Lo sviluppo di un farmaco Dall’individuazione di un target farmacologico alla
sperimentazione preclinica La parola farmaco deriva dal greco pharmacon che
significa principio attivo, quindi rimedio o medicamento, ma anche tossico o veleno. Per farmaco in senso stretto s’intende qualunque sostanza organica o inorganica, naturale o sintetica che, introdotta nell’organismo tramite un’ azione di natura chimica, fisica o chimico-fisica, è in grado di indurre cambiamenti delle funzioni biologiche tali da modificare, in senso positivo o negativo, la funzionalità di cellule e organi La maggioranza dei farmaci, a determinate dosi o concentrazioni, si comporta da medicamento mentre, a dosi più elevate, agisce da tossico. La tossicologia è, infatti, parte integrante dello sviluppo e dello studio dei farmaci che, poiché sostanze estranee all’organismo, possono essere in grado di produrre reazioni avverse e/o tossiche. Si parla dunque di veleno quando una sostanza chimica ha unicamente azione lesiva, ovvero non presenta alcuna dose o concentrazione con la quale si posa ottenere un effetto medicamentoso1 . Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si deve invece intendere per farmaco “qualsiasi sostanza o 1 prodotto usato o che s’intenda usare per modificare o esplorare sistemi fisiologici o patologici con beneficio di chi lo riceve“. Nell’ambito della Farmacopea ufficiale, sulla base della Dir. 2001/83/CE e dell’art. 1 D.Lgs 219/2006, il termine medicinale viene definito come: 1) ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane; 2) ogni sostanza o associazione di sostanze che può essere utilizzata sull'uomo o somministrata all'uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un'azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica2 . Nella nostra trattazione useremo il termine farmaco nella comune accezione di medicinale. I farmaci possono derivare da una fonte naturale, cioè possono essere direttamente estratti da microrganismi, vegetali o animali, oppure essere il frutto di sintesi chimica o dell’applicazione di tecniche d’ingegneria genetica. Tutti i farmaci esplicano i loro effetti biologici in base alla capacità d’interagire con specifici substrati attraverso i quali modificano meccanismi molecolari responsabili delle varie funzioni cellulari; in tal modo esercitano la loro peculiare attività su processi fisiologici e/o patologici organici. Nella maggioranza dei casi i bersagli dell’azione dei farmaci sono proteine funzionali come recettori, enzimi, proteine di trasporto, canali ionici e dall’interazione farmaco-substrato 2 deriva una cascata di eventi intracellulari che culmina nell’effetto biologico finale. In un numero minore di casi le modalità d’interazione tra farmaco e materia vivente si esplicano diversamente senza interessamento di complessi macromolecolari; ne sono un esempio i composti che si legano a piccole molecole o ioni come gli antiacidi gastrici che neutralizzano l’acido cloridrico, oppure i diuretici osmotici che interagiscono con le molecole di acqua favorendo la diuresi. Alcune categorie di famaci, infine, interagiscono direttamente con il DNA 1,3. Generalmente la nascita di un farmaco muove proprio dall’identificazione di un bersaglio farmacologico nell’ambito di una condizione clinica d’interesse. Una volta pianificato un progetto per la creazione di un nuovo farmaco a partire da una reale necessità terapeutica, la domanda che il team di ricercatori si pone è: per trattare questa specifica condizione patologica su quale target farmacologico focalizziamo la nostra attenzione? Prende così inizio il processo di sviluppo di un farmaco, un lungo percorso a tappe che richiede l’impiego di ingenti risorse umane ed economiche. Si stima che, per arrivare dalle prime fasi del processo di sviluppo al lancio di un farmaco sul mercato, debbano passare circa 12- 16 anni con un costo minimo complessivo di 500 milioni di euro. Peraltro nonostante siano ben ideati, pianificati e condotti, quattro progetti su cinque non raggiungono il traguardo finale di diventare farmaco per ragioni per lo più farmacocinetiche e tossicologiche. La 3 ricerca biomedica comporta insomma un lavoro perennemente sul filo del rasoio4,5. Tornando all’analisi delle tappe di sviluppo di un medicinale, una volta