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Il giorno in cui Billy scappò

Era l'una di pomeriggio. Le strade perpendicolari


della cittadina di Poggioreuccio erano occupate da
un traffico intenso, ma scorrevole. Ad un certo punto,
alcuni semafori restarono rossi molto più del dovuto,
ed altri verdi per un tempo ugualmente anomalo; in
capo a dieci minuti, dalla scuola media ad una villa
circondata da un grande parco la strada fu
completamente libera dal traffico, mentre il resto
della città risultava decorato da pittoresche ghirlande
di macchine in coda.
Il sole picchiava feroce. Poche macchine avevano il
climatizzatore, tutte le altre erano ridotte a forni
funzionanti a pieno regime ed in breve l’aria aveva
iniziato a puzzare di scappamento. Gli occupanti
delle auto si stavano, tutti, incazzando come jene.
Unica differenza fra i componenti questa altrimenti
indiscriminata massa di automobilisti bloccati é che
quelli provenienti da altre città commentavano:
"Porcaputtana, cosa succede?", mentre i locali, con
tono rassegnato, commentavano: "Porcaputtana,
ancora?". Infatti questo spiacevole ingorgo si
ripeteva ineluttabilmente per quattro volte in tutti i
giorni scolastici, la mattina ed il pomeriggio, all' orario
di entrata e di uscita dalle scuole medie; a parte che
nei giorni di assenza di Davide Spersi. Costui era il
figlio di Alberto Spersi, plenipotenziario della
circoscrizione di Poggioreuccio, il quale aveva
occupato la carica, otto mesi prima, in maniera
efficace, ma poco ortodossa, tanto che il precedente

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presidente della circoscrizione ed il suo consiglio
direttivo erano, appunto da otto mesi, ospitati, con le
famiglie, in un convento francescano ristrutturato
elegantemente, senza poterne uscire.
Se una tale ineleganza aveva infastidito gli abitanti di
Poggioreuccio, il suo ripetersi in numerose varianti li
aveva decisamente scocciati. Spersi, infatti, aveva
costellato gli esercizi pubblici e tutti gli uffici di suoi
ritratti, aveva municipalizzato a forza tutte le attività
commerciali ed istituito una raffica di balzelli su ogni
professione. Insomma, con le spalle coperte da un
nuovo statuto municipale che gli dava pieni poteri, da
amicizie in alto loco presso il governo federale
italiano e da una cinquantina di guardie personali
che avevano rimpiazzato le guardie municipali e
controllavano i nodi dell’ordine pubblico, Spersi con
Poggioreuccio faceva il cazzo che gli pareva.
L’opposizione nel consiglio comunale valeva molto
meno della scatola che contiene il mazzo di carte
durante una partita a briscola, e nella cittadina si era
formato un movimento di fronda clandestina. Le
parole d’ordine dei congiurati erano appunto:
“Porcaputtana ?” “ Ancora!”

Fino a sei mesi prima Alberto Spersi era stato


semplicemente il fortunato marito della bella figlia
del più importante industriale della zona, ed in
quanto tale, era riuscito ad occupare una serie di
posizioni di rilievo: una presidenza onoraria qui, un
direttorato là ed un posto in consiglio comunale in
cima a tutto. Il suocero era morto di morte naturale,

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assistito amorevolmente dai migliori dottori e dalla
famiglia, in primo luogo da quel giovane che,
impalmata sua figlia, aveva fatto rinascere nel suo
vecchio cuore dei sentimenti di amore paterno,
solidale e maschio. Alberto, serio, ambizioso,
bisognoso di una figura paterna, era diventato suo
figlio prendendo nel suo cuore il posto lasciato da
quell’altro, quello scoglionato che scriveva poesie e
viveva su un’ isola tropicale il quale, nascendo. gli
aveva portato via la moglie e, crescendo, grossi
pezzi di cuore. Sapendo di lasciare tutto in mano ad
Alberto il vecchio era deperito tranquillamente,
perdendo lentamente memoria e raziocinio, tanto da
non accorgersi (il che, per una vecchia volpe come
lui, era segno di irrimediabile decadimento), dei vari
problemi di suo nipote.

Davide aveva dodici anni. Era cresciuto in mezzo a


lussi ed agi di ogni genere, palpando cameriere e
sfottendo maestre. Suo padre lo aveva seguito per i
primi tre anni di vita, quando ancora stava con la
moglie, poi aveva iniziato la sua scalata. La madre,
lasciata sola, si era ritirata in un esilio nel quale pochi
sapevano cosa combinasse, essendo la discrezione
una sua nota qualità. Davide era diventato
superficiale ed egocentrico per reazione alla
solitudine in cui era cresciuto: i genitori lo avevano
ignorato. Il padre perché in tutt’altre faccende
affaccendato, e la madre per rinnegare quell’errore di
gioventù, quello stronzo amore che l’aveva cacciata
nelle braccia di un Alberto che non c’era più, e

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chissà se c’era mai stato. Per quanto riguardava
Davide, il potere assoluto del quale suo padre si era
autoinvestito si era manifestato nel fatto che una
mattina non era andato a scuola con la solita Audi
bianca, ma con una Mercedes nera lunga come un
treno e larga come l’Audi era lunga, accompagnato
non dalle due solite guardie del corpo serie e
professionali, ma da quattro bestioni vestiti
integralmente di nero, a parte le camicie ed i calzini
bianchi. La macchina era guidata da un uomo che
evidentemente avrebbe preferito stare altrove. A
giudicare dall’ottusità delle loro espressioni,
identiche, i quattro gorilloni, che erano rimasti zitti
tutto il viaggio, sembravano figli della stessa madre e
di un suo fratello. Quando la macchina fu arrivata
alla scuola i quattro avevano portato Davide
all’ingresso, rialzato da una scalinata, fendendo la
massa di studenti e genitori con la pura forza della
massa corporea decisamente superiore alla media.
Uno di essi aveva parlato alla massa di cui sopra
amplificando la voce con un piccolo megafono che
portava appeso ad un polso, ed aveva detto con
enfasi da riunione di condominio: “ Cittadini di
Poggioreuccio, a far data da ieri, il cavalier avvocato
dottor Alberto Spersi assume la qualifica di
plenipotenziario della circoscrizione di
Poggioreuccio. In forza dei diritti che gli sono valsi
per questa nuova carica, egli si riserva di prendere
tutte le misure necessarie affinché la sua nuova
dignità sia riconosciuta ed apprezzata da tutti i suoi
amati concittadini.”

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Davide, che stupido non era, pensò subito ai
vantaggi che gliene sarebbero derivati. Infatti i
professori, almeno quelli, ed erano tanti, che erano
assicurati con le assicurazioni Spersi, vivevano in
case costruite dall’Immobiliare Spersi, pagate con
mutui concessi dalle banche Spersi, si fecero molto
più gentili di prima, ed una certa quantità di sue
compagne di scuola dimostrarono un interesse molto
maggiore del passato. Il frutto di questa nuova
situazione fu una pagella unta, ma ottima, molte
lingue in bocca, un paio di ditalini e la prima scopata.
Accidenti, eiaculazione precoce, ma non gliene
fregava niente. Fece molte nuove amicizie,
interessate, e trascurò le poche sincere di prima.

