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Etnografie urbane

di Giovanni Semi

Richard Lloyd, Neo-Bohemia. Art and Commerce in the Postindustrial City, New
York and London, Routledge, 2006.
Sudhir Alladi Venkatesh, Off the Books. The Underground Economy of the
Urban Poor, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2006.

Nel maggio del 2002, l’«American Journal of Sociology» ha dato spazio a


una rassegna critica di tre lavori sul campo, divenuta oramai celebre. L’autore
di questo esercizio critico è Loïc Wacquant, dell’Università della California a
Berkeley, dove due anni prima aveva fondato assieme ad altri1 la rivista «Eth-
nography». Il titolo della rassegna era Scrutinizing the Street: Poverty, Morality,
and the Pitfalls of Urban Ethnography e il suo intento era quello di discutere
criticamente i lavori di Elijah Anderson (Code of the Street: Decency, Violence,
and the Moral Life of the Inner City), Mitchell Duneier (Sidewalk) e Katherine
Newman (No Shame in My Game: The Working Poor in the Inner City), tutti
e tre usciti nel 19992.
Nello spazio di una sessantina di pagine, Wacquant sviluppa il suo argo-
mento che può essere così riassunto: nel corso degli anni Novanta il panorama
editoriale etnografico americano si è espanso in maniera significativa, segnalando
una sorta di «ritorno» degli etnografi sulle questioni della marginalità urbana.
Questioni che sono state prese in considerazione nel mondo americano in
maniera diversa a seconda dei periodi storici, come la segregazione razziale,
la devianza o la povertà, vengono ora analizzate sotto la prospettiva della re-
sponsabilità individuale e delle capacità dei singoli di «farcela» nonostante le
condizioni sociali, ecologiche e politiche circostanti. In particolare, Wacquant
nota una tensione verso la sottolineatura della natura «morale» delle pratiche
e soggettività dei «poveri urbani», questo indipendentemente dai mondi e
dalle attività più o meno lecite in cui sono coinvolti. A parere di questo

1
Tra i fondatori figurano nomi di prim’ordine della sociologia ed antropologia
critica, come Michael Burawoy, Nancy Scheper-Hughes e Paul Willis.
2
Il lavoro di Anderson può però considerarsi una sorta di versione semplificata e
per il grande pubblico della sua monografia pubblicata nel 1990, StreetWise.

RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. L, n. 1, gennaio-marzo 2009


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autore dunque si assiste a una sorta di «orientalismo urbano» che trasforma


«i poveri, e più precisamente il sottoproletariato nero della città, in ideali di
moralità poiché rimangono confinati all’interno di una problematica prefabbricata
fatta di stereotipi pubblici e di strategie esperte, secondo cui è solo in questa
maniera che questo sottoproletariato è ritenuto accettabile» (2002, 1469-1470).
Wacquant procede ad una disamina aspra e dai toni spesso violenti dei tre
lavori, sottolineando di volta in volta le strategie narrative adoperate per «ren-
dere accettabili» i protagonisti al centro dei tre lavori, soprattutto nei casi in
cui il materiale empirico presentato sembra indicare direzioni interpretative
diverse quando non opposte. Alla fine della sua rassegna, si trovano poi le
circostanziate risposte dei tre autori, a completare la pubblicazione di una
controversia molto dura3.
Questa polemica è interessante perché mette in luce alcune tensioni in atto
nella sociologia qualititativa nordamericana, sia relative al campo accademico
statunitense e quindi non necessariamente stimolanti, che relative alle strade che
l’etnografia urbana ha imboccato nei tempi recenti, questo viceversa di interesse
sia per gli studiosi di etnografia che più in generale per coloro che leggono
volentieri di ricerche empiriche condotte in ambienti e su ambienti urbani.
Per illustrare questo secondo aspetto tratterò di due lavori recenti, Off
the Books. The Underground Economy of the Urban Poor ad opera di Sudhir
A. Venkatesh, e Neo-Bohemia. Art and Commerce in the Postindustrial City di
Richard Lloyd. Entrambi su Chicago, illustrano in modo piuttosto rilevante un
doppio binario che è osservabile oggi nell’etnografia urbana americana.
Si tratta, nel primo caso, della gloriosa tradizione sui ghetti neri che a
partire dal lavoro seminale di Du Bois sul Philadelphia Negro di fine Ottocen-
to (1996) ha poi visto in Drake e Cayton e nel loro Black Metropolis (1962)
fino al lavoro di Anderson criticato da Wacquant numerosi studi che hanno
incrociato l’interesse per la strutturazione di aree urbane radicalmente segregate
con la formazione di comunità più o meno strutturate, una galassia di studi
che non ha pari per durata, rilevanza e rigore.
È certamente vero che la persistenza di ghetti nelle città nord-americane
costituisce un nervo costantemente scoperto nella politica e nella società statuni-
tense, che dunque fornisce un serbatoio apparentemente inesauribile di «problemi
sociali», dei relativi codificatori, analisti, esegeti, critici, esperti, esponenti, ecc..
Lo sguardo di Venkatesh è dunque uno dei tanti che si è posato, e continua
a posarsi, sul mondo della marginalità urbana estrema. La proposta che fa al
proprio lettore è quella di una sintesi fra diversi sguardi tipici nella sociologia
americana nella misura in cui incrocia almeno tre letterature specialistiche: quella
sulle gang, quella sui ghetti e quella sull’economia informale. Il risultato è perciò
un brillante affresco di un’area del gigantesco Southside di Chicago, che l’autore
chiama Maquis Park, e sul quale aveva già pubblicato un contributo fortunato

