Sei sulla pagina 1di 193

RAMSEY CAMPBELL

LA SETTA
(The Nameless, 1981)

RINGRAZIAMENTI

Per l'aiuto e i consigli che mi hanno dato mentre scrivevo questo roman-
zo sono particolarmente grato a Robert Aickman, Tony Beck, Arthur Cul-
limore, Phil Edwards, Kay McCauley, Christine Ruth, Tim Shackleton,
Bob Shaw (l'appassionato di fantascienza di Glasgow più che lo scrittore
di fantascienza di Lakeland), Carol Smith e John Thompson. Sono inoltre
debitore a Barry Forshaw, a Peter e Susie Straub e a Tom e Alice Tessier
per la loro impeccabile ospitalità durante le mie escursioni a Londra e rin-
grazio m modo speciale Harlan Ellison per la sua eccezionale bravura nel
ricordare.
Non occorre dire che la nursery di Otford è di mia invenzione e che al-
l'epoca in cui scrivevo non c'era nessun bancomat della Barclaybank a
Glasgow.

A Tamsin,
che mi ha aiutato senza saperlo,
con tutto il mio amore

Questo romanzo è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi e avvenimenti


sono immaginari e qualsiasi riferimento a persone, a fatti o a luoghi real-
mente esistenti è casuale.

Prologo

1940

Il cortile era più vasto di un campo da football, ma dava l'impressione di


essere molto più piccolo. Appena entrato, le mura gli si chiusero addosso.
Il cielo estivo, le colline, erano vividi come in un poster, i gabbiani plana-
vano stridendo sopra la baia di San Francisco, ma una volta dentro era im-
possibile accorgersi di altro che di quelle mura. Forse era solo l'effetto del-
le centinaia di facce che spiavano dall'alto, delle voci urlanti simili a pro-
poste di puttane disperate, ma pareva che le mura ti si chinassero addosso,
come rese decrepite da un'incommensurabile angoscia, un'infinita amarez-
za. In certi momenti era come sentire il dolore di quelle pietre.
L'uomo alto non mostrò alcuna reazione. Mentre avanzava nel cortile
seguendo la sua lunga ombra — un'ombra smilza come le sue membra, ne-
ra come il suo abito — il suo viso affilato non esprimeva niente. Solo gli
occhi erano accesi e determinati. Raggiunse in fretta il blocco nord e vi en-
trò come se non avesse tempo da perdere. Quando arrivò alla porta verde,
però, si fermò e lanciò un'occhiata all'interno dalla finestra.
Non c'era molto da vedere: solo una stanza larga una decina di metri,
con le pareti dello stesso verde marcio della porta. A guardarla non si sa-
rebbe detto che le sole pareti, di acciaio, pesavano più di due tonnellate. Le
due sedie vuote che vi si trovavano potevano essere quelle di un dentista, o
di un barbiere; solo che chi si fosse seduto su una di quelle sedie non si sa-
rebbe mai più alzato.
Dopo un po' l'uomo riprese il suo passo veloce verso l'ascensore e vi en-
trò. I suoi occhi, ora, erano se possibile ancora più accesi, ma di nuovo
senza espressione. La guardia al piano sbloccò lo sportello dell'ascensore
per lasciarlo passare; quella che lo perquisì nella stanzetta di passaggio gli
diede un'occhiata di sfuggita. Dopo un minuto la porta della saletta si
chiudeva dietro di lui: si trovava nel Braccio della Morte.
Era molto più silenzioso che nel cortile, ma era un silenzio che pareva
chiuso a chiave lì dentro. C'era l'atmosfera di un'attesa snervante, ma di chi
finga di non attendere proprio niente. Era una sensazione che invadeva l'a-
ria come un gas, invisibile e soffocante. Occhi, deformati dalle ombre, lo
fissavano da celle più strette di una persona con le braccia aperte, e lunghe
poco più del doppio. Dietro ogni uomo, sotto una lampadina ingabbiata,
non c'era altro che una branda e un bugliolo. Forse era qualcosa di più che
l'ombra a far neri quegli occhi.
L'uomo alto ignorò tutto ciò. Arrivò direttamente da Santini, che se ne
stava nel corridoio a far tintinnare le chiavi e a digerire le polpette della se-
ra prima. Santini si stava anche chiedendo che cosa gli ricordava quel tizio
dalla faccia aguzza. Forse se gli fosse venuto in mente non si sarebbe sen-
tito più così teso. O forse era una cosa che viene naturale con quel lavoro.
Ogni volta che portavano un detenuto nel Braccio si innervosiva, aspettan-
dosi che il tizio da un momento all'altro, alla vista del posto dove avrebbe
passato il resto dei suoi giorni, potesse dare i numeri, scatenarsi. Respirava
sempre meglio quando il nuovo era rinchiuso.
« Sono il dottor Ganz », disse seccamente l'uomo alto. « Sono qui per
vedere Frank Bannon. »
Guardava Santini come si guarda un campione da laboratorio. Chiara-
mente Ganz era lì a cercare qualcosa su cui piantare grane. Psichiatri e av-
vocati: per un po' tutti qui dentro dovrebbero chiuderli; si accorgerebbero
presto come tutto è necessario. Solo che in genere non avevano mai un at-
teggiamento freddo come quello lì. Uno che passa davanti alla camera a
gas ed è freddo come quello, deve avere dentro qualche cosa che non fun-
ziona.
Dopo che Santini gli ebbe aperto la saletta degli interrogatori, poco più
grande di un gabinetto pubblico, Ganz sedette all'estremità del tavolo.
Quando ci appoggiò i gomiti e si toccò gli zigomi con le dita, Santini sentì
di essere quasi arrivato ad afferrare che cosa gli ricordava. Mentre si girava
per andare a raggiungere l'altro secondino che lo aspettava per aprire la
cella, si accorse che gli occhi di Ganz brillavano.
Bannon alzò lo sguardo con un vago sorrisetto quando aprirono la porta
della sua cella e Santini sentì un'ondata di nausea. Di tutte le bestie che te-
nevano chiuse a San Quentin, Bannon era la peggiore. Santini non riusciva
a ripensare a quello che aveva fatto alla ragazza senza che gli venisse vo-
glia di vomitare. Forse era l'aspetto di Bannon a peggiorare le cose: sempre
pulito e ordinato, un viso così uscio e intatto che non si riusciva a capire
neppure quanti anni avesse. Ora il governatore Olson aveva alzato il culo
dalla sua poltrona a Sacramento e si era messo a blaterare di riforma carce-
raria, di segrete sotterranee e palle varie — ma, perdio, se c'era uno che si
meritava di essere sbattuto lì senza nemmeno una coperta, quello era Ban-
non. Santini avrebbe dato volentieri alle guardie una mano con il manga-
nello se Bannon avesse fatto tanto di perdere il controllo. Magari l'assaggio
di un trattamento speciale riusciva a spremergliela qualche lacrima per la
ragazza.
Il secondino scortò Bannon, ciabattante, lungo il corridoio. « Grazie, Mr.
Santini », disse e Santini sentì l'impulso di tirargli un cazzotto. Quel figlio
di troia osservava le regole con un tale scrupolo che pareva ci si divertisse.
Santini sbattè la porta della stanza senza finestre e chiuse a chiave, ma
questo non attutì né la rabbia né il saporaccio delle polpette. Si stava gi-
rando quando sentì Ganz che diceva: « Buon pomeriggio ».
Era facile che uno si dimenticasse dell'ora, lì dentro, ma non fu per que-
sto che Santini si voltò. « Magari rimango qui ancora un po' nel caso che si
sbrighino alla svelta », propose.
L'altro secondino si allontanò, stringendosi nelle spalle. Era chiaro che
aveva capito che in realtà la sua intenzione era di origliare, ma a Santini
non gliene importava. Quello che lo incuriosiva non era tanto ciò che quel
figlio di troia di Bannon stava per dire di se stesso; ci teneva piuttosto a
sapere che cosa rendeva l'uomo in nero così ansioso di parlargli.
Sulle prime Ganz parve il solito bravo imbecille con le solite domande
idiote. Bannon si sentiva mai depresso? Gli davano dei libri se voleva leg-
gere? Aveva già visto la moglie da quando era lì? Gli sarebbe piaciuto ve-
derla? « Certo, mi piacerebbe vederla se lei vuol venire », rispose Bannon.
« Come definirebbe la sua vita matrimoniale? Nel complesso soddisfa-
cente? »
« Direi che facevamo una vita piuttosto bella. Lei non si lamentava, né
io avevo motivi per farlo. Guadagnavo bene come tecnico specializzato.
Vivevamo bene come tutti i nostri amici. » Santini strinse i pugni. Proba-
bilmente il matrimonio di quel bastardo era meglio del suo — chi aveva
più tanta voglia di tornare a casa, se lei doveva sempre attaccare a blaterare
come una scimmia ogni volta che lui metteva piede in casa, se ogni volta
arrivava a tavola quella pasta unta? Naturale che, con quella alimentazio-
ne, era diventata il doppio, da quando l'aveva sposata.
Si costrinse a smettere di rimuginare e udì Ganz chiedere: « Ricorda
quello che ha fatto, il motivo per cui è qui? »
« Certo che mi ricordo. Non sono pazzo, sa? Non sono pazzo, lo hanno
detto anche al processo. »
« E che effetto le fa ora quello che ha fatto? »
« Mi sento a posto. Se vuole posso parlargliene. »
La sua indifferenza faceva paura. Santini non era certo che ce l'avrebbe
fatta ad ascoltare. Un po' di violenza la capiva — uno che ogni tanto pesta
la moglie, una cosa così è comprensibile — ma quello che aveva fatto
quella belva no.
« Sì, mi farebbe piacere », rispose Ganz. « Vorrei che mi raccontasse
tutto quello che ha fatto e che ha provato. Vuole? » Il suo tono fino a quel
momento era stato di neutra professionalità, ma ora a Santini parve di co-
gliere una sfumatura di ansia. Azzardò un'occhiata dallo spioncino e si rese
conto immediatamente di che cosa gli ricordava Ganz. Con quegli occhi
brillanti, i gomiti che reggevano le braccia sottili, le lunghe mani che con-
tornavano il viso affilato senza età, era esattamente come una mantide reli-
giosa.
« Bene, da dove vuole che cominci? » chiese Bannon. « Ho visto quella
donna in strada, un giorno, e l'ho seguita. »
« Perché l'ha seguita? »
« Perché era bellissima, probabilmente. Stava andando a casa e così sco-
prii dove abitava, in un appartamento. Solo che pensai che non potevo fare
niente là dentro, perché poteva esserci qualcuno che sentiva. »
« Che aveva in mente di fare? In quel momento pensava di violentarla? »
« Ma nemmeno per idea. » Bannon sembrava offeso. « Gliel'ho detto,
avevo un buon matrimonio. Non ho mai pensato neppure di tradire mia
moglie. Sapevo solamente che dovevo trovarmi con quella donna da solo
da qualche parte dove non ci disturbassero. Più la seguivo e più mi convin-
cevo che dovevo fare così. »
« L'ha seguita per diverse settimane. Sua moglie, immagino, avrà notato
qualcosa di insolito nel suo comportamento. »
« In tribunale ha detto di no. Io le raccontavo che ero fuori per lavoro.
Non aveva nessun motivo per non credermi. »
« E così alla fine riuscì a entrare in contatto con la donna che stava se-
guendo. Me ne parli. »
« Be', a quel punto sapevo che lavorava in una fabbrica, e così una mat-
tina decisi di provare ad andare là. C'erano centinaia di persone che entra-
vano, nessuno badò a me. Nessuno mi fece domande né niente, neppure
quando la seguii nel reparto dove lavorava. Mi stavo appunto chiedendo
come fare a rimanere solo con lei quando trovai una vecchia tuta che qual-
cuno doveva aver usato per spolverare. Insomma, andai dietro un macchi-
nario e me la misi, e quando mi fui sporcato la faccia di grasso neppure
mia moglie mi avrebbe riconosciuto. Non mi piaceva sporcarmi, avere l'a-
ria di un manovale, ma sapevo che dovevo farlo. Andai diritto dalla donna
e le feci capire che avevo bisogno che mi aprisse il magazzino. Lei saprà,
credo, che era una sorvegliante. Bene, non riuscì a chiedermi niente per
tutto il frastuono che c'era. Mi aprì la porta e io entrai dietro di lei. »
Ganz si sporse dalla sedia. « E poi... »
« Bene, prima le strappai le chiavi e chiusi la porta. Per questo mi ci vol-
le qualche istante. Poi la buttai a terra e mi misi seduto sul suo petto. Lei
aveva libero il braccio destro e io le tenevo bloccato l'altro con il ginoc-
chio. Credo che sappia che cosa ho fatto poi. Le ho tolto le dita della mano
destra con una pinza. »
« Dev'esserci voluto un po' di tempo », commentò Ganz in tono discor-
sivo, e Santini dovette mordersi le nocche per controllarsi. « Le davano fa-
stidio le urla? »
« No, per niente. Sapevo che non potevano sentirla per il rumore che ve-
niva da fuori. »
« E allora come si sentì? »
« Non mi pare che sentissi molto, solo che mi sembrava come di sogna-
re. Mi ricordo che avevo l'impressione che succedesse tutto lontanissimo
da me. Aspetti, una cosa però la sentivo — una specie di delusione che
fosse tutto lì, potrei dire. »
« E perché pensava che le stesse facendo quella cosa? »
« Non ci pensavo troppo. Sentivo solamente che era una cosa che andava
fatta. »
« Appena ebbe finito la lasciò? »
« Esatto. La chiusi dentro e me ne andai direttamente dal cancello della
fabbrica. Dovettero pensare che era in qualche altro posto dello stabilimen-
to perché non la trovarono per un pezzo. Mi tolsi la tuta non appena fui si-
curo che non mi vedeva nessuno e la lavai in una toilette pubblica. Poi an-
dai a lavorare. Voglio dire, nessuno mi avrebbe chiesto come mai ero un
po' in ritardo. L'unica cosa, dovetti comprarmi un vestito uguale a quello
che avevo sporcato. Una volta buttato il vestito sporco nella fornace, tutto
andò a posto. »
« Come si sentì quando seppe che la sua vittima non era morta? »
« Be', lo speravo proprio. Temevo che fosse morta per l'emorragia. Per
un po' mi sono sentito piuttosto male quando ci pensavo. Se fosse morta
non so cosa avrei fatto. Quando lessi che i medici erano riusciti a salvarla
mi sentii così felice che dovetti raccontare a mia moglie che avevo conclu-
so un contratto importante, così che non si chiedesse come mai stavo ri-
dendo. »
« Poi c'è un intervallo di qualche mese. Ha mai temuto che la polizia po-
tesse rintracciarla? »
« Per dire la verità non ci ho mai pensato. Mi sentivo un po' come se
quello che le era accaduto fosse colpa di un altro. »
« Ma aspettava che la donna fosse dimessa? »
« Oh, certo. Voglio dire, non potevo raggiungerla mentre era in ospeda-
le. Non mi seccava aspettare, me la tolsi dalla testa e basta. Sapevo che
dovevo finire quello che avevo cominciato. »
« Me ne parli. »
Figlio di puttana, stava mormorando Santini tra i denti, così serrati che
gli facevano male, stramaledetto sadico figlio di puttana. Non avrebbe sa-
puto dire a chi dei due si riferiva.
« Bene », disse Bannon, « continuai a tenere d'occhio il suo appartamen-
to, così quando tornò a casa lo seppi subito. Sua madre si era già trasferita
lì per accudirla. Andai su una mattina, quando pensavo che i vicini fossero
quasi tutti via. Non sapevo bene stavolta cosa dovevo fare, e così mi portai
dietro una cassetta degli attrezzi. »
« Aprì la porta sua madre. »
« Esatto, e quando le dissi che mi aveva mandato il portiere per control-
lare l'impianto elettrico, mi fece entrare. Dopo, probabilmente, le venne in
mente che era strano che non l'avessero avvertita, perché andò verso il te-
lefono. La colpii prima che potesse far nulla, poi andai dalla figlia. »
« Cosa sentì quando la vide? »
« Una specie di delusione. Non era più così bella. Cioè, doveva essere
sui trent'anni, e pareva più vecchia della madre. Aveva qualcosa nella ma-
no destra, una specie di manopola chirurgica credo. Mi ricordo che mi sen-
tivo a disagio, come ci si sente davanti a uno storpio. Mi sentivo disgustato
perché aveva quell'aspetto. Era seduta in mezzo al letto, sentiva Count Ba-
sie alla radio. Sonnecchiava e si svegliò quando entrai. Vide la cassetta,
poi mi guardò in viso, e capii che mi aveva riconosciuto immediatamente.
»
« Cosa fece allora? »
« Bene, innanzitutto dovevo farla smettere di urlare, nel caso ci fosse
stato qualcuno che potesse sentirla », spiegò Bannon, e fu allora che Santi-
ni si tappò le orecchie. Di quello che era successo dopo ne sapeva abba-
stanza da convincerlo che non era in grado di sopportare altro. Poteva im-
maginare la vittima di Bannon, finalmente a casa e convinta di essere per
la prima volta veramente al sicuro, alzare gli occhi e vederselo in camera
da letto. Inghiottì il sapore acido delle polpette e guardò Ganz, i cui occhi
erano ancora più brillanti, adesso. Avrebbe dovuto essere uno psichiatra,
pensò Santini, ma era lui da rinchiudere.
Passarono cinque minuti, poi vide Ganz rilassarsi e pensò che poteva ri-
schiare di mettersi in ascolto. « Quando la madre vide quello che stavo fa-
cendo corse subito sul pianerottolo », stava dicendo Bannon. « La sentivo
gridare e picchiare a tutte le porte, anche se avevo alzato la radio al mas-
simo. »
« Ma era ancora lì quando arrivò la polizia. »
« Be', la donna allora non era ancora morta. Volevo finire, se ci riuscivo.
»
« Come si sentì quando l'arrestarono? »
« Frustrato, direi. Sentivo di non aver finito. E poi capii benissimo: mi
avevano preso, non c'era altro che potessi fare. »
« È questo ciò che sente adesso? »
« Per dirle la verità mi sento proprio un po' esausto, dentro di me. Voglio
dire, con tutte quelle cose che le ho fatto, ci credo che dovevano punirmi.
Non ha grande importanza. Solo che, non so, quando cerco di ripensare a
quello che ho fatto, a perché l'ho fatto... »
La lunga mano di Ganz si sporse verso di lui. « Cosa? Cosa sta cercando
di dire? »
« Be', ho la vaga sensazione che lo stessi facendo per conto di qualcun
altro. »
Santini si sentiva furibondo — era la solita fregnaccia buona per gli psi-
chiatri, anche se messa così non l'aveva mai sentita — e Ganz stava an-
nuendo. « Sì. Sì, capisco. Bene, è stato molto paziente a rispondere alle
mie domande. C'è qualcosa che vorrebbe chiedermi? »
« Certo », rispose d'impulso Bannon. « Può dirmelo lei perché l'ho fatto?
»
Una specie di sorriso si disegnò sul viso di Ganz. « Non è il primo a
farmi una domanda del genere. Capisce quello che dico? Lei non è il solo.
Se può esserle di consolazione, ci sono altri trascinati dalle stesse forze,
come lei. »
Santini vide la mano di Bannon colpire il tavolo. Sembrava un artiglio,
pronto a graffiare. Forse avrebbe aggredito lo psichiatra: sarebbe stata una
forma di giustizia. Per la prima volta la voce di Bannon era tirata. « Ma mi
può dire che forze sono? »
« Sì, credo di sì », rispose Ganz, nel momento in cui Santini sentì il
chiavistello della porta in fondo al corridoio. Si girò e vide il suo collega
secondino, due poliziotti in divisa e il direttore. « È lì dentro», disse il se-
condino. « Dov'è Santini. »
Santini si sforzò di sentire quello che stava dicendo Ganz, ma non riuscì
a cogliere niente per l'avvicinarsi dei quattro. « Che faccia di bronzo, quel-
lo », gli fece l'altro secondino. « E psichiatra come lo sono io. Ha racconta-
to questa balla da Alcatraz a qua. Non sarebbe mai arrivato qui se non fos-
se stato per tutto il casino con il governatore. » Abbassò la voce mentre
convergevano verso la sala degli interrogatori e bisbigliò a Santini: « Po-
tresti raccontare che sei rimasto qui perché sospettavi qualcosa. Magari ti
torna utile ».
Le cose stavano succedendo troppo in fretta perché Santini potesse pen-
sare a un piano. Poteva solo rimanere lì, sbigottito, a guardare, mentre loro
aprivano la porta della saletta e poi entravano piano nel caso si presentasse
qualche problema. Improvvisamente fu chiaro che da Bannon problemi
non ne sarebbero venuti: aveva un'aria allucinata per qualcosa che gli ave-
va detto Ganz. Qualcosa che certamente avrebbe preferito non udire.
L'uomo alto si levò in piedi mentre il poliziotto gli si avvicinava. « Ka-
spar Ganz », disse uno, « noto anche come Jasper Gance... »
L'agente ricevette un'occhiata di disprezzo così intensa che esitò. « Arre-
statemi pure, se pensate che sia vostro dovere », disse Ganz con indiffe-
renza. « Non cambierà niente. Non potrete fermare quello che sta succe-
dendo, non sapete neppure di cosa si tratta. Non sareste in grado di com-
prendere. » Gli occhi gli brillavano così intensamente che Santini sentì una
stretta allo stomaco. « Non saprete di cosa si tratta », continuò Ganz, « fin-
ché non sarà troppo tardi. »