Fra gli uditori, quella mattina c’erano anche molti


genitori, alcuni , dipendenti Spersi, applaudirono, altri
corrugarono la fronte, i più rimasero indifferenti, ma
qualcuno fischiò. “Chi ha fischiato? “ gridò quello col
megafono, nel megafono. Il suo tono, fra lo scocciato
ed il fanatico, e la sua grinta da psicopatico
pluriomicida , scoraggiarono ulteriori manifestazioni
di dissenso.
Ogni volta che la macchinona nera arrivava o se ne
andava da scuola, sguardi genitoriali infastiditi si
appuntavano su di lei, e sguardi preadolescenziali
incerti cercavano quelli dei genitori per avere un
indizio su cosa pensare di quella momentanea
interruzione del solenne respiro del traffico cittadino.
A parte il proliferare dei ritratti di Spersi e l’imbarazzo
nella circolazione stradale, a Poggioreuccio le cose

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erano cambiate soprattutto in meglio: la burocrazia si
era snellita, gli orari dei locali erano stati liberalizzati
ed era stato costruito a tempo di record un centro
polifunzionale dotato di biblioteca, attrezzature
sportive, bar e sala giochi.

Garibaldo Ferretti, giornalista, succhiò l’ultimo


spaghetto all’amatriciana ed iniziò a fare scarpetta
del saporito sugo. Il suo ufficio aveva una finestra

che dava proprio sul rettilineo che portava a Villa


Spersi. Affacciandosi Garibaldo poteva, quattro volte
al giorno, assistere alle fasi iniziali e finali dei viaggi
di Davide nella fase di maggior gloria, cioè quando la
macchinona nera, che stava rigorosamente in mezzo
alla strada, usciva e rientrava dal cancello, che stava
aperto per il tempo strettamente necessario al
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passaggio, mai un minuto di più, mai un secondo di
meno. Garibaldo lavorava al quotidiano di
Poggioreuccio (edizioni Spersi SPA) ed era
corrispondente per un quotidiano federale. Fu
quando i suoi feroci servizi sulla presa del potere da
parte di Spersi furono pesantemente sforbiciati da
un paio di quei bestioni nerovestiti e lui fu costretto a
pregarli di lasciarglieli riscrivere per amor di sintassi
che Garibaldo entrò nel movimento di rivolta che
stava allargandosi a macchia d’olio. A lui avrebbero
potuto stuprare la moglie, sodomizzare la figlia e
tosare il cane, ma assolutamente non censurare un
articolo a forbiciate. Le sue libertà professionali
comunque Garibaldo se le prendeva scrivendo
articoli anonimi all’acido solforico su un giornale
clandestino. Mentre faceva scarpetta pensava
appunto a come descrivere sulfureamente la
situazione del traffico nei giorni di scuola di Davide
Spersi. Masticando il pane e sorseggiando un
bicchiere di vino si affacciò alla finestra e guardò
verso il cancello, ad un chilometro di distanza, in
cerca di ispirazione. Toh, il cancello era aperto. Ma
era l’una e un quarto, e solitamente a quell’ora era
chiuso. Garibaldo trangugiò l’ultimo sorso di vino ed
afferrò il binocolo. Era proprio aperto. E c’erano due
sole guardie. Che fosse la volta buona? In quella il
telefono squillò.

Non appena le prepotenze di Spersi avevano


cominciato ad intaccare i privilegi di certe famiglie di

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Poggioreuccio, queste si erano mosse per
ripristinare lo status quo. L’esercito federale non
poteva intervenire, dato che a Poggioreuccio non
c’erano state grosse violenze, e quelle che c’erano
state erano state vendicate, in sede diplomatica, da
un miglioramento delle condizioni di commercio con
le ricche industrie Ghibellini-Spersi. Per questo si
era organizzata, molto bene, una cospirazione. Essa
contava su pochi, buoni cervelli , tante abilità ed una
diffusa omertà . Si era riusciti ad imbastire un piano
che contava su personale infiltrato ed uomini pronti
all’azione in ogni momento. I sistemi di sicurezza
della villa erano stati studiati accuratamente, se ne
conoscevano le scarse falle ed i punti di forza, basati
questi ultimi sulla persona di Adolfo Scannalupi, un
uomo il cui curriculum andava da guardia del corpo a
mercenario in Africa a responsabile della sicurezza
in certi Stati centroamericani e mediorientali.
Scannalupi aveva più di sessant’anni, e Spersi lo
aveva richiamato da una dorata pensione alle isole
Figi dandogli il comando dei suoi pretoriani, gli Angeli
con la Spada, pescati da un’accademia paramilitare
sorta nel Lazio su iniziativa di un ex pranoterapeuta
fra i clienti del quale abbondavano, a suo tempo, vari
miliardari. Potendo contare su tanti corpi giovani e
molto tonici grazie ad un raffinato addestramento e
su un pari numero di cervelli svuotati da accurati
lavaggi, Scannalupi era riuscito, in un lasso di tempo
relativamente breve, a costruire un buon sistema il
quale però, per tirare avanti, necessitava di altre
teste pensanti, oltre alla sua.

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Dopo aver, inutilmente, tentato di trovare un po’ di
libero arbitrio in quelle teste avvitate su abiti neri,
Scannalupi aveva allargato il campo di ricerca,
cercando sostituti per i casi di sua indisponibilità al
controllo del sistema di sicurezza. Le selezioni erano
tuttora in corso, ma già un nome c’era : Alfio Camalli.

Alfio aveva trent’anni, dodici dei quali passati nella


polizia federale. Si era distinto nelle squadre
antisommossa calcistica prima, in quelle del controllo
migratorio dopo ed infine nell’ambito dei corpi di
sicurezza governativa, nei quali aveva dato prova di
capacità organizzative e versatilità operativa non
comuni. Prima di essere inghiottito dai quadri
amministrativi, Alfio era stato convocato dal
plenipotenziario di Poggioreuccio. Spersi gli aveva
parlato delle necessità del suo nuovo potere, gli
aveva fatto il nome di Scannalupi e gli aveva
garantito uno stipendio a molti zeri in valuta forte.
Alfio aveva accettato e si era trasferito a
Poggioreuccio. Aveva seguito un corso di public
relations che male non poteva fargli, e poi aveva
seguito Scannalupi in ogni fase della giornata per
settimane intere, fino a diventare un suo
apprezzabile clone.
Però, se connivenze nel governo federale avevano
spianato la strada di Spersi, altre connivenze
avevano facilitato i suoi avversari, che non erano
pochi e godevano di un prestigio che Spersi ancora
non aveva. Alfio era un prodotto di queste ultime
connivenze, e aveva spiato accuratamente il sistema