identificato il bersaglio farmacologico, il primo passo verso la creazione di un farmaco consiste nell’individuare nuovi composti brevettabili capaci di interagire con questo target. Non è questa la sede per dettagliare tale aspetto di pertinenza chimico-farmaceutica, ci limitiamo perciò ad accennare al fatto che la preparazione di molecole attive può avvenire secondo gli approcci più disparati. Tra questi annoveriamo: la modificazione della struttura chimica di molecole note per migliorarne il profilo farmacocinetico o tossicologico oppure per sfruttarne, in previsione di una nuova indicazione terapeutica, gli effetti collaterali; l’associazione di farmaci con attività farmacologica nota per nuovi protocolli terapeutici; lo screening di collezioni molto vaste di principi attivi naturali, di sostanze chimiche precedentemente scoperte e di grandi raccolte (librerie) di peptidi, acidi nucleici ed altre molecole organiche. La scoperta di un farmaco può inoltre essere il frutto di una progettazione razionale sulla base di conoscenze fisiologiche e fisiopatologiche, biochimiche e strutturali ben precise; tra questi metodi razionali citiamo la genomica, la proteomica, la bioinformatica e le biotecnologie4,6. Per accertare la reale efficacia del composto candidato nell’uomo, il ricercatore deve studiare la nuova molecola su organi e sistemi, usando sia prove biologiche su colture di cellule fatte crescere 4 in laboratorio, i cosiddetti modelli in vitro, sia test su animali da laboratorio. Lo studio preclinico richiede da 2 a 3 anni e costituisce circa il 30% dell’investimento economico totale. Le prove sperimentali precliniche devono principalmente mettere in evidenza: gli aspetti farmacodinamici in rapporto qualitativo e quantitativo con l'impiego prescritto nell'uomo, gli aspetti farmacocinetici e i limiti di tossicità del farmaco con segnalazione degli eventuali effetti dannosi o indesiderabili alle condizioni di impiego previste nell'uomo2 . Per studiare il potenziale mutageno del farmaco si utilizza il test di Ames, una tecnica in vitro che consiste nel somministrare il farmaco a un ceppo di batteri (Salmonelle) la cui crescita dipende dalla presenza di uno specifico nutriente, l’istidina, presente nel terreno. La perdita di tale dipendenza dopo l’esposizione al farmaco è indice della presenza di mutazioni che rendono il batterio in grado di biosintetizzare l’istidina. Sono invece necessari studi in vivo per determinare, fra gli altri, la tossicità acuta, subacuta e cronica, il potenziale teratogeno e quello cancerogeno del futuro farmaco1,4. Particolarmente importanti sono gli studi tossicologici che devono consentire di definire la dose tossica, la sua relazione con quella terapeutica e l’individuazione del bersaglio (cellula, organo, sistema) degli effetti tossici; di questi ultimi è fondamentale stabilire se sono o no reversibili1 . Negli ultimi 40 anni le normative internazionali hanno reso obbligatorio un incremento delle indagini farmacologiche precliniche al fine di ridurre il rischio che le molecole, candidate a divenire nuovi 5 farmaci, abbiano effetti tossici sull’uomo1 . L’introduzione di un farmaco in terapia deve, infatti, in primo luogo soddisfare il principio inderogabile del “primum non nocere”. Gli studi preclinici devono essere condotti in accordo con la regolamentazione internazionale e in osservanza di un codice formale rappresentato dalle Good Laboratory Practices (GLP) che regolamenta, nell’ambito dell’attività di laboratorio, gli aspetti inerenti le procedure di conservazione delle registrazioni, dell’analisi dei dati, della calibrazione degli strumenti, dell’addestramento del personale al fine di eliminare il più possibile l’errore umano e di assicurare la massima affidabilità dei dati sottoposti alle attività regolatorie. Durante la fase di sviluppo preclinico, circa la metà dei composti in studio non riesce a superare i test necessari; per i restanti viene preparato un dossier dettagliato contenente tutti i dati, il quale viene sottoposto all’attenzione delle autorità delle attività regolatorie come l’Istituto Superiore di Sanità e la Commissione Unica del Farmaco in Italia e la Federal Drug Administration, organismo federale di controllo, negli USA, il cui permesso è necessario per