Capitolo 1

1979

Alle cinque meno dieci attaccò a masticare le stanghette degli occhiali e


lei pensò: adesso le spezza. « È troppo tardi », le disse. « Ci avranno ripen-
sato. »
« Ma non dirlo nemmeno. È ancora presto, credimi. Gli piace prenderse-
la comoda. »
« Non li biasimerei se ci avessero ripensato. » Si rimise a sedere, ma non
ci rimase a lungo. Era andato avanti e indietro tra la poltrona e il divano
per tutto il pomeriggio, come intrappolato da solo in un gioco di società. «
Ieri sera ho cercato di rileggerli anch'io, i libri, ma non riuscivo ad andare
avanti. Mi parevano così noiosi. »
« Paul, sono la cosa migliore che tu abbia mai fatto. Se non fossero roba
da best-seller, non ce ne staremmo qui seduti ad aspettare le offerte. »
« Non lo so, Barbara, non ne sono sicuro. Gli altri miei libri ti piaceva-
no, e guarda che fine hanno fatto. L'ultimo l'ho visto giusto l'altro giorno in
vendita per quattro soldi in una libreria di remainders, e anche lì nessuno
lo voleva. »
« Lascia perdere gli altri libri. Prima del Padrino Mario Puzo ha scritto
due libri che sono stati un fallimento dal punto di vista commerciale. »
« Può darsi, ma Mario Puzo è Mario Puzo. Io chi diavolo sono? »
« Tu sei Paul Gregory e Un torrente di vite sarà un best-seller. » Lo sap-
piamo che lo sarà, disse alla foto di Arthur che aveva di fronte sulla scri-
vania. Eppure l'impazienza di Paul cominciava a metterla a disagio, le ren-
deva difficile ignorare l'afa stagnante di luglio, il frastuono del traffico che
si immetteva da Piccadilly e da Bond Street, gli slogan dei dimostranti e-
brei davanti agli uffici delle linee aeree sovietiche. Ogni volta che lui si
accostava alla finestra aperta, la sua ombra si stagliava contro l'alto soffitto
bianco.
Ora stava prendendo un libro da uno scaffale, solo per scoprire che era
fatto di pagine bianche. Lo fissò torvo come se si trattasse di un romanzo
che qualcuno volesse costringerlo a scrivere. « In Torrente non sono riu-
scito a leggere oltre le scene della guerra civile », fece. « Pagine e pagine
che vanno avanti e basta. Non prendono mai vita. »
« Stammi a sentire, Paul. Siediti un momento e stammi a sentire. Ho
mandato solo il primo volume a Pan, a Fontana e a Penguin, e ognuno di
loro ha telefonato il giorno dopo per dare un'occhiata agli altri due volumi.
Non ti sembra una reazione interessata? »
« Sì, non dico che il primo nel complesso fosse male, sono gli altri che si
trascinano come dinosauri che non vogliono morire. Voglio dire, un po' di
quello che ho scritto mi piace abbastanza, ma è che non sono proprio capa-
ce di scrivere il genere di cose che la gente vuole leggere. Possibile che
abbia perso due anni della mia vita? » Stava sfogliando le riviste sul tavo-
lino dal ripiano di vetro, Publishers Weekly e Bookseller, nella speranza di
distrarsi. « Della mia vita », riprese avvilito, « e di quella di Sybil e dei
bambini. »
Ora Barbara cominciava a irritarsi, anche se lei stessa aveva avuto dei
dubbi finché lui non le aveva finalmente mostrato i libri. Ci aveva puntato
tutto, aveva rinunciato al suo lavoro in pubblicità, per poi scoprire che gli
ci voleva ben più di un anno per scriverli. Passato l'anno, lui e la famiglia
si erano trovati assediati dai conti da pagare e dai prestiti da restituire alla
banca. Quando aveva completato i dattiloscritti e li aveva portati al suo uf-
ficio, pareva quasi che se ne vergognasse, e invece erano stati una rivela-
zione, una struttura incredibilmente complessa in cui si intrecciavano le
sorti di numerose famiglie e che terminava in una dimensione quasi fanta-
scientifica, cento anni dopo.
Quando suonò il telefono lui alzò lo sguardo troppo in fretta, poi cercò
di dissimulare il nervosismo. Lei gli lanciò un sorriso che doveva servire a
tranquillizzarlo mentre rispondeva: « Barbara Waugh, agenzia letteraria ».
L'istinto le aveva suggerito di non aspettarsi troppo, e infatti era solo uno
dei suoi autori che le chiedeva se aveva finito di leggere il suo romanzo.
Chiaramente era in preda alla tipica depressione post-parto del romanziere.
Quando gli disse che era occupata con un'asta, l'altro mise giù.
« Gesù, come si fa a scegliere di guadagnarsi da vivere in questo modo?
» Paul si stava massaggiando la testa sopra la massa dei capelli, come per
riscaldarsi i pensieri. « Scrivere deve essere una forma di pazzia. »
Buttò giù il suo scotch e se ne versò un altro. Aveva trovato tra le riviste
il supplemento domenicale della settimana precedente e stava cercando di
leggere un articolo che parlava di Barbara. « Se dovessero cambiare idea »,
mormorò, « ti telefonerebbero per dirtelo? »
« A questo punto della faccenda non cambiano mai idea. Non è così che
vanno le cose. » Certo c'è sempre una prima volta, si disse, ma non per Un
torrente di vite. Paul stava tentando di guardare l'ora senza farsi accorgere.
Lei lo sapeva che erano le cinque e venti, ancora abbastanza presto. Arthur
continuava a sorriderle; non poteva far molto di diverso. Sarebbe andato
tutto bene, diceva il suo sorriso, ed ecco che il telefono squillò. « Barbara
Waugh, agenzia letteraria », recitò fredda come un messaggio registrato.
Quando lei si sporse a prendere la penna, Paul si drizzò a sedere, accar-
tocciando il supplemento. Barbara rimase in ascolto, annuì, e disse « Gra-
zie » in tono neutro, scribacchiando qualcosa sul blocco. Strappò la pagina
e l'allungò sulla scrivania mentre cominciava a chiamare gli altri offerenti.
Paul guardava il foglio a bocca aperta; pareva non avesse il coraggio di
sorridere, casomai avesse letto male. « Ho un prezzo base di trentamila
sterline », confermò lei annuendo.
« Dio santo, niente male, no? » Paul non sapeva più dove guardare.
« Possiamo fare molto meglio. » Ora lei aveva trovato tutta la fiducia. «
Basta aspettare. »
Aspettarono. Ora il tempo gli sembrava passare ancora più lentamente.
Si rimise a leggere l'articolo su Barbara, e lei capì subito dall'espressione
mutata del suo viso che era arrivato al punto dove si parlava di Angela.
Avrebbe tanto voluto che non lo avessero scoperto... ma ecco un'altra of-
ferta, e lei aveva la grande capacità di perdersi nelle telefonate, perdersi
nel lavoro e dimenticare Angela, come se fosse una cosa di cui ci si può
dimenticare. « Siamo a quarantamila », gli comunicò.
Sotto la finestra i pendolari stavano riversandosi a frotte nella metropoli-
tana, con un brusio indistinto di voci e di passi. Prima che arrivasse un'al-
tra offerta il traffico si era tatto intermittente. Barbara lesse Publishers We-
ekly, abbozzò qualche lettera, controllò l'agenda — pranzo con un redatto-
re di Fontana domani, pranzo con un autore venerdì, sabato compleanno di
Ted, cena con lui. Gli ultimi raggi di sole abbandonavano il soffitto, la-
sciandosi dietro tutto il caldo. Paul si stava asciugando la fronte. Le vendi-
te all'asta erano sempre più lente della più lenta partita di poker.
Prima che la vendita fosse conclusa Mayfair si era fatta silenziosa, salvo
per qualche turista di passaggio. Chiamò l'offerente del prezzo base. « Ho
un'offerta finale di centomila sterline. »
Era così sicura che questo avrebbe esercitato il suo diritto di prelazione
che aveva già buttato giù la cifra: l'offerta finale più il dieci per cento.
Quando l'altro fece come previsto lei strappò il foglio e lo passò a Paul. «
Questo è per te. »
Lui sembrava istupidito: per lo choc e per lo scotch. « Grazie, Barbara. È
meraviglioso. » La baciò goffamente. Improvvisamente si accigliò. « Devo
chiamare Sybil. »
Sua moglie aspettava vicino al telefono? Certo rispose immediatamente.
Le comunicò la somma e aggiunse: « Ancora non ci credo. Mi sembra uno
scherzo ». Dopo un attimo Barbara capì che cosa lo avesse preoccupato. «
Spero di non averti rovinato la cena », disse lui. « Non pensavo che ci sa-
rebbe voluto tanto tempo. »
Barbara continuò a guardarlo mentre si affrettava in direzione di Picca-
dilly. Solo quando fu a metà strada si accorse che stringeva ancora il foglio
e se lo infilò in tasca. Lei chiuse la finestra, sorridendo tra sé. Quanti letto-
ri si rendono conto che la metà dei best-seller è scritta da gente come Paul?
Tranquille, normali persone, uomini e donne forse più nervosi e insicuri
della media, che si trovano a essere bravi a raccontare storie? Non c'è da
stupirsi che abbiano bisogno di un agente che si prenda cura di loro.
Passò nell'ufficio esterno deserto. Louise sarebbe tornata l'indomani, vi-
sto che era riuscita a sopravvivere all'influenza. Barbara indugiò per un at-
timo nell'atrio, con i pilastri di pietra caldi come carne. In Dover Street
sembrava fossero andati a casa tutti tranne lei: i mercati d'arte di Christie's,
i gioiellieri Longman & Strongi'th'arm, i redattori della Oxford University
Press con le sue finestre sprofondate negli archi bicolori. Discese a piedi
verso Piccadilly e si diresse verso Green Park.
Ora che l'asta era conclusa si sentiva svuotata, stranamente depressa.
Forse dipendeva dalla sensazione che tutta la faccenda fosse un gioco, in
cui chi gioca bene può raggiungere un enorme successo, mentre chi gioca
male, anche con le stesse carte, può arrivare al fallimento totale. O forse il
motivo era il genere di lavoro che si era scelta: oltre a trattare per conto di
un autore, l'agente deve fargli da madre, prendersi a cuore i suoi problemi
domestici se non risolverglieli addirittura, costruire e ricostruire la sua fi-
ducia, calmargli i nervi, a volte fare da levatrice ai suoi libri — e questo
non era ancora il peggio. Con tutto ciò, rimaneva sempre la professione più
gratificante che conoscesse.
Nel parco si mise a camminare sotto gli alberi. Il cielo era biancastro di
afa, ma sotto la tettoia di foglie era più fresco. Le sedie a sdraio con i teli a
strisce come materassi erano distese sui prati; i piccioni argentati, levigati
come conchiglie, razzolavano nell'erba. Ben presto si sentì di nuovo in
gamba, e affamata. Fermandosi solo una volta per dare indicazioni a una
coppia di turisti, tornò in ufficio per leggere un manoscritto urgente.
Nell'attimo in cui mise piede nell'atrio un telefono si mise a squillare.
Era tardi per essere una telefonata di lavoro, ma poteva essere Paul che si
scusava per non averla invitata alla cena di festeggiamento; era certa che il
telefono suonasse nel suo ufficio. Dovette rallentare salendo le scale, per-
ché improvvisamente il caldo parve concentrarsi tutto su di lei: fu come
trafitta da mille scintille brucianti, la vista le si annebbiò. Nessuna meravi-
glia, quando uno si mette a correre in un giorno così.
Aprì la porta e afferrò il telefono di Louise. « Barbara Waugh, agenzia
letteraria », disse senza fiato.
Era un respiro quello che si sentiva, o il ronzio dell'elettricità statica?
Sentì qualcuno che componeva un numero su un'altra linea, una serie di
crepitii elettrici, il suono lontanissimo di un telefono; una voce che blate-
rava in arabo portata via in lontananza. E poi il silenzio. Stava per riaggan-
ciare quando una voce disse: « Mamma ».
Ecco, avevano sbagliato numero. « Barbara Waugh, agenzia letteraria »,
ripeté, pazientemente, per la millesima volta quel giorno.
Stavolta la voce della bambina aveva un tono implorante. « Mamma »,
pregò.
Doveva essere la figlia di Louise, anche se era strano che prendesse Bar-
bara per sua madre — e anzi che pensasse che Louise fosse là. Barbara
parlò con un tono più secco di quanto intendesse fare, ma voleva liberarsi
di quel grumo di apprensione che sentiva alla bocca dello stomaco. « Sono
Barbara Waugh. »
E poi si aggrappò allo schienale della sedia di Louise e si calò a sedere
per paura di cadere, perché la voce della bambina aveva detto: « Sì, mam-
ma, lo so ».
« No, non può essere », mormorò Barbara, ma non era sicura di sé come
cercava di apparire, ed ecco perché tutto — il suo ufficio, il telefono, la sua
mano — si stava allontanando da lei, e quello che la stava invadendo era
un buio nero carbone.

Capitolo 2

1966

Si svegliò con la sensazione nettissima che Angela fosse in pericolo.


