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JOHN MAYNARD KEYNES

I LIBRI COSTANO TROPPO?

Avvertenza
Quest’articolo di Keynes fu pubblicato per la prima volta in «The Nation and Athenaeum»
del 12 marzo 1927, nel quadro di un dibattito sull’industria editoriale.

Il direttore di «The Nation » ha avviato su queste colonne un dibattito sullo stato di salute
di un settore industriale – la produzione e il commercio dei libri – la cui importanza per il
paese non ha alcun rapporto con le sue dimensioni. Penso che nessuno possa sostenere
che i libri che si pubblicano siano troppo pochi. Quanto a capacità di produrre siamo in
ottima salute. Attualmente gli autori validi cui si impedisce di vedere la luce sono davvero
pochi. Ma si comprano abbastanza libri? I libri occupano – nel nostro tempo libero – il
ruolo che dovrebbero avere? Il reddito degli autori (e, incidentalmente, degli editori e dei
librai) è quello che dovrebbe essere in una comunità che si rispetti e che onori come è
giusto chi scrive, e quanti coadiuvano e integrano l’editoria con servizi essenziali?
La risposta è certamente negativa. Quanto alle librerie, in realtà, se si escludono Londra,
Cambridge, Oxford, Edimburgo e pochissime grandi città di provincia, non ce ne sono –
ossia non ce ne sono di dimensioni tali da poter sperare (entro limiti ragionevoli) di
trovarvi ciò che si desidera. Spero che il direttore riesca a rintracciare qualche
rappresentante degli editori che ci sappia dire dove, in Inghilterra, ci si può aspettare di
ricevere ordini su larga scala. Forse non ci sono più d’una dozzina di librerie degne di
questo nome in tutta l’area metropolitana. E, se ci sono; non vediamo l’ora che qualcuno
ce ne segnali gli indirizzi. Ritengo che affermare che in tutta la contea del Middlesex ci sia
una libreria di prim’ordine per ogni mezzo milione di abitanti sarebbe ottimistico.
D’altro canto, il numero degli elettori, come quello degli autori, non è scarso. Ma, nel
complesso, sono benestanti? Mi si dice il contrario. Se escludiamo la scolastica, i libri di
testo, le bancarelle da due soldi e le pubblicazioni di carattere commerciale, sommati tutti
assieme, gli editori di Londra guadagnano complessivamente quanto basta a un grosso
venditore di tessuti per campare? Ogni libro che pubblicano ne assorbe i circolante, la
liquidità e rappresenta un rischio notevole. Dubito che i profitti che possono mettere
assieme siano proporzionati alla difficoltà e alla precarietà del settore.
Che dire degli autori? Sono una tribù umile, abbastanza contenti, troppo spesso di
vedersi pubblicati senza dover pagare. Sperano appena, al di là della piccola ma non
selezionata banda degli autori di bestseller, di poter mantenere moglie e figli con i proventi
delle loro attività. Lo sa il cielo (oltre al direttore, e a loro stessi) che quanti contribuiscono
a «The Nation» sono pagati piuttosto male; eppure la maggior parte di essi guadagna, per
ogni parola pubblicata, ben di più di quanto potrebbe sperare di ottenere da un libro vero
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e proprio. Dio sa (con il direttore) che la circolazione di «The Nation» è piuttosto modesta;
tuttavia sono davvero pochi i libri che vi si possono avvicinare, quanto a numero di copie
vendute. Quanti autori ci sono; in Inghilterra, che possono arrivare a guadagnare, in media,
500 sterline l’anno dai loro libri? Molto, molto pochi. Ho l’impressione che nell’intero
settore quelli che se la cavano meglio tra i vari addetti alla produzione siano tutto
sommato i tipografi.
Ora, tutto ciò è profondamente insoddisfacente. Vuol dire che in questo paese il potere
delle idee espresse attraverso mezzi che non siano la stampa popolare è trascurabile. Da
dove ha origine questo problema?
Ho ritenuto a lungo che la colpa fosse degli editori, ma mi sono convinto che i colpevoli
non sono loro. Il problema nasce, in primo luogo, dal pubblico – dall’atteggiamento che ha
rispetto all’acquisto dei libri, dalla scarsità della spesa, dalla sua avarizia e dai vari
comportamenti scorretti utilizzati quando si tratta del libro, la più nobile tra le opere
dell’uomo.
Il problema è in gran parte di aritmetica. Lasciatemi fare una somma, a titolo illustrativo,
che vi mostrerà l’economia della produzione libraria. Prenderò un volume, pubblicato di
