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“ANTROPOLOGIA: CARATTERI

INTRODUTTIVI”

PROF.SSA ELVIRA MARTINI


Università Telematica Pegaso Antropologia: caratteri introduttivi

Indice

1 GENESI DELL’ANTROPOLOGIA E SUOI SIGNIFICATI --------------------------------------------------------- 3


2 CONTESTI DI SVILUPPO DELLA DISCIPLINA --------------------------------------------------------------------- 5
3 OGGETTI DI STUDIO DELL’ANTROPOLOGIA --------------------------------------------------------------------- 8
4 DEFINIZIONE DI CULTURA ---------------------------------------------------------------------------------------------- 9
5 APPROFONDIMENTO ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 11
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 15

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)

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La presente lezione antologizza il Capitolo 1 – Parte prima, “Origine e significato

dell’antropologia”, pp. 3-16, del testo di Ugo Fabietti, Elementi di Antropologia culturale, Milano,

Mondadori, 2015.

All’interno del testo sono presenti, altresì, riferimenti bibliografici e approfondimenti

specifici sul tema oggetto della lezione.

1 Genesi dell’antropologia e suoi significati


In termini generali, antropologia significa “studio del genere umano”. Antropologia deriva

dai termini della lingua greca antica:

- ánthropos, uomo/umanità/genere umano

- lógos, discorso/ragionamento/studio

Per questo, appunto, essa altro non è che lo studio dell’umanità e del genere umano, e non

dell’uomo inteso come individuo di sesso maschile.

Tuttavia questa definizione risulta un po’ vaga poiché anche la sociologia, la psicologia, la

storia e la filosofia si occupano dello studio del genere umano. Al tempo stesso risulta anche

imprecisa in quanto non specifica di quale aspetto in particolare del genere umano essa si occupi in

maniera specifica.

In mondi ambienti accademici c’è la tendenza ad associare l’antropologia con quella più

specificatamente culturale ma ben vedere si tratta di un concetto che rimanda a un ampio spettro di

significati, tra i quali:

- antropologia biologica: studia l'uomo come fenomeno biologico naturale

- antropologia filosofica: discussione intorno all’uomo e alla sua natura etica o spirituale;

- antropologia sociale: di scuola britannica, si occupa dello studio strutturale della società;

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- etnologia: di scuola francese, si occupa dello studio comparativo delle diverse culture

umane;

- antropologia culturale: studio del genere umano dal punto di culturale, ossia delle idee e

dei comportamenti (psichici, sociali, economici) espressi dagli esseri umani in tempi e luoghi

distanti tra loro.

Oggi i termini antropologia culturale, antropologia sociale ed etnologia appartengono tutti

all’area delle scienze antropologiche, alla strega delle discipline demologiche (tradizioni e folklore)

o dei cultural studies.

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2 Contesti di sviluppo della disciplina


Le origini dell’antropologia sono difficili da individuare. Potrebbero ritrovarsi in Erodoto e

nelle sue osservazioni sui popoli da lui incontrati durante i suoi viaggi (sebbene lui non parlò mai di

antropologia). Molto più probabilmente le radici della moderna antropologia possono essere fatte

risalire all’umanesimo europeo e a tutte le riflessioni e dibattiti che fecero seguito alla scoperta del

Nuovo Mondo1.

L’umanesimo europeo ha avuto una forte influenza nello sviluppo delle riflessioni sul

genere umano, da sempre oggetto centrale dei loro studi. Per gli umanisti, infatti, il genere umano

era il fine ultimo del progetto di Dio e soggetto capace di forgiare il proprio destino, nonché di

esplorare la natura studiandone leggi e meccanismi nascosti.

Le cose cambiarono all’indomani della scoperta dell’America (1492). I nuovi popoli e i loro

nuovi costumi misero l’Europa cristiana di fronte a un grande dilemma di ordine morale, religioso e

scientifico. Come considerare queste popolazioni? Figli di uno stesso Dio? Selvaggi da assoggettare

con la forza? Uomini che non hanno avuto ancora la rivelazione divina? A partire da questi

interrogativi cominciarono le prime raccolte di informazioni circa usi, costumi e istituzioni sociali

di popolazioni molto lontane da quelle europee2.