Forse era a causa del sogno. Si sforzò di allontanare le immagini oniriche.
Arthur era finalmente a casa, e lei lo osservava mentre guardava la loro
prima bambina, il viso addormentato con quell'espressione di pace così to-
tale, le manine minuscole e grassottelle strette a pugno sopra la testa come
se in sogno Angela stesse giocando a guardie e ladri.
Barbara rimase sdraiata per un buon minuto prima di far mente locale su
quello che stava pensando, e subito si trovò sull'orlo della disperazione.
Non doveva lasciarsi precipitare per amore di Angela. Si alzò in fretta, per
scuotersi il sonno di dosso. Comunque, Angela si stava agitando nella cul-
la ai piedi del letto.
Non appena vide la madre, Angela cominciò a fare i suoi versi di saluto,
squittii e gemiti di contentezza. Si girò sulla pancia e cominciò a strisciare
avanti e indietro, strillando contro la sua prigione. Barbara la tenne stretta
per un po', il tempo di ritrovare la calma, poi la cambiò, impresa non da
poco da quando Angela aveva imparato a girarsi. Barbara faceva fatica a
ricordare quell'esserino minuto e indifeso che era venuto fuori dal suo cor-
po.
Aveva dormito più di quanto volesse. La lama di sole dallo studio di Ar-
thur era ormai giunta a metà corridoio. Negli ultimi tempi, nelle sue rare
visite a casa, Arthur si ritirava lì dentro con i fasci di carte del suo lavoro,
quasi a dimostrare che non c'erano problemi; ma questo significava soltan-
to che anche quando era a casa era distante, a volte quasi assente del tutto.
Forse lui aveva sperato di esserle più vicino accettando senza discussioni
di avere un figlio prima che si trovassero troppo invischiati nella routine, o
forse aveva voluto assicurarsi di non lasciarla sola: fino a che punto poteva
prevedere? Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma non poteva permetter-
selo, ora che stava portando Angela giù per le scale. La mise nel passeggi-
no e lo spinse fuori nel pomeriggio di agosto.
Sotto un cielo azzurro porcellana, i colli del Kent apparivano vellutati.
Fuori dalla sua casa il Palace Field conduceva al corpo di guardia e alla
torre in rovina dell'Archbishop's Palace, dove tra le rovine era stata incu-
neata una fila di casette; la gente sedeva a leggere o a cucire nei giardinetti.
Rivolta al torrente che scintillava nel verde Angela rideva. Per lei era anco-
ra tutto una novità, ma Barbara aveva fatto questa passeggiata tante di
quelle volte che le era diventata fastidiosa come una pubblicità televisiva.
Inoltrandosi, gli alberi cominciavano a farsi più numerosi delle case. Al
laghetto delle anatre, gli uccelli acquatici stavano immobili come pietre
ovali, ritirati in sé come tartarughe. La locanda era un blocco di luce bian-
ca, la stazione di polizia — un edificio di mattoni rossi a due piani identica
a una casa di periferia — era quasi incandescente. Abbagliata, strinse più
forte il manubrio del passeggino. Ogni volta che attraversava con la car-
rozzina la prendeva l'ansia che potesse sfuggirle di mano.
Nel villaggio una lama di rasoio gigante pendeva davanti alla bottega del
parrucchiere, dalla vetrina dell'armaiolo fucili del colore delle nuvole tem-
poralesche mandavano bagliori minacciosi. La gente si chinava ad ammi-
rare Angela. « Ma come le assomiglia! » dicevano. La lasciò davanti al-
l'erbivendolo, senza smettere mai di lanciarle occhiate. Ogni volta che
qualcuno si fermava a guardare Angela davanti a un negozio, Barbara si ir-
rigidiva, pronta a scattare verso la porta.
Anche ora c'era qualcuno che guardava, ma era solo Jan, in una T-shirt
così sformata da apparire larga perfino per lei. « Ba ba ba », stava gridando
Angela, afferrandole goffamente le mani e ridendo. Jan aspettò con i suoi
bambini finché Barbara uscì.
« Siamo vivaci, stamattina », disse Jan.
« Attivi ed esigenti. Eppure preferisco lei a uno di quei bambolotti ad-
dormentati. »
« Chiunque abbia un po' di raziocinio la penserebbe così. Non correre
avanti, Jason, aiutami a portare la carrozzina, fa' il bravo ragazzo. »
Per un attimo Barbara fu colpita acutamente dalla presenza del piccolo
Jason che ormai aveva tre anni; quando avevano saputo che lei era incinta,
Arthur aveva giocato con lui, lo aveva fatto saltare, volare, aveva riso con
lui. Poteva sentire ancora le loro voci. « Ocette », stava dicendo il bambino
con insistenza. « Ocette. »
« Bravo Jason », approvò Jan, dando un'occhiata ai titoli del giornalaio,
« ochette. » Le anatre si stavano spiegando sotto i salici del laghetto, scuo-
tendosi l'acqua di dosso. « Finalmente quegli assassini sono stati messi al
fresco », fece con foga a Barbara. « E adesso ci tocca pagare per mantener-
li. Vorrei proprio vedere qualcuno fare qualcosa a un bambino quando ci
sono io nei paraggi. »
Barbara aveva adocchiato un titolo sull'Arabia Saudita. Distolse lo
sguardo, con gli occhi umidi. Jan le strinse il braccio con una delle sue
manone da uomo. « Non preoccuparti. Qui viviamo al sicuro. »
« Cose del genere per me, prima di avere Angela, erano solo notizie di
cronaca. » Era vero, ma non era quello che l'aveva momentaneamente
sconvolta. Eppure non voleva lasciarsi sopraffare dalle impetuose emozio-
ni di Jan, per quanto buone fossero le sue intenzioni. « Cose come quello
studente nel Texas che l'altro giorno senza motivo ha ucciso dodici perso-
ne », continuò.
« Qualche volta penso che il mondo stia perdendo la ragione. Tutti que-
sti drogati, poi. Ma che cosa cercheranno, in nome di Dio? »
« Forse non lo sanno finché non lo trovano, se mai lo trovano. » Spinge-
vano le loro carrozzine fianco a fianco sul prato; Angela continuava a tene-
re la mano del piccolo Nigel. « A proposito », esclamò Barbara, « c'è una
cosa che volevo chiederti. »
« Purché non sia un consiglio su problemi di bambini. Si guarda solo, il
ruscello, Jason, non è fatto per andarci dentro. »
« Non è un problema. Mi chiedevo se i bambini all'età di Angela hanno
già dei compagni di gioco immaginari. »
« Otto mesi è un po' presto, direi. Perché? »
« Oh, è solo che fa dei versi di saluto, certe volte, quando io non sono
nella stanza. »
« Jason parlava con la luce del sole. Probabilmente scoprirai che si tratta
di una cosa del genere. »
Arrivate a casa si separarono. Attraverso la parete Barbara sentì Jason
che saltellava su e giù per le scale. Stette per un po' a giocare con Angela,
che stava scoprendo che il suo specchio di plastica aveva due facce e gri-
dava contro il lato opaco, strillando poi più forte quando tornava a vedersi.
Subito dopo il bagnetto, Angela, tutta rosea e guizzante, era stesa sul suo
asciugamani. Mentre la baciava sulla voglia, la fogliolina violacea sulla
spalla sinistra, Barbara sentì montarle il latte, un traboccare spontaneo co-
me di amore materializzato. Allattò la bambina vicino alla culla. Angela si
addormentò in braccio, ancora sbavando latte.
Stava mettendola nel lettino quando sentì il marito di Jan, Keith, che ar-
rivava a casa. Jason scese a precipizio per le scale gridando: « Papà, Papà
». Angela non avrebbe mai potuto farlo.
Raccolse i giocattoli della bambina e li ripose nel sottoscala. Al di là di
Palace Field il cielo si stava facendo lattiginoso, e rinfrescava; dei nuvolo-
ni densi si erano formati sopra le colline. Era una sera tranquilla come
quella in cui aveva dato ad Arthur la notizia che era incinta. O era lei che
la ricordava tranquilla per come lui l'aveva abbracciata, con l'abbraccio pa-
cato e protettivo con cui avrebbe poi stretto il loro piccolo? Lui era riuscito
a non mostrarsi per nulla ansioso o teso, eppure i suoi problemi dovevano
proprio essere gravissimi — gravi al punto da tenerlo lontano da casa per il
resto della gravidanza, gravi al punto che si era quasi dimenticato di tele-
fonarle a Natale. Lei aveva continuato a sperare di vederlo tornare per il
momento del parto, e quando era squillato il telefono, un giorno tra Natale
e Capodanno, aveva pensato che chiamava per dire che tornava, chi altro
poteva telefonare dall'Arabia Saudita? Ma per quanto soffocata e incom-
prensibile, aveva capito subito che non era la voce di Arthur. Avevano ri-
chiamato quasi immediatamente, ma lei aveva dovuto correre al telefono
dal bagno, perché c'era stato un nuovo movimento nel suo ventre, violento
e spossante. Sì, diceva la voce, aveva chiamato un attimo prima, ma aveva
pensato che lei non sentisse. Ora sentiva bene? Sì, chiamava per suo mari-
to, Arthur Waugh, esatto. Sì, era morto.
Le era parso tutto completamente irreale, poiché era già in travaglio. Il
suo corpo non le aveva dato tempo di pensare o di sentire. Arthur era anco-
ra più distante, ecco tutto, e lei era così lontana dal raccogliere il dato della
sua morte che non ne aveva neppure accennato a Jan mentre l'accompa-
gnava in macchina all'ospedale. Nella sala travaglio la verità aveva comin-
ciato a insinuarsi dentro di lei, ma dopo ore di doglie aveva raggiunto uno
stadio in cui si trovava sospesa in un limbo di inanità, al di là di ogni con-
solazione o aiuto. Aveva provato odio per le studentesse infermiere con le
loro maschere simili ai veli delle donne arabe, per i medici arabi che non
avevano salvato Arthur. E se lo choc dell'infarto di Arthur avesse ucciso
anche il suo bambino? Poi, indipendentemente da lei, erano cominciate le
spinte. Pareva quasi un compenso fin troppo facile, ma Angela stava arri-
vando a salvarla dalla disperazione.
Angela respirava nell'intercom, forte come un astronauta in un film di
Kubrick. Barbara cenò, poi tirò fuori il lavoro nel soggiorno. Non sapeva
lavorare nella stanza di Arthur, che la opprimeva, così ingombra di ango-
sce. Aveva quasi finito la revisione dell'ultimo romanzo della Spia invisi-
bile. E pensare che aveva creduto che avrebbe avuto tempo di scrivere lei
un romanzo! Non era costretta a farle, le revisioni — Arthur le aveva la-
sciato più che a sufficienza perché potessero mantenersi fin quando lei fos-
se stata in grado di tornare a tempo pieno all'editoria — ma le era d'aiuto
sentire che non stava a vegetare, che la maternità non l'aveva inghiottita. O
forse il lavoro era benvenuto perché le lasciava meno tempo per farsi
prendere dal dolore? A volte desiderava potersi lasciar andare completa-
mente, per tutto il tempo che ci fosse voluto; dall'arrivo della notizia della
morte di Arthur non ne aveva mai avuto la possibilità. La perdita in se
stessa ora sembrava lontanissima.
« Non ne fotterai più di signore, ormai », ghignò Hilde Braun brandendo
uno scalpello, ma dato che le parole spinte non erano adatte per il genere
popolare, Barbara le fece esclamare: « Non avrai più molto da offrire alle
signore, ormai ». Con una produzione di dieci libri l'anno non c'era da stu-
pirsi che l'autore non stesse tanto a limare il suo lavoro, ma qualcuno do-
veva pur farlo.
Aveva rivisto un solo capitolo quando Angela cominciò ad agitarsi e a
mormorare, emettendo suoni che amplificati riempirono la stanza. Sperò
che la bambina non avesse un'altra notte inquieta; voleva consegnare il li-
bro per la fine della settimana. Una voce maschile indistinta stava mormo-
rando qualcosa — una delle tante comunicazioni vaganti che l'intercom in-
tercettava. La prima volta che Barbara aveva sentilo la voce di un uomo
nell'intercom si era quasi sentita male dal panico.
Salì senza far rumore al piano di sopra. I primi tre scalini cigolavano e
lei non poteva superarli tutti e tre. La casa vuota amplificò il cigolio. Ma
Angela dormiva, avvolta in un fagotto di coperte, nella penombra della
camera.
Barbara ritornò in punta di piedi sul pianerottolo; aveva appena richiuso
la porta che di nuovo sentì quella voce indistinta, dentro la stanza con An-
gela. Stava per girarsi e allontanarsi, dicendosi che il microfono accanto al
lettino aveva raccolto una trasmissione, quando si rese conto che un micro-
fono non può fare una cosa del genere. Qualcuno slava mormorando qual-
cosa ad Angela dietro la porta.
La spalancò così malamente che avrebbe potuto svegliare Angela. La
stanza era vuota e immersa nel silenzio, interrotto solo dal respiro regolare
della bambina. Barbara dovette entrare a tentoni, poiché la penombra co-
priva tutto, modificando sagome familiari. Anche quando ebbe ricontrolla-
to tutto per bene, sentiva il cuore insicuro. Forse udiva delle cose perché
erano tante notti che Angela le spezzava il sonno, ma lasciò la porta aperta
quando si costrinse a tornare al lavoro. Ogni volta che una scarica di elet-
tricità passava nell'intercom, le sembrava di udire un bisbiglio.

Capitolo 3

1968

« Non vi allontanate », si raccomandò Jan. « Rimanete dove possiamo


vedervi. »
Lei e Barbara erano sedute nel giardino di Jan, in mezzo a un assorti-
mento di giocattoli tirati fuori dalla casa. Jason accompagnava il fratellino
e Angela in giro per i prati, per mostrare quanto era cresciuto. Sotto il pal-
lido cielo immobile di aprile, la giornata era tiepida e limpidissima. Gli al-
beri nudi cominciavano a punteggiarsi di colori nuovi, le colline e i campi
erano più verdi del giorno precedente, le prime api ronzavano tra i fiori.
Angela si era fermata sul vialetto di cemento e stava indicando, eccitata,
qualcosa verso la strada. Barbara non riuscì a sentire cosa stava dicendo
per il rumore degli zoccoli di due cavalli che dei ragazzetti stavano facen-
do correre sul campo, e Jason disse solo: « Andiamo ». Lui era troppo
grande per dare ascolto alle ciance di una bambina. Barbara guardò la fi-
glia, con la sua tutina azzurra, che avanzava incerta e impaziente sul viot-
tolo, e fece fatica a ricordarla neonata. « Dio, come le voglio bene », disse
a Jan, ridendo.
Angela si era staccata da Jason. Si avvicinò alle donne. « L'uomo che
vola », disse con ansia, indicando la strada su cui dava il giardino.
Le donne si alzarono per guardare, facendo tintinnare il ghiaccio nei bic-
chieri. Passava un funerale, diretto verso la chiesa. Nella prima delle li-
mousine del corteo, la vedova si asciugava gli occhi. « L'uomo è sopra di
lei », spiegò Angela.
« Davvero, Angela? Bello. » Jan sedette in fretta perché dal corteo del
funerale non si accorgessero che li stava osservando. « I bambini dicono
delle cose talmente curiose », disse a Barbara. « Io non glielo direi che co-
sa è in realtà. »
Forse ne sa più di noi, pensò Barbara. Noi lo sapevamo quando avevamo
la sua età? Le pareva di no. « Ti ricordi che cosa ha detto quel giorno che
siamo passate accanto al crematorio? » disse d'impulso.
« Qualcosa sulla gente dorata, no? Qualcosa di strano. »
« Gente dorata fluttuante, per la precisione. »
« Sì, ha un vocabolario niente male. Evidentemente grazie a tutti i libri
che le leggi. Certo era una cosa ben strana da dire. »
Il momentaneo rumore degli zoccoli sul cemento riportò l'attenzione di
Jan verso il prato, dove Jason, che aveva dimenticato che il suo compito
era di badare a Nigel, stava azzuffandosi con lui sul vialetto. « Smettila Ja-
son », gridò lei, ma probabilmente lui non poteva sentirla.
Prima che potesse raggiungere i bambini, c'era arrivata Angela. Smisero
immediatamente di litigare e la scortarono con una certa solennità verso il
ruscello, oltre il quale c'erano i cavalli che saltavano. « Non vogliono far
brutta figura davanti alla loro amichetta », commentò Jan.
« Credi che sia solo per questo? »
« Che altro potrebbe essere? Che stai cercando di dire? »
Forse era meglio non rivelare il suo segreto. « Probabilmente è solo che
la amo tanto », rispose Barbara.
« Continui a ripeterlo. Lo dici a me o a te stessa? » Quando la faccia di
Barbara cambiò, incerta, Jan aggiunse: « Che cosa senti, veramente? »
« Tu, Jason e Nigel li ami sempre? »
« Sempre? Ma stai scherzando. Ucciderei il primo che gli mettesse un
dito addosso, ma credimi, ci sono momenti in cui potrei allegramente an-
negarli tutti e due dentro lo stagno. » Lanciò un'occhiata ai cavalli che fa-
cevano volare le zolle d'erba nella loro corsa sul prato. « Ma credo che tu
intenda dire altro. Ti senti frustrata, vero? »
« È solo che in certi momenti mi sento in prigione. Comincio a pensare
che sono anni che non vedo altro che l'interno della mia casa. »
Barbara scosse i cubetti di ghiaccio nel bicchiere come se fossero dadi in
un bussolotto. « E il lavoro che faccio lo trovo insopportabile, tagliuzzare i
libri e chiamarlo chirurgia plastica. Ne hanno bisogno, non discuto, per
certi versi sono libri spaventosi, ma non ho più voglia di essere io a farlo. »
Lanciò i cubetti di ghiaccio sul prato, dove scintillarono prima di scioglier-
si. « Quando ero a Londra potevo lavorare con libri che mi piacevano. »
Il rumore del ghiaccio aveva risvegliato Keith dal suo dormiveglia sotto
le pagine dell'Observer. « Sbaglio, o cominci ad avercela con Angela per-
ché ti ha bloccato la carriera? »
« Sì », ammise Barbara tristemente, « credo che sia proprio così. »
« Saresti anormale se non fosse così. Perché non torni a lavorare? » sug-
gerì Jan. « Posso badare io a lei durante il giorno. »
« Oh, Jan, davvero lo faresti? »
« Sono sicura che sarebbe una cosa ottima per lei e per Nigel. Li prepa-
rerebbe per l'asilo l'anno prossimo. »
Jason aveva riaccompagnato i due piccoli dal campo. « Angela dice che
è stanca », annunciò con aria compunta.
« Vengo dentro con voi, Barbara. Keith, da' un occhio ai ragazzi. »
Quando furono su nella piccola camera da letto, Jan chiese ad Angela: « Ti
piacerebbe venire a giocare da me in futuro mentre la tua mamma è al la-
voro? »
« Sì. » Ma il sorriso della bambina era incerto. « Però vieni, qualche vol-
ta », ingiunse alla madre.
« Ma certamente, cara. » Barbara l'abbracciò e la mise a letto per il son-
nellino pomeridiano. Una volta giù, dovette confessare a Jan: « Ora mi
sentirò in colpa per aver desiderato di lasciarla ».
« Meglio questo che avercela con lei, no? »
« Forse sì. » Accese l'intercom e sentì una serie di bib, la parte in codice
di una comunicazione della polizia che svaniva tra le colline. All'improv-
viso, tra i rumori che faceva sistemandosi nel lettino, Angela disse: « Papà
».
Jan si volse in fretta verso la finestra, nel caso che Barbara volesse man-
tenere per sé i suoi sentimenti. « Torni fuori? » chiese Jan.
« Credo che ora rimarrò in casa. Devo finire di macellare un capitolo. »
Quando Jan fu uscita, tirò fuori il lavoro. Questo capitolo non pareva
male, salvo le capriole che i personaggi erano costretti a fare pur di non di-
re le cose in maniera semplice. Se uno diceva « No », non lo diceva, lo ab-
baiava, scattava, latrava, buttava fuori, mentre il suo interlocutore proferi-
va, alitava, bofonchiava e vociferava. C'era qualcuno che tentava di inter-
rompere, argomentare, proclamare, declamare, ma quelli lo ignoravano.
Barbara non poté far a meno di ridere tra sé, e in parte a causa di Jan.
Ma non era giusto. Jan aveva pensato che Angela risentisse della man-
canza di un padre e chiamasse papà un immaginario compagno di giochi.
Senza dubbio era andata via per lasciare che Barbara si abbandonasse in un
bel pianto, ma Barbara ormai era certa che Angela sapesse esattamente
quello che diceva, e a chi lo diceva.
Certo, la prima volta che le era capitato di sentirla aveva pianto, eppure
spesso aveva avuto la sensazione che loro due non erano sole in casa. Non
aveva più sentito quella voce — forse era stata, almeno in parte, un'alluci-
nazione — e il senso di una presenza invisibile le era stato molto più facile
da accettare. Una volta abituatasi, le era parsa confortante e aveva finito
per convincersi che lo era perché voleva proprio esserlo.
Aveva sperato di sapere chi fosse molto prima che Angela avesse potuto
formulare delle parole, perché continuava a fare quei versi di benvenuto
quando Barbara la lasciava sola, ma una volta che aveva cominciato a dire
« papà », Barbara non aveva osato crederci. Magari Angela aveva imparato
quella parola da Nigel o da Jason.
Un giorno aveva lasciato l'album aperto a una fotografia di Arthur, pri-
ma di portare Angela al piano di sotto. Angela non aveva mai visto una fo-
to del padre, perché Barbara aveva sempre ritenuto più opportuno aspettare
che fosse la figlia a farle delle domande. Sulle scale le era venuta la tenta-
zione di correre giù prima della bambina a nascondere l'album; si era senti-
ta il cuore come stretto in un pugno e il respiro le si era fatto soffocante
come fumo. Ma non appena Angela aveva visto la fotografia del padre,
con quel suo sorriso aperto ma un po' timido, aveva detto: « Papà ».
Questo per Barbara era sufficiente. Forse, nonostante tutto, Arthur aveva
condiviso con lei l'esperienza di avere un figlio: Angela di un mese che
strilla alle sue stesse manine, come a incitarle a raggiungere la bocca; il
suo primo sorriso; la prima volta che era riuscita a girarsi sulla pancia ed
era scoppiata a ridere; le sue prime parole. Durante il travaglio, Barbara
era stata perseguitata dall'immagine del viso di Arthur che si disfaceva
come sabbia e finiva soffiato via. E così non era stato altro che un incubo
da sveglia.
A volte si chiedeva se la sua presenza avesse qualcosa a che fare con
quell'aura di pace che circondava la piccina. Non succedeva soltanto con i
bambini di Jan: nessuno riusciva a essere arrabbiato a lungo quando c'era
lei nei paraggi. Forse quella sensazione di calma che Barbara sentiva
quando la guardava era qualcosa di più dell'amore materno. Non voleva
analizzare quello che stava succedendo: era una cosa troppo delicata, trop-
po facile da rovinare. Ormai ci si era quasi abituata.
Finì in fretta di rivedere il capitolo. Lui disse, lei disse, disse, disse, dis-
se. Barbara finì per lasciare che l'uomo blaterasse e cianciasse e concionas-
se: ormai gli era troppo affezionata per sistemargli lo stile. Per la prima
volta da mesi il lavoro le piaceva, perché sapeva che era quasi alla fine.
Presto sarebbe stata di nuovo alla sua scrivania. Angela sarebbe stata al si-
curo con chiunque, figurarsi con Jan.