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di sicurezza di villa Spersi, relazionando i cospirati e
preparandosi ad entrare in azione, in caso di
bisogno, il più velocemente possibile per riportare
Spersi alla normale condizione di ogni essere umano
non imparentato con un governante: l’impotenza.
Alfio però aveva una caratteristica che se
compiutamente sviluppata lo avrebbe reso inadatto a
tutti i lavori che lo avevano portato ad affiancare
Scannalupi nella difesa di villa Spersi con il preciso
scopo di fotterlo alla prima occasione buona: era
fondamentalmente leale. Non era stato educato
all’inganno, e fregare il prossimo suo gli era sempre
risultato spiacevole, anche se era stato costretto più
volte a farlo per esigenze di carriera e, in ultima
analisi, di sopravvivenza. Il dovere ingannare
Scannalupi, una vecchia gloria del suo mestiere, un
uomo serio e triste per aver perso molto ed aver
guadagnato poco in termini umani e caratteriali, gli
rodeva particolarmente. era un uomo anziano, ed
Alfio aveva sempre portato un certo rispetto per gli
anziani, se non altro per essere riusciti a
sopravvivere in quel mondo di merda in cui tutti si
trovano a vivere, a volte trovando ancora il coraggio
di guardarsi allo specchio.
Comunque ingannare Scannalupi era suo dovere, ed
andava fatto.
C’era da dire che il lavoro attuale non gli dispiaceva
troppo, poiché, oltre alle soddisfazioni economiche (il
suo conto svizzero era sempre più pingue), e
all’esperienza che avrebbe ben figurato sul suo

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curriculum, il giovane aveva anche trovato l’amore, o
qualcosa di molto simile.
Si trattava di una donna che si chiamava Chiara,
Chiara Ghibellini in Spersi.

Chiara non era una donna irresponsabile, ne’ una


viziata figlia di babbo. Aveva conosciuto Alberto
all’università, squattrinato figlio di professoressa lui,
lei ragazza cresciuta nell’agio, ma senza eccessi,
abituata a seguire il cuore più della ragione
famigliare. All’epoca Alberto aveva occhi sinceri,
consapevoli ed intelligenti, era sincero con lei, e
quando era venuto a sapere della situazione
economico sociale della sua famiglia si era limitato a
farsi offrire qualche cena, e lei lo aveva fatto
volentieri. Dopo la laurea si erano visti ancora, lei era
rimasta incinta ed avevano deciso di sposarsi, con
una discreta quantità di amore ancora vivo e che poi
si era spento man mano che Alberto entrava nelle
grazie del padre di Chiara. Non se lo era arruffianato:
erano fatti l’uno, ferito nell’amore paterno, per l’altro,
figlio in cerca di figura paterna. Alberto si era sempre
più fatto prendere dalle responsabilità e
dall’ambiente che Chiara aveva sempre
accuratamente evitato frequentando birrerie, osterie
e luoghi lontani dall’influenza delle industrie
Ghibellini, e nel quale si era poi timidamente
riaffacciata con Alberto al fianco e Davide al seno.
Spirito forte ed indipendente, rimasta senza Alberto,
non fece nessuno sforzo ad affidare Davide alla
vecchia governante ed alle tate e a far fruttare la sua

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laurea in conservazione dei beni ambientali,
trovandosi lavoro presso una sovrintendenza del
centro Italia ed iniziando una piacevole vita da
restauratrice. Quando il padre di Chiara si ammalò,
alcuni suoi vecchi amici e fidati collaboratori
andarono, per fedeltà al sangue, a cercarne i figli. Il
poeta viveva tranquillo ai tropici con la sua pingue
rendita mensile e non voleva essere disturbato.
Chiara invece si fece spiegare tutto e bene. Quando
seppe che Alberto stava per lanciarsi in un’ impresa
che avrebbe richiesto spalle ben più coperte delle
sue, lei lo rivide come era dieci anni prima:
ambizioso, solo ed incosciente; allora se ne
reinnamorò, ma non lo raggiunse. Si fece intestare
buona parte delle industrie e ne divenne l’occulta e
saggia amministratrice, poi, tornata a casa,
nell’immenso palazzo Ghibellini, restò a guardare
cosa faceva Alberto, senza premurarsi di avvertirlo
del suo arrivo. Non aderì alla cospirazione,
semplicemente la avallò. Trovandosi sola conobbe
Alfio: bello, un po’ più giovane e multiorgasmico ed
alleviò la propria solitudine in modo indubbiamente
piacevole.

Ad onor del vero, Alberto non si era del tutto


dimenticato di Davide, e non avrebbe potuto, visti i
rumorosi capricci del pupo quando era scontento di
qualcosa, e quindi gli faceva regali ad ogni ricorrenza
del calendario, giusto per sedare i propri leggeri
rimorsi da padre snaturato.

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Era accaduto, l’anno prima, che Davide aveva letto
la réclame di un allevamento di cani: il celeberrimo
Allevamento della Quercia. Con in mano il depliant
illustrativo aveva assediato il padre durante uno dei
rari pasti in cui si vedevano. Risultato dell’assedio fu
l’ingresso nella famiglia Spersi di un bel cucciolo di
pastore tedesco: Billy.
Billy era cresciuto, rispettando la garanzia, ed era
diventato uno stupendo animale: forte, vivace ed
intelligente.
Un bel giorno Davide seppe che il footing nel parco
era di moda, naturalmente solo se si era vestiti cogli
abiti di un celebre stilista e calzati con le scarpe di
una nota marca. Dato che nessuno gli aveva mai
insegnato a coltivare un hobby per il puro gusto di
fare una cosa bene, egli era portato a seguire le
passioni del momento, e non essendo un tipo
passionale, le passioni le cercava fuori di sè. Così,
debitamente equipaggiato, iniziò a fare footing nel
parco comunale, per farsi vedere da più gente
possibile. Avendo sentito poi che era di moda fare
footing accompagnati dal proprio migliore amico a
quattro zampe, Davide iniziò a condurlo con sè nelle
sue corse, e Billy lo seguiva fedele.