Ma è solo sul finire del 1700 che queste descrizioni cominciarono ad assumere le sembianze

di un vero e proprio progetto scientifico; quando, cioè, cominciò a elaborarsi una teoria unitaria del

genere umano, concepito come una specie naturale (le unioni tra individui di sesso opposto

1
Anche in altri popoli extraeuropei sono rinvenibili tentativi di riflessione che hanno qualcosa in comune con
l’antropologia occidentale. Un esempio è dato dal nordafricano Ibn Khaldun che nel 1300 tracciò un’interessante
visione della storia umana contemporanea ampiamente svincolata dalla teologia musulmana (1978).
2
Con l’espansione coloniale e i traffici commerciali i contatti tra europei e altri popoli si intensificarono molto e sul
finire del 1500 i missionari della Compagnia di Gesù cominciarono a documentare in maniera dettagliata usi e costumi
delle nuove popolazioni.

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indipendentemente della diversità fisica davano sempre alla luce prole fertile) e come complesso di

individui potenzialmente dotati delle stesse facoltà mentali.

In altre parole, è grazie agli Illuministi3 che la riflessione sul genere umano acquistò

definitivamente i caratteri di una riflessione su un soggetto universale, diventando così

antropologia, sebbene bisognerà attendere la fine del 1800 affinché l’antropologia venisse

riconosciuta come disciplina accademica4).

3
In particolare si devono ai tardo illuministi della Societe des observateurs de l’homme, i primi studi da cui prende
spunto anche l’attuale antropologia. La loro ricerca era finalizzata a studiare il genere umano attraverso la diretta
osservazione e lo studio comparato delle istituzioni e dei costumi dei popoli della Terra, a scapito della mera
speculazione filosofica. Questi scienziati furono i primi a caire che per comprendere meglio e dal punto di vista
scientifico il genere umano occorre spostarsi, viaggiare, entrare cioè direttamente in contatto con gli “oggetti” del
proprio studio.
4
Il primo insegnamento a livello universitario dell'antropologia lo si deve al francese A. de Quatrefages che nel 1855
istituì una cattedra di antropologia a Parigi; il successo di questi studi portò alla fondazione, sempre a Parigi, da parte
di P. Broca, della prima Società d'Antropologia (1859) intorno alla quale si raccolsero studiosi di fama internazionale
fra i quali gli inglesi Thuran e Devis e il tedesco K. E. Bear. Il primo che estese le ricerche anche agli aspetti culturali
delle società “primitive” fu l'italiano G. Nicolucci (1857) che pubblicò un'opera rimasta di grande interesse storico e che
nel 1860 istituì la prima cattedra italiana d'antropologia, a Pavia. Con l'affermarsi della teoria evoluzionistica di C.
Darwin (1859) la ricerca antropologica ebbe un notevole impulso, facilitato dalle nuove scoperte della biologia e dal
moltiplicarsi delle ricerche sul campo fra le popolazioni cosiddette “primitive”. Si ebbe anche un fiorire degli studi
sociali, economici e psicologici che portarono a una stretta collaborazione fra l'antropologia e la nuova scienza che si
andava delineando, l'etnologia. Nel 1869 venne costituita la Società Berlinese di Antropologia, Etnografia e Preistoria le
cui metodologie di ricerca e studi legavano insieme queste tre discipline; tale criterio fu seguito (e in parte lo è anche
oggi) da numerosi studiosi che hanno lasciato trattati di grande interesse. Ben presto, l'utilizzazione di metodi e tecniche
rigorose consentì all'antropologia di superare la fase “descrittiva” per oggettivarsi in scienza teorica e applicata: A.
Quételet introdusse il concetto di uomo medio, quale tipo umano di riferimento; definì cioè un uomo i cui caratteri
antropologici servissero da comparazione per tutte le possibili variabili reali. Il metodo comparativo-statistico divenne
norma negli studi di antropologia dando origine a una delle branche più importanti di questa scienza: l'antropometria.
Nel 1876, a Parigi, P. Broca, A. de Quatrefages ed E. T. Hamy fondarono la celebre Scuola d'Antropologia, alla quale
seguirono istituti analoghi in vari Paesi: al Broca si deve anche l'introduzione dei metodi analitici basati su dati oggettivi
riferiti al vivente (antropologia fisica). Nello stesso periodo, l'italiano C. Lombroso elaborò i principi della cosiddetta
“antropologia criminale” e contribuì alla formazione di una nuova metodologia, la “costituzionalistica”, basata su un
insieme di valutazioni antropometriche, psicologiche e fisiologiche, che in Italia si sviluppò grazie agli apporti di A. De
Giovanni, G. Viola e N. Pende. Sulla base dei risultati che si andavano elaborando vennero proposte diverse