poter procedere con gli studi sull’uomo3 . La sperimentazione clinica Una volta disponibili il profilo farmacologico e i risultati dei primi studi tossicologici, se questi soddisfano le condizioni preliminari di efficacia e 6 sicurezza, si richiede alle autorità sanitarie di poter dare inizio agli studi clinici. In Europa, la documentazione viene inviata, per essere esaminata, ai Ministeri della Salute dei singoli paesi dove è in vigore una normativa in materia1 . Come già accennato, una sperimentazione clinica con farmaco si prefigge lo scopo di valutare l’efficacia e la tollerabilità di un trattamento farmacologico nell’uomo. L’obiettivo ultimo dello sviluppo clinico è cioè quello di arrivare a definire un ambito di dose e una posologia entro i quali il farmaco dimostri sia capacità di conseguire l’obiettivo terapeutico desiderato, sia capacità di non provocare effetti indesiderati alle dosi efficaci in terapia, così da rendere accettabile il suo rapporto beneficio- rischio1,7. Lo sviluppo clinico di un farmaco viene abitualmente suddiviso in quattro fasi che identificano i momenti chiave dell’iter di studio. Le fasi I, II, III vanno dalla prima somministrazione all’uomo fino all’immissione in commercio del prodotto, mentre la fase IV comprende in senso lato tutti gli studi eseguiti dopo la commercializzazione del nuovo farmaco. A causa della crescente complessità dello sviluppo clinico e in conseguenza della progressiva internazionalizzazione del processo di sperimentazione, non è sempre semplice far rientrare in uno schema un processo lungo e articolato come quello della ricerca clinica su un nuovo farmaco. A tal proposito un esempio evidente riguarda la fase IV o post-registrativa. La maggioranza dei trials clinici ha un progetto di sviluppo multinazionale e questo determina di frequente una 7 situazione paradossale per cui un prodotto viene autorizzato o è già in commercio in uno o più Paesi, mentre in altri si trova ancora in fase di sperimentazione pre-registrativa (fasi I, II o III)7 . Le diverse fasi di ricerca definiscono in via di massima in modo generale l’andamento temporale dello sviluppo di un nuovo farmaco; infatti, spesso accade che in fasi avanzate si eseguano studi, che per caratteristiche, contenuti e obbiettivi, sono tipici di fasi anteriori. Per citare uno dei casi più comuni, un prodotto può trovarsi già in fase III, mentre ancora devono essere condotte alcune analisi proprie della fase I, per definire, ad esempio, il comportamento farmacocinetico in categorie particolari di pazienti o stabilire le caratteristiche di biodisponibilità di una nuova formulazione. Pertanto bisogna osservare tale suddivisione senza eccessiva rigidità e considerare che essa, introdotta negli USA dalla Food and Drug Administration al fine di stabilire punti di riferimento comuni con le case farmaceutiche, si è dimostrata schema molto usato e valido, perché da un lato facilita la comprensione dello stadio di sviluppo di un farmaco e dall’altro per l’industria rappresenta efficiente strumento di pianificazione e di valutazione della tempistica di allocazione delle risorse7 . La fase I, della durata complessiva di circa 1-2 anni, rappresenta l'inizio della sperimentazione clinica, e non mira a una connotazione terapeutica, ma solo conoscitiva. Viene definita fase di farmacologia clinica e si pone l’obiettivo di acquisire una serie di conoscenze che, oltre a caratterizzare il farmaco, consentono anche di stabilire analogie 8 e differenze con i dati rilevati negli studi preclinici sull’animale, fornendo importanti elementi di predittività sull’attività terapeutica e sulla posologia da impiegare nell’uomo. Il farmaco è generalmente somministrato a un campione di 100-200 volontari sani non anziani; per alcune classi di farmaci si rende invece necessario sin dall’inizio l’impiego di soggetti affetti da malattia (un esempio tipico sono gli antineoplastici testati direttamente in pazienti affetti da eteroplasia). La fase I ha lo scopo primario di stabilire il profilo di tollerabilità del farmaco. Attraverso la somministrazione di una dose iniziale sicura, piccola ma comunque non troppo lontana dall’intervallo terapeutico ipotizzato, e via via di dosi superiori a scalare, si cerca d’identificare la dose più alta in grado