individualità particolare che si sente di essere l'unica autorità a cui riferire il proprio comportamento e
che quindi riempie questo vuoto (che è l'astrazione del bello e del buono) con i propri contenuti particolari e
accidentali ("esse tollerano di venir riempite di ogni e qualsivoglia contenuto") >

Socrate mostra cioè che un'asserzione determinata non può assumere valore universale ma solo particolare
e che l'universale quando è veramente tale non è che un negativo, un vuoto da riempire di contenuti > "per
lui il bene è determinato assume il più preciso significato di bene soltanto particolare" (LSF II, p. 73); cfr. la
critica di H. a Kant (LSF III, II, pp. 319-23) che propone una massima universale incapace nella sua
astrazione di determinarsi se non attraverso un analogo inserimento surrettizio di contenuti particolari.

Così Socrate, attraverso questa astrazione del divino che è un suo svuotamento che lascia al singolo
individuo la libera possibilità di affermare i propri contenuti particolari (in Socrate "la decisione è riposta
sempre nel soggetto, nella coscienza; ma quando questa è malvagia, dove ripetersi la storia di Strepsiade;
FLS II, pp. 85-89) è a ragione rappresentato nel dramma aristofaneo come fonte di disgregazione della
società ateniese, rappresentata nel dramma dal vecchio Strepsiade e da suo figlio Fidippide, entrambi
impegnati ad affinare alla scuola di Socrate le proprie "armi dell'inganno".

Così il Discorso migliore che fa sua la libera volontà di autoaffermazione basata sul privato interesse, vince
sul Discorso peggiore che rappresenta la rovina delle leggi, il loro esser diventata una mera chiacchiera che
non trova più davanti a sé un'autocoscienza che possa riconoscersi ma solo una folla frammentata di
individui privati.
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Nel momento in cui l'esame razionale mostra alla contingenza dei contenuti delle leggi morali, quest'ultime
rimangono nella condizione di contenitori vuoti che ogni singolo con riempire secondo il proprio arbitrio,
come Aristofane illustra evidenziando comicamente il contrasto fra la vantata universalità e l'interesse
particolare dei comportamenti dei suoi personaggi ("i puri pensieri del bello e del buono offrono dunque il
comico spettacolo di farsi vuoti e di diventare così zimbello dell'opinione e dell'arbitrio dell'individualità
accidentale").
Line
Ciò che rimane saldo è solo il giudizio dell'autocoscienza, il soggetto: l'esito ultimo delle vicende umane, che
prima si presentava come destino incomprensibile - vuota quiete e vuoto oblio - in cui tramontavano le figure
tragiche, viene riconosciuto ora come prodotto proprio, l'autocoscienza non si sente più agita da un fatto
estraneo, separato, ma protagonista delle proprie scelte e dei loro risultati.
È il nuovo soggetto rappresentato nella commedia, che - avendo con la sua dialettica scosso la stabilità del
mondo divino, nella sua datità naturale e nella sua forma essenziale. nella sua essenza sia etica che
naturale - si riconosce come l'unica reale e permanente essenzialità ("in questa nullità medesima, perdura,
è presso di sé, ed è l'unica effettualità")

Cfr. LSF II, pp. 1-6: "il pensiero, acquistata coscienza di sé come dell'assoluta e unica essenza, esercita
gelosamente la sua potenza e la sua signoria contro ogni altro che pretenda valere come un determinato
che non sia pensiero" (riferisce dunque tutto a sé)

Pagina 256:
Line
Nt. prec.
Line
La religione estetica, del tutto rientrata in sé, perde così la forma di una cosa rappresentata, ("lo spettatore,
il quale si trova perfettamente a casa sua in ciò che gli viene rappresentato, [e] nell'azione vede agire se
stesso") comunque separata dalla coscienza e a lei estranea ("come lo erano la statua e anche la vivente
della corporeità o il contenuto dell'epos e le potenze e i personaggi della tragedia") perché è "la coscienza
singola nella certezza di se stessa ciò che si presenta (sich darstellt) come tale assoluto potere".

Il soggetto sa allora se stesso come l'unica e ultima istanza e non ha più bisogno di attribuire questo ruolo a
una figura posta da lui nella rappresentazione, ma non riconosciuta come propria e sentita perciò come
separata ed estranea; anche le forme che già esprimevano la coincidenza di me e del mio dio - come il
rituale - lo facevano solo in modo istintivo, ora invece in modo consapevole.

L'attore coincide con il personaggio, sono entrambi cittadini di Atene


Line
La coscienza intuisce che quanto ha davanti a sé nella rappresentazione, quando ella vi riconosce la sua
stessa esistenza, si dissolve e risolve in lei medesima, "nel suo pensare", fuori dal quale nulla ha più
autonoma consistenza.

Il cittadino ateniese riconosce ora finalmente il suo ethos, il pathos che lo anima e i suoi dèi, come suoi
prodotti, sa che tutto ciò "si risolve piuttosto nel suo pensare, nel suo esserci e nel suo fare" e ritorna nella
certezza di se stesso grazie alla quale può compiacersi ("è un benessere e un sentirsi bene della
coscienza") della propria assoluta libertà e sorridere delle contraddizioni che la nuova conquistata
condizione ha fatto emergere nel tessuto compatto della comunità etica.

"Sono propri del comico l'infinito buon umore in genere la sconfinata certezza di essere ben al di sopra della
propria contraddizione e di non esserne affatto amareggiati e resi infelici: ossia la beatitudine e l'essere a
proprio agio della soggettività che, certa di se stessa, può sopportare la dissoluzione dei suoi fini e delle sue
realizzazioni" (Est. II, p. 1591) e cfr. anche LSF II, p. 87: "questo lato del libero spirito ateniese, questo totale
godimento di sé nei guai, quest'imperturbabile sicurezza di sé anche in mezzo agli insuccessi immediati
della realtà noi lo godiamo in Aristofane"

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