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Proprio durante il 1800, l’interesse per i popoli esotici crebbe moltissimo, facendo nascere la

figura dell’antropologo5, molto spesso visto come coadiuvante dei colonizzatori (collaborazioni con

le istituzioni coloniale fornendo pareri sui popoli dominati). Tuttavia è doveroso sottolineare che

non si trattava affatto di figure simili: a differenza del colonizzatore, l’antropologo è interessato a

stabilire rapporti di reciproca comprensione con le popolazioni studiate).

classificazioni dei tipi umani (definiti sempre razze) fra le quali vanno ricordate quelle di T. H. Huxley (1870), G.
Fritsh (1881), A. de Quatrefages (1889), ma il primo trattato organico di antropologia, che raccoglieva i successi e gli
sviluppi di questa nuova scienza, lo si deve al francese P. Topinard (1885, Éléments d'anthropologie générale).
Notevole influenza ebbero anche le scuole italiane d'antropologia, in particolare la Società Italiana d'Antropologia
(istituita a Firenze da P. Mantegazza, nel 1871) e soprattutto la Società Romana d'Antropologia, fondata a Roma nel
1893 da G. Sergi: a quest'ultimo, sostenitore dell'ipotesi poligenetica delle origini dell'uomo, si deve anche l'aver svelato
il clamoroso falso dell'uomo di Pilt Down. Già all'inizio del sec. XX l'antropologia era una scienza affermata che
annoverava numerosi studiosi in ogni parte del mondo: le metodologie d'indagine si potevano avvalere delle scoperte e
acquisizioni di tutte le scienze biologiche; E. Fisher applicò e verificò le leggi di Mendel sull'uomo (1913), mentre L.
Hirschfeld evidenziò l'importanza dei caratteri serologici ed ematologici (1919). Essenziali furono i contributi dei
ricercatori tedeschi (R. Wirchow, G. Fritsh, F. von Luschan, F. Fischer, E. F. von Eickstedt), italiani (G. Sergi, V.
Giuffrida-Ruggeri, G. Sera), svizzeri (R. Martin, K. Seller), statunitensi (W. G. Boyd, A. Hrdlička, C. B. Davenport),
francesi (P.-M. Boule, J. Deniker, H. Montagu), olandesi (F. Weindereich, G. H. R. von Konigswald) nonché
dell'inglese A. Keith e del sovietico V. I. Bunak. Le nuove elaborazioni e acquisizioni portarono quindi a sempre più
accurate descrizioni dell'uomo e alla revisione delle varie classificazioni dei gruppi umani, fra le quali vanno ricordate
quelle di J. Deniker (1900), C. H. Stratz (1904), F. Ratzel (1914), G.-A. Montandon (1928), E. F. von
Eickstedt (1937), E. A. Hooton (1946), H. V. Vallois (1948), R. Biasutti (1958). Tratto da
http://www.sapere.it/enciclopedia/antropolog%C3%ACa.html
5
I luoghi privilegiati per il proprio lavoro furono inizialmente le riserve indiane degli Stai Uniti.

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3 Oggetti di studio dell’antropologia


Per molti anni gli antropologi si sono occupati dello studio dei popoli loro contemporanei

ma distanti geograficamente; popoli definitivi come primitivi o selvaggi perché rappresentanti di

fasi arcaiche della storia del genere umano (forniti di tecnologie semplici, ignari della scrittura e con

costumi troppo differenti rispetto ai “colleghi” europei).

Si trattava inoltre di uno studio tipicamente “a distanza”, basato sui racconti di viaggiatori,

soldati, esploratori, funzionari coloniali.

La svolta è avvenuta nei primi anni del XX secolo quando gli antropologi hanno cominciato

a recarsi personalmente presso le popolazioni che volevano studiare, dando così inizio a una nuova

fase dell’antropologia e della metodologia della ricerca.

La ricerca sul campo diventa così la base della pratica antropologica che, necessariamente,

deve servirsi dell’osservazione diretta.