recente del quale conosco le cifre. Si tratta di un libro importante, di oltre quattrocento
pagine in medio ottavo (22x14), che contiene oltre 160.000 parole, rilegato in un buon
tessuto, un libro che normalmente non verrebbe messo in commercio per meno di 15
scellini. Un elemento significativo del costo di produzione resta praticamente immutato
quale che sia la tiratura, ovvero la rilegatura, che in questo caso è stata di uno scellino per
ciascuna copia, anche se si sarebbe potuta ottenere una rilegatura meno cara per nove
pence. Una volta composto tipograficamente e mandato in macchina, il costo del libro per
la stampa e la carta risulta di dieci pence per copia. Quindi quello che gli economisti
chiamano il «costo marginale di produzione», ossia il costo sostenuto per produrre
ciascuna copia addizionale al di sopra – diciamo – delle prime 500 copie del libro, di norma
pubblicabile a 15 scellini, sarebbe stato inferiore a due scellini la copia. In realtà sono
pochissimi i libri il cui costo marginale di produzione, una volta sostenute le spese iniziali
ecceda i due scellini; per la maggior parte dei libri – direi per la stragrande maggioranza dei
libri rilegati – la cifra sta tra uno scellino e due scellini e mezzo. In generale il prezzo di
copertina si collocherà tra cinque e dieci volte il costo marginale che abbiamo calcolato.
Sono stati calcoli del genere in passato a farmi pensare in passato che i libri fossero
troppo cari e che gli editori avessero torto a tenere il livello dei prezzi correnti
eccessivamente elevato. Ma prima di arrivare a questa conclusione, spingiamoci un po’ più
avanti con la nostra aritmetica.
I costi iniziali del libro che stiamo esaminando per la composizione ed altro sono stati di
circa £ 150, senza tenere conto dei diritti d’autore, delle spese generali e della pubblicità.
Una cifra tra 50 e 200 sterline coprirebbe probabilmente i costi iniziali della maggior parte
dei libri. Si tratta di una spesa fissa quale che sia il numero di copie prodotte o vendute. £
150 sono 3.000 scellini. Quindi su un’edizione di 500 copie, il costo è di 6 scellini la copia; di
1.000, di 3 scellini; di 3.000, di 1 scellino; di 6.000, di 6 pence; di 9.000, di 4 pence; di
18.000, di 2 pence; e così via. Quindi, fino ad una vendita – diciamo – di 2.500 copie, il
costo medio iniziale decresce molto rapidamente. Dopo – diciamo – le 5.000 copie, i costi
aggiuntivi diventano quasi trascurabili, ammontando al massimo a pochissimi pence.
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Aggiungiamo ora i costi marginali a quelli iniziali. Otteniamo un totale di 8 sscellini la
copia per un’edizione di 500 esemplari; di 5 scellini per una di 1.000 esemplari; di 3 scellini
per una di 3.000; di 2 scellini e 4 pence per una di 9.000; di 2 scellini e 2 pence per una di
18.000 esemplari.
In base a tali dati, quale prezzo sarebbe ragionevole? 15 scellini sono un prezzo
ragionevole? Calcoliamo, in base a questo prezzo al pubblico, quanto le varie parti
riusciranno a incassare. Prima di tutto, dobbiamo dedurre le spese di distribuzione, che
assumono la forma di sconto per i librai o i grossisti. Non le staremo sovrastimando se le
fissiamo a un terzo circa. Né si tratta di una percentuale eccessiva, paragonandola ai costi
di qualsiasi costi di una qualsiasi altra attività d distribuzione al dettaglio – specie se si
tratta di un’attività commerciale stagionale, non standardizzata, non di base. Un terzo di
quanto paghiamo per la maggior parte di quanto acquistiamo nei negozi va alle spese e ai
profitti della distribuzione e non a quelli della produzione. Solo se il pubblico diventasse
molto più ampio e gli acquirenti più affidabili di quanto non lo siano adesso, si
determinerebbero le condizioni per ridurre questi oneri.
Ci restano quindi dieci scellini per i costi di produzione , i costi della pubblici, le spese e i
profitti dell’editore e i diritti dell’autore. Dedotti i costi di produzione descritti sopra,ciò
vuol dire una somma di £ 50 per una tiratura di 500 copie; di £ 250 per una di 1.000; di
£1.050 per 3.000; di £ 3.450 per 9.000. Prima di dividere la somma tra i vari pretendenti,
raffrontiamo i risultati che si avrebbero pubblicando ad un prezzo di copertina di 7 scellini
e 6 pence, di 10 scellini e 6 pence e di 24 scellini con quelli che abbiamo per il prezzo di 15
scellini.