Capitolo 4

1970
Quando Barbara raggiunse Tottenham Court Road un uomo con un
mazzo di manifestini cercò di bloccarla, mormorando: « L'Apollo 13 era
segnato fin dall'inizio. Bisogna tener conto dei numeri ». Si rivolgeva alla
gente da sotto il Centre Point, una gabbia vuota fatta di cemento e di centi-
naia di finestre. Oggi era stata già avvicinata da un altro fanatico a Picca-
dilly; un gruppo di giovanotti rapati salmodiava ballando lungo Oxford
Street come la coda di un party, alcuni sedevano a gambe incrociate, medi-
tando, vicino ai gabinetti pubblici di Leicester Square. Se non altro il tema
del tizio dell'Apollo era relativamente attuale.
Accanto alla torre dell'ufficio postale, quindici piani di finestre verdo-
gnole come lo stelo di un bicchiere intagliato da quattro soldi, l'ufficio del-
la Melwood-Nuttall sembrava una piccola libreria. I tifosi di calcio prove-
nienti da Euston si trascinavano lungo la via, tirando calci ai rifiuti, facen-
do incursioni nei negozi, imprecando contro i pub chiusi. Davanti alla
Melwood-Nuttall un martello pneumatico sollevava pietrisco, dando il suo
piccolo contributo all'interminabile ricostruzione di Londra.
Ted Crichton era seduto dietro una marea di lettere e di dattiloscritti
spiegazzati. Il largo viso le fece un gran sorriso e il piccolo naso si arricciò
in segno di saluto. Quando si alzò, facendo cadere la giacca dalla spalliera
della sedia, la scrivania parve diventare piccola come un banco di scuola. «
È questo », disse, porgendole il romanzo che stava per pubblicare.
« Credi che potremo fare l'edizione tascabile? »
« Credo che potreste farlo benissimo. Fammi sapere al più presto, ci so-
no altri che annusano, in giro. »
Barbara infilò il dattiloscritto nella valigetta, accanto ai libri per Angela.
« Ci sono altre novità? »
« Te lo vedi un romanzo con Hitler come eroe? Questo sì che farebbe fa-
re un salto alla Melwood-Nuttall — anzi un salto dritto fuori dal paese. Ho
detto all'autore che era un tantino in anticipo sui tempi », continuò ridendo.
« Hai visto niente di veramente buono, ultimamente? »
« Sì. Credo di aver letto la migliore opera prima degli ultimi anni, di uno
che si chiama Paul Gregory. Riesce a dire in una frase più di quanto la
gran parte degli scrittori sappia dire in una pagina. Ma il "Pontefice" ha
detto che non era all'altezza e ho dovuto rimandarglielo. »
« Be', questo è quello che si paga a lavorare in una grande casa editrice.
Dovresti fare come me, solo io e la mia lista di scommesse sicure. Allora
se non altro sapresti che non puoi permetterti di correre rischi. » Visto che
lei non rideva tornò serio. « Sei rimasta molto delusa, vero? »
« Pensavo che meritasse di essere pubblicato. Sono sicura che sarebbe
andato bene. È stato molto duro dover scoraggiare uno scrittore così dota-
to. »
« Fammi avere il suo indirizzo, darò un'occhiata al manoscritto. Forse se
riesco a promettere un'edizione rilegata tu puoi convincere il tuo capo. Sai
», aggiunse tormentandosi la barba screziata di grigio, « ti ho già sentito
parlare così. A Francoforte, mi pare. Fu il momento del nostro sfogo reci-
proco. »
Si era preso cura di lei durante la sua prima fiera del libro di Francoforte,
l'aveva presentata in giro, aveva fatto in modo che non si trovasse a man-
giare da sola, le aveva dato consigli e spiegazioni. « Forse dovresti fare
l'agente », riprese. « L'energia ce l'hai certamente. Ti darebbe più libertà,
oltre che più quattrini. » Ted tacque un attimo, poi chiese: « Come va la
famiglia? »
« Oh, bene. Se pensi che io sia una persona energica, dovresti vedere
Angela. »
« È una bambina notevole. »
« Credo di sì. » Tutti si innamoravano di sua figlia a prima vista — tutti
tranne la donna con la faccia storta. Angela era, sì, speciale, ma non si
comportava mai come chi sa di esserlo. Una volta, quando Barbara aveva
tentato di chiederle qualcosa sulle chiacchierate con il padre, si era imme-
diatamente trasformata in una bambina che ha un segreto e non sa se può
rivelarlo. Barbara aveva cambiato argomento perché la figlia non pensasse
che c'era qualcosa di male. A volte le veniva la tentazione di ascoltare at-
traverso l'intercom, che era ancora istallato anche se ormai si usava rara-
mente, ma poi sentiva che sarebbe stato peggio che origliare.
Ted si era finalmente accorto che la giacca era caduta per terra e cercava
di scuoterne la polvere, per quello che serviva: poteva cominciare la gior-
nata nella forma più impeccabile, ma all'ora di pranzo era ridotto da far
pietà; ora pareva uno che avesse dormito su una panchina nel parco. « E
non ti è stata minimamente d'intralcio nella carriera », aggiunse.
« Ho avuto fortuna. Degli amici che abitano accanto me la curano, van-
no a prenderla all'asilo e così via. A volte mi sento un po' in colpa — sono
sicura che mi è più facile andare a lavorare che occuparmi di lei. Ma per-
ché », chiese, notando il suo interessamento, « tua moglie aspetta un bam-
bino? »
« Sembra. Helen ha smesso la pillola, sai con tutto quello che si sente sui
tumori. Be', immagino che potrò dedicarmi al mio famoso romanzo mai
scritto dopo che il rampollo se ne sarà andato a letto. »
« Sei contento che stai per diventare padre, no? »
« Certamente lo sarò quando il bambino sarà nato. » Si stropicciò le so-
pracciglia, abbastanza folte da nascondere uno sguardo grave. « Helen lo
vuole, e questo è l'importante. »
« Sono sicura che lo vuoi anche tu. Senti, devo andare. Il piccolo della
mia amica è ammalato e le ho promesso di rientrare presto per toglierle
Angela dai piedi. Doveri di noi genitori. Ne vale la pena, però, credimi. »
Fuori, il giorno settembrino sembrava ancora più caldo. La torre
dell’ufficio postale pareva irraggiare luce; Centre Point era fuoco in mezzo
a una colata di cemento. La ventiquattrore cominciò a sembrarle più pesan-
te. Doveva lasciare i libri da Ted? Ma aveva promesso ad Angela di por-
targlieli a casa quel giorno.
La stazione della metropolitana era zeppa di tifosi di calcio, che si spin-
gevano a vicenda sull'orlo della banchina, lanciavano lattine di birra vuote
tra i binari, scrivevano sui muri, si buttavano sulle donne sole; un gruppo
si strinse attorno a Barbara, finché lei non li mandò via con un'occhiatac-
cia. L'atmosfera era carica di sudore, e le ventate che arrivavano insieme
con i treni sembravano incapaci di rimuoverlo.
Sul treno era ancora peggio. Anche se era riuscita a occupare un posto a
sedere, Barbara si sentì sul punto di svenire. I tifosi ciondolavano dai reg-
gimano come quarti di carne, il resto della folla era incuneata tra loro; le
sciarpe puzzolenti di birra le svolazzavano sulla faccia. Il tunnel si chiuse
stretto attorno al treno, che ondeggiava avanti e indietro al ritmo di un mo-
notono sferragliare. La carrozza era affollata come il giorno in cui la donna
dalla faccia storta si era seduta vicino ad Angela.
Erano state da Hamley's in Regent Street, a comperare giocattoli. Alla
fermata di Oxford Circus la folla le aveva spinte sul treno e nei sedili. Bar-
bara stava per dire ad Angela di mettersi sulle sue ginocchia quando la
donna si era seduta accanto alla bambina, bloccandola contro il finestrino.
Sulle prime, Barbara le aveva dato solo una breve occhiata, registrando
tuttavia che aveva la pelle tutta rovinata, sebbene non dimostrasse più di
vent'anni, e che sopra un gran naso rosso e poroso come una fragola, c'era-
no due occhi posti uno più in alto e uno più in basso. Era di una bruttezza
disperante.
Poi Barbara aveva notato il modo in cui la donna guardava Angela. La
fissava come se non riuscisse a distogliere lo sguardo, e i suoi occhi erano
pieni di paura e di odio.
Barbara era stata sul punto di intervenire — non si era mai sentita così
violentemente protettiva da quando Angela aveva poche settimane —
quando il treno si era fermato a Green Park e la donna si era accorta che lei
la guardava. Improvvisamente si era fatta largo tra la folla ed era scesa dal
treno, o forse era risalita su un'altra vettura. Nella folla di Victoria Station
e per tutto il tragitto fino a casa Barbara si era sentita pedinata.
Ecco Victoria. Poté finalmente lasciarsi alle spalle i tifosi. Mentre aspet-
tava il treno per Otford diede un'occhiata ai titoli dei giornali: il processo
Manson continua, fucili mitragliatori ritrovati tra i bagagli lasciati all'Hil-
ton di Londra. Certo, Angela non poteva piacere a tutti, ma quando le tor-
nava in mente in che modo la bambina si era rinchiusa in se stessa sotto lo
sguardo cattivo di quella donna veniva riassalita da un impeto di rabbia fu-
riosa.
Sul treno per Otford lasciò cadere la valigetta vicino al suo posto e si si-
stemò con un sospiro di sollievo. Il treno vicino sembrava la vetrina di un
cappellaio: gli uomini come tanti manichini tenevano la bombetta sollevata
per asciugarsi la fronte, uno si faceva vento con la tesa, prima di rimetterla
a posto. Ben presto il suo treno superò Battersea Dogs' Home, un nome
che faceva sempre ridere Angela. A Pecknam Rye i palazzi alti comincia-
rono ad allontanarsi verso l'orizzonte, lasciando il posto ai villaggi. Sopra
il Kent il cielo cominciava a guastarsi, facendosi del colore del crepuscolo
e della pioggia.
Mentre raggiungeva Otford sentì un tuono lontano, il rumore delle colli-
ne che venivano spazzate dal vento sotto il cielo di piombo. Il treno si fer-
mò lentamente e poi nulla più si mosse nella stazione deserta, sulle colline
colpite dalla gelida luce dei lampi. Era come se l'aria si fosse mutata in re-
sina trasparente.
Era a metà del ponte pedonale quando vide che la stazione non era del
tutto deserta. Sul marciapiede per Londra c'era una donna. Si spostò sotto
il ponte mentre Barbara lo attraversava, quasi cercando di nascondersi.
Senza riuscire ad afferrare il motivo per cui lo faceva, e dandosi anzi
della paranoica, Barbara si affrettò per poter vedere la faccia della donna.
Era quasi ai piedi della scala del passaggio sopraelevato quando si rese
conto che era Jan.
Non l'aveva mai vista così preoccupata — Jan pareva addirittura rimpic-
ciolita — eppure quella mattina Nigel non aveva niente di più di un raf-
freddore. Chi stava badando ad Angela? Fece di corsa gli ultimi gradini. «
Che c'è Jan? Nigel sta peggio? »
Esitò, vedendo che Jan retrocedeva, che si stringeva il petto con le mani.
Stringendosi in quel modo non poteva non farsi male, ma pareva non sentir
nulla. « Oh, Barbara, mi dispiace », disse.