Fare antropologia significa, innanzitutto, incontrare esseri umani con abitudini e stili di vita

diversi dai propri e coniugare le conoscenze teoriche con la personale esperienza di osservazione,

riflessione e ricerca.

Gli attuali oggetti di studio dell’antropologia non riguardano solo e soltanto le popolazioni

primitive ma anche tutta una serie di “fenomeni” che vanno dallo studio dei minatori delle Ande

alle gang giovanili delle aree urbane; dai flussi migratori verso l’Europa alle sette; dai consumatori

al commercio di organi e così via. Come ha detto un famoso antropologo contemporaneo Clifford

Geertz “noi antropologi abbiamo il mondo a nostra disposizione”.

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4 Definizione di cultura
Ugo Fabietti per introdurre al concetto di cultura si serve di una bellissima storia tratta dagli

studi di De Coppet (1997), riguardante gli scambi tra gli spagnoli e il popolo degli Aré’ Aré.

Nel 1568, in seguito all’approdo di alcune navi spagnole sull’arcipelago melanesiano, vi fu

l’incontro fra marinai e popolazioni indigene chiamate Aré’ Aré. Gli spagnoli, bramosi di trovare

ricchezze sull’isola, notarono che gli abitanti portavano appesi al collo bastoni con incastonate

pietre di colore dorato. Questi ultimi, richiedevano come moneta di scambio per le pietre, i

copricapo dei marinai (chiaro segno per gli spagnoli dell’ingenuità dei “selvaggi”). Questa forma di

baratto continuò a lungo, tanto che gli spagnoli battezzarono quelle Isole con il nome di re

Salomone (famoso per le sue miniere d’oro). Tuttavia, si scoprì in seguito che le pietre barattate non

erano d’oro ma bensì di un materiale ferroso, la pirite.

A questo punto diventa doverosa la riflessione sul fatto che l’ atteggiamento degli Aré’ Aré

fosse davvero così ingenuo e primitivo. Perchè barattare pietre, che ipoteticamente potevano

possedere un notevole valore, con dei cappelli logori?

Il loro comportamento ha una spiegazione logica, che va al di là della concezione di

“selvaggi” e “primitivi” che l’uomo occidentale possiede nei confronti di questi popoli. La ricerca e

lo studio su quelle popolazioni ha infatti dimostrato che presso gli Aré’ Aré, sono solo gli uomini di

potere, i ricchi, i capi a poter indossare un copricapo (guardacaso simile a quello dei marinai

spagnoli); pertanto l’indossare un “simbolo di potere” (il cappello dei marinai) avrebbe conferito a

componenti del gruppo un prestigio che era destinato solo ai leader. Proprio come gli spagnoli, che

credevano che possedere qualcosa di somigliante all’oro (la pirite appunto) corrispondesse al

disporre di notevoli ricchezze.

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È chiaro che due popoli e due culture, profondamente diversi, hanno dimostrato di avere un

medesimo obiettivo legato al quel baratto: ottenere ricchezza e potere. Questo per dimostrare come

individui, appartenenti a due mondi considerati agli antipodi, possono in realtà non essere così

differenti fra di loro.

L’esempio appena ricordato ci permette di arrivare a definire, nelle parole di Fabietti il

significato di “cultura”: un complesso di idee, di simboli, di comportamenti e di disposizioni

storicamente tramandati, acquisiti, selezionati e largamente condivisi da un certo numero di

individui, con cui questi ultimi si accostano al mondo, in senso sia pratico che intellettuale (Fabietti

2015, p. 18).

Tuttavia, la prima definizione antropologica di cultura si ascrive a Edward Tylor (in

Primitive Culture 1871): “la cultura, o civiltà, intesa nel suo essere etnografico più ampio, è

quell'insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il

costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo i quanto membro della società”.

Questa definizione si estende a tutte le persone e non solo a quelle cosiddette “colte” e a

tutte le attività umane fino a comprendere le manifestazioni più strane e aberranti che gli europei di

allora potessero concepire come il cannibalismo o la stregoneria.