Cifra ottenibile al prezzo di copertina di

Tiratura 7s.6p 10s.6p 15s. 24s.

500 - £ 75 - £ 25 £ 50 £ 200

1.000 0 £ 100 £ 250 £ 500


3.000 £ 300 £ 600 £ 1.050 £ 1.950
9.000 £ 1.250 £ 2.100 £ 3.450 £ 6.150

Innanzi tutto, l’editore e l’autore trarrebbero un vantaggio dalla riduzione del prezzo al di
sotto di 15 scellini? Le vendite attese dovrebbero essere, tenendo conto di un certo
aumento del rischio, tre volte maggiori a 15 scellini per giustificare un prezzo di 7 scellini e
6 pence e due volte maggiori per giustificare un prezzo di 10 scellini e 6 pence. D’altro
canto, 24 scellini darebbero un utile anche se le vendite fossero pari alla metà. Di
conseguenza, il problema che gli editori si dovrebbero porre è quello della reazione del
pubblico se si diminuissero i prezzi. La diffusione della maggioranza dei libri si suddivide in
due parti: le vendite alle biblioteche pubbliche, alle biblioteche circolanti, agli amici e ai
sostenitori più fedeli degli autori, la cui quota è influenzata pochissimo, entro limiti
piuttosto ampi, dalle variazione dei prezzi; e le vendite al pubblico in genere, difficili da
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prevedere. Le vendite della prima categoria (esclusi i bestseller) per la maggior parte dei
libri di un buon livello si attestano probabilmente tra le 250 e le 1.000 copie. Ora, se le
vendite potenziali al pubblico stimolate da bassi prezzi e forte pubblicità fossero
dell’ordine di 5.000 copie o più – come certo dovrebbe essere – varrebbe la pena di fare
qualche tentativo di diminuire i prezzi. Ma in pratica, temo, la domanda potenziale da
parte del pubblico di un buon libro del tipo che stiamo esaminando si porrebbe piuttosto
tra le 500 e le 2.500 copie, e supererà la seconda cifra solo nel caso di un successo
eccezionale. In generale, quindi, non si possono aumentare le vendite di un libro di tre
volte dimezzando il prezzo. Ne deriva pertanto che nella maggior parte dei casi agli editori
conviene fissare il prezzo al livello accettabile più elevato, che non spaventi la prima
categoria di acquirenti, sui quali si può fare affidamento. In effetti abbiamo di che essere
grati agli editori per la loro moderazione nel non spendere qualche pence a copia per le
illustrazioni (che il pubblico e gli autori sono convinti costino molto più di quanto in realtà
non sia) e un altro penny o due su una buona rilegatura per poi aumentare il prezzo del
mio ipotetico libro, con la scusa di questi abbellimenti, a 24 scellini.
Dunque, da un punto di vista strettamente commerciale non ci sono elementi per ridurre
il prezzo dei libri, a meno che, e fino a quando, il pubblico potenziale non aumenti in
misura significativa.
Esaminiamo ora se, stando così le cose, l’autore o l’editore siano remunerati in misura
eccessiva.
Supponiamo che l’editore si sia accordato per pagare all’autore un diritto del 15% del
prezzo di copertina per le prime 1.000 copie vendute(ossia 2 scellini e 3 pence per copia su
un libro da 15 scellini), il 20% sulle successive fino a 2.000 copie, e il 25% dopo 5.000 copie;
in tal caso per 500 copie vendute l’autore riceve £56; per 1.000, £112; per 3.000, £412; e