di non provocare nei soggetti trattati reazioni avverse significative, ovvero la Massima Dose Tollerata (MTD). Non sempre è però possibile raggiungere tale obiettivo perché a volte gli effetti indesiderati possono essere insopportabili o addirittura rischiosi per i volontari. In ogni caso a partire dai dati preliminari relativi alle concentrazioni plasmatiche ricavati durante gli studi di tollerabilità, sempre durante la fase I, vengono impostati gli studi per definire il profilo farmacocinetico del farmaco. Infine si procede alla valutazione farmacodinamica del farmaco. Nonostante lo studio venga effettuato su soggetti sani, è infatti possibile analizzare effetti farmacologici specifici provocati dalla sostanza in esame ai quali è attribuibile l’effetto terapeutico; è possibile in questo modo prevedere l’attività del farmaco, il range approssimato delle dosi attive e il rapporto di potenza in 9 relazione allo standard di riferimento della medesima classe terapeutica1,3,5,7. Una volta acquisite le informazioni degli studi di fase I, si procede agli studi di fase II, suddivisi in II A e II B, in cui la sostanza viene per la prima volta testata in volontari affetti dalla patologia per cui il farmaco viene proposto. Nella fase II A, anche definita terapeutico-esplorativa, sono effettuati i primi studi terapeutici orientativi non comparativi, in aperto su un campione di 200- 400 pazienti. Sono mirati a una conferma dell’efficacia terapeutica della molecola con identificazione dell’ambito di dosi efficaci e consentono di stimare, anche se ancora in modo approssimativo, l’entità dell’effetto. Sempre a questo livello del processo di ricerca, se già non impostate in fase I, prendono avvio le analisi volte a chiarire le caratteristiche farmacocinetiche anche relativamente alle popolazioni speciali, ovvero anziani, pazienti con insufficienza renale od epatica, nelle quali il processo farmacocinetico potrebbe essere alterato. I dati emersi dalla fase II A sono alla base degli studi di fase II B, i primi studi controllati ovvero comparativi versus placebo e/o una molecola sicuramente attiva. A questo livello del trial il campione in esame si amplia fino a 400-600 pazienti al fine di avere indicazioni più precise, in condizioni sperimentali corrette, delle dosi terapeutiche e della posologia ottimale di tollerabilità del prodotto1,3,5,7. Superata anche la fase II, la sperimentazione continua con la fase III. Gli studi della fase III, anche definita terapeutico- confirmatoria, sono per la maggior parte di tipo randomizzato in doppio cieco e il 10 farmaco sperimentale è valutato in confronto alla terapia standard di riferimento per la patologia in esame. Rispetto alla fase precedente si nota un cambiamento significativo non della qualità degli studi, ma della quantità dei soggetti coinvolti. Il campione considerato diventa dell’ordine di varie migliaia di pazienti, in genere 2000-4000, al fine di definire in maniera approfondita e conclusiva non solo l’efficacia e la tollerabilità ma anche le principali interazioni farmacodinamiche e farmacocinetiche, le indicazioni e le controindicazioni del futuro farmaco in condizioni quanto più possibile vicine a quelle di un impiego su larga scala. I risultati degli studi di fase III consentono in ultima analisi la definizione del profilo clinico complessivo del prodotto, che rappresenta la conditio sine qua non per il completamento del dossier registrativo del farmaco da depositare presso le autorità regolatorie preposte in allegato alla domanda per l’ottenimento dell’Autorizzazione all’immissione in commercio (AIC). Entrando nel merito, parleremo di studi di fase III A, per quelli che precedono la presentazione alle Autorità Sanitarie della documentazione necessaria per l’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC), e di studi di fase III B per quelli eseguiti tra la presentazione della documentazione e l’ottenimento dell’ AIC1,7. I dossier dei candidati farmaci vengono valutati dalla Food and Drug Administration negli Stati Uniti e dalla European Medicines Agency (EMA/EMEA) nell’Unione Europea. L'Agenzia europea per i medicinali istituita dal regolamento (CE) n. 726/2004 del Parlamento europeo e del 11 Consiglio, del 31 marzo 2004, svolge la funzione di istituire procedure