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Nel giorno in cui si svolge la nostra storia Davide,
appena tornato da scuola, decise che sarebbe stato

bene fare una passeggiata con Billy. Mangiò un


panino, convocò le sue quattro guardie personali e
comunicò le sue intenzioni podistiche. Rapidamente
le guardie cambiarono gli abiti neri con tute da
ginnastica nere, fermi restando i calzini bianchi, di
spugna, stavolta, per evitare che i piedi, infilati in
scarpe da ginnastica nere, sudassero troppo. Si
trovarono con Davide e Billy presso il cancello del
parco della villa. Il portiere, un anziano dipendente
del vecchio Ghibellini che si trovava molto a disagio
nella divisa nera, per non parlare degli occhiali a
specchio, aprì loro il cancellino per il tempo
strettamente necessario all’uscita. I quattro
nerovestiti si disposero a semicerchio, con le pistole

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spianate, davanti all’apertura. Assicuratisi che non ci
fosse pericolo, diedero a Davide il segnale di uscita,
si disposero a diamante attorno a lui e Billy e
partirono come un sol uomo al piccolo trotto senza
perdere la formazione.
Nel parco c’era un vastissimo prato circondato da
aceri, lì Davide lasciava spesso Billy libero di correre,
ed ultimamente si era anche messo a giocare con
lui. Come buona parte del genere umano, Davide
aveva bisogno di amore. In famiglia non ne aveva,
delle ragazze aveva un’opinione troppo bassa per
considerarle più di pezzi di carne con buchi al punto
giusto, gli amici non li considerava proprio, e finì per
affezionarsi molto a Billy.
Il cane lo leccava con gioia quando lui tornava da
scuola, gli si accoccolava accanto le poche volte che
studiava, lo fissava con occhi adoranti quando
giocavano, e si lasciava abbracciare quando Davide
aveva momenti di trasporto emotivo e cercava
calore.
Per questo Davide andava a correre anche quando
sapeva che non avrebbe incontrato nessuno: gli
piaceva stare con Billy e vederlo correre e dar la
caccia ai piccioni e rispondere ai suoi richiami.
Quel giorno però Billy annusò qualcosa di nuovo
nell’aria, anzi, di antico, e si fermò col muso in aria
“Billy”- chiamò Davide, e Billy non si mosse
Davide si fermò di colpo, e con lui, un po’
goffamente, dato lo scarso preavviso, si fermò anche
la scorta. Billy aveva iniziato a scodinzolare.

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“Billy, qua”- disse Davide, stupito dalla
disobbedienza.
Billy smise di usmare l’aria e guardò Davide come
per dire: “Scusi, ci conosciamo noi due?”.
Nel suo cervello canino era scattata una molla
vecchia quanto il mondo ma per niente arrugginita.
A circa un chilometro da lì, in un altro prato all’interno
del parco, c’era Lady, una bella pastoressa tedesca,
che, tranquilla, prendeva il sole. La sua padrona,
animalista convinta, sedeva lì vicino, all’ombra di un
albero, e leggeva un libro. Lady si trovava in quel
periodo dell’anno nel quale una certa parte del suo
corpo emanava un chiaro invito, rivolto ai cani
maschi di tutto il mondo, ad accorrere da lei per
misurarsi fra loro in singolar tenzone per conquistare
la sua virtù e rinnovare la linfa del grande albero dei
cani. L’odore in questione era giunto alle sensibili
narici di Billy misto con molti altri, ma a differenza di
tutti gli altri, aveva mosso in lui una potente curiosità
ed un immenso desiderio, più forti entrambi del
sentimento di fedeltà che lo legava a Davide in
particolare ed al genere umano in generale quindi, lo
sguardo fisso, iniziò a correre via da Davide e dalla
sua scorta.
Per un attimo Davide restò incantato dalle eleganti
falcate di Billy, poi lo chiamò nuovamente ed infine
guardò le sue guardie del corpo con un’espressione
che per un attimo fu profondamente triste e disse:
“Ma non mi obbedisce...”. I quattro restarono
interdetti per un picosecondo (in effetti il loro
addestramento li aveva resi un serio problema per

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un normale attentatore, ma non contemplava le cose
da fare in caso di fuga di un cane), poi uno estrasse
la pistola, mirò Billy e chiese: “Devo tirare,
signorino?”. Davide riprese il consueto
atteggiamento autoritario: “Ma sei scemo??- esitò
perché non sapeva cosa dir loro di fare - piuttosto
inseguitelo, prendetelo, ma non gli fate del male!!”
“Sissignore!” . Tre dei quattro partirono di corsa, uno
restò con Davide che guardava smarrito Billy
scomparire fra gli alberi, molto lontano da lì. Davide
si voltò verso l’uomo che era rimasto con lui e lo
fissò con occhi di bragia. “Che cazzo ci fai tu qui?”
“Devo proteggerla, signorino, sono le regole”-
rispose quello, freddo. ”Regole dei miei coglioni-
sibilò Davide infuriato, ai limiti di una crisi nervosa-
va’ anche tu” ed il suo braccio saettò come un
coltello a scatto ad indicare la direzione che Billy
aveva seguito nella sua passionale fuga.
“Le regole, signorino, esigono che lei non sia lasciato
mai da solo.”
“Vai, stronzo!” Davide tentò di dare un calcio nel
sedere all’uomo, ma quello gli afferrò la gamba a
mezz’aria ed in una frazione di secondo Davide si
trovò a terra. “Non se ne parla neppure, signorino.”
disse l’uomo cortesemente. Atterrato, Davide si sentì
terribilmente impotente. Fosse stato il figlio unico di
un signore medioevale, avrebbe potuto minacciare
l’armigero disobbediente di farlo bollire nell’olio o di
fare castrare lui e suo padre ed anche il nonno, se ce
l’aveva; certo, a ben pensarci, difendere l’erede é
molto più importante di un capriccio, ed il signore

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medievale non avrebbe mutilato ne’ cotto un costoso
mercenario solo perché aveva fatto il proprio dovere
di profilassi per la stirpe; ma certo, se il signore fosse
stato un pazzo iperormonico e sanguinario, avrebbe
fatto torturare l’armigero a piacere proprio e del
figliolo, ma da un tale padre quale eredità ci si
sarebbe potuti aspettare? Comunque Davide era a
terra, roso dalla rabbia e dall’ angoscia per avere
visto il suo migliore, anzi unico amico scappargli
fregandosene dei suoi disperati richiami. Dove
poteva essere Billy? avrebbe rischiato di essere
investito da una macchina ed essere lasciato a
guaire, spezzato, sull’asfalto, o di essere rapito ed
affettato con bisturi e dolorosi reagenti da un
vivisezionatore nazista e senza pietà alcuna. E
Davide sarebbe restato da solo a piangerlo. Estrasse
il cellulare e chiamò a casa.

Mario Supini, il segretario personale di Alberto


Spersi, si trovava comodamente seduto sulla
scrivania di Olga, la segretaria, nell’anticamera
dell’ufficio del principale. Il principale stava nel suo
studio, seduto ad una scrivania molto ordinata, i piedi
sul ripiano ed il corpo mollemente rilassato sulla
poltrona che era stata del suocero. Aveva dato
ordine di non essere disturbato per nessun motivo,
se non particolarmente grave, per trenta minuti.
Supini era impegnato a far immaginare ad Olga i
vantaggi di carriera che avrebbe avuto mostrandosi