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5 Approfondimento
La cultura come risorsa: Clifford Geertz e Clyde Kluckhohn6

Una famosa definizione di cultura, peraltro ampiamente accettata nel campo delle scienze

sociali, è quella dell’ antropologo culturale Geertz, secondo il quale la cultura è “una struttura di

significati trasmessa storicamente, incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse

in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro

conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita” (1987, p. 141). Nelle parole di Geertz la cultura

appare essere, allora, relazione e costruzione sociale: non è un sistema originario, essenziale,

immutabile, ma un insieme di processi mutevoli, dinamici, instabili. In tal senso, un elemento

fondamentale del concetto espresso da Geertz è che la cultura si esprime in forma simbolica, punto

sul quale si sofferma più volte, come sottolinea Fabietti: “il concetto di cultura (…) è

essenzialmente un concetto semiotico. Ritenendo, insieme con Weber, che l’ “uomo è un animale

impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste

reti e che perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una

scienza interpretativa in cerca di significato” (2004, p. 7). Essa è un sistema di significati

rappresentati da simboli che permettono all’ “uomo di relazionarsi con l’ambiente; in altre parole

egli ridefinisce il concetto di cultura secondo una concezione semiotica. Ancora, egli sostiene che

“la cultura di un popolo è un insieme di testi” (Geertz 1987, p. 448) e quindi va letta “come una

sorta di documento agito, cioè una rete di significati depositata non tanto nelle strutture quanto negli

attori e nelle pratiche sociali” (si veda in proposito Geertz C., Interpretazione di culture, citato in

Navarini G., L’ordine che scorre. Introduzione allo studio dei rituali, 2003, p. 132).

6
Crespi I. (2011), in Andriani V., Crespi I., Il concetto di cultura nella sociologia classica, moderna come presupposto
della “svolta” multiculturale: alcune riflessioni, WP n. 3/2011 DiSEF, Edizioni Università di Macerata,

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Il linguaggio stat aliquid pro aliquod, è qualcosa che sta al posto di qualcos’altro. Esso ha

una dimensione sociale, coinvolge gli uomini tra loro, la comunicazione connette le persone in

maniera intersoggettiva. Senza questa dimensione sociale la cultura non si trasmetterebbe di

generazione in generazione. Il linguaggio permette la socializzazione perché è la forma di

mediazione simbolica universale, grazie al quale si formano tutti i significati: attraverso l‟attività

linguistica ogni persona assimila i modelli di comportamento, le regole, le interpretazioni della

storia, le definizioni del proprio sé e dell’altro, elementi questi che caratterizzano il contesto sociale

di appartenenza. Inoltre, “ogni tipo di gruppo o di comunità sociale presenta caratteristiche proprie

di linguaggio, a seconda delle regole particolari che lo reggono e degli usi che ne vengono fatti nella

pratica della vita di tutti i giorni. L’analisi del linguaggio diventa, di conseguenza, uno strumento

essenziale per la comprensione della realtà sociale e dei processi che la caratterizzano” (Crespi

2002, p. 156). Bisogna occuparsi del comportamento perché è attraverso il flusso del

comportamento che le forme culturali trovano articolazione (Geertz 1987). La cultura diviene così,

il significato incorporato in simboli attraverso i quali gli esseri umani comunicano e trasmettono

sapere e abitudini; la cultura è pubblica perché lo è il significato. Per questo suo carattere di

trasmissibilità la cultura viene anche concepita come qualcosa di mutevole, dinamico. L’autore

afferma che “non esiste una cosa come una natura umana indipendentemente dalla cultura” (Geertz,

1987, p. 63). L’appropriazione di una cultura avviene costantemente nel tempo, è un processo lento

e cumulativo, che ha luogo nella socializzazione: il bambino, da inerme, diventa gradualmente

consapevole di sé, è capace di utilizzare in maniera appropriata le capacità specifiche della cultura

in cui è nato. Tramite questo processo il soggetto si rapporta in maniera sempre più articolata con il

suo universo sociale di riferimento. Il complesso delle interazioni umane – che avviene per mezzo

degli agenti di socializzazione quali la famiglia, il gruppo dei pari, la scuola, il lavoro, i mass media,

la comunità in cui vive il soggetto, nonché organizzazioni ecclesiastiche, di volontariato, sportive

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etc. - permette la trasmissione di modelli di significato e di comportamento, quindi di cultura.