comunitarie per l'autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario. In Italia però l’autorizzazione all’immissione al commercio deve necessariamente passare anche attraverso il parere favorevole dell’autorità regolatoria nazionale, rappresentata dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). Nello specifico, secondo quanto stabilito dell’art. 8 D.Lgs 219/2006, il richiedente deve presentare all’ Agenzia Italiana Farmaco (AIFA) una domanda corredata di “allegato tecnico” che contiene numerose informazioni. Tra le più importanti citiamo: la denominazione del medicinale; la composizione qualitativa e quantitativa del medicinale riferita a tutti i componenti riportati; la valutazione dei rischi che il medicinale può comportare per l'ambiente e le misure specifiche per limitarli; la descrizione del metodo di fabbricazione; le indicazioni terapeutiche; le controindicazioni e le reazioni avverse; la posologia; la forma farmaceutica; la via di somministrazione; i risultati delle prove farmaceutiche (chimico-fisiche, biologiche o microbiologiche), delle prove precliniche (tossicologiche e farmacologiche) e della sperimentazione clinica con descrizione dettagliata del sistema di farmacovigilanza e, eventualmente, del sistema di gestione dei rischi che sarà realizzato dal richiedente7 . Per l’ottenimento da parte della sostanza sperimentata dell’autorizzazione all’immissione in commercio, corredata della specifica indicazione terapeutica, sono trascorsi in genere 12 anni dal momento della prima sintesi di quella stessa molecola in laboratorio ed 12 il lungo processo di analisi sperimentale a carico del farmaco non si è ancora concluso. Benché infatti la fase III porti alla raccolta di casistiche numerose e certamente sufficienti alla rilevazione dei più frequenti eventi avversi correlati all’attività farmacologica del prodotto (effetti tipo A), questo numero non è sufficiente ad evidenziare eventi a bassa frequenza. Inoltre la popolazione di pazienti trattati nei trials preregistrativi è composta da soggetti molto selezionati e seguiti in ambienti specialistici; in tali situazioni si possono perciò verificare eventi avversi anche gravi, ma rari e non legati strettamente all’attività farmacologica della molecola bensì dipendenti da condizioni di reattività individuale (effetti tipo B). Risulta quindi chiara l’assoluta necessità di studi di fase IV o post-registrativi che possono arrivare a coinvolgere anche decine di migliaia di soggetti e durare molti anni al fine di caratterizzare in maniera, questa volta davvero definitiva, la validità del nuovo medicinale sul piano terapeutico. Essi possono avere i requisiti di studi controllati contro farmaci in commercio alle dosi e nelle indicazioni approvate e quindi essere del tutto identici per finalità e metodologia a quelli di fase III. Nell’ambito degli studi di fase IV possono rientrare però anche studi controllati e non, in nuove indicazioni o con posologie diverse da quelli autorizzati e studi di tipo osservazionale finalizzati a raccogliere più approfondita evidenza sulla tollerabilità del farmaco (studi di farmacovigilanza)1,3,5,7. 13 La conduzione di ogni trial clinico si configura in una duplice complessità che da una parte impone di portare avanti uno studio quanto più scientificamente rigoroso, dall’altra richiede una notevole capacità di gestione del coinvolgimento diretto di soggetti umani che scelgono volontariamente di prendere parte ad una sperimentazione. La riflessione sull’etica della ricerca scientifica da sempre pone al centro del dibattito il conflitto tra il rapido avanzamento del progresso scientifico e la tutela dei singoli individui. Il documento eticodeontologico di riferimento per la ricerca biomedica è costituito dalla Dichiarazione di Helsinki, promulgata nel 1964 dalla World Medical Association e periodicamente aggiornata fino all’ultima revisione di Seul nel 2008. Essa trae origine dalla consapevolezza, tragicamente emersa durante il processo di Norimberga contro i medici nazisti, che in qualsiasi studio clinico può esistere una contrapposizione tra etica del beneficio collettivo ed etica del beneficio individuale. Ogni sperimentazione clinica deve raggiungere un equilibrio tra etica individuale e collettiva, in modo da