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gentile con lui. Essendo avvocato Supini stava molto
attento a non ricattarla per non correre il rischio di un
processo per molestie, ma Olga, russa, da dieci anni
in Italia, non lo avrebbe mai denunciato, in primo
luogo perché Supini era molto gentile, in secondo
perché lei apparteneva a quella categoria di donne
che sono ben consce di sedere sulla propria fortuna,
in terzo perché quello che lui le proponeva era un
metodo di avanzamento di carriera che lei
conosceva bene ed aveva sempre funzionato con i
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superiori maschi. “Uomini - pensò lei in russo -
scommetto che lo vuole fare qui sul tavolo durante la
pausa del capo.” “ Vedi Olga, io non posso dire di
conoscere molta gente che conta, ma sono inserito
bene, e potrei fare qualcosa per te, naturalmente...”
Naturalmente Olga si alzò, slacciò due bottoni della
camicetta, sculettò fino alla porta dell’anticamera,e la
chiuse. “Siamo in pausa pranzo, sono tutti in pausa
pranzo - miagolò con quella voce dall’accento sonoro
arricchita per l’occasione da una sfumatura allusiva -
ma nessuno ci obbliga a mangiare durante la pausa
pranzo.
Supini sentì improvvisamente un gran caldo, Olga gli
lesse negli occhi il passaggio dalla fase razionale a
quella animalesca unidirezionale, arrotolò la gonna
del tailleur e si sfilò le mutande. Supini avvampò, le
corse incontro, la baciò alla francese come neppure
un pornodivo nato a Pigalle avrebbe saputo fare, la
afferrò tastando più zone erogene possibili e la
rovesciò sul tavolo, accingendosi al trombìo. Abile
nel lavoro ed altrettanto nel piacere Olga afferrò
l’onor di maschio di Supini e, liberatolo, lo guidò
abilmente. Nel preciso istante in cui Supini iniziava a
godersi la sensazione di caldino umido, squillò il
telefono.
“Supini, non mi si disturbi per trenta minuti. Lei si
occupi di rispondere al telefono e mi passi solo le
chiamate che non possono essere rimandate.
Chiamerò con l’interfono quando sarò pronto” -
aveva detto il capo prima di entrare nello studio, dieci
minuti prima.

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L
igio al dovere, l’avvocato si fece violenza ed alzò la
cornetta. “Pronto!” disse cercando di dare contegno
alla voce, mentre Olga, passionale, muoveva il
bacino senza mugolare, guardandolo negli occhi.
“Pronto, chi parla?” - gli rispose l’interlocutore. “Sono
Supini - lo sforzo per mantenere ferma la voce si
stava facendo insostenibile - segretario personale di
mister Spersi, il principale é in riunione, dite pure a
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me” - per fortuna aveva recitato una formula
mandata a memoria mesi prima e ripetuta più volte.”

“Supini, sono Davide Spersi, passami subito mio


padre.”

“Madonna, ci mancava solo lo stronzetto- pensò


Supini lottando per mantenere l’erezione mentre
Olga gli succhiava il lobo libero - suo padre non può
rispondere, dica a me, riferirò non appena....”
“Non appena il cazzo!! Billy é scappato, voglio mio
padre.”
“Chi é Billy? - la voce di Supini tradiva un’estasi
decisamente fuori luogo, ma Davide non ci fece
caso.
“Billy é il mio cane, stronzo”
Supini avrebbe volentieri preso a calci Davide fin
dalla prima volta che lo aveva visto, lui ed anche
quella bestiaccia, ma ora doveva levarselo dai piedi
alla svelta, e senza che Spersi Senior fosse
disturbato, e senza perdersi la scopata, e insomma:
“Chieda alle guardie di aiutarla , signorino - quel
“signorino” era carico di gelo - suo padre la
contatterà appena possibile. Arrivederci.” Riattaccò e
poi staccò la cornetta. Olga non chiese chi era e
cominciò a sussurrare misteriose parole in russo,
con sfumatura sapientemente preorgasmica.

Davide restò paralizzato dall’indignazione, come ha


osato quel figlio di serva ma si riprese presto e
compose il numero del centralino delle guardie.
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“Pront... ?”
“Sono Davide Spersi, il figlio del padrone, il mio cane
é scappato. Voglio che tutte le guardie disponibili
corrano al parco a cercarlo e che il cancello della
villa sia lasciato aperto se Billy tornasse.
Muovetevi!!”
“Signorino - rispose il centralinista di turno -
dobbiamo far la guardia alla villa, non possiamo...”
“Sono il figlio del padrone e voi fate quello che dico
io perché mio padre mi ha detto così”
“Un attimo.”
“Un attimo un paio di ....”- seguì una canzone di Enja
Il centralinista chiamò il capo, Scannalupi, ma nella
stanza dei bottoni, c’era Alfio. Scannalupi, colto da
un attacco di dissenteria, gli aveva affidato il
comando per la prima volta.
“Pronto, capo?”
“Sono Alfio Camalli, lo sostituisco in tutto e per tutto
finchè non torna. Di’ a me.”
Il centralinista non aveva obiezioni e raccontò della
richiesta di Davide.
“Cosa ha detto il principale?”- chiese Alfio con una
strana luce negli occhi.
“Il principale? Pare che abbia dato carta bianca al
signorino.”
Alfio colse la palla al balzo: “Ricorda, uomo, prima il
capo, poi il principale, ed infine il Dio degli eserciti,
dobbiamo fare il nostro dovere fino in fondo, e
questo comprende difendere il principale e la
famiglia da ogni dolore. Tutti gli uomini a caccia del

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cane del signorino, il cancello resti spalancato. Due
uomini di guardia”
“Sissignore, al dovere. Gli uomini in tenuta da
Jogging?”
Alfio represse una risatina: “Non c’é tempo da
perdere, il cane potrebbe essere in pericolo.”
“Bene!- il petto gonfiato dall’entusiasmo di chi
compie il proprio dovere, il centralinista diffuse
l’ordine, poi riprese la linea con Davide - Signorino,
lei non é da solo, gli uomini arriveranno in suo
soccorso entro quattro minuti, devo venire anch’io?
“Certo che sì, coglione- rispose Davide in pieno
delirio di onnipotenza - e muoviti!”
Rassicurato ( eppure una vocina, dentro, gli diceva
che lasciare il cancello aperto e mandare quaranta
uomini alla caccia di Billy non era un’ idea del tutto
razionale), Davide rinfoderò il telefonino, si rivolse
alla sua guardia del corpo e gli disse: “Andiamo a
cercarlo anche noi!” “Questo é tollerabile” rispose
l’uomo. Partirono di corsa. Uno dei cospirati, che non
li aveva mai persi di vista, aspettando l’occasione per
rapire Davide, imprecò e riprese a seguirli a debita
distanza. Erano fessi ma pericolosi, quegli armadi
nerovestiti.
“Manica di imbecilli”- pensò Alfio componendo il
numero rosso dei ribelli.

“Pronto?” - disse Garibaldo.


“Porcaputtana?"
"Ancora!"