Geertz sostiene la dialettica tra sistema sociale e cultura, dialettica che vede la cultura come “un

sistema ordinato di significato e di simboli, nei cui termini ha luogo l’interazione sociale”, mentre il

sistema sociale è il “modello dell’ interazione sociale stessa… e la cultura diviene perciò

l’intelaiatura di significato nei cui termini gli esseri umani interpretano la loro esperienza e

orientano la loro azione” (Geertz 1987, p. 190).

Una formulazione vicina a quella di Geertz, è la riflessione di Kluckhohn (1905-1960): “una

cultura è un sistema interdipendente basato su premesse e categorie collegate come gli anelli di una

catena, la cui influenza è maggiore, anziché minore, per il fatto che vengono raramente tradotte in

parola (...) È il sapere del gruppo immagazzinato (in ricordi di uomini, in libri e oggetti) per il

futuro (…) La cultura umana senza linguaggio è inimmaginabile. (…) ogni cultura è intesa a

perpetuare il gruppo e la sua compattezza, a rispondere alle esigenze degli individui per un regolato

sistema di vita e per la soddisfazione di necessità biologiche” e “solo quelle scoperte e invenzioni,

siano esse di carattere materiale o ideologico, che si adattano completamente alla situazione

immediata, venendo incontro alla necessità di conservazione del gruppo o regolando

psicologicamente gli individui, diverranno parte della cultura” (Kluckhohn 1952, 24 e ss.). Anche in

questa definizione si fa chiaro riferimento all’importanza del linguaggio nella trasmissione

culturale. Si evince inoltre che ogni persona segue determinati modelli che apprende dal proprio

gruppo di riferimento (genitori, gruppo dei pari ecc.), modelli che fungono da universo di senso, da

guida per il suo orientamento all’interno della società; le sue azioni saranno dirette da questi ideali

di riferimento. La cultura è allora un processo dinamico, legato ai mutamenti che gli uomini

subiscono e mettono in essere ogni giorno: vi è una molteplicità di individui che agiscono secondo

concezioni della realtà, schemi di vita, modalità di pensare, sentire e agire diversi, e danno luogo a

storie ed esperienze differenziate nel tempo e nei luoghi. Una cultura è il prodotto di un processo di

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apprendimento e non qualcosa di innato, come le caratteristiche somatiche che sono ereditate

geneticamente; rappresenta un insieme complesso e articolato di rappresentazioni, credenze,

simboli, norme e valori che possono dar vita a differenti modelli di comportamento. Analogamente,

soprattutto nelle società complesse, tendono a prodursi culture proprie di determinati gruppi, più o

meno omogenee ai modelli dominanti nella più ampia società. In questo caso si parla della nascita

di una subcultura (per esempio sottocultura giovanile, o cattolica, o impiegatizia), senza che al

termine sia assegnato un significato svalutativo rispetto a quello di cultura.

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Bibliografia
 Andriani A., Crespi I (2011), Il concetto di cultura nella sociologia classica,

moderna come presupposto della “svolta” multiculturale: alcune riflessioni, WP n.

3/2011 DiSEF, Università di Macerata

http://www.sociologia.unimib.it/DATA/Insegnamenti/17_4331/materiale/il%20conc

etto%20di%20cultura.pdf

 Crespi F. (2002), Manuale di sociologia della cultura, Bari, Editori Laterza

 De Coppet D. (1997), Primo baratto, doppia illusione, in Remotti (a cura di ), Le

antropologie degli altri, Paravia- Scriptorium, Torino

 Fabietti U. (2004), Il destino della “cultura” nel “traffico delle culture”, in Rassegna

Italiana di Sociologia, a. XLV, n. 1, gennaio-marzo, pp. 37-48

 Fabietti U. (2015), “Origini e significato dell’antropologia” in Elementi di

antropologia culturale, Mondadori, Milano, pp. 3-16

 Geertz C. (1998), Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino

 Ibn Khuldan (1978), Discours su l’Histoire universelle, Sindbad, Paris (secolo XIV).

 Kluckhohn C. (1952), Specchiati, uomo!, Milano, Garzanti

 Navarini G. (20039, L’ordine che scorre. Introduzione allo studio dei rituali, Roma,

Carocci

 Sapere.it (2017), Antropologia,

http://www.sapere.it/enciclopedia/antropolog%C3%ACa.html

 Tylor E.B. (1985-1988), Alle origini della cultura, Edizioni dell’Ateneo, Roma (ed.

or. 1871).

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