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COME NON FARE CRITICA LETTERARIA

di Luigi Matt

Non lo si ripeterà mai abbastanza: senza un’adeguata consapevolezza dei fatti formali, la critica
letteraria rischia facilmente di ridursi a chiacchiera generica e imprecisa, e i giudizi di valore – per
quanto apoditticamente espressi, magari in una prosa altisonante – non superano di molto la
profondità ermeneutica di un mi piace/non mi piace cliccato su facebook da un adolescente dopo
aver guardato per un minuto un video di Lady Gaga. Quando il giudizio, come capita non di rado, è
fondato su un totale fraintendimento delle scelte stilistiche di un autore, si può giungere ad
ammirevoli vertici di insensatezza.
Tra i tanti esempi che si potrebbero portare a riscontro si presta bene un articoletto (uscito nel
«Foglio» del 25 novembre 2016 e recuperabile in rete) in cui Matteo Marchesini cerca di fare
giustizia del favore con cui parte della critica accoglie da decenni le opere di Gianni Celati, la cui
«presunta grandezza» sarebbe frutto di un gigantesco errore di prospettiva causato da «carenza di
fiuto insieme stilistico e psicologico». Qui importa poco discutere se tale valutazione sia o no
condivisibile; è interessante invece vedere come essa viene formulata. In effetti, il modo di
procedere di Marchesini si potrebbe indicare ai giovani critici come modello da non seguire, e come
tale può meritare di essere analizzato.
È logico attendersi che nel contrastare un’idea diffusa (sostenuta da vari critici in saggi e libri) si
proceda con molte e solide argomentazioni: altrimenti si finisce col seguire il modo di esternare i
propri gusti evidente in innumerevoli commenti nei blog letterari, che di fatto riproducono la
famigerata scena di Fantozzi che sbertuccia la Corazzata Potemkin, magari divertente nel contesto,
ma divenuta nel tempo – probabilmente in modo preterintenzionale – un modello per ogni
espressione di qualunquismo becero che si nutre dell’orgoglio, volentieri ostentato, per la propria
ignoranza. Marchesini sicuramente non è ignorante, ma l’impazienza provata «davanti a un
fenomeno che gli appare con tutta evidenza aberrante o esasperante», di fronte al quale «vorrebbe
non dover esercitare la fatica della critica», non lo aiuta certo a dar vita ad un ragionamento
sufficientemente elaborato.
Il pezzo deluderà molto chi si attendesse una lettura della prosa di Celati magari discutibile ma
capace di dire qualcosa di intelligente sul tema affrontato (un testo critico è valido proprio quando
risulta interessante e magari utile anche per chi non ne condivide i pareri espressi). In breve spazio,
l’autore riesce a condensare alcuni dei peggiori difetti della critica impressionistica, e più in
generale ad offrire uno specimen rappresentativo del semplicismo che affligge tanta parte del
giornalismo culturale. Già l’incipit è perfetto nel suo genere; infatti non c’è niente di meglio, per
introdurre un discorso liquidatorio, di una generosa spruzzata di antiaccademismo spicciolo, che
assicura subito un’ottima accoglienza da parte del lettore medio: «Le tendenze accademiche si
sviluppano con la fatalità di certi eventi geologici. Oggi, nelle nostre università e in quelle
anglosassoni, si stenta a trovare un dottorando in italianistica che non venga mobilitato dai suoi
insegnanti per celebrare la presunta grandezza eslege di Gianni Celati».
Nel prosieguo non manca il fervorino generico: le trovate comiche di Celati sono «poco divertenti e
mai necessarie». Ora, tralasciando i pareri su ciò che è o non è divertente, ambito soggettivo come
forse nessun altro, non si può evitare di notare come pochi concetti siano più abusati, nella critica
d’oggi, della necessità. Come si possa mai applicare la categoria del necessario all’invenzione
letteraria – un universo in cui regna, e per fortuna, l’assoluta gratuità – rimane un mistero che non
diventa meno fitto solo perché millanta recensioni ne fanno il perno del discorso.
Al lettore non viene risparmiato neppure il greve giudizio morale, formulato peraltro in modo
piuttosto sgangherato: la nefasta influenza di Celati è evidente in moltissimi romanzi «scritti in
genere da autori furbi e avari che vogliono guadagnarsi una voce e un pubblico senza correre
rischi». Chissà cosa c’entra l’avarizia: forse si voleva dire avidi? E comunque – e pare incredibile
doverlo riaffermare – il fatto che un autore sia eventualmente una brutta persona non ha nulla a che
vedere con la riuscita delle sue opere (e naturalmente vale anche l’inverso), come dimostrano
innumerevoli esempi antichi e moderni.
Venendo ad argomentazioni più specificamente letterarie, Marchesini confronta i Sillabari di Parise