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"Garibaldo, sono io. - proseguì Alfio con voce
concitata, ma ferma - Raduna la squadra, le guardie
sono tutte a caccia del cane del figlio di Spersi. Non
so quanto rimarranno fuori, ma dobbiamo provarci, ci
sono solo due uomini al cancello più Scannalupi e a
lui ci penso io. Al cancello fra un quarto d’ora.
Muoviti.”
Garibaldo compose un altro numero. “Quel buffone si
é fregato con le sue mani” - si disse pensando a
Spersi che aveva ingaggiato gli “Angeli con la
Spada” pensando di aver fatto un buon affare.
Se Spersi non aveva fatto un buon affare, i ribelli
avevano invece fatto un ottimo lavoro. Avevano
dislocato intorno a villa Spersi un buon numero di
uomini pronti all’azione in ogni momento. Camerieri,
impiegati, commessi di negozi, venditori ambulanti
corsero all’azione lasciando gli stupefatti datori di
lavoro e clienti a meditare sul potere delle giuste
parole dette a un telefonino cellulare
improvvisamente sbucato da una tasca.
Garibaldo, telefonato a chi di dovere, scese di corsa
le scale piantando il posto di lavoro. Uscì dal palazzo
del giornale, entrò da un fruttivendolo e ne uscì con
una pistola sotto l’ascella, fidando nel tesserino di
giornalista se qualche poliziotto fedele a Spersi lo
avesse fermato. Arrivò al luogo dell’appuntamento in
un tempo che non avrebbe mal figurato ai campionati
nazionali di atletica. Alfio non c’era.

Riattaccato il telefono Alfio avrebbe dovuto


prepararsi ad accogliere e rendere impotente

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Scannalupi, ma un impulso, più forte del suo pur
sviluppato senso del dovere, gli fece selezionare un
numero interno del palazzo. Tre squilli ed una voce
nota disse: “Sì?”
“ Porcaputtana?"
" Ancora"
"Chiara, sono Alfio, devo dirti che oggi sembra
essere il giorno buono. Chiuditi in camera,
potrebbero non esserci pericoli, ma non si sa mai.”
“Frena un at

tim
o, non puoi dirmi niente di più?”

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Alfio si maledisse per non avere resistito all’impulso
di cui sopra e si costrinse a dire:
“No, dammi retta e basta. Ci sentiamo dopo. Sta’
attenta”
“Sì. Grazie.” Alfio aveva esitato apposta per sentire
quel grazie, ma la sua felicità morì quando i suoi
occhi incontrarono quelli gelidi di Scannalupi dietro la
bocca di una pistola.
“Cosa cazzo succede” disse Scannalupi.
Alfio mise giù il telefono, si maledì una seconda volta
e si preparò a fronteggiare e demolire la figura
paterna che gli stava di fronte.
“Le cose qui intorno potrebbero cambiare
radicalmente, signore.” Disse asciutto.
“Ti sei venduto?”
“Ho fatto il mio dovere”
“Che consisteva appunto nel vendersi”. Alfio si
preparò a scaricare su Scannalupi il vigore dei suoi
trent’anni ben spesi, sperando che l’età avesse
leggermente annebbiato i riflessi del suo maturo
antagonista, quando Scannalupi abbassò la pistola e
se la rimise nella fondina.
“Quaranta anni fa ho assistito al mio primo colpo di
stato in Africa, adesso non mi ricordo bene quanti
altri ne ho visti, ma se leggi le mie memorie, che
saranno pubblicate entro l’anno, lo saprai. Penso che
aggiungerò un capitolo dopo aver letto i giornali nei
prossimi giorni. Un’idea ce l’ho già.
Alfio ci restò quasi male “Quindi lei non...”
“Io non intendo fare assolutamente un cazzo per
impedire che rovesciate quel dittatore da consiglio di

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amministrazione. Quando ero al cesso ho visto
correre quaranta stronzi fuori dal cancello che poi é
rimasto spalancato. Ho una dorata pensione da
godermi, e da solo il culo non lo rischio. Buon
lavoro.”
Scannalupi uscì dalla stanza e si diresse verso il suo
alloggio. Alfio rimase senza parole, neppure nella
mente, per qualche secondo, poi si alzò e corse
fuori, verso il cancello. Sulla soglia della stanza dei
bottoni vide Scannalupi in giacca e cravatta di
Armani che andava verso un’uscita segreta del
palazzo. Ci fu un rispettoso cenno di saluto. “Sei
stato un ottimo allievo” “Mille grazie”. Si separarono.

Alberto Spersi, ignaro di tutto, fissava il vuoto.


Qualche giorno prima aveva letto un libretto di
dietologia buddista ed aveva deciso di seguirne le
prescrizioni, qundi niente pranzo e cena veloce. Il
languorino che sentiva allo stomaco gli risultava
stimolante per pensare. E pensava. Forse troppo.
Infatti si ricordò di sè, qualche anno prima (qualche?
ormai erano quasi venti!), alla fine dell’università, a
Chiara e al fatto che la avrebbe amata con molte
meno riserve se lei non fosse stata tanto ricca di
famiglia. Non che la ostentasse, la sua ricchezza, ma
Alberto aveva l’impressione che la sicurezza del
carattere della ragazza fosse dovuta più all’agio nel
quale era cresciuta che non ad una battaglia interiore
fra le paure ed il coraggio che ogni essere umano
deve affrontare nel corso della vita per risultare alla
fine una persona decente. E poi quando aveva

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conosciuto suo padre, padre che lei non amava
particolarmente, si era stupito ed era rimasto
indignato dalla freddezza dei loro rapporti. Che
spreco gli era sembrato, e come gli era stato
naturale instaurare un legame con quell’uomo
anziano e forte. Ma Chiara se ne era andata,
accidenti a lei e a quel bamboccio di suo figlio, e lui
non aveva mai smesso di pensarla e rimpiangerla. E’
una stronzata che i mariti debbano essere sempre
fedelmente seguiti dalle mogli, ma un minimo di
solidarietà sarebbe stata auspicabile. In fondo si
erano amati.
Non odiava Davide, ma se lo teneva lontano perché
gli ricordava troppo Chiara.
Morto il vecchio, Alberto fu solo in un ambiente che
non era il suo. Erede delle proprietà , ma non del
prestigio, cosa della quale non gli era mai fregato
niente, ma necessaria per essere accolto nella
ristretta cerchia delle famiglie bene di Poggioreuccio.
E delle famiglie bene gliene fregava ancora meno.
Usò il potere che gli era piovuto in mano per porsi
un gradino più su di loro. Grosso errore, e lo sapeva
bene. Era privo di conoscenze e gli appoggi che si
era conquistato erano scarsi ed interessati più ai
dividendi delle aziende di Alberto che non alla sua
personale salute. Per garantirsi la sicurezza aveva
ingaggiato una cinquantina di decerebrati guidati da
una vecchia gloria delle rivoluzioni del terzo mondo.
Era solo ed odiato da molti, e ne godeva, il suo
potere era fragile, ma non gliene importava. La
madre di suo figlio se ne era andata, e lui, che per

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orgoglio non l’aveva mai cercata, sperava di
riavvicinarla a sè, richiamandola col fragore del botto
che la propria caduta avrebbe generato. Lui aveva
fatto più rumore possibile.
Ne erano passati di anni da quando era un idealista
puro e disinteressato. E suo figlio? Bah, era un
problema che avrebbe rimandato alla nascita del
secondo che sicuramente gli avrebbe dato molte più
soddisfazioni.
Quanti anni hai, Alberto - pensò - e quanto poco sei
cambiato da quando eri bambino.
Finito l’esame di coscienza consigliato da quel
libretto del cavolo era ormai il momento di pensare
agli affari. Ma prima un panino che si era preparato
quella notte ed aveva nascosto nel cassetto della
scrivania. Che bontà il fondo del prosciutto crudo.