per 9.000, £1.537. il libro, dovete ricordare è un libro importante, la cui stesura
impegnerebbe la maggior parte degli autori per almeno due anni; e per un libro del genere
vendite superiori a 3.000 copie rappresenterebbero un evento davvero eccezionale. Non
possiamo quindi accusare gli autori di avidità.
Cosa rimane per le spese e i profitti dell’editore? No possiamo fissare il costo normale
della pubblicità per copia venduta a meno di 1 scellino, probabilmente sarebbe
appropriata la cifra di 2 scellini; alcuni editori potrebbero considerare simili cifre troppo
modeste per un libro che valesse la pena di promuovere. A titolo illustrativo porrò le spese
di pubblicità a £50 una tantum, più in aggiunta uno scellino per copia venduta. Ciò lascia
l’editore con -£81 per 500 copie vendute, +£38 per 1.000 copie, +£438 per 3.000, +£1.413
per 9.000; e non di profitto netto, ma di profitto lordo, dal quale vanno dedotte tutte le
sue spese generali. Ora, qualora vendite di 9.000 copie fossero un risultato normale e non
un evento raro da mediare con vendite correnti di 1.000 copie o meno, il livello del profitto
potrebbe venire certamente limitato. Ma se le vendite di 2.000 o 3.000 copie
rappresentano in realtà già un grosso successo, è evidente che, dovendole mediare con
vendite di 1.500 copie o meno, i profitti di questo genere di pubblicazione possono
considerarsi moderati. Ed è normale che sia così perché la concorrenza è aspra. Ma
quest’ampio spettro di possibili utili mette in luce un fatto importante e spiacevole:
pubblicare è un gioco d’azzardo, e ci si tiene in vita se si hanno improbabili profitti
occasionali.
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Ne concludo, quindi, che fin quando la circolazione normale di un buon libro, se si esclude
la classe ristretta dei bestseller, non supera nel migliore dei casi le 3.000 copie, si tratta di
un’attività antieconomica, e che in realtà è impossibile –se l’autore e l’editore devono
trarne il proprio sostentamento – ridurre il prezzo dei libri. Se, d’altro canto le vendite
potenziali stimolate da prezzi inferiori portassero le tirature a un livello dell’ordine di 9.000
copie o più, il livello dei prezzi potrebbe essere più o meno dimezzato.
Non c’è da vergognarsi se, tenuto conto della ricchezza e della popolazione del mondo di
lingua inglese, le tirature hanno dimensioni talmente miserevoli? Quanta gente spende per
i libri almeno £10 all’anno? Quanti spendono l’1% del proprio reddito? Comprare un libro
non dovrebbe essere considerato una stravaganza ma un opera meritoria, un dovere
sociale in virtù del quale chi lo compie dovrebbe essere benedetto. Mi piacerebbe
mobilitare un esercito poderoso, che superi il numero dei bevitori di birra,di chi ha la testa
per aria, dei fissati per la mostarda, un esercito di topi di biblioteca che si impegnino a
spendere £10 all’anno per i libri e , nei ranghi più elevati di una Confraternita, a comprare
un libro ogni settimana.

Dieci giorni dopo, Keynes, con una lettera al direttore, integrò il suo articolo sulla
produzione e il commercio dei libri