e Narratori delle pianure di Celati, a tutto vantaggio del primo. Affermare la superiorità dei
Sillabari (di cui i Narratori sono verosimilmente debitori) è senza dubbio legittimo; peccato però
che la motivazione portata a sostegno sia basata sulla pretesa autoevidenza di categorie che fa
specie vedere utilizzate da un critico letterario. Infatti, chi comparasse i due libri non potrebbe non
«accorgersi della differenza che passa tra la poesia e il mestiere». Proprio così: poesia e mestiere. A
questo punto manca solo affermare che i libri di valore possono venire unicamente da chi scrive col
cuore. Sembra di sognare, ma non è il caso di stupirsi: categorie così inconsistenti hanno tuttora
largo corso nella pubblicistica. Non è affatto inconsueto, leggendo la critica giornalistica, imbattersi
nel termine ispirazione, che si penserebbe utilizzabile solo da un preside di provincia in pensione
afflitto da velleità letterarie irrealizzabili.
Ma arriviamo all’Achille (come avrebbe detto Don Ferrante) di Marchesini, all’affondo che farà
giustizia dell’inconsistenza della scrittura di Celati dimostrandone il limite intrinseco. Ecco qui:
«Dietro Guizzardi e i “parlamenti buffi”, io ho sempre ritrovato il volto tartufesco di un tipico
professore del nostro tempo. Le scelte formali celatiane non sono affatto “naturali”: sono al
contrario dei partiti presi che trasformano lo stile in stucchevole stilizzazione». Sembra di capire
che il critico del «Foglio» presupponga la possibilità di scrivere in modo autentico, spontaneo,
genuino: è un’idea che si stenta a credere possa venire espressa al di fuori di un diario
adolescenziale (peraltro anche quest’ultimo tipo testuale, di là dalle intenzioni di chi lo mette in
atto, non è per niente naturale, essendo ovviamente anche il ragazzino più sprovveduto influenzato
da prodotti di cultura pop, come film o canzoni, che lasceranno tracce nel suo modo di scrivere: è
proprio lo scrivere in sé che è l’azione meno naturale che si possa immaginare, e fa impressione
dover ribadire una simile ovvietà).
Inutile dire che né negli scritti di Celati, né nei lavori dei molti studiosi che si sono occupati della
sua opera si trova alcun accenno ad una pretesa spontaneità della scrittura di Comiche o di
Avventure di Guizzardi, la quale raggiunge un effetto di semplificazione esattamente a seguito di
un’operazione di consapevole stilizzazione (vale a dire di ciò che rende la letteratura tale). Per
descrivere tale effetto viene buono quanto affermato dallo stesso Celati (in un testo ora raccolto in
Studi d’affezione per amici e altri, Quodlibet 2016, volume consigliabile senza incertezze a chi
abbia voglia di discorsi intelligenti sulla letteratura) a proposito di Mastr’Impicca di Vittorio
Imbriani, che suona anche come un’efficace autodiagnosi: «Ciò che conta è che la lingua vada in
una terra incognita, dove si parla dialetto, italiano, retorica stravagante, latineggiante o
napoletanesca, e tutto quanto può venire all’orecchio. Ciò che viene all’orecchio deve poter venire
alla bocca, coma abitudine, ethos, uso del mondo. Non deve essere la lingua dell’adulto scolarizzato
che scarta l’inusuale e il poco serio, perché non sente più l’ebbrezza del fraseggiare a vuoto». Dato
che, come già Imbriani, Celati è evidentemente un «adulto scolarizzato» (è stato persino – ciò che
agli occhi di Marchesini rappresenterà una colpa irredimibile – professore universitario), non c’è
dubbio che per lui attingere lo stile qui descritto può essere solo frutto di un’operazione del tutto
non naturale. Il percorso ipotizzato da Celati ha palesi punti di contatto con quello che Picasso, in
una notissima dichiarazione, ha delineato così: «ho impiegato una vita per imparare a dipingere
come un bambino». È pienamente lecito ritenere che da Comiche in poi i risultati ottenuti in tal
modo siano pessimi; ma travisare completamente il senso di un’operazione non sembra un buon
modo per dare spessore alla rivendicazione dei propri gusti.
Marchesini, come tutti i critici di analoga impostazione (oggi largamente maggioritaria, almeno nei
giornali), nutre sospetto e avversione per qualsiasi studio basato su dati oggettivi e procedimenti
rigorosi, peggio se tacciabili di scientificità, vista come il difetto peggiore possibile per chi si
occupa di letteratura. A chi si impegna in indagini formali (generalmente evocate all’ingrosso
attraverso l’etichetta passepartout di strutturalismo) viene per solito imputato di analizzare i testi
senza leggerli. Non si può negare che i critici alla moda abbiano trovato una nuova, più efficace
maniera di confrontarsi con la letteratura: leggerla senza capirla.

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