rispettare i diritti del singolo paziente nel conseguimento e nella salvaguardia della validità scientifica che la ricerca si propone di portare avanti. In tal senso la dichiarazione di Helsinki si rivolge direttamente ai medici coinvolti nelle sperimentazioni stabilendo due principi fondamentali, successivamente ribaditi nella Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, formulata dal Consiglio d’Europa ad Oviedo nel 1997. Da un lato si sottolinea che “ il progresso della medicina si fonda sulla ricerca, che in 14 ultima analisi deve basarsi parzialmente sulla sperimentazione su soggetti umani“, dall’altro si afferma chiaramente che “nella ricerca clinica su esseri umani, l’interesse e il benessere del singolo soggetto debbono prevalere sugli interessi della scienza e della società”. Il medico sperimentatore deve quindi assicurarsi che ogni singolo soggetto, volontariamente arruolato nel trial clinico, non patisca alcuna sofferenza; qualora i rischi in tal senso si dimostrino superiori ai potenziali benefici, lo studio deve necessariamente essere interrotto. I principi generali sanciti dalla Dichiarazione di Helsinki hanno rappresentato il cardine concettuale per la realizzazione, nell’ambito della ricerca biomedica, di linee guida di condotta operativa scientifica ed etica, ovvero delle Good Clinical Practice (GCP) o Norme di Buona Pratica Clinica. La Buona Pratica Clinica è “uno standard internazionale di etica e di qualità scientifica per progettare, condurre, registrare e relazionare gli studi clinici che coinvolgano esseri umani”. Questi standard, che i governi dei singoli paesi possono implementare nelle legislazioni locali riguardanti gli studi clinici sullo uomo, sono stati definiti dalla ‘Conferenza internazionale per l'armonizzare dei requisiti tecnici per la registrazione dei farmaci ad uso umano’ (ICH), organismo in cui collaborano le autorità regolatorie e le industrie farmaceutiche di Europa, Stati Uniti d’America e Giappone per discutere aspetti scientifici e tecnici della registrazione dei prodotti farmaceutici. In analogia alle norme di Buona Pratica di Laboratorio e di Buona Pratica di Fabbricazione, le ICH-GCP mirano a stabilire delle procedure per 15 l’organizzazione, esecuzione e documentazione degli studi clinici con farmaco e per la loro verifica, fissando anche le responsabilità delle parti coinvolte, al fine di raggiungere l’attendibilità, in termini di qualità e integrità, dei risultati e la protezione dei soggetti coinvolti, nel rispetto del principio di confidenzialità delle informazioni mediche raccolte su di essi. Esse rappresentano inoltre una normativa comune atta a facilitare la mutua accettazione dei dati clinici da parte delle autorità regolatorie delle aree geografiche dove ha luogo la maggior parte delle sperimentazioni cliniche con farmaco (Unione Europea, Stati Uniti d’America e Giappone )1,7. In Italia le GCP sono state per la prima volta recepite dalla legislazione nazionale con il Decreto Ministeriale del 15 luglio 1997 (Recepimento delle linee guida dell'Unione europea di buona pratica clinica per l’esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali), mentre altre direttive comunitarie in materia sono state recepite con i Dlgs 211/2003 (Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all'applicazione della buona pratica clinica nell'esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico) e 200/2007 (Attuazione della direttiva 2005/28/CE recante principi e linee guida dettagliate per la buona pratica clinica relativa ai medicinali in fase di sperimentazione a uso umano, nonché requisiti per l'autorizzazione alla fabbricazione o importazione di tali medicinali). Il decreto 21 Dicembre 2007 è stato lievemente modificato con la Determinazione AIFA 7 Marzo 2011 (Modifica delle appendici 5 e 6 al decreto del Ministro della 16 salute 21 Dicembre 2007 concernente i modelli e le documentazioni necessarie per inoltrare la richiesta di autorizzazione, all’Autorità Competente, per la comunicazione di emendamenti sostanziali e la dichiarazione di conclusione della sperimentazione clinica e per la richiesta di parere al Comitato Etico). Come già accennato, le GCP entrano nel merito delle modalità di esecuzione degli studi clinici definendo il ruolo e le