Capitolo 5

Barbara si svegliò al rumore del tuono, senza riuscire a capire che cosa
non andava. Non che il rumore fosse minaccioso, dovevano essere i passi
di Angela di sopra. Non avrebbe voluto addormentarsi in poltrona, ma a-
desso doveva proprio svegliarsi: non poteva lasciare la bambina su da sola
per troppo tempo.
Poi i passi cessarono e sentì Jan mormorare qualcosa. I passi erano quel-
li di Nigel, nella casa accanto. La voce sommessa di Jan fu come una fru-
stata sui nervi scoperti e di colpo ricordò. Erano passate settimane, ma lei
era ancora là che correva dalla stazione — solo che ora sapeva che cosa
l'aspettava una volta arrivata a casa.
Si era messa a correre prima che Jan potesse spiegare. Le case erano al
di là dei lunghi giardini, le foglie degli alberi sembravano lucidate con l'o-
lio. Tutto la serrava, l'opprimeva, tutto vicinissimo ma irreale, tutto piatto
come il cielo oscuro. Non un uccello, che cantava. Nulla si muoveva tran-
ne lei, ogni cosa cercava di trattenerla.
Jan ansimava accanto a lei balbettando: « Qualcuno è andato all'asilo.
Ha detto che era venuto lui perché io dovevo badare a Nigel. Ero in ritardo
solo di un paio di minuti ». Barbara non la sentiva quasi; ci sarebbe stato
tempo per le spiegazioni quando fosse arrivata a casa, quando avesse visto
di persona cosa era successo ad Angela. Correva incespicando lungo Pala-
ce Field, lungo il sentiero segnato dagli zoccoli dei cavalli; la ventiquattro-
re piena di libri per Angela le strisciava dolorosamente contro la coscia. Il
cielo aveva invaso le finestre della torre in rovina, aveva reso grigio come
il fango il torrente, togliendogli ogni luce.
Delle facce guardavano giù dalla casa di Jan. C'era Miss Clarke, la diret-
trice dell'asilo, una donna tarchiata di mezza età, piuttosto stupida, secondo
Barbara, ma a cui i bambini erano affezionati. C'era Keith. E c'era il gros-
so, paterno sergente della stazione di polizia. Alla vista di quest'ultimo il
cuore di Barbara ebbe un tuffo, ma se non altro c'era lui a prendere in ma-
no le cose. Ora tutto sarebbe andato certamente bene.
Il sergente uscì dalla casa nel momento in cui lei superava il cancello. Il
viso dell'uomo si distese, assunse un'aria professionalmente solenne e ras-
sicurante, mentre lei attraversava di corsa il grande giardino comune. «
Non deve preoccuparsi, Mrs. Waugh. La polizia di contea è stata avvertita.
Controlleranno tutte le macchine. »
Il cielo scuro parve precipitarsi su di lei, inondarle il cervello. « Non so
di che cosa stia parlando. »
« Ho cercato di dirglielo », disse Jan quasi supplicando, « ma non mi ha
ascoltato. Barbara, qualcuno è andato da Miss Clarke e ha portato via An-
gela. »
Barbara ora era seduta su una sedia da giardino e non riusciva a ricorda-
re come c'era arrivata; il giardino le ballava davanti agli occhi. « Chi glie-
l'ha lasciata prendere? » chiese.
« Non puoi prendertela con Miss Clarke », disse Jan con ansia. « Non
aveva alcun motivo per sospettare qualcosa. »
Non doveva farsi prendere dall'emozione, doveva sapere tutto per essere
sicura che non avessero trascurato niente, doveva parlare per non rimanere
sola con le sue sensazioni. « Quanto tempo è passato prima che avvertiste
la polizia? »
« In un primo momento non sapevo cosa era successo. Quando sono ar-
rivata Miss Clarke era già andata via. Se n'era andata dopo che tutti i bam-
bini erano usciti. L'ho cercata dappertutto facendo continuamente la spola
tra il paese e qui nel caso che Angela tornasse. Nessuno le aveva viste, né
l'una né l'altra. Ho pensato che magari erano insieme. » Pareva aver paura
di andare avanti. « Ho trovato Miss Clarke dopo un'oretta e siamo andate
direttamente alla polizia. »
Accanto a lei il sergente sembrava perfetto per confortare la gente e per
convincere i bambini a non rubare le mele, ma era in grado di riportare
Angela? « Lei ha detto che stanno controllando le macchine », disse Bar-
bara. « Avete preso la targa? »
« Non ho neppure pensato a guardare », intervenne Miss Clarke, che era
uscita anche lei, sistemandosi gli occhiali sul naso. « Sono sicura che
nemmeno lei avrebbe guardato, Mrs. Waugh. »
« Ha visto la macchina? » Quando la donna annuì Barbara si volse al
sergente, che almeno non era così irritante. « Allora se non altro sapete la
marca. »
« Be' no, veramente no. » Gli occhiali di Miss Clarke le scesero di nuovo
sul naso; un dito li rimise a posto. « Purtroppo non le distinguo. »
« Sappiamo che è nera, o blu scuro », disse il sergente, « e pensiamo che
sia una giardinetta.»
Quando Miss Clarke annuì piena di fiducia, Barbara sentì la voglia di ti-
rarle un pugno in faccia. « Come avete potuto permettergli di portarla via?
»
« Sono certa che anche lei lo avrebbe fatto se si fosse trovata al mio po-
sto, Mrs. Waugh. Era vestito benissimo e da come parlava pareva una per-
sona molto per bene. Ma se davvero era un criminale come dite tutti quan-
ti, come facevo a fermarlo, secondo voi? Sono solo una donna, sapete, e
avevo anche da badare a tutti gli altri bambini. In ogni caso », concluse
quasi trionfalmente. « non pareva assolutamente un cattivo soggetto. An-
gela è andata con lui molto volentieri. »
« Che cosa le ha detto? »
« Non saprei dire con precisione. "Ciao Angela, sto con tua zia Jan. Fai
alla svelta o mi multano per parcheggio vietato. " Be', lo sapete tutti come
è stretta, effettivamente, la strada. »
I denti di Barbara avevano cominciato a battere. « Non le è sembrato
strano che avesse bisogno di una macchina per un tragitto così breve, fino
al villaggio? »
« A me la macchina non è mai servita. E poi è facile ragionare con il
senno di poi. » Miss Clarke cominciava a indispettirsi seriamente con i
suoi occhiali. « Lei, Mrs. Waugh, l'ho vista prendere la macchina per di-
stanze anche più brevi », concluse.
Se Barbara avesse risposto l'avrebbe fatto urlando, ma il sergente stava
indicando l'auto che aveva appena lasciato la carrozzabile. « Ecco, dovreb-
be essere la polizia di contea. »
Barbara riuscì a mettersi in piedi, nonostante il tremito. Ma il poliziotto
era solo e non aveva niente di nuovo da riferire. Era giovane ed efficientis-
simo, e sembrava molto contrariato per come era stato permesso a tutti di
disporsi così disordinatamente davanti alla casa. Condusse il sergente giù
per il vialetto nel giardino per fargli delle domande, poi andò da Barbara. «
Possiamo entrare in casa, per favore? »
Appena dentro iniziò a interrogarla. Non pareva particolarmente parteci-
pe, ma probabilmente sentiva che non ce n'era il tempo. Neppure lei dove-
va perdere tempo ad avercela con lui. Viveva sola? Dov'era suo marito? Di
che si occupava quando era vivo? Aveva lasciato un'eredità consistente?
Qual era la sua occupazione? Quanto guadagnava? C'era qualcuno che po-
tesse ritenere di avere dei diritti sulla bambina? Le veniva in mente nessu-
no che corrispondesse alla descrizione del rapitore? « Nessuno », rispose
lei. « Come faceva a sapere tutti i nomi, quello della mia bambina, quello
della vicina? »
« Può darsi che lei abbia chiamato per nome sua figlia in strada. I nomi
degli adulti sono nelle liste elettorali. Sembra un lavoro fatto da un profes-
sionista. Forse hanno pensato che, vivendo in un posto come questo, lei
poteva permettersi di pagare un riscatto, o forse se ne erano accertati. »
Possibile che fosse invidioso? Ora la stava informando del tipo di tele-
fonate che probabilmente avrebbe ricevuto. Per il momento non le avreb-
bero messo l'apparecchio sotto controllo, ma se il rapitore le telefonava, lei
doveva chiamare immediatamente la polizia. Uscì per interrogare gli altri,
e per Barbara non ci fu altro da fare che aspettare, più niente che le impe-
disse di chiedersi come aveva potuto interessarsi così poco di Angela, più
niente che le bloccasse il tremito che si diffondeva per tutto il corpo.
Ma poi quel tremito si era placato, lasciandola fragile e vuota, con il pe-
ricolo costante di andare in pezzi. Forse era così che si sarebbe sentita, se
ne avesse avuto il tempo, quando era morto Arthur, ma ora c'era in più il
senso di colpa, il senso di colpa che invadeva lei e quello che aveva attor-
no, facendole apparire tutto squallido, meschino, indegno. Stava ancora
aspettando, e la cosa peggiore era che non poteva mettersi in macchina e
girare in cerca di Angela: non aveva il coraggio di lasciare la casa. Per set-
timane, ogni volta che sentiva un'auto, si irrigidiva, scattava con violenza
tutte le volte — poche — che suonava il telefono. Di là dalle finestre le
giornate serene sembravano finite. Niente era reale, tranne l'insopportabile
silenzio della casa.
Quando il giornale che teneva in grembo scivolò a terra, lo raccolse au-
tomaticamente. Le era venuta l'ossessione che il rapitore potesse mettersi
in contatto non per telefono, ma con un annuncio su uno dei giornali locali.
Se avesse accennato a qualcosa che solo lei e Angela potevano sapere? In
quel caso la polizia non avrebbe capito che era quello il messaggio. Era
terrorizzata all'idea che potessero far del male ad Angela se avessero sapu-
to che c'era di mezzo la polizia.
Ma non c'era niente del genere negli avvisi personali. E se era nascosto
in un'altra rubrica per ingannare meglio la polizia? Cercò tra gli annunci
delle case e delle macchine usate finché non si rese conto che l'unica che
stava ingannando era lei. I bambini della ferrovia, Guai con le ragazze,
Cuore di mamma... Piegò in fretta il giornale, prima di continuare a cercare
nella pagina degli spettacoli.
Rimase con gli occhi fissi sui titoli della prima pagina finché non co-
minciarono a tremolare come fiamme. Sentiva gli occhi ritirarsi dentro la
testa. A volte le pareva di vedere Arthur, sulla porta o in cima alle scale,
che cercava di rassicurarla. Era certo un sogno che la sua insonnia spinge-
va fin nelle ore di veglia, un'allucinazione, come quella della voce lontana
della bambina che chiamava « Mamma! ». Forse lui era sempre stato un'al-
lucinazione, pensò con amarezza.
Andò di sopra, nella stanza da bagno, per svegliarsi in qualche modo. I
primi tre scalini cigolarono, rammentandole che non c'era più nessuno che
si rischiava di svegliare. Desiderò che i bambini della porta accanto faces-
sero più rumore — questo almeno l'avrebbe convinta che aveva qualcuno
vicino — ma Jan li aveva tenuti tranquilli per tutte quelle settimane. Jan
era stata così di aiuto, così sollecita che ben presto Barbara si era sentita
quasi soffocare.
Sulle prime Jan e Keith avevano tentato di farla uscire di casa, almeno
per andare da loro a cena, finché non avevano rinunciato davanti alla sua
ostinazione. Poi avevano cominciato ad andare a trovarla con l'inesorabile
allegria di visitatori al capezzale di un moribondo. Alla fine era riuscita a
convincerli che voleva rimanere sola, e Jan aveva continuato a insistere so-
lo per andare a fare la spesa per lei. Era evidentissima l'ansia di Jan di farsi
perdonare, ma se Angela tornava a casa sana e salva, quando Angela fosse
tornata a casa sana e salva, Jan non avrebbe avuto niente da farsi perdona-
re.
In bagno si spruzzò acqua fredda sugli occhi. L'acqua scivolò lungo il
viso come lacrime, ma tempo per piangere non ce n'era. La comprensione
di tutti sembrava tesa a qualche scopo particolare: sentiva che tutti cerca-
vano di prepararla a qualcosa che doveva essere già successo — ma lei non
aveva nessuna intenzione di prepararsi, sarebbe stato terribile quanto desi-
derare il peggio pur di smettere di soffrire. Purché Angela fosse tornata da
lei, nient'altro aveva importanza. Avrebbe dato tutto quello che aveva.
Come se quel pensiero avesse ridato il via all'azione, sentì bussare alla por-
ta d'ingresso.
Improvvisamente si sentì lo stomaco e tutta la carne del corpo a nudo
come gli occhi. La testa le girò e temette di sentirsi male. Poi si rese conto
che non aveva udito nessuna macchina arrivare. Doveva essere un'altra do-
se di simpatia dalla porta accanto: non preoccuparti, cerca di tenere la
mente sgombra, non aiuterai Angela se ti riduci in questo stato. Solo quan-
do i colpi si ripeterono si accorse che non era il modo di bussare di Jan o di
Keith o dei bambini e allora si mise a correre.
Capitolo 6