3
Alcuni strascichi si possono ritrovare nella review che, questa volta, ha subito
Wacquant nella rivista «Symbolic Interaction» per quanto riguarda la propria etnografia
(2005, vol. 28, n. 3, pp. 429-447).
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in precedenza (2002). Mentre nel lavoro precedente si era concentrato su un


progetto di edilizia popolare, in questo ha deciso di consacrare i propri sforzi
ad illustrare i legami tra le parti che tengono assieme un ghetto. L’economia
informale è il cemento: «detto semplicemente, è praticamente impossibile per
gli abitanti di Maquis Park evitare l’attività economica sommersa: si tratta di
un’insidia costantemente presente nelle strade, nei parchi e negli altri luoghi
pubblici; e per le famiglie povere e che lavorano, una tentazione costante,
data l’angustia di vivere in contiguità con la linea di povertà» (Venkatesh
2006, 378). E così il libro si apre con la narrazione di una riunione di un
comitato di quartiere all’indomani dell’omicidio, in seguito a una sparatoria,
del capo della gang che governava l’area. E attraverso le voci che si accaval-
lano nella chiesa locale scopriamo che tanti individui molto diversi tra loro,
dal prete al meccanico di un’autofficina, passando da una parrucchiera o da
una madre impegnata nel sociale, tutti, in un modo o in un altro, sono legati
alla gang, che fornisce sussidi, protezione, lavoro, imponendosi come l’attore
centrale, quasi monopolistico, tanto nella fornitura che nella domanda di servizi.
La storia della gang dei Black Kings e del loro leader, Big Cat, si intreccia
così a quella dei piccoli commercianti locali, che vivono il pendolo costante tra
fallimento e successo tipico della loro professione al livello del ghetto, dove
fallire significa finire sulla strada e avere successo tutt’al più una possibilità di
fuga verso altri quartieri, come già analizzato da William J. Wilson nel celebre
The Truly Disadvantaged (1987). L’aspetto interessante e problematico del libro
di Venkatesh è la scrittura adottata. In un certo senso infatti l’A. prende sul
serio il canone narrativo presente in molta etnografia urbana e dipana il proprio
resoconto con modalità accattivanti, facendo entrare il lettore, per qualche ora
almeno, tra le strade di Maquis Park e presentandogli da vicino i personaggi
centrali. La riflessione sociologica emerge molto finemente dal rapporto con il
campo e questo può certamente avvicinare lettori non specialistici. Al contem-
po, però, il lavoro che ha fatto Venkatesh si inscrive, come già detto, in un
solco assolutamente mainstream della riflessione sociologica americana, con dei
canoni di riferimento, delle tesi e dei dibattiti che hanno almeno un secolo
di elaborazione e che vengono un po’ stancamente richiamati nelle note di
chiusura del volume, quasi fosse una fra le retoriche possibili, quella di rendere
conto della propria posizione all’interno di un dibattito scientifico. Insomma,
il lettore specialista sarà, come sempre d’altro canto, lievemente infastidito,
mentre il neofita potrebbe risultare rapito, e di conseguenza mi sembra che i
pro siano decisamente superiori ai contro.
