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COCCODRILLO DI ECO PER LA MORTE DI R BARTHES

Ho sul tavolo l'ultimo libro di Roland Barthes (La chambre


claire - Note sur la photographie). La dedica (Barthes ci
teneva molto alle dediche) dice: « un piccolo segno di
amicizia fedele ». Vado a rileggere la dedica a Critique et
verité, con cui egli nel 1966 reagiva all'attacco frontale che,
attraverso Picard, gli era stato mosso nel 1965
dall'establishment della Sorbona: ritrovo «en amitié fidèle».
In una lettera, allora, mi spiegava che la piccola nota che mi
aveva dedicato, non più di una citazione, forse a quel punto
non ci entrava gran che: ma aveva voluto dedicare una nota
a ciascuno dei suoi fedeli amici, come per fare quadrato. L'
espressione «in amicizia fedele» ricorre in ogni sua dedica,
e per il resto sono variazioni retoriche sulla marginalità del
suo contributo: «queste gamme semiologiche» per il
Sistema della moda; «un testo quasi aperto (studi su
questo quasi) » per S/Z; «questo esercizio di semantica
trascendentale » per Sade, Fourier, Loyola; «dal suo
vecchio complice in semiologia », per Il piacere del testo; «
un piccolo segno d'amicizia extrasemiologica » per Barthes
par Roland Barthes; «questo libro assai marginale» per
i Frammenti di un discorso amoroso; «una semiologia assai
vagabonda» per la Leçon; e così via, tutte litoti, come per
dire « io non sono un gran teorico, un gran filosofo, io mi
diverto »... Ma sempre, in chiusura, l'amicizia fedele.
Su questa amicizia fedele devo fare una precisazione:
benché l'espressione sia ambigua, e Barthes stesso abbia
affermato che quando l'autore risulta ambiguo è perché ha
voluto esserlo, sono del tutto convinto che con questa
espressione Barthes non voleva affatto dire « io ti sono
amico fedele ». Che banalità, che formula trita. Egli voleva
dire: « tu mi sei amico fedele, fedele a me », ovvero,
cercava una rassicurazione: « assicurami, leggendomi, che
mi sei amico fedele ». Questa non è più una banalità, né un
gesto di buona educazione o un tratto di etichetta
accademica o letteraria. E' un frammento di uno dei suoi
tanti discorsi amorosi (ogni libro che ha scritto è stato un
discorso d'amore): una disperata, egoistica, tenera richiesta
di vicinanza. Barthes era stato abbandonato, e nel modo più
pieno, nel senso che pensava di averle perdute sin
dall'inizio, da tre figliolanze.
La prima, la figliolanza carnale. Barthes era scapolo. Non
voglio spendere una parola sul fatto che fosse
omosessuale. Chi legga i Frammenti di un discorso
amoroso senza sapere che l'Altro che lui nomina di continuo
è un uomo, non se ne accorge, e se è eterosessuale pensa
a tutte le donne della sua vita: e questa è grandezza,
l’espressione sarà trita, ma è capacità di rendere universale
il proprio sentimento. Prima di lui c'era riuscito Proust, non
Gide. Basta questo a rendere uno scrittore rispettabile
(vedremo - dopo perché insisto su «scrittore»). Ma Barthes
era scapolo, visceralmente attaccato alla madre, morta
qualche anno fa, e dopo si era sentito solo. Diciamo pure
socialmente solo, perché era di quegli omosessuali che non
vogliono o non sanno ostentare in pubblico i loro affetti. In
ogni caso, non aveva figli a cui dire « tutto questo un giorno
sarà tuo ».
La seconda, la figliolanza accademica. Un professore ha dei
discepoli. Per stupidi che siano, diffondono il Verbo del
maestro, applicano le sue formule ad altre indagini. Ma
ditemi voi come si può fare a essere barthiani o barthesiani.
Si può essere lévistraussiani, si può essere greimasiani, si
può essere chomskyani, si può essere persino (benché la
cosa sia ora dubbia) lacaniani. Ma essere «come Barthes »
sa di caricatura. Barthes non ha inventato formule
applicabili: ha offerto lo spettacolo di un'intelligenza e di una
sensibilità in esercizio. Come teorico è stato il primo a
rinnegarsi. Si può essere teoricamente poveri ed essere un
genio: ma chi sono i discepoli di un genio? Barthes poteva
avere degli amici, non dei continuatori del Verbo. Si può
essere astrattisti, cubisti, futuristi, non si può essere
picassiani. Il vero discepolo spirituale di Picasso, se esiste,
dipingerà in un modo che non ricorda affatto Picasso. Non
sappiamo chi è. Non lo sapeva neppure