Quando aprì la porta si trovò di fronte Miss Clarke. Accanto a lei c'era
una donna che sembrava un'attrice: il trucco copriva le rughe del viso, su
cui spiccava una fiammata di capelli rossi come il mantello di un setter;
dalle maniche uscivano un paio di polsini di seta, giri e giri di sciarpe le
formavano un collare attorno alla gola; i braccialetti le tintinnavano ai pol-
si quando alzò le mani in un gesto di immediata partecipazione. Forse la
partecipazione era il suo lavoro.
« So che non riceve visite, Mrs. Waugh, ma mi sentivo in dovere di fare
qualcosa per lei. » Il tono di Miss Clarke era di quelli che non ammettono
repliche. « Questa signora può aiutarla. »
« Ma vai a farti fottere, maledetta imbecille. » Barbara riuscì a stento a
non dirlo, e si rese conto che stava diventando aspra in maniera ingiustifi-
cata. Non stava forse usando Jan e Miss Clarke come capri espiatori per il
suo senso di colpa? Poteva permettersi di rifiutare l'aiuto di chicchessia, di
rifiutare qualsiasi aiuto che potesse farle ritrovare Angela? « Lei è molto
gentile », disse. « Prego, accomodatevi. »
La donna piena di sciarpe la oltrepassò, togliendole il respiro con il suo
profumo, e andò direttamente nel soggiorno, la cui finestra dava sui campi.
« Eccola! » esclamò.
Quando Barbara la raggiunse, con il cuore che martellava e la bocca sec-
ca, la trovò che osservava la fotografia di Angela sul caminetto. « Oh, cara,
che splendida bambina. Si calmi adesso, la prego. Sono qui per trovarglie-
la. »
D'un tratto Barbara si fece sospettosa. « Che cosa fa, esattamente, la sua
amica? »
« E un'esperta di psicometria », spiegò Miss Clarke, come se quella pa-
rola bastasse a mettere a tacere ogni obiezione.
« Intende dire », disse Barbara sul punto di scoppiare dalla rabbia, « che
è una di quelle che pretendono di ritrovare le persone scomparse maneg-
giandone qualche oggetto personale? »
« È più di una pretesa, Mrs. Waugh. Le ho visto fare cose che non so
spiegare, e io non sono un tipo da farsi imbrogliare facilmente, no? Deve
assolutamente dare questa possibilità ad Angela. »
La psicometra si era stretta la fotografia alla fronte; sui vetri era rimasta
una macchia di trucco. « C'è un capo di abbigliamento che alla sua piccola
piace particolarmente? »
« Sì », annuì stancamente Barbara, « una o due cose. »
« Mi porti la sua preferita, svelta. » La psicometra, o l'attrice — Barbara
non era del tutto convinta che non fosse la stessa cosa — sedette alla scri-
vania di Barbara, con i pugni serrati contro le tempie. « E un atlante del
mondo », aggiunse.
« Non ne ho. »
La donna parve emergere da una leggera trance. « Non importa, sono si-
cura che è ancora in questo paese. Un atlante della Gran Bretagna andrà
benissimo. »
L'atlante stradale di Barbara ce l'aveva Keith, e non sarebbe rientrato
prima di qualche ora. « Non ho nemmeno quello. »
« Eppure Miss Clarke mi aveva detto che lei lavora nell'editoria. Altri-
menti l'avrei portato io. » Pareva che stesse dicendo: come faccio a fare il
mio lavoro se gli altri non fanno il loro? « Pazienza », disse magnanima-
mente. « Vedremo quanto ci dice il vestito. »
Sulle scale Barbara si sentì mancare il fiato. Non era soltanto l'afosa
giornata di ottobre; si sentiva addosso una sensazione di disagio fisico,
come un sudore freddo e attaccaticcio. Che altro poteva essere questa sto-
ria se non una farsa? Entrò barcollando in camera di Angela. L'aveva mes-
sa in ordine, per distrarsi, nella prima settimana in cui era stata lasciata in
pace, ma ora desiderò averla lasciata com'era, in attesa che Angela tornas-
se a casa. Poi si rese conto che la psicometra continuava a parlare di Ange-
la al presente, mentre lei era certa che Jan e gli altri pensassero a lei al pas-
sato. Trovò la tutina preferita di Angela e la portò di sotto.
La donna pareva non essersi mossa. Stava studiando la foto poggiata sul
tavolo davanti a sé come se le fosse necessario fissarsi in mente ogni mi-
nimo particolare, anche se la fotografia non era recente: ora i capelli biondi
di Angela non erano più ricci, ma le scendevano lisci sulle spalle, gli occhi
erano di un azzurro ancora più penetrante; l'immagine non poteva mostrare
come s'erano fatte lunghe le sue gambe, come fosse già aggraziata nella fi-
gura. Ma la donna era così immersa nella foto che non distolse lo sguardo
neppure quando Barbara le porse la tuta. « Sì », disse, « è proprio quello
che mi serve. »
Miss Clarke fece cenno a Barbara di sedere e stare zitta. Non appena
prese posto accanto al tavolo pensò che avrebbe fatto bene ad accendere la
luce: le nuvole, spuntando dalle colline, stavano coprendo il cielo già buio;
l'atmosfera nella stanza, caldissima e in penombra, si stava facendo irrespi-
rabile per il profumo della donna. Ma forse la luce artificiale sarebbe stata
una distrazione per la medium; ora questa aveva chiuso gli occhi e teneva
vicino a sé la tutina di Angela, con la parte inferiore in grembo. Tra la poca
luce e lo stordimento dovuto all'insonnia, Barbara credette per un attimo di
vedere la donna con un bambino vero in braccio.
« Che splendida bambina », disse la psicometra. « E ancora più bella è di
dentro. » Certo, pensò Barbara, questo avrebbe conquistato una madre più
credulona di lei. A che altro poteva servire questo, oltre che a una vaga
rassicurazione? Continuava a impedirsi di credere, come uno che non vo-
glia addormentarsi.
« Ora porta i capelli più lunghi », continuò la psicometra. « Sì, la vedo,
una bambina alta con i capelli biondi e lunghi. » Poteva benissimo esserse-
lo immaginato dalla fotografia, o poteva averglielo detto Miss Clarke. La
sua visione di Angela era stata così immediata da essere sospetta — o for-
se era Barbara ad aver paura di sperare troppo presto? « Ha qualcosa sulla
spalla », proseguì la donna.
Barbara si irrigidì, sull'orlo di una crisi di tremito. « Che cos'è? » chiese.
« Non lo distinguo bene. Sembra un distintivo — sì, una specie di distin-
tivo. Porta un distintivo sulla spalla? » Prima che Barbara potesse decidere
come rispondere la donna continuò: « Aspetti, adesso vedo meglio. È una
ferita, una ferita sulla spalla destra. »
« No », rispose Barbara stancamente. « Non ha niente sulla spalla destra.
»
« Forse era vero quando l'ha vista lei l'ultima volta. » Liquidò l'intoppo
in uno scampanellare di braccialetti. « Ma non dobbiamo preoccuparci so-
lo del suo corpo, mia cara. L'importante è l'anima. »
Se era questo il genere di cose che aveva da offrirle, per quel che riguar-
dava Barbara era meno che inutile. Il profumo era soffocante come incen-
so; la tutina di Angela ciondolava, a gambe inerti, vuota. Ma la psicometra
si drizzò a sedere, stringendola tra le mani. « Oh, cara, vorrei tanto che po-
tesse vedere la sua anima. »
Intendeva dire che lei la vedeva? Evidentemente sì, perché continuò: «
Ha così tanto da dare. Ha già un grande potere spirituale. Crescendo impa-
rerà a usarlo. »
Barbara stava per dire che ne aveva abbastanza — bastavano già gli in-
cubi che aveva da sveglia, su quello che poteva essere capitato ad Angela:
non aveva bisogno di queste idiozie per peggiorare le cose — quando la
psicometra chiese: « Le ha mai parlato di visioni? »
Angela era solo una bambina, una bambina in pericolo; quale aiuto po-
teva darle tutto ciò? Ma di tutto quello che aveva detto finora la donna,
questa era la prima cosa che sembrasse più di un elemento indovinato a ca-
so. « A volte diceva delle cose molto strane », ammise cautamente Barba-
ra.
« Non è strana, è meravigliosa. » Il tono era di rimprovero. « Ma l'avver-
to, non tutti la vedono così. La troveremo, di questo non deve preoccupar-
si, mia cara. Ma l'avverto », ripeté, fissando Barbara con gli occhi spalan-
cati, « chi l'ha presa rappresenta per lei un gravissimo pericolo. Bisogna
trovarla prima che loro distruggano quello che c'è in lei. »
« Si faccia coraggio », fece Miss Clarke. « La troverà, ne sono sicura.
Quello che le serve è soltanto una mappa. »
« Va bene », disse Barbara d'un tratto, « vado a prenderla. » Non soppor-
tava più di star seduta lì, soffocata dalla penombra, dall'inattività, da quel
profumo che dava alla testa. Forse Keith aveva lasciato a casa l'atlante, og-
gi; se no, avrebbe chiesto agli altri vicini finché non ne avesse trovato uno.
Così almeno avrebbe saputo se la psicometra aveva altro da offrire oltre a
quelle stupidaggini prive di senso.
Non appena ebbe aperto la porta d'ingresso si arrestò: un uomo grosso si
stava dirigendo verso le case districandosi a fatica nel traffico del rondò.
La scarsa luce confondeva tutto e così per un pezzo non poté essere sicura
che si trattasse del sergente di polizia. Per un momento pensò come in un
sogno che potesse dargliela lui una carta.
Quando il sergente mise piede sul sentiero le parve di uscire dal sonno:
la testa le pulsava come un dente cariato, i nervi le si contraevano. Fu tale
la cura con cui l'uomo chiuse il cancelletto prima di avvicinarsi, che seppe
con certezza che non veniva volentieri.
« La prego, Mrs. Waugh, entriamo in casa. Mi dispiace, ma devo farle
una domanda. »
Se doveva domandare, allora non c'era niente di definitivo, ma lei ebbe
paura di insistere che le parlasse subito lì fuori. Anche se le tremavano le
gambe lo precedette in fretta nel soggiorno. Lui accese la luce e la psico-
metra lo fissò a occhi sbarrati, sbattendo le palpebre come un pipistrello. «
Che sta facendo? » chiese Miss Clarke, e poi lo riconobbe.
Il sergente fece sedere Barbara e si chinò su di lei.
« Mrs. Waugh, lei ha detto che Angela portava un abito a righe bianco e
azzurro con una cintura. C'è qualcosa che ha trascurato di dirci? »
Non lo reggeva quel gioco. « Di che genere? »
« C'è qualcosa a proposito della cintura che non ci ha detto? »
La pulsazione nella testa ora era più acuta; non voleva parlare. « Aveva
perso la cintura di quel vestito e io ne ho presa una da un altro abito. Non
si vedeva quasi la differenza », gemette. « Era di una sfumatura più chiara,
questo è tutto. »
La faccia dell'uomo si rabbuiò. « Sono terribilmente desolato, Mrs.
Waugh, ma sembra che l'abbiano trovata. » C'era qualcosa che doveva ri-
cordare, qualcosa che avrebbe annullato l'orrore che la minacciava... « Il
vestito non conta », disse, sul punto di cadere in una crisi isterica. « Se non
hanno trovato la voglia sulla spalla allora non può essere sicuramente An-
gela. »
« Una voglia », esclamò la psicometra. « Certo, ecco che cos'era quello
che ho visto. »
L'uomo si accigliò, con un'occhiata interrogativa, ma poi fissò con tri-
stezza Barbara. « Ho paura che non possano identificarla da questo, Mrs.
Waugh. Le hanno sparato a bruciapelo con un fucile. »
E poi non ci fu altro che il vuoto, dentro Barbara e fuori di lei. Da qual-
che parte la psicometra stava dicendo: « Quando è stata uccisa? »
« Dev'essere stato questa mattina presto. » La donna corse da Barbara,
tentò di prenderle le mani. « Mrs. Waugh, deve ascoltarmi. Non è Angela.
Lei era ancora viva quando ho toccato il suo vestito. In questo momento lei
è viva, e in pericolo. »
Barbara si alzò di scatto, urtando la donna e facendola indietreggiare. Le
strappò di mano la tuta e la strinse forte, sentendo solo com'era vuota. « E
devo pensare », disse con una voce così piena di odio, di disgusto e di do-
lore che non sembrava quasi più la sua, « che hanno ucciso un'altra bambi-
na per farmi credere che fosse Angela. »
Il sergente intervenne, « Credo che sia meglio che vada via, Miss Clarke,
e che la sua amica spiritista venga con lei. » A Barbara non importava più;
lo sfogo sembrava averle tolto tutta la forza che le restava e poté solo la-
sciarsi cadere in una poltrona. Lui tornò subito a parlarle e dopo un po' ar-
rivarono anche Jan e Keith, ma lei non riusciva ad afferrare quello che le
stavano dicendo o facendo. Di nient'altro era consapevole che della vuo-
tezza della casa.
E questo fu tutto, per tanto tempo. Continuava a comparire gente — un
medico la visitò, Jan rimase con lei il più possibile visto che Barbara si ri-
fiutava di lasciare la casa — ma lei non si accorgeva quasi di quando arri-
vavano o se ne andavano. A volte scopriva di essere davanti a dei piatti
con dentro del cibo che qualcuno aveva cominciato a mangiare tanto tem-
po prima. Tendeva a rimanere al piano di sotto, perché il gemito dei primi
tre scalini le faceva accapponare la pelle, continuava ad addormentarsi qua
e là per la casa e a dimenticare. Sembrava non sapere più chi fosse o chi
fosse stata. Ogni volta che le veniva in mente il suo lavoro a Londra il sen-
so di colpa le toglieva il fiato. C'erano dei ricordi di Angela, ma sentiva di
non averne più diritto.
Dopo diversi giorni e diverse notti, che erano passati strisciando su per
le colline e attraverso la casa, ci fu un funerale. Pareva incapace di afferra-
re l'idea che quella piccola cassa chiusa aveva qualcosa a che fare con lei.
Mentre veniva inghiottita dal crematorio, ne immaginò le fiamme, che
sfumavano via. Quando cominciò a rabbrividire Jan le si fece più vicina,
nella speranza certo di consolarla, di scontare così un po' della sua colpa.
Ma Barbara era scesa ancora più in profondità nel vuoto di se stessa, in un
luogo inaridito dove lacrime non ce n'erano.
Era passato del tempo — dei giorni forse — e Jan stava dicendo: « Per-
dio, spero che lo prendano quel porco. Lo so io quello che gli farei ». Im-
provvisamente Barbara la trovò insopportabile: questo avrebbe in qualche
modo riportato Angela? Finalmente, proprio nel momento in cui Barbara
stava per mettersi a urlare, Jan accettò l'idea che volesse essere lasciata in
pace. Appena sola poté ammettere con se stessa che cosa aveva intenzione
di fare.
Accese l'intercom che la collegava con la camera di Angela e attese, spe-
rando, pregando incoerentemente. Il ronzio delle scariche di fondo, lontane
voci metalliche la raggiungevano per poi svanire. La casa si fece buia, il si-
lenzio più profondo, e infine si rese conto che stava seduta lì come una ca-
tatonica, sperando ciecamente nel fantasma della sua bambina assassinata.
Questo non poteva che sprofondarla ancor di più nella disperazione. A un
tratto il disgusto per se stessa fu così forte che riuscì a tirarsi indietro.
Il giorno dopo, di prima mattina, ammucchiò tutti i giocattoli, i libri e i
vestiti di Angela nella macchina e uscì da Otford. Non aveva idea di dove
stesse andando; presto si trovò a Madstone, dove l'odore del malto impri-
gionato sotto le grevi nuvole di novembre era quasi soffocante. Quando
trovò una vendita di beneficenza nel cortile di una chiesa, lasciò tutti gli
oggetti di Angela sul primo tavolo e fuggì. In aperta campagna, tra le nere
colline inzuppate di pioggia, lasciò la macchina in pieno temporale e
camminò in circolo per chilometri, singhiozzando e ricordando.
Passò dei giorni a odiarsi perché sentiva il desiderio di tornare al lavoro;
era stato quel desiderio a uccidere Angela. Ma se non tornava a lavorare
poteva tornare solo al vuoto di se stessa. Quando fu nuovamente alla sua
scrivania di Londra, si gettò con tale foga nel lavoro che per un po' parve
non avesse tempo di pensare a nient'altro. Ma invece tutto risvegliava i
suoi ricordi — le cose che la gente evitava di dire, la particolare considera-
zione con cui i suoi colleghi e Jan la trattavano, i bambini e i ragazzi che
trovava nella metà dei libri che le toccava di leggere. Non erano quelle le
sole ragioni per cui si era finalmente decisa a usare l'eredità di Arthur e il
denaro proveniente dalla vendita della casa per trasferirsi a Londra e aprire
la sua agenzia, ma il trasferimento l'aveva aiutata a guarire, ad accettare il
fatto che Angela se n'era andata per sempre. Solo che ora, a nove anni di
distanza, una voce al telefono la stava chiamando mamma.