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Nell’atmosfera sepolcrale dell’una e mezzo di
pomeriggio Davide correva alla ricerca di Billy,
accanto a lui venti uomini vestiti di nero gridavano
“Billy, dove sei?!” a turno. Si sentiva solo ed
imbecille.

Alfio arrivò trafelato al cancello, le due guardie lo


guardarono fedele, lui fece un distratto cenno di
saluto, uscì sulla strada e fece un fischio, poi tornò
indietro, fronteggiò una delle guardie e le diede una
ginocchiata nei coglioni, l’altra estrasse la pistola, la
puntò su Alfio, ma prima di poter agire fu assalita da
quattro uomini che la stesero a terra bloccandola con
una sufficiente quantità di chiavi articolari.
Alfio si avvicinò alla garitta del custode che aveva
assistito alla scena con gli occhi sbarrati dietro agli
occhiali neri di ordinanza. “ Rossi, la prego, chiuda il
cancello - disse suadente Alfio- e poi lasci il posto ad
uno dei miei amici.”. Annichilito dalla sorpresa
l’uomo obbedì. Quando fu fuori dalla garitta ed il suo
posto fu preso dal nuovo cameriere del bar dove
andava (da quindici anni) a prendere il caffè alla fine
del turno, armato di un Uzi, decise di non chiedere
nulla e si sedette su una panchina del parco, accese
una sigaretta e si perse nei ricordi di quando il
cavalier Ghibellini era ancora vivo.
Le due guardie, legate ed imbavagliate, furono
nascoste fra i cespugli, Alfio ed altri quindici uomini si
portarono fuori vista rispetto alla strada. Alfio
estrasse il telefonino e compose il numero personale
di Spersi.

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Questi aveva dirottato le telefonate alla segreteria,
dove Supini, ricordiamolo, aveva staccato il telefono
per alcuni minuti avendo trovato di meglio da fare
che il centralinista.
"Occupato, merda"- pensò Alfio. Ma Spersi doveva
essere nel suo studio ad organizzare gli
appuntamenti del pomeriggio. “Seguitemi- disse-
deve essere nel suo studio.”.
Sulle ali dell’adrenalina, i sedici uomini corsero verso
il palazzo.

Chiara, dopo la telefonata di Alfio, era corsa alla


finestra dalla quale vedeva bene il cancello di
ingresso. Vide gli uomini uscire, tornò nella stanza, si
levò l’abito e si rivestì, comoda, con blue jeans, felpa
e scarpe da ginnastica. Del piano per rovesciare
Alberto sapeva tutto. In quel momento erano in corso
telefonate da un capo all’altro di Poggioreuccio.
Sfilze di “Porcaputtana?” “Ancora!” si accavallavano
portando Alberto più vicino alla rovina ad ogni
incrocio. La polizia, comandata da rivoltosi, o più
precisamente, da uomini fedeli al potere che Alberto
aveva tentato di scalzare, al momento stava
rastrellando i pochi uomini fedeli ad Alberto per
portarli nel convento francescano in cui era custodita
parte della classe dirigente momentaneamente
decaduta. Il castello di carte stava crollando. Chiara
corse verso l’ufficio di Alberto, sperando di non
trovarlo con un’amante. Lungo la strada incrociò
l’anziana governante di casa, amante del padre dopo
la morte della madre. Si scambiarono un sorriso

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complice. L’anziana signora, prima di chiudersi a
chiave nella sua stanza, guardò orgogliosa la falcata
di Chiara, la quale, agile come una gazzella, correva
verso una speranza di felicità.
Arrivò alla porta della segreteria di Alberto, la spinse,
ma la trovò chiusa. La aprì con la tessera passe-
partout che si era fatta dare al ritorno a villa
Ghibellini. Entrò. Vide Olga e Supini che scopavano
con trasporto sul tavolo, inarcò un sopracciglio, ma
non li interruppe. Con passo leggero li oltrepassò ed
entrò nell’ufficio.
Alberto stava fumando una sigaretta e guardava fuori
dalla finestra con aria meditabonda.
Chiara, silenziosa, fece per parlare, ma colse un
sorriso sulle labbra di Alberto. Le piacque come la
prima volta che lo aveva visto. Si morse un labbro
poi disse: “ A cosa pensi?”.
Alberto si girò e la vide; la cravatta gli sembrò un
cappio intorno al collo. Stava pensando proprio a lei.
“Ai cavoli miei. Ti interessano?”. Cinque anni che
non si vedevano.
“Non sarei qui se no.”
“Può darsi. A proposito, cosa ci fai qui?”
“Sono mesi che vivo nel palazzo, non mi hai mai
vista?”
“Qualche volta, ma in sogno non credo sia valido.
Avevo molto da fare.”
“C’é la rivolta, stanno per venire a prenderti.”
Le pulsazioni di Alberto finalmente accelerarono.
Dall’altra stanza arrivarono mugolii soddisfatti.

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“Immagino di dover disdire gli impegni per il
pomeriggio”
“All’aereoporto c’é l’aereo di mio padre, possiamo
andare via.”
“Dove?”

“Nuova Zelanda, pensavo.”


“Sarebbe carino farsi prendere, però, o almeno
licenziare gli Angeli con la spada. Sono pericolosi,
sai?”
“Cazzo- Chiara si rimorse il labbro- non ci avevo
pensato!”
“Li faccio convocare nel parco, non ci vorrà molto.”
“Guarda che sono tutti fuori.”
“E dove?”
“Non lo so, comunque Alfio Camalli é nella rivolta,
credo ci abbia pensato lui.”
“Non me ne posso lavare le mani, quanto pensi mi
tratterranno?”
“Non poco.”
“Che palle!”
“Cosa facciamo allora?”
“Scappiamo, agli angeli telefonerò.”

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Corsero fuori, sotto gli occhi stupefatti di Supini ed
Olga che si stavano ricomponendo.
“Ma cosa.....?”
“Tranquillo, Supini, la vita continua”
Uscirono dall’ufficio e si trovarono davanti le armi
spianate del gruppo di Alfio.
Seguì un lungo momento di silenzio.