Al direttore di «The Nation and Athenaeum»,


22 marzo 1927

Signore,
da quando ho scritto un articolo sul prezzo dei libri pubblicato su «The Nation» del 12
marzo, è venuto alla mia attenzione un interessante articolo, apparso sul numero del 1˚
ottobre scorso di «La Bibliographie de la France», che raggiunge conclusioni singolarmente
analoghe alle mie. Secondo tale articolo, in Francia il costo di produzione dei libri in termini
di franchi carta è aumentato di circa sette volte, equivalente a un aumento del 40% circa in
termini di oro. I prezzi dei libri, d’altro canto sono aumentati di circa tre volte, per cui in
termini di oro i prezzi sono diminuiti del 40% circa. Quindi, prendendo in considerazione la
variazione del valore della moneta, in Francia il prezzo dei libri è pari a quello di circa la
metà di quello di prima della guerra, forse perfino a qualcosa di meno della metà. « La
Bibliographie de la France» si chiede quale sia la spiegazione di questa diminuzione relativa
dei prezzi. La spiegazione va cercata nell’enorme aumento della circolazione dei libri, in
tutte le classi di lettori in Francia e all’estero, nel dopoguerra. L’autorevole rivista sostiene
che le tirature sono cresciute in misura rilevante rispetto al passato. E forse - aggiunge – la
pubblicità ha giocato un ruolo in tutto ciò. Ma, quale che ne sia la causa, il periodico stima
che la circolazione corrente di un libro francese di successo sia di quattro o cinque volte
quello di prima della guerra.

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Si tratta di una situazione notevole e invidiabile. Quanto l’aumento della circolazione sia
dovuto alla diminuzione del prezzo dei libri, diminuzione che potrebbe essersi verificata in
primo luogo a seguito di un ritardo nelle variazione dei prezzi (price-lag) mentre il franco si
stava deprezzando; o quanto la diminuzione dei prezzi sia stata resa possibile dall’aumento
della circolazione, è una valutazione impossibile per un estraneo. In un caso o nell’altro,
l’esperienza della Francia corrobora assai da vicino le conclusioni che ho raggiunto nel mio
articolo quanto alla correlazione tra il volume delle vendite e il prezzo da praticare per
rendere economicamente positive le transizioni. La mia conclusione era in effetti che si
sarebbero potuti dimezzare i prezzi se la circolazione fosse triplicata. Se i fatti esposti da
«La Bibliographie de la France» sono corretti, le vendite in Francia sarebbero aumentate
tra le tre e le quattro volte, mentre allo stesso tempo i prezzi relativi si sarebbero ridotti di
un po’ più della metà.
Vostro ecc.

J.M.KEYNES

In Collected Writings, vol. XXII, Activities 1939-1945: Internal War Finance, sub The 1941
Budget: notes on the Budget, III, p.207, nota 6, il settore librario viene esaminato dal punto
di vista fiscale, brevemente ma con una notazione molto importante.
Tratterei i libri e gli spettacoli includendoli, con l’istruzione, la religione, l’assistenza
sanitaria e la medicina ecc., tra le spese culturali e per la salute da lasciare fuori per
definizione dalla categoria del commercio al dettaglio ai fini della tassazione.

E ancora in Collected Writings, vol. XXVIII, p.306, sub Keynes and the Arts, da Studio del
giugno 1930, in un articolo intitolato LondonArtists Association. Origins and Aims, Keynes
sostiene:

Per i quadri è come per i libri. Ridurre i prezzi in un caso specifico aiuta pochissimo, perché
l’abitudine di acquistare quadri non è abbastanza diffusa. Ma se un livello dei prezzi
minore fosse generalizzato e avesse il risultato di sviluppare l’abitudine di acquistare
quadri tra un pubblico più ampio, allora penso che molto probabilmente un livello dei
prezzi più basso sarebbe vantaggioso per la maggioranza degli artisti.

Sempre nel volume XXVIII (alle pp.365-366), e sempre sub Keynes and the Arts, nella
prefazione al catalogo di una mostra del CEMA An Exibition of French Book Illustration,
1895-1945, Keynes difende l’editoria, anche nel clima del secondo dopoguerra, con un
accorato invito a dimenticare al più presto l’autorità e gli «accordi di emergenza di
guerra».