Capitolo 7

Sotto la cupola il cielo notturno era come in trappola, e la luce cresceva


tra le stelle. Sulle prime erano le nuvole che parevano cristalline, nuvole
dal complicato disegno verde, azzurro e violaceo che scivolavano l'una
sull'altra, dispiegandosi. Poi venne un enorme scarabocchio di forme geo-
metriche, matematica al neon dal cielo. Gomitoli di colori attraversarono le
stelle come spinti per gioco da gattini giganti, volute di luce scesero ruo-
tando a prendere al laccio il pubblico, fiori geometrici sbocciarono e si
chiusero e sbocciarono ancora. Poi le forme presero a susseguirsi troppo
rapide per descriverle, così rapide che Judy dimenticò di avere ben nove
anni e si mise a gridare dalla gioia.
« Che bello », esclamò, quando le luci della sala si riaccesero. « Grazie,
papà. » Uscì saltellando dal planetario su Baker Street mentre gli occhi di
Ted stavano ancora adattandosi alla luce: gli pareva che i disegni del tap-
peto fossero sul punto di mettersi in movimento. Quando la raggiunse, al
margine di un gruppo di ragazzi, lei disse: « La settimana scorsa mamma
mi ha portato al museo, ma mi sono divertita molto meno di oggi ».
Nella metropolitana la mappa dei treni sembrava il disegno dello spetta-
colo laser. « Ecco, magari alla mamma non lo direi in questo modo », le
suggerì Ted.
« Certo che no. » La furbizia nel sorriso di sua figlia lo stupì. Spesso i
segni che ne mostravano la crescita lo prendevano di sorpresa. Certo, ogni
volta che la vedeva era di una settimana più grande.
Scese dì corsa la scala mobile, poi lo raggiunse risalendo controcorrente
gli scalini. In attesa del treno gli tenne la mano e d'un tratto lui le vide u-
n'aria da donna, con quel vestito che le arrivava alle caviglie. Era consape-
vole di quanta fierezza gli dava lo stare con lei? Secondo lui sì. Mentre sa-
livano sul treno le chiese: « Zio Steve vi ha portato di nuovo fuori tutt'e
due? »
« Aveva detto che ci portava in vacanza, ma poi invece è andato in Su-
dafrica. Non credo che a mamma piaccia troppo. »
« Che peccato. » A Judy piaceva abbastanza e, da quello che raccontava,
Steve le si era affezionato. Steve era un commercialista, ma a quanto pare-
va non era affidabile, fuori dal lavoro. C'era da scommettere che ora Helen
si sarebbe fidata degli uomini ancora meno.
Uscirono alla luce di Highbury e Islington. In Upper Street i negozi era-
no concentrati disordinatamente uno vicino all'altro come scatole dimenti-
cate su uno scaffale a scolorirsi alla polvere e al sole. Sopra i negozi si ac-
calcavano gli appartamenti, sulla porta a vetri di un ristorante gli adesivi
del Fronte Nazionale spiccavano accanto a quelli delle carte di credito, un
tavolo da toletta spuntava da un negozio di mobili d'occasione, con uno
sportello a specchio ciondolante e privo di cardini. « Ti piace abitare da
queste parti? » le chiese con tono disinvolto.
« Sì, è proprio bello, davvero. Ma mi piaceva di più la nostra vecchia ca-
sa. »
Aveva creduto che fosse troppo piccola per ricordarsene. Lo aveva spe-
rato, perché i suoi ricordi, pensava, non dovevano essere molto piacevoli:
l'appartamento così piccolo, insopportabilmente piccolo una volta arrivata
la bambina; i litigi che dovevano certamente oltrepassare la parete della
camera, quando lui e Helen si scontravano trovando sbagli in tutto quello
che faceva l'altro. Poteva solo sperare che la bambina non si rendesse con-
to di essere lei la causa dei litigi.
Una squadra di operai stava sventrando delle bianche case georgiane per
fare spazio ai nuovi appartamenti. Helen abitava in fondo alla strada latera-
le, oltre una bassa arcata che probabilmente un tempo conduceva alle stalle
e che ora dava su un piccolo complesso di appartamenti. Uscì sulla porta
prima che Judy potesse suonare, con le mani rosa come quelle di un mani-
chino con i guanti di gomma. « Spero che vi siate divertiti », disse.
« È stato bellissimo, mamma, più bello di Incontri ravvicinati. E poi è
stato buffo, l'uomo ha detto che se qualcuno aveva portato qualcosa da fu-
mare doveva andare a farlo fuori. Ci siamo messi tutti a ridere, perché ab-
biamo capito che non intendeva il tabacco. »
Quando corse in camera sua, Helen commentò: « Non mi pare che sia
una buona idea portare Judith a sentire cose del genere ».
« Dio santo, l'ho portata solo a uno spettacolo di laser. Mica a un comi-
zio per la legalizzazione della droga. » Non aveva voglia di discutere: lei
appariva stanca e disfatta; la fascia tra i capelli sembrava tirarle la faccia,
accentuando le rughe agli angoli degli occhi. « Lei cerca solo di far vedere
che è grande », continuò.
« Ah, è così che la pensi? » Evidentemente non riteneva che lui avesse
diritto a un'opinione. Improvvisamente, con un mutamento di umore creato
apposta per farsi notare, gli offrì da bere. « Buon compleanno », gli disse.
« Al mio libro giallo da finire quest'anno. Alle promesse finalmente
mantenute. »
Il sorriso di lei fu così stentato che parve più un rimprovero. Per quanti
sforzi lui facesse per cercare di mostrarsi cordiale, tutte le visite assomi-
gliavano ai postumi di un litigio. « Come vi vanno le cose? » chiese, spe-
rando di essere abbastanza neutrale.
« Judith è contenta. Questa è la cosa principale. »
« Ma non è l'unica cosa. E tu? Posso aiutarti in qualche modo? »
Lei lo guardò fisso. « Non riesco a immaginare come. »
« Be', per esempio », disse, pensando che lei non poteva guadagnare tan-
to alla libreria, « vorresti un aumento dell'assegno, ora che Judy sta cre-
scendo? »
« Checché tu ne possa pensare, ce la faccio benissimo. Se avrò bisogno
di altri soldi farò domanda al tribunale. Judith ti sembra vestita male? Ha
l'aria di non aver abbastanza da mangiare? »
Sentì che gli stava tornando alla gola il vecchio impulso di odio. Un
tempo lei era molto più intelligente, ma la maternità l'aveva come impri-
gionata, tanto che pareva che non riuscisse a pensare ad altro che alla fi-
glia. Ora gli impediva del tutto di raggiungerla: si comportava come se gli
alimenti fossero una punizione, continuava a chiamare Judy con il nome
intero per rimproverargli l'eccessiva familiarità che si permetteva con la
bambina. Ma fu proprio Judy a salvare la situazione. « Non glieli hai anco-
ra dati i regali, vero? » chiese con ansia.
« Aspettavo te. » Helen gli porse due pacchetti, una penna con il suo
nome inciso sul fermaglio da parte di Judy, una scatola di fazzoletti da par-
te sua — un regalo anonimo che voleva intendere, sospettò lui, che più di
questo non poteva permettersi. Judy lo abbracciò, Helen gli presentò il lato
del viso come se stesse porgendo l'altra guancia.
« Rimani con noi per la cena di compleanno? » chiese
« Mi dispiace, tesoro, ho già un impegno. » Quando la abbracciò di nuo-
vo, ne avvertì la delusione. Helen gli volse la schiena. Era stata lei a farle
credere che poteva rimanere, in modo da farlo sentire in colpa? Ancora a-
desso lei dava a Barbara Waugh la colpa del crollo del loro matrimonio,
anche se non era mai stata in grado di provare niente: non c'era molto da
provare.
Di nuovo in strada, dopo aver promesso di rivedere Judy il weekend
successivo, avvertì la sensazione di essersi lasciato dietro una parte di sé,
che sperava ancora di risolvere la situazione. Helen gli aveva sempre fatto
capire chiaramente che non desiderava che rimanesse a lungo. Gli conce-
deva una serie di istantanee settimanali di Judy, pronta a strappargliele di
nuovo di mano.
L'immagine gli piacque. Poteva metterla nel romanzo. Improvvisamente
si sentì allegro, con la mente più leggera.
Quando raggiunse il suo appartamento si stava facendo buio. Fece una
rapida doccia e si cambiò. Poi attraversò il complesso del Barbican diretto
a casa di Barbara. Lungo le gallerie, apparivano i pilastri tarchiati come
giganteschi barili rivestiti di grezza pietra grigia. Sopra i marciapiedi i
lampioni cominciavano ad accendersi, come cestini di rifiuti capovolti
riempiti di luce. Un accenno di tramonto indugiava sulle lastre di cemento
dall'altra parte del lago rettangolare.
Presto arrivò a casa di Barbara, una specie di bastione medievale, un'e-
norme poltrona di pietra. Qualche anatra nuotava lentamente verso la piat-
taforma di mattoni rossi che si spingeva nel lago sotto la chiesa di St. Gi-
les. In mezzo alle lanterne dall'alto stelo che sorgevano dalla piattaforma,
un salice faceva dondolare la sua chioma di bambola. Mentre le ultime luci
del tramonto raggiungevano il campanile della chiesa, pareva che le pietre
grigie si raffreddassero, mutandosi in cenere.
Barbara, sulla porta, gli augurò buon compleanno con un bacio, poi lo
precedette nell'atrio. I suoi capelli corvini si lasciarono dietro una scia di
profumo secco e dolce, e Ted colse con lo sguardo qualche filo d'argento
tra quel nero. Addio al nostro quarto decennio, penso per se stesso e per
Barbara.
Quando raggiunse la sala, lei si era già avvicinata al divano e stava na-
scondendo un album di fotografie che presumibilmente aveva guardato
prima del suo arrivo. Poi andò alla scrivania, dove pose un segnalibro nel
dattiloscritto che stava leggendo, e infine si diresse verso la cucina, in fon-
do alla sala. « Per me uno sherry », gli gridò.
Due minuti dopo aveva portato la cena in tavola: insalata, vino bianco
gelato, avocado. « Com'è andato finora il tuo compleanno? »
« Molto bene. » Aveva lasciato a casa i suoi regali — non era il caso di
farle pensare a Helen e Judy senza necessità — ma improvvisamente sentì
voglia di parlarne. « Judy mi ha regalato una penna con un'incisione. Deve
aver messo via i soldi per mesi. »
Forse il tono diceva di più di quanto volesse. « Rimpianti? » chiese Bar-
bara.
« Be', ora che sta crescendo le voglio più bene. È difficile credere che
non la sopportavo. » Non voleva che Barbara ricominciasse a sentirsi re-
sponsabile; qualcosa nel suo atteggiamento gli diceva che aveva già dei
problemi per conto suo. « Sai, probabilmente ce l'avrei anche fatta a non
dormire per un anno, ma quello era solo l'inizio. Helen insisteva a portarla
a letto con noi mentre avrebbe dovuto avere una camera sua. Te l'ho mai
raccontato? » Certo che gliel'aveva raccontato, proprio lì, nel suo apparta-
mento, la sera che lei gli aveva detto: « Non andartene, se non vuoi », ma
questo non era proprio il contesto giusto per ricordarle una cosa del gene-
re. « La colpa è di Helen », aggiunse, sperando che non paresse una rassi-
curazione troppo ovvia. « Non ha mai fatto niente per impedire a Judy di
arrampicarsi dappertutto. Dovunque io nascondessi i manoscritti Judy li
raggiungeva sempre, e Helen si comportava come se non avesse nessuna
importanza: potevo sempre chiederne un'altra copia all'autore. Qualche
volta penso che in questo lavoro uno non dovrebbe avere figli. »
Era così ansioso di rassicurarla che fece questa riflessione senza pensar-
ci. Quali facce perdute stava guardando nell'album? « Hai avuto tempo per
leggere il mio capitolo? » chiese in fretta.
« L'ho trovato, il tempo, visto che saresti venuto. »
« Non farti scrupoli di dirmi che è stato tempo sprecato. » Senza accor-
gersene gli era venuta una sensazione di disagio; mai chiedere agli amici di
dare un giudizio sul proprio lavoro, anche quando il loro compito è proprio
dare giudizi sui libri. « Voglio dire, lo so quanto sei occupata. I tuoi clienti
dovrebbero avere la precedenza. »
« Sono sicura che te ne rendi conto. Ma questo potrebbe essere un buon
libro, se lo finisci, Ted. Che cos'è che ti blocca? »
« Non conosco abbastanza l'ambiente degli investigatori privati. Non
riesco a prevedere quello che farà. »
« Ma questa è un'ottima cosa. Cerca di lasciarti prendere la mano dalla
storia. Occupati della trama e guarda in che modo rivela i personaggi. Se-
condo me consumi troppa energia a cercare di fare l'inverso. »
Quando era entusiasta, era molto più bella; i suoi occhi, sorprendente-
mente azzurri, diventavano più vivi, e lui rammentò quanta passione sa-
pesse mettere in quella bocca. Eppure gli parve di sentirla preoccupata,
oppressa. « Ti stai riprendendo dalla vendita del libro di Paul Gregory? »
chiese.
« Non è ancora davvero finita. Il grosso deve ancora venire, a New York
», rispose lei e balzò in piedi perché il telefono, in camera da letto, stava
suonando.
Forse aspettava la telefonata, forse per questo sembrava nervosa. Salì in
fretta la breve rampa e chiuse la porta. Evidentemente aveva lasciato il te-
lefono inserito nell'altra stanza perché non voleva che lui sentisse, ma la
voce gli arrivava ugualmente. Lui si guardò attorno per non cedere alla
tentazione di ascoltare: il mobile dell'hi-fi, il televisore, i tavolini inseriti
uno sotto l'altro, il divano di pelle che pareva un pezzo di cioccolato che
stesse sciogliendosi per il caldo, le numerose librerie. Sparsi per gli scaffa-
li, c'erano libri della Melwood-Nuttall che le aveva dato lui. Non voleva
pubblicarlo lui il suo romanzo, voleva che qualcun altro gli dimostrasse
che valeva la pena pubblicarlo.
Dopo poco ritornò e portò via gli avocado, pur non avendo finito il suo.
Tornò con il pollo. « Non so se hai sentito. La ragazza che doveva venire
in Italia con me ha deciso che non può più venire. »
Dietro di lei sulla parete c'era una litografia di Escher che rappresentava
un paese del sud dell'Italia: i piani lisci e precisi delle case e delle rocce su
cui erano costruite sembravano scolpiti in un unico blocco di marmo scre-
ziato; un'entrata misteriosa si intravedeva tra le colline in lontananza. « Mi
piacerebbe vederla, l'Italia », disse.
« Vieni con me, se puoi liberarti per la fine del mese. Provo a vedere se
è possibile passare a te le sue prenotazioni. » Improvvisamente pareva
molto più allegra e riuscì a mangiare quasi tutto il pollo prima che il tele-
fono suonasse di nuovo.
Stavolta sbarrò gli occhi per un attimo prima di riprendere il controllo.
Sembrava riluttante, quasi bloccata. Se ancora aspettava una telefonata,
aveva forse lasciato il telefono in camera da letto sperando che questo per
magia tenesse lontano la chiamata?
Quando la porta della camera si chiuse, lui si accostò alla finestra. I lam-
pioni della piattaforma ora erano accesi; la chiesa pareva uno schizzo al
carboncino, ritagliato e incollato su una zattera di mattoni rossi tenuta su
da luci galleggianti. Barbara parlava a bassa voce, ma gli parve di cogliere
qualche frase. « Non puoi essere... » Era questo quello che aveva appena
detto? Un movimento improvviso vicino alla chiesa lo distrasse. Doveva
essere stata l'ombra del salice.
Sentì lo scatto quando lei mise giù il ricevitore, poi ci fu una lunga pau-
sa. La chiesa piatta si stagliava nel buio silenzioso. D'un tratto lei scese in
fretta le scale. « Oh, il tuo dolce », esclamò incerta tra la tavola e la cucina.
« Ti dispiace se io non ne prendo? Ho paura di aver mangiato troppo. » Lui
avrebbe voluto fingere che non era successo niente. Certamente gliel'a-
vrebbe detto lei a suo tempo, se avesse voluto. Ma mentre Barbara tagliava
la torta, dimenticando che doveva tagliarla lui, Ted vide che le mani le
tremavano.

Capitolo 8

Nella metropolitana l'aria era soffocante, ma quando emerse a Notting


Hill Barbara trovò che in strada era anche peggio. Sotto un cielo così az-
zurro che dava fastidio agli occhi, l'aria sembrava bianca di polvere. Ca-
mion, automobili e autobus passavano di corsa fungo Holland Park Ave-
nue, sporcando i già sporchi alberi. Il rumore era forte come in una fabbri-
ca di automobili e pareva ispessire materialmente l'aria. Non poteva riflet-
tere finché non trovava rifugio dal frastuono.
Finalmente attraversò verso Pembridge Road. Lì c'era un po' più di tran-
quillità, nonostante la fila ininterrotta di auto. Lungo il marciapiede svo-
lazzavano i resti di una manifestazione dei lavoratori sanitari in sciopero.
Mentre si affrettava a superare una serie di negozi dalle vetrine affumicate
dal traffico, due cani la fissarono con i loro occhi di porcellana. Più avanti
un'impalcatura circondava le case basse, un mucchio enorme di cemento
scintillava sul marciapiede. All'angolo di Portobello Road si fermò, sfor-
zandosi di riflettere. Che stava facendo qui? Non poteva accettare l'idea di
essere stata semplicemente vittima di uno scherzo sadico?
Fino alla sera prima era riuscita a credere che si trattasse di qualcosa di
meno — che quella telefonata arrivata in ufficio fosse stata un errore, dopo
tutto. Lei la bambina la sentiva abbastanza chiaramente, al telefono, ma
questo non comportava necessariamente che la bambina sentisse lei. Eppu-
re era rimasta agitatissima per tutto il resto della settimana e lo squillo del
telefono la faceva sentire fragile e vuota, tenuta insieme solo dai nervi.
La chiamata della sera prima, durante la cena di compleanno di Ted, era
arrivata quasi come un sollievo: se non altro era qualcosa da affrontare, o
almeno, questo era quanto si era detta sentendo la voce, anche se il suo
cuore batteva all'impazzata. Stavolta non avrebbe riattaccato. « Mamma,
sono io. Ti prego, non andartene un'altra volta. »
Barbara si era affrettata a sedersi sul letto, con gli occhi che le bruciava-
no per le lacrime. Aveva sentito il bip elettronico e il rumore di un gettone
che cadeva, prima della voce. I fantasmi non infilano gettoni nel telefono:
dunque quello non poteva essere il fantasma di Angela. « È inutile che tu
faccia finta di essere mia figlia », aveva detto in tono duro. « Non puoi es-
serlo. La polizia ha trovato il suo corpo in un campo nel Kent. »
« Non ero io. Volevano farti credere che ero morta. »
Chiunque avrebbe potuto dire una cosa del genere, ma per un momento
angoscioso Barbara aveva ricordato di aver detto: « Devo pensare che han-
no ucciso un'altra bambina per farmi credere che fosse Angela? » Per un
attimo la cosa le era parsa tremendamente possibile, ma non doveva la-
sciarsi imbrogliare in quel modo; la voce era più adulta di come avrebbe
dovuto essere, e cercava di fingersi più infantile. « Chi è che voleva farme-
lo credere? » aveva chiesto. « E perché? »
« Oh, mamma, non farmi tante domande. Te lo dirò quando verrai a
prendermi. »
« Venire dove? » Barbara non avrebbe voluto sembrare così ansiosa. «
Dove? »
« Adesso te lo dico. » Improvvisamente la voce era parsa stranamente
infantile. « Ma devi promettermi che non lo dirai a nessuno. »
« Va bene, adesso dimmelo. »
« No, devi dire lo giuro. Non devi parlare a nessuno di me. Non devi an-
dare alla polizia. »
« Va bene, lo giuro », aveva detto Barbara, anche se tutto il suo corpo
stava lottando per trattenere le parole. « Dove? »
La voce pigolante aveva risposto immediatamente, acuta e insulsa come
un risolino. « A Portobello Road. La casa con il cancello murato », aveva
cantilenato la voce, prima di essere troncata dallo scatto elettronico. Alme-
no, questo fu quanto lei aveva deciso di aver sentito nelle ore in cui era ri-
masta a letto senza poter prendere sonno, dopo che Ted se n'era andato.
Non riuscendo a dormire, si era messa a camminare su e giù per l'apparta-
mento, temendo di essere di nuovo sul punto di richiudersi in se stessa,
come dopo il rapimento; mai avrebbe voluto risentire quello che aveva
provato allora. Dio, avrebbe tanto voluto scoprire chi era che la stava fa-
cendo sentire di nuovo così fragile e agitata — ed eccola qui, ora, all'inizio
di Portobello Road.
Prima di rendersene conto, si incamminò. Una curva tagliò fuori im-
provvisamente il frastuono del traffico. Un isolato di case a due piani, di-
pinte di verde, bianco e rosa, la condusse a un incrocio; in qualche punto la
pittura appariva scrostata come fango secco. Dal marciapiede spuntavano
degli alberi non più alti delle case. Qualche macchina era parcheggiata al
margine della strada.
Nessuno dei bassi muretti aveva il cancello murato, ma ovviamente non
era detto che dovesse cercare proprio in Portobello. Dall'incrocio in disce-
sa poteva vedere solo case di un bianco abbagliante che la sfidavano a non
distogliere lo sguardo. Avrebbe potuto seguire l'una o l'altra delle direzio-
ni, ma si rese conto di quante strade laterali potevano esserci, di quanto
tempo le toccava perdere per uno scherzo. Se ne stava a girare così mentre
avrebbe dovuto trovarsi al lavoro — finora aveva sempre considerato il
suo lavoro come la cosa più importante, ma ora non poteva.
Si affrettò lungo Portobello Road, passando accanto a una serie di galle-
rie, studi, negozi di antiquariato. Qui c'era Westbourne Grove, ma la voce
al telefono non avrebbe dato quel nome? Forse lo avrebbe fatto se non fos-
se stata interrotta la comunicazione, o forse lo scherzo prevedeva che Bar-
bara girasse così alla cieca, sentendo sempre di più il caldo e l'irritazione.
Ma chi poteva organizzare una cosa così insensata?
Percorse avanti e indietro Westbourne Grove — le case bianche balena-
vano come lampi — poi tornò su Portobello Road.
Le strade laterali si facevano più numerose e dovette continuare ad anda-
re avanti e indietro per esaminarle tutte. E se la voce non avesse detto « un
cancello murato » ma qualcosa di completamente diverso?
Improvvisamente si bloccò, tra i pilastrini che, come candele di metallo,
chiudevano Lonsdale Road. Tutte le strade laterali avevano un nome; per-
ché la voce non aveva dato il nome della strada prima di descrivere la ca-
sa? Poteva esserci altro motivo che prolungare lo scherzo? E se chi chia-
mava aveva letto di Barbara sul supplemento domenicale e l'aveva invidia-
ta per il successo? E se chi chiamava era una squilibrata?
Improvvisamente si sentì infuriata, decisissima a trovare la casa, se esi-
steva, poiché certamente la proprietaria della voce sarebbe stata lì ad aspet-
tarla per vedere se aveva abboccato. Si fece largo a fatica in mezzo alla
folla. I venditori delle bancarelle gridavano e litigavano, la mercanzia dei
negozianti invadeva il marciapiede.
Qui c'era un'altra traversa, altre case bianche grinzose come facce di
vecchi. Tendine da due soldi, di ogni colore ma stinte dal sole, facevano
sembrare le coppie di finestre male assortite e come colpite da cataratta. Le
case che potevano permettersi di avere un vialetto di accesso avevano il
cancello, per quanto malfermo, o almeno uno spazio tra i pali laterali. Si
girò e si trovò a faccia a faccia con una donna che la fissava.
Era vestita di nero: calze nere, calzoni neri, un golf nero con dei fili
bianchi, forse qualche capello ossigenato. Il suo viso rotondo da ragazzina
era truccato in modo da nascondere l'età e aveva un vago sorriso insensato
— esattamente l'aspetto che si sarebbe aspettato nella persona che aveva
fatto la telefonata. Per un momento parve sul punto di parlare, ma non ci
sarebbe stato niente di strano visto che Barbara la stava fissando. Barbara
la superò schivandola, dandosi dell'idiota, arrabbiata, vergognandosi di se
stessa. Quando le lanciò un'occhiata dall'angolo, la donna la stava ancora
guardando.
La fine del mercato per fortuna era in vista, sotto un cavalcavia ingorga-
to dal traffico. Ora la folla sembrava piena di ragazzine — certo, era va-
canza a scuola — e tutte quante la guardavano. La cosa sicuramente non
era strana, se il suo aspetto corrispondeva a come si sentiva. I negozi si a-
privano all'improvviso come scatole a sorpresa; la presenza e il chiasso
delle persone e degli animali, cani cacciati a calci dalle bancarelle, era op-
primente. Cercò di affrettare il passo e quasi scaraventò a terra un cesto
pieno di scarpe.
Quando arrivò al cavalcavia, non trovò il sollievo che aveva sperato. Il
frastuono del traffico, in alto, era insopportabile. La gente si accalcava sot-
to il cavalcavia come derelitti sotto un ponte, tastando gli abiti appesi su fi-
le di attaccapanni. Tutto aveva un'aria grigia e squallida, le facce non meno
dei vestiti. Pensò che era non tanto l'ombra quanto il rumore che le stava
offuscando la vista e soffocando i pensieri.
Al di là del cavalcavia era ancora peggio, un rombo assolutamente inin-
terrotto proveniente dal traffico pesante, così intenso da essere fisicamente
nauseante. Dovette fermarsi accanto a una fila di auto lerce, parcheggiate e
tapparsi le orecchie con le mani, ma anche così il grosso del rumore passa-
va lo stesso. La sua mente pareva cancellata come un nastro. Tutto sem-
brava piatto come quel cielo di plastica blu. Non poteva far altro che rima-
nere ferma e con gli occhi sbarrati cercando di assuefarsi al rumore.
Le case a tre e quattro piani erano così anonime che le parve quasi di
non vederle. I pilastri scrostati reggevano i loro portici, diverse finestre e-
rano fracassate, dietro alcuni di quei buchi pendevano tendine grigiastre.
Altre finestre erano murate, e murato era uno dei cancelletti.