Per chi volesse invece una scrittura sociologica più classica, dove l’impa-
sto tra resoconto di campo e dibattito è più esplicito e denso, si rivolga al
secondo testo qui presentato.
Il libro di Lloyd, riprende un filone anch’esso classico, quello della tra-
sformazione urbana dei quartieri, in relazione al movimento più generale della
città, come illustrato empiricamente da Zorbaugh negli anni Venti (1983), via
via sedimentato nei neighborhood studies e vivacizzato negli ultimi trent’anni
dagli studi sulla gentrification.
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Dal sud di Chicago ci spostiamo con Lloyd verso il nord-ovest, nel quartiere
à la page di Wicker Park. Notiamo subito una differenza: mentre nel testo
di Venkatesh i nomi di persone e luoghi sono stati alterati, come è prassi in
etnografia, non è la scelta effettuata da Lloyd e questo, molto probabilmente,
per riprodurre la logica quantomeno discutibile che gli underdogs vadano pro-
tetti garantendo loro anonimato, nonostante si dica che vengono indagati per
dare loro «voce», mentre ai soggetti meno vulnerabili, se non addirittura forti,
viene garantita pubblica esposizione, quindi pubblicità e cioè «voce»4. Wicker
Park perciò è un quartiere che esiste in quanto tale, e il libro di Lloyd può
esserne considerato una formidabile guida ad uso e consumo di un pubblico
sociologico. Chi fosse sprovvisto infatti del lessico sulla political economy urbana,
dei dibattiti sul cosmopolitismo, sulla gentrification o sulla costruzione sociale
dell’autenticità artistica nella società post-industriale avrebbe difficoltà ad aggirarsi
per Damen Street o per Division con in mano questo volume. Lo specialista
invece lo apprezza e molto. La tensione tra dibattito sociologico e costruzione
dell’oggetto di ricerca è illustrata con maestria attraverso le descrizioni dei
buttafuori di colore nei locali alla moda che in realtà sono poeti, scrittori e
agitatori culturali a livello locale. Si tratta in fondo della stessa area dove aveva
vissuto e da cui aveva tratto ispirazione Nelson Algren, l’autore del fortunato
L’uomo dal braccio d’oro, la cui memoria e passaggio per il quartiere verranno
utilizzati proprio per produrre investimento simbolico ed economico durante la
riqualificazione di Wicker Park. E così l’estetica della polvere, sia essa quella
dei palazzi in parte ancora fatiscenti o quella dell’eroina, viene illustrata nella
sua capacità di produrre quell’alone di fascino urbano necessario ad aumentare
il valore immobiliare di un’area e ad attirare giovani classi medie di professio-
nisti ed artisti. La scrittura ironica, in perfetta sintonia con l’oggetto di studio,
illustra dunque alcuni paradossi come quello per cui, rovesciando il celebre
titolo del libro di Paul Willis (1977), i «middle-class kids get working-class
jobs», dove si illustra con precisione il mondo dei lavori sotto-pagati nell’eco-
nomia di servizio del quartiere, fatta di camerieri, buttafuori e lavapiatti. La
trasformazione dell’offerta culinaria e la conseguente espansione di cibo etnico
«chic», come il sushi, la presenza di locali musicali di tendenza, di librerie
specialistiche, negozi di stilista che mescolano arredamento di design e abiti