Le strade erano ancora tranquille, e Davide aveva il


magone. Quella calma era la testimone di una
tragedia, temeva. Non c’era rumore nel quale
potesse trovare distrazione e conforto, solo le voci
monotone degli Angeli con la spada. Ad un certo
punto il suo telefonino squillò.
“Pronto?”
“Signorino, lo abbiamo trovato”
“Dove?!”
“E’ nel parco, sta copulando con una cagna della sua
stessa razza, abbiamo tentato di separarli, ma loro
hanno ringhiato, ed anche la padrona della cagna ha
ringh.. cioé si é opposta, ha detto di rispettare la
libertà dei cani. Cosa dobbiamo fare?”
“Non perdetelo di vista, arrivo subito.”
La preoccupazione si sciolse e Davide, sempre però
leggermente angosciato, con la sensazione di avere
fatto qualcosa di irreparabile, scattò verso la zona
descritta dall’interlocutore, affiancato dai venti angeli
con la pistola. Sembravano uno stormo di papere.
Arrivati sul teatro della copula si fermarono. La
padrona della cagna si avvicinò battagliera:
“Cosa credete di fare, voialtri, eh?”

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“Spariamo, signorino?”
“Non dire cazzate!!”- Davide guardò Billy, e Billy
guardò lui. Gli occhi del cane sembravano dire:
”Ancora un attimo, ti prego.”
Davide si sentì rincuorato. “No, aspettiamo” Poi però
cominciò a singhiozzare, prima in sordina, poi
sempre più forte, e cadde in ginocchio tenendo la
faccia fra le mani. Solo, si sentiva, solo solo solo....
La padrona della cagna si sentì di rincuorarlo, in
fondo era solo un bambino. Gli angeli non sapevano
cosa fare per affrontare il pianto di un bambino,
quindi, fiduciosi nell’istinto materno proprio di ogni
femmina, lasciarono fare alla ragazza.
In quell’atmosfera da presepe pagano squillò per
l’ennesima volte un telefonino, di uno degli angeli,
stavolta.
“Pronto? Sì. Sì, cosa? ...Sì.”
Si rivolse ai compagni: “Era il capo, siamo rimasti
senza lavoro."

Tornato a casa con un Billy molto soddisfatto Davide


era stato fatto entrare mentre gli angeli venivano
disarmati. Non capiva bene cosa era successo, era
sicuro di esserne il responsabile, ma non gliene
fregava assolutamente niente. Vide suo padre in
mezzo ad un gruppo di uomini armati, anche lui lo
vide e gli si avvicinò, si inginocchiò e gli mise le mani
sulle spalle. Con grande sorpresa di Davide non
tentò di strangolarlo, ma gli parlò con una voce che
suonava imprevedibilmente paterna:
“Davide, stai bene?”

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“Sì”
“E Billy ?”
“Anche lui”- istintivamente se lo avvicinò.
“Non sentirti in colpa per quello che é successo, e
neppure per il fatto che sono stato uno schifo di
padre. Adesso me ne andrò, e vorrei solo che
crescessi bene. Non ci vedremo per molto tempo.”
Mentre parlava Alberto si stupì del potere del senso
di colpa, che gli faceva sentire un grande, inedito
affetto per quel ragazzino che era stato la causa
involontaria della sua felicità. Lo baciò sulla guancia.
“Ti scriverò” Tornò indietro e venne condotto via.
Davide vide una donna giovane e bella. Gli sarebbe
piaciuto se fosse stata sua madre. Sua madre lo vide
e lo ignorò senza particolare sforzo. Davide era nato
troppo presto per lei, ed anche per Alberto, quindi si
era liberata della responsabilità ed anche se adesso
si sentiva pronta ad assumerne una simile, Davide
era acqua passata. Prima di partire però lo
raccomandò alla governante ed agli amici di suo
padre, indicandolo come erede dell’impero.

Il giorno dopo i cinquanta Angeli con la Spada, i


quali, grazie all’addestramento ricevuto erano un’
arma sì pericolosa, ma anche facile da disinnescare,
salirono ordinatamente su un treno riservato. Sparito
Scannalupi, lontano il loro mentore, Alfio e Spersi
erano le due cose che consideravano più vicine a
Dio esistenti sulla terra. Quindi obbedirono senza
problemi all’ordine di lasciarsi disarmare e partire.
Spersi, spalleggiato dalla polizia, strinse la mano ad

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ognuno, poi salutò e fu condotto in macchina a quel
famoso convento francescano. Per tutta la cerimonia
Alfio, presente, lo aveva guardato con l’odio più nero.
Aveva chiesto ai suoi capi se non sarebbe stato
opportuno un pestaggio ai danni di Spersi. Gli
avevano risposto di no. Lui, ligio al dovere, si era
limitato a dargli, non visto, un sapiente calcio nel
polpaccio. Spersi zoppicava ancora, ma non c’era
nessun livido.
Di fronte ai capi della cospirazione riuniti, Spersi si
era comportato molto bene, dimostrando di aver
amministrato oculatamente le proprietà, e per quanto
riguardava la privazione della libertà ai vecchi
padroni di Poggioreuccio si era scusato e detto
disponibile ad un risarcimento ed all’esilio, in Nuova
Zelanda, per qualche anno. La stampa ammessa al
processo, Garibaldo in testa, fu molto stupita del
trattamento di favore riservato all’ex dittatore, e lo
attribuì a certi sguardi colti fra lui e l’erede Ghibellini.
I pezzi furono tutti censurati e quella parte sostituita
con generici riferimenti a certe benemerenze
acquistate da Spersi nei giorni sereni. Garibaldo
rischiò l’ulcera e si curò col riposo e la lettura del
Gattopardo.
Alfio tentò di incontrare Chiara più di una volta, ma
lei non gli diede mai un filo di corda. Lui soffrì più di
quanto fosse concesso ad un professionista del suo
mestiere e decise di piantare tutto. Basta con le forze
dell’ordine e gli allenamenti, aprì un ristorante in
Messico e tagliò i ponti con l’Europa. Durante una
vacanza ad Acapulco, steso sulla spiaggia,

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abbronzato, con una spettacolare ragazza nera al
suo fianco, lesse le memorie di Scannalupi, e non le
trovò tali da fargli rimpiangere la sua scelta.

Chiara aveva parlato chiaro con gli uomini che


l’avevano fatta chiamare alla morte del padre: voleva
Alberto e niente altro. L’ebbe.
Davide fu affidato alla vecchia governante che gli fu
madre e padre mentre lui veniva allevato per la
successione a capo delle industrie Ghibellini.
Stranamente crebbe bene, tenendo molto care le
lettere di Alberto e Billy che gli restò amico fino alla
morte.

Il traffico a Poggioreuccio tornò normale, e la vita con


lui. Certi animi sensibili rimpiansero i tempi di Spersi
il quale una scossa a quella tranquilla cittadina
l’aveva data. Supini ed Olga restarono a
Poggioreuccio, lui fece l’avvocato, lei, sua moglie e
segretaria a tempo perso, gli procurò, grazie ad
un’accurata opera di p.r. e ad un indubbio fiuto per
gli affari e le amicizie importanti, molte, lucrose,
cause.

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Alberto e Chiara vissero molti anni in una casa sulla
spiaggia, lei dipingeva, lui scriveva e curava certi
affari delle imprese che ancora avevano a proprio
nome. Ebbero un figlio ed una figlia. Se può
interessarvi, si amarono tanto, e stavolta con poche
riserve.

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