responsabilità di tutti i numerosi attori coinvolti nella sperimentazione clinica. Gli studi sull’uomo richiedono l’approvazione di un protocollo che viene sottoposto all’organo governativo di competenza, al quale devono essere forniti tutti i dati preclinici raccolti nonché una dettagliata proposta degli studi clinici da intraprendere. Il percorso della sperimentazione clinica inizia con protocollo sperimentale accurato che deve contenere le seguenti voci: informazioni generali, giustificazione e finalità, considerazioni etiche, disegno generale dello studio, selezione dei soggetti, trattamenti, valutazione dell’efficacia e della tollerabilità, eventi avversi, valutazione finale, statistica e bibliografia. Le GCP prevedono l’istituzione di organismi indipendenti, i Comitati Etici, che approvino le sperimentazioni cliniche in base alla scientificità ed eticità del protocollo dello studio e monitorino le sperimentazioni approvate fino alla loro conclusione. Nella direttiva 2001/20/CE del Parlamento Europeo, il Comitato Etico viene definito come un organismo indipendente, composto di personale sanitario e non, incaricato di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del 17 benessere dei soggetti della sperimentazione e di fornire pubblica garanzia di questa tutela, emettendo, ad esempio, pareri sul protocollo di sperimentazione, sull’idoneità dello o degli sperimentatori, sulle strutture e sui metodi e documenti da impiegare per informare i soggetti della sperimentazione prima di ottenere il consenso informato. Una sperimentazione clinica prende avvio solo se il Comitato Etico, competente per il centro clinico in cui la sperimentazione avrà luogo, avrà espresso, in accordo con le Autorità Competenti, un parere favorevole. In accordo alla normativa nazionale vigente, in caso di sperimentazioni multicentriche, un centro clinico sul territorio nazionale è individuato come centro coordinatore e tutti gli altri saranno definiti centri satelliti. In caso di Parere Unico non favorevole emesso dal Comitato etico, il promotore, qualora voglia reiterare il tentativo di approvazione, può modificare gli elementi della sperimentazione sui quali si basa il parere negativo del Comitato Etico per poi ripresentare allo stesso, e non ad altri, i documenti della sperimentazione rivisitati e modificati. Il Comitato Etico esamina il protocollo della sperimentazione sotto il profilo del razionale scientifico e della fattibilità del progetto, esprimendo un giudizio di carattere tecnico-scientifico. Peraltro ci preme qui sottolineare come il fatto che questo organo presenti al suo interno competenze disciplinari diversificate, che abbracciano non solo la medicina, la farmacologia, la farmacia ma anche la psicologia, la giurisprudenza, la filosofia, la teologia, determini un pluralismo culturale che si fa esso stesso garante di un approccio corretto alla valutazione 18 del protocollo. Le GCP affidano allo Sperimentatore, ovvero alla persona responsabile della conduzione dello studio clinico presso un centro di sperimentazione, il compito chiave di gestire tutti gli aspetti dello studio concernenti il trattamento dei pazienti. In tal senso allo Sperimentatore spetta innanzitutto il compito di sottoporre al paziente il modulo del consenso informato. In esso lo Sperimentatore chiede al soggetto di prendere parte allo studio accettando, in un documento datato e firmato, di condividere il nobile fine della ricerca di una cura migliore per coloro che non dispongono di una terapia adeguata, identificandosi con gli obiettivi umanitari perseguiti e compiendo un gesto di solidarietà. Il paziente ha peraltro il diritto di ritirarsi in qualsiasi momento dal progetto di ricerca, senza dare spiegazioni; in circostanze del genere lo Sperimentatore deve compiere ogni ragionevole sforzo per accertare i motivi che hanno indotto il soggetto a lasciare lo studio. Lo Sperimentatore deve inoltre assicurare assistenza medica ai pazienti durante e dopo lo studio in caso di eventi avversi o di modificazione dei valori di laboratorio7 . Una volta ottenuto il consenso informato, lo Sperimentatore gestisce la conservazione e l’impiego del prodotto in stretta osservanza del protocollo terapeutico con obbligo alla segnalazione di eventi e reazioni