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Una visita a Parigi di Philip James, direttore artistico del CEMA che ha curato questa
mostra, ha messo in evidenza un’inattesa quantità di libri prodotti durante l’occupazione,
con tutto l’antico rispetto per la qualità e lo stile. Qui troviamo ancora carte superbe, ampi
margini, caratteri nobili nella composizione, xilografie e stampe originali, acquatinte e
litografie in molti colori. Alcuni potrebbero invidiare tanta magnificenza (anche se ciò non
vuol dire che il commercio normale del libro in Francia non sia persino in maggiore
difficoltà del nostro), mentre l’appello all’austerità sta avendo qui lo sgradevole risultato
di far apparire virtuosi quei poveracci che amano le cose più brutte. Ma la vista di questi
libri potrà quanto meno incoraggiarci a insistere perché l’austerità e i nostri «accordi di
emergenza di guerra» vengano messi da parte il più presto possibile, e a capire che
esistono false economie nella conoscenza e nelle arti che ci rendono civili, le quali
utilizzano in realtà una quantità infinitesimali di materiali in rapporto alla loro importanza
nella vita della nazione e del confronto che possono dare al morale di tutti noi. Saremo
lieti, quindi, delle opportunità di ammirare il lavoro grafico di Toulouse-Lautrec, Bonnard,
Matisse, Rouault, Picasso e di molti altri maestri, e attraverso di essi di rendere omaggio
alla Francia. E ciò non è meno vero se il nostro gusto e le nostre tradizioni nell’illustrazione
dei libri sono, nel bene o nel male, differenti.

Infine, ancora nello stesso volume XXVIII, sub Keynes and the Arts, pp.329 sgg., è contenuta
la riproduzione anch’essa citata e tradotta nel volume Saper leggere, della trasmissione
radiofonica di keynes del 1˚ giugno 1936, per la BBC, pubblicata allora da «The Listener» il
10 giugno dello stesso anno. Il testo contiene varie considerazioni letterarie, sulla poesia, e
di politica, e di politica sociale, e di economia, oltre ad alcune note sui libri e le librerie –
pronunciate da Keynes durante la trasmissione ma espunte dal testo pubblicato da «The
Listener» - che meritano di essere riportate in questo contesto. Virginia Woolf, citata da
keynes come esperta di letteratura contemporanea e lettrice di «tutti i libri», era editrice
della Hogarth Press, fondata da lei stessa e dal marito Leonard Woolf e attiva sino al 1946,
cinque anni dopo il suicidio di Virginia, quando confluì nella Chatto & Windus.
Posso permettermi di concludere con un piccolo consiglio di carattere generale, visto che
posso ben sostenere di essere un lettore esperto, rispetto a quanti hanno imparato a
leggere, ma non hanno ancora esperienza? Un lettore dovrebbe acquisire un’ampia
conoscenza generale dei libri in quanto tali, per così dire. Dovrebbe avvicinarli con tutti i
propri sensi; dovrebbe conoscerli al tatto e apprezzarne l’odore. Dovrebbe imparare come
prenderli in mano, sfogliarne le pagine e raggiungere in pochi secondi una prima
impressione intuitiva del loro contenuto. Dovrebbe, col tempo, averne toccate molte
migliaia, almeno dieci volte di più di quelli che leggerà sul serio. Dovrebbe gettare uno
sguardo sui libri come un pastore fa con le pecore, e giudicarli con l’occhiata rapida e
inquisitrice del mercante di bestiame che giudica una mandria. Dovrebbe vivere con più
libri di quelli che legge, con l’aura delle pagine non lette, delle quali conosce il carattere e il
contenuto generale, che gli aleggia attorno. È questo lo scopo delle biblioteche, proprie o
altrui, private e pubbliche. Ed è anche lo scopo delle buone librerie, sia di libri nuovi sia di
seconda mano; ce ne sono ancora alcune, e si vorrebbe che fossero di più. Una libreria non

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è come un’agenzia ferroviaria, dove si và sapendo cosa si vuole. Uno ci dovrebbe entrare
incerto, vago, quasi come in un sogno, e permettere a ciò che vi trova di attrarlo
liberamente, di influenzarne gli occhi. Camminare tra gli scaffali e i banconi della libreria,
pescandovi come impone la curiosità, dovrebbe essere il divertimento di un pomeriggio.
Non provate timidezza o compunzione nel prendere un libro in mano. Le librerie esistono
per fornirli, e i librai ne sono lieti, sapendo bene come andrà a finire. È un’abitudine da
acquisire da ragazzi.

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