4
Secondo Hammersley questa tendenza, relativamente alla sovraesposizione di soggetti
indagati appartenenti alle classi popolari, ha a che fare con un’inversione della «gerarchia
di credibilità» degli attori sociali da parte degli studi etnografici (2008, 22-28). Citando
infatti Howard Becker, Hammersley vede nel dare ascolto e voce ai meno privilegiati
un implicito, quando non addirittura esplicito, riconoscimento di maggiore credibilità,
esattamente il contrario di ciò che accade con il senso comune collettivo che fa pensare
viceversa più credibile chi possiede maggiori dotazioni di risorse simboliche, credenziali
educative, ecc. Il paradosso ulteriore che mi preme sottolineare, è che, ammesso e non
concesso che questa inversione sia giustificabile, nei fatti viene ulteriormente alterata dal
fatto che al «più credibile» attore sociale sfavorito viene negata la propria vera identità
nel resoconto finale per proteggerne la privacy. Si da quindi voce ma si toglie il volto
insomma. Ai «meno credibili» favoriti quando sono studiati, invece, voce e volto vengono
garantiti. Ringrazio Mario Cardano per il suggerimento bibliografico.
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eccentrici, tutto questo mix è presentato come parte della trasformazione più
ampia in corso a Chicago negli ultimi trent’anni, e la conseguente riscoperta
di aree popolari economiche sulle quali investire, e anche come espressione più
generale della diffusione di valori post-materialisti e dell’economia a supporto
di questi nuovi gusti nelle città americane ed occidentali. Da questo punto di
vista, dunque, il libro di Lloyd riesce nel difficile compito di coniugare una
scala micro con dei fenomeni macro, una rappresentazione locale efficace con
dei movimenti di più ampia portata e di rimanere brillante nella scrittura anche
quando affronta questioni più specialistiche.
Ad unire i due volumi qui presentati, oltre alla città di Chicago e ai
ringraziamenti tributati allo stesso barista, c’è quella che Gary Fine ha iden-
tificato come la tendenza «descrittiva» molto presente nell’etnografia urbana,
opposta alla «peopled ethnography» dove è il gruppo, specialmente il piccolo
gruppo, che viene interpretato nel suo evolvere e strutturarsi (Fine, in questo
volume). Sia nel lavoro di Venkatesh che in quello di Lloyd i soggetti cam-
biano di frequente e i processi, siano essi spaziali o sociali, emergono con
più forza. Certo, le biografie degli imbroglioni, dei truffatori o delle prostitute
raccontate da Venkatesh rendono atto della loro caratura personale, soggettiva,
della cifra biografica insomma. Così, le narrazioni dei giovani artisti frustrati,
di musicisti sulla cresta dell’onda e di intermediari culturali di quartiere hanno
uno spessore biografico significativo, ma quello che conta è mostrare come una
città muta al mutare di investimenti economici e simbolici nello spazio. Poco
spazio in entrambi i casi alla riflessione metodologica, sia sulla storia naturale
della ricerca che sulla poetica etnografica adottata, a testimonianza, come
rileva anche Bruni (in questo volume), sia di una certa maturità del campo
etnografico che di un disinteresse per un tema che è stato sicuramente molto
ingombrante in passato.
Di certo questi due libri continuano a cavalcare due topos della sociologia
urbana americana, quello dei ghetti segregati e dei villaggi urbani, con un
occhio molto preciso a indicare il perdurante isolamento dei primi da parte
di Venkatesh e l’estrema plasticità dei secondi da parte di Lloyd. Le sirene
dell’orientalismo urbano, oggetto delle critiche di Wacquant cui si faceva rife-
rimento nelle prime righe, rimangono inascoltate in due maniere diverse dai
due testi qui presi in esame. In Off The Books, senza esaltare necessariamente
la decency del sottoproletariato nero intrappolato nel ghetto ma anzi contrap-
ponendo i giochi di generazione che spiegano bene come la dignità dei più
anziani sia l’esito di un processo di selezione che parte anche dai comportamenti
predatori dei più giovani. Con Neo-Bohemia è la stretta connessione ai dibattiti
più recenti che consente all’autore di non cadere nella fallacia di esaltare il
caso singolo in quanto unico, ma anzi di mostrare come i casi di quartieri
soggetti a dinamiche simili siano numerosi non solo nella storia urbana di Chi-
cago ma più in generale nello sviluppo urbano della maggior parte delle città
occidentali. Mantenendo in piedi due tradizioni statunitensi differenti, questi
autori offrono dunque numerosi spunti anche all’etnografia urbana europea e
italiana in particolare, che, va sottolineato, sta già mostrando diversi segni di
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risveglio (Cancellieri 2007; Fava 2007; Scandurra 2007).

Riferimenti bibliografici

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Fava, F.
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Zorbaugh, H.W.
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