avverse. Sulla Scheda di Raccolta Dati (Case Report Form, CRF) devono essere riportati tutti i dati relativi al trial; i dati ed i documenti relativi devono essere archiviati in un luogo sicuro in modo 19 da essere rintracciabili in caso di audits o ispezioni anche dopo la conclusione della ricerca. Lo Sperimentatore si trova inoltre in una stretta relazione con il Comitato Etico da una parte e lo Sponsor dall’altra. Come già accennato, al Comitato Etico deve sottoporre la documentazione per l’autorizzazione allo studio e deve via via rispondere dello stato di avanzamento della ricerca, condividendo con esso tutte le nuove informazioni che potrebbero modificare il rapporto rischio- beneficio del farmaco. Allo Sponsor deve dimostrare di disporre delle competenze, delle strutture e delle risorse necessarie allo studio e deve dare conto, nel corso della ricerca, dell’esecuzione di tutte le procedure previste nei tempi e nei modi predefiniti (ad esempio osservanza di randomizzazione e cecità se previste dal protocollo)7 . Lo Sponsor è un individuo, una società, una istituzione, oppure un’organizzazione che, sotto la propria responsabilità, dà inizio, gestisce e/o finanzia uno studio clinico. Allo Sponsor, in genere rappresentato dall’azienda produttrice del farmaco, spettano obblighi e responsabilità specifiche che possono essere in parte demandati ad una Organizzazione di Ricerca a Contratto (CRO); lo Sponsor rimane comunque sempre il responsabile finale della qualità ed integrità dei dati. Lo Sponsor pianifica uno studio clinico e sceglie direttamente gli sperimentatori con le qualifiche professionali, l’esperienza e le risorse adeguate alla conduzione dello studio. Ad esso spetta fornire lo Sperimentatore di tutte le informazioni precliniche e cliniche disponibili sul prodotto in studio riassunte nella Investigator Brochure; esso si deve 20 anche assicurare che tutti i prodotti in studio siano preparati e conservati secondo le GMP. Sponsor e Sperimentatore lavorano quindi insieme all’elaborazione di un protocollo terapeutico da sottoporre, con una richiesta di autorizzazione alla sperimentazione, all’attenzione delle Autorità Competenti, ovvero: al direttore generale o al responsabile legale delle strutture sanitarie pubbliche, o delle strutture equiparate a quelle pubbliche, ove si svolga la sperimentazione; all’ AIFA nel caso in cui la sperimentazione sia su farmaci per la terapia genica, cellulare somatica, cellulare xeno genica e per tutti i medicinali contenenti organismi geneticamente modificati; all'Istituto Superiore di Sanità (ISS) nei casi di farmaci di nuova istituzione. Allo Sponsor è affidata la nomina del responsabile delle attività di monitoraggio il quale, dopo ogni visita, produce un rapporto scritto da sottoporre allo Sponsor7 . Il Monitor deve possedere qualifiche ed esperienza documentate che lo mettano in condizione di seguire con cognizione di causa lo studio, sia sotto il profilo scientifico, sia sotto quello procedurale. In conformità alle Procedure Operative Standard (SOP) verifica la qualità dei dati in termini di completezza, confrontando quelli sulla CRF rispetto a quelli sulle cartelle cliniche, il rispetto del protocollo e della salvaguardia etica dei pazienti (consenso informato, confidenzialità), la corretta gestione e la contabilità del materiale sperimentale. Esso ha anche l’importante funzione di assistere lo Sperimentatore in ogni attività della ricerca, coadiuvandolo soprattutto nell’adempimento degli aspetti formali e nell’elaborazione del rapporto finale dello studio. In tal 21 senso il Monitor si configura come la figura chiave di mediazione tra Sponsor e Sperimentatore7 . Tirando le fila di questa lunga introduzione, lo sviluppo di un farmaco, dal momento in cui viene elaborata la molecola candidata fino a quello dell’immissione di quest’ultima in commercio, è un procedimento lungo e ricco di insidie che richiede un notevole investimento in termini economici ed umani. Il fine ultimo di ogni sperimentazione scientifica, e a maggior ragione di una sperimentazione con farmaco, è quello di avere una ripercussione sulla salute delle persone e, affinché ciò avvenga, è necessario che i risultati delle sperimentazioni siano prodotti nella maniera più esaustiva e trasparente possibile.