Picasso. Barthes non lo sapeva. Era solo.
Gli mancava, o almeno lui credeva che gli mancasse, una
terza figliolanza. Aveva una strana deformazione
(rileggetevi i suoi scritti, e ve ne renderete conto). Pensava
che esistessero due forme di scrittura: una parassitairia,
quella del critico e del filosofo, l'altra creativa, quella dello
«scrittore», non necessariamente del romanziere, ma dello
scrittore che crea. Ha vissuto tutta la sua vita pensando di
essere solo un critico e un filosofo, e cercando di arrivare
alla «scrittura». Non poteva rassegnarsi a scrivere, come il
suo Balzac: «era una mattina di gennaio e la marchesa uscì
di casa per recarsi al Bois de Boulogne», perché glielo
aveva proibito Valéry, e l'avanguardia del nostro secolo ha
ormai strane sindromi senili. Le ha tentate tutte,
l'autobiografia, i frammenti, l'ipotesi di un romanzo futuro,
non so... Non si è mai accorto (non ha dato mai segno
esteriore di essersene accorto) che egli aveva già «scritto»,
che egli era un grande scrittore creativo, che ogni pagina
che aveva scritto su Michelet, sulla Citroen, su Balzac o su
Sade era già scrittura creativa, e che nelle antologie future,
anche quando le sue conclusioni critiche saranno discusse,
queste pagine saranno registrate come grandi esempi
«classici» di letteratura francese. Che ci importa se Balzac
era davvero come lui ha detto, leggeremo quelle pagine
come testimonianze creative della intelligenza Barthes in
funzione, e del modo in cui sapeva rendere trasparente
attraverso il linguaggio la sua intelligenza delle cose, o delle
scritture altrui.
Ma Barthes non lo sapeva o non voleva saperlo. (E si
rattristava, proprio mentre arrivava al sommo della gloria. Si
rattristava anche perché due arguti giornalisti scrivevano
un pamphlet sul suo stile (che poi era una satira dei cattivi
barthesiani). In un tetro bar del Greenwieh Viilage,
testimone Susan Sontag, ha giurato di non aver neppure
letto quel libello (che pure ha qualche arguzia). E noi a
dirgli: ma è segno della tua celebrità, che ti importa? No, lui
soffriva come una bestia ferita, e so perché: il timore di
essere etichettato come l'inventore di una maniera, non
come scrittore.
Chiedo scusa, parlo di un uomo. Il lettore forse cerca più
precisazioni. Non dico il lettore che domanda «ma chi era
Roland Barthes?». Repubblica ha molte pagine, perché
leggere quella culturale? Forse che la pagina dei titoli
azionari vi spiega cosa sia «Acqua Marcia»? Ma penso al
lettore che mi dice: «va bene, so che era un autore
importante, ma fammi una sintesi, dimmi cosa devo
leggere». A costui devo un servizio. E gli dirò allora di
entrare in libreria o in biblioteca e di cercare un Roland
Barthes a caso. Troverà, in esercizio attivo, una mente che
vede cose, là dove gli altri non le avevano viste. Una volta
Barthes disse: essere semiologo è avere un fiuto. Andare
per strada e accorgersi di colpo che gli uomini e le donne
usano bottoni, ma gli uomini abbottonano da sinistra a
destra e le donne all'opposto. C'è un senso in questa
opposizione. E quale è? Barthes, sia che leggesse un
classico come Racine o che guardasse una partita di catch,
si accorgeva che c'erano cose che avevano un senso. Non
m'importa nulla che certe volte si sia sbagliato. Ma per
questa sua capacità è stato un maestro per tutti noi. Chi
sono «noi»? Tutti coloro che trovano un senso nelle pagine
in cui Barthes individua un senso. Gli altri, al diavolo.
Ma la semiologia, o semiotica che dir si voglia, Barthes non
è stato colui che eccetera eccetera? Rimando alle dediche
di cui sopra. Non gliene importava nulla, e quando il Collège
de France gli ha dato una cattedra (prestigiosissima) di
Semiologia Letteraria, l'ha usata per dire che la sua materia
non esisteva. Se volete trovare una definizione delle
discipline accademiche andate a leggervi la Gazzetta
Ufficiale che bandisce i prossimi concorsi a cattedra. Da un
punto di vista scientifico è tutta una farsa. Altrimenti
leggetevi Barthes. Anche ammettendo che tutto quello che
lui ha scritto sulla semiologia fosse discutibile, se lui non
avesse osato sbagliare (e discutersi), noi non saremmo qui
a parlare di semiologia. Grazie Roland, en amitié fidèle.
“la Repubblica”, 27 marzo 1980

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