Capitolo 9

Pareva una cosa da poco: una casa abbandonata, finale meschino di uno
scherzo crudele. Nessuna delle finestre pareva schermata, se non dalla pol-
vere. Ma senza entrarci, come poteva essere certa che fosse vuota, anche se
tutt'e due le case adiacenti chiaramente lo erano? Non si capiva se era u-
n'ombra sottile proiettata dal portico, quella sul bordo della porta d'ingres-
so, o se la porta era socchiusa.
Alla fine attraversò la strada fino al giardino attiguo. Una poltrona fra-
cassata, che sembrava buttata giù da una finestra, aveva rotto la rete tra i
due giardini. Mentre scavalcava lanciò un'occhiata verso il mercato, sia per
un senso di colpa, sia perché sperava di scoprire chi l'aveva attirata fino al-
la casa. Una o due persone la guardavano, ma da quello che poteva vedere
da lontano, sembravano guardarla con simpatia. Forse l'avevano presa per
un'abusiva.
Scavalcata la poltrona, si diresse rapidamente verso il portico. L'erba
secca era cosparsa di rifiuti: giornali ingialliti, pagine strappate di un libro,
una bottiglia di sherry; altri rifiuti erano sul vialetto dissestato e verdastro.
Salendo gli scalini del portico calpestò pezzi di intonaco sbriciolato. Sì, la
porta era socchiusa, e la spalancò. Il pavimento dell'ingresso era coperto di
polvere, ma non c'erano impronte.
Allora di questo si trattava, ne era già quasi certa. Guardò verso la strada
dal portico, più sollevata che arrabbiata con se stessa. Forse era stata una
credulona, ma ora era finita. Stava ancora guardando fuori — il mercato
sotto il viadotto ora le pareva buffo, e anche il rumore era quasi sopporta-
bile — quando qualcosa la guardò da una delle finestre accanto al portico.
Si girò così di scatto che cadde quasi dai gradini. Si afferrò a un pilastro
e lo sentì sbriciolarsi sotto le dita. Ma la figura alla finestra non era altro
che una ragnatela, carica di polvere. Vide un lembo della massa grigia che
scivolava dietro la lastra un momento prima di sparire alla vista.
Lanciò un'occhiata alla folla sotto il ponte per rassicurarsi e le parve di
vedere una faccia che conosceva. Sì, una donna dai capelli tinti, quasi
bianchi, e vestita di nero la stava osservando dall'ombra del muro. Mentre
Barbara si dirigeva verso il varco nella siepe, la donna si dileguò tra la fol-
la.
Era troppo. Ora che ci ripensava, quel vago sorrisetto della donna le pa-
reva allusivo. Se Barbara riusciva a raggiungerla, avrebbe avuto poco da
sorridere. Ma aveva perso troppo tempo. Quando raggiunse il marciapiede
non le rimase che svoltare verso Ladbroke Grove.
Nel silenzio della metropolitana sentì la testa come svuotata, una cam-
pana arrugginita senza batacchio, che echeggiava ancora con il suo suono
metallico. Sul treno si tolse la polvere di dosso. Era avvilente che il suo
successo potesse farla odiare tanto da qualcuno che non aveva mai visto,
indulgendolo a cercare di farle del male in maniera così crudele, ma final-
mente era finita. Certamente quella donna non avrebbe avuto il coraggio di
tentare altro sapendo che Barbara l'aveva vista in faccia.
Quando raggiunse Dover Street si sentì sorprendentemente sollevata. I
taxi, neri come scarafaggi, si arrampicavano da Bond Street e Piccadilly, e
lei riuscì a superarli facilmente. Era contenta di essere tornata in ufficio. Lì
era padrona di sé, lì il gioco aveva delle regole chiare.
Louise consultò il suo blocco dei messaggi. « Fiona dice che le dispiace,
ma non possono trasferire le prenotazioni per l'Italia. »
« Che bastardi. Come sono affezionati alle loro regolette, eh? » Ma forse
lei e Ted sarebbero riusciti a trovare un'alternativa. « Che altro? »
« Paul Gregory non ritiene che gli editori dovrebbero avere la percentua-
le sui diritti cinematografici. Fine dei messaggi. La posta è sulla tua scri-
vania, soprattutto proposte respinte e un manoscritto. Ah... »
Barbara era impaziente di mettersi al lavoro, dopo la falsa partenza di
quella mattina. « Bene, vai avanti. »
« Volevo dirti se posso portare qualche volta Hannah, durante le vacan-
ze. »
« Ma certo. Perché mai non potresti? » Probabilmente, ora che aveva let-
to di Angela, Louise aveva qualche esitazione a portare la bambina in uffi-
cio, ma ovviamente non era il caso di farsi problemi. Eppure per un attimo
Barbara si chiese se non fosse troppo ansiosa di liquidare gli eventi della
mattinata, di togliersi Angela dalla testa. Non doveva cominciare a rimugi-
nare: Angela era morta nove anni prima, e lei era arrivata a farsene una ra-
gione; lasciare che il suo senso di colpa interferisse con il suo lavoro ora
sarebbe stata una falsa preoccupazione, ingiusta verso il suo ricordo di
Angela.
Arthur sorvegliava la posta sopra la scrivania. Barbara spinse la fotogra-
fia più vicino al telefono per avere più spazio. Lettere dall'America entu-
siaste di Torrente di vite, un autore che si lamentava perché un piccolo edi-
tore lo aveva plagiato subito prima di fallire per poter rientrare nell'attività
con un altro nome, un agente che cercava di vendere i diritti americani, che
lei aveva già venduto, di uno dei suoi libri. Prima apriva un ufficio in A-
merica e meglio era. Ecco poi un manoscritto restituito da uno dei maggio-
ri editori, le pagine tutte in disordine e macchiate di cerchi di caffè. Ecco
due libri di esercizi di un vicario della Cornovaglia. La sua lettera era scrit-
ta con impeccabile calligrafia: « Ho letto l'articolo su di lei nel giornale di
domenica, e mi sono chiesto se potesse avere il tempo di piazzare un li-
bretto che non è assolutamente di moda, ma, spero che sia d'accordo, tanto
meglio per lui... » Da quando era uscito l'articolo si era trovata assediata
dalle lettere di simpatia per Angela e dai manoscritti, quasi tutti battuti con
nastri grigiastri quasi illeggibili, tutti impubblicabili. La snervava pensare
a tutta la creatività frustrata che c'era al mondo.
Be', come giornata di lavoro rientrava nella media. Prima voleva chiarire
le cose con Paul. Finalmente il telefono di lui smise di suonare. « Chi è? »
chiese una voce infantile.
« Potrei parlare con Paul Gregory, per favore? Sono Barbara Waugh. »
« E Barbara nonsoché », gridò il bambino. Dopo un po' arrivò la voce di
una donna. « Veramente volevo parlare con Paul », disse Barbara, « Sono
la sua agente, Barbara Waugh. »
« In questo momento non c'è. » La moglie di Paul sembrava circospetta.
« Vuole che la faccia chiamare? »
« Sì, grazie. Gli dica che gli americani sbavano per la sua trilogia. Sa-
ranno tutti in fila quando vado a New York. »
« Di questo dovrà parlare con lui », disse Mrs. Gregory, e riattaccò di
botto. Era lei che aveva fatto cambiare idea a Paul sui diritti cinematogra-
fici? Ora che il marito stava facendo un mucchio di soldi, le pareva che
Barbara ne stesse dando via troppi? Era impaziente di chiarire l'equivoco,
ma arrivò Louise con la posta del pomeriggio — un nuovo dattiloscritto di
Cherry Newton-Brown.
Barbara lesse le pagine iniziali e si sentì subito rincuorata: se tutto il li-
bro era così interessante, allora erano a cavallo. Poteva portarsi qualche
capitolo da leggere al parco. Stava ancora leggendo quando allungò la ma-
no per prendere il telefono; voleva chiedere a Louise di farle avere un san-
dwich — il romanzo era più che interessante, era appassionante — ma im-
provvisamente sentì qualcuno che discuteva animatamente con Louise.
Barbara alzò il ricevitore non appena il telefono squillò. « C'è qui una
certa Miss Margery Turner », disse Louise. « Non ha un appuntamento, ma
insiste per vederti. »
« Cosa vuole? »
« Dice che deve dirtelo di persona. »
« Oh, una di quelle. » Un'autrice impubblicabile che tentava quel trucco
nella speranza di convincerla a proporre il suo lavoro. « Pensi che abbia
qualcosa da offrire? »
« Decisamente no, direi. »
« Dille di scriverci una lettera. Ah, e quando ti sarai liberata di lei, puoi
andare giù a prendermi un sandwich? Una cosa qualsiasi con l'insalata. »
Cercò di riprendere la lettura, ma non riuscì a concentrarsi: Miss Mar-
gery Turner stava ancora discutendo, con quella voce lenta, confusa e petu-
lante. Si trovò a rileggere sempre le stesse parole: lui non poté fare a meno,
lui non poté fare a meno. La discussione cessò improvvisamente e Louise
entrò nell'ufficio. « Non vuole andarsene », bisbigliò.
« Oh, sì che se ne andrà. Ho già avuto abbastanza idiozie per una sola
giornata. » Barbara si avviò decisa verso l'anticamera — sentiva già come
doveva essere fredda e secca la sua voce — ma si bloccò tra le due stanze,
fissando la donna con i capelli ossigenati, il suo viso tondo da adolescente,
il suo sorriso vago.

Capitolo 10

Una cosa fu subito chiara a Barbara: se quella donna avesse avuto qual-
cosa a che fare con le due telefonate, non sarebbe mai andata lì, tanto più
che anche Louise, oltre a Barbara, poteva vederla. Ma questo riapriva
troppi interrogativi che Barbara aveva creduto definitivamente chiusi. Non
sapeva cosa dire, riusciva solo a fissare Margery Turner e a sentirsi sempre
più fragile. Alla fine la donna disse: « Posso parlarle in privato? »
Barbara recuperò un po' di controllo; dopo tutto quello era il suo ufficio.
« Dipende da quello che vuole. »
« La stessa cosa che vuole lei. La stessa cosa che cerca lei. »
« Che sarebbe? »
« Lo sa benissimo. Il motivo per cui è andata in quella casa. »
« Forse non lo so. » La conversazione stava diventando assurdamente
inconsistente. « Forse può dirmelo lei. »
La donna la guardò con sospetto. « Se vuole glielo dico, ma non potrei
parlargliene a quattr'occhi? »
La cosa principale era scoprire cosa voleva, cosa sapeva; Barbara si sentì
come se lei stessa non sapesse niente di niente. « Devo uscire », disse d'un
tratto. « Se vuole può venire con me. »
Mentre prendeva la borsa le parve che gli occhi di Arthur la guardassero
come per metterla in guardia, ma doveva essere un riflesso del sole sul ve-
tro. « Torno tra un'oretta », annunciò a Louise e si affrettò a uscire, per non
darsi la possibilità di chiedersi che cosa si stava attirando addosso.
Sulle scale Margery Turner spiegò : « Non volevo parlare davanti a
quella. Non mi piace la gente che ti tratta come un criminale. Quando ho
detto che cercavo la stessa cosa che cerca lei, intendevo dire le persone di
quella casa che hanno rapito mia figlia, come la sua. »
Barbara riuscì a non reagire. Non doveva mostrare niente finché non a-
vesse saputo qual era il gioco della donna. Forse c'era un modo per far par-
lare più liberamente la donna. « Perché non ne discutiamo a pranzo? »
propose.
Arrivarono in fretta a Mayfair, giù per Hay Hill e in fondo a Lansdowne
Row, dove il canaletto che separava il marciapiede dalla strada sembrava
una crepa aperta dal calore. Camminando per Curzon Street, tra gli edifici
bicolori di mattoni rossi e crema, a Barbara parve di entrare in una fornace;
sentiva le pareti bruciare. Accanto alla chiesa della Christian Science, la
bottega di un barbiere alitava dopobarba. Su un monticello, nella vetrina,
erano piantati dozzine di pennelli da barba, come anemoni disseccati.
Per tutta la strada fino al ristorante Barbara non riuscì a parlare, ma le
parve una strategia sbagliata e pericolosa rimanere in silenzio. « Che cosa
ne sa delle persone di quella casa? » chiese, e la domanda le parve suffi-
cientemente vaga per non tradire la sua ignoranza. « Dove sono adesso? »
« Le mostrerò la lettera quando saremo sedute. » La voce della donna
era lenta come il suo grosso corpo. « Probabilmente si starà domandando
come ho fatto a entrare in contatto con lei. »
« Be', sì », ammise Barbara.
« Devo confessare che l'ho seguita allo studio. Non mi piace la gente che
fa queste cose, ma sentivo che non potevo fare altrimenti. Vede, l'ho rico-
nosciuta dalla fotografia quando è venuta nella mia strada — ho letto di lei
in biblioteca. E così quando ho visto che andava in quella casa ho capito
che cosa stava cercando. »
Questo non aveva senso. « Che cosa pensa che stessi cercando? »
« La sua bambina, è chiaro. » Anche se il sorrisetto non era scomparso
neppure per un momento, i suoi occhi apparivano impauriti, sospettosi. «
Non mi ricordo come si chiama », aggiunse.
« Si chiama Angela, ma perché mai pensava che la stessi cercando, se è
morta nove anni fa? »
« Come sarebbe a dire? » La donna sembrava offesa. « Chi lo ha detto?
»
« Uno di quelli che lo hanno detto », rispose Barbara, con una specie di
trionfo amaro, « è l'autore dell'articolo che lei ha letto. »
Per un attimo fu di nuovo sicura che fosse stata Margery Turner a fare le
telefonate, finché non vide quanto la donna era perplessa. « Quella parte
non l'ho letta, ho letto solo di Angela. Non avevo nessuna ragione per inte-
ressarmi a lei, no? » continuò in tono insistente. « Quelli della biblioteca ti
trattano come se andassi lì a rubare i libri, ci credo che mi è sfuggita quella
parte. »
Era troppo goffa per essere una bugia. « E comunque non può credere
che sia morta, altrimenti non sarebbe andata in quella casa. »
« Di questo ora non desidero parlare », disse Barbara in mancanza di una
risposta migliore, e le fece strada attraverso l'arcata poco più grande di un
portone, che dava nello Shepherd Market. Al centro del piccolo cortile pia-
strellato una prostituta con una corta pelliccia stava accanto a una fila di
cabine telefoniche, rosse come il suo rossetto.
« Pensavo che potessimo darci una mano a vicenda », spiegò Margery
Turner.
La cosa aveva un suono sinistro. « Certamente la polizia può fare più di
me. »
« La polizia? » Il sorriso della donna si fece incerto. « Non faranno nien-
te, perché Susan ha più di diciassette anni. Loro dicono che non la credono
in pericolo, ma vogliono soltanto tenerla lontana da me. Lei sa come tratta-
no le ragazze madri. Adesso non so più a chi rivolgermi. »
« Be', comunque può dirmi di che si tratta », disse Barbara con cautela,
entrando nel locale.
Fotografie di pugili gialle come pelle vecchia tappezzavano la parete so-
pra la scala di ingresso. Solo dopo il tramonto quell'atmosfera fioca color
arancio poteva essere percepita come luce. Mentre si faceva strada verso
un tavolino Barbara provò la sensazione di avanzare in mezzo a gelatina.
Subito un cameriere si avvicinò al tavolo. Margery lo guardò fisso, sfi-
dandolo a buttarla fuori. « Quello che prende lei », disse a Barbara quando
questa le chiese di ordinare.
Presto arrivò il vino. Margery sembrava riluttante a parlare: aveva conti-
nuato a lanciare occhiate agli avventori vicini, alle giacche buttate sulle
spalliere delle sedie. Ora aveva quasi vuotato il suo bicchiere e si sporse in
avanti. « Voglio essere franca con lei », disse. « Non hanno rapito Susan
nel modo in cui hanno rapito la sua bambina. Susan è scappata di casa. »
Barbara poté soltanto annuire.
« Non sopportava la gente che stava dove abitavamo noi », continuò
Margery. « Non erano più anziani di lei o di me, ma parevano dei vittoria-
ni. Se una faceva uno sbaglio e poi non poteva sposarsi, la trattavano come
si tratta un lebbroso. Susan diceva sempre che non osavano neppure pensa-
re che esistesse qualcosa di degno al di fuori di loro stessi. »
Scostò il piatto di salsicce e si tirò vicino il bicchiere, che Barbara riem-
pì. « Susan aveva un temperamento artistico, sa. Era brillante, ma non ha
mai combinato niente. Io continuavo a tormentarla con la scuola d'arte —
oh, devo averla tormentata per un anno di seguito, anche più. Vede, io non
sono mai stata troppo brava a scuola, non volevo che finisse come me.
Quando è scappata di casa ho pensato che forse era andata alla scuola d'ar-
te, finché non ho avuto la sua lettera. Allora ho capito che se n'era andata
per via dei vicini, anche se non lo diceva. I tipi artistici non sopportano la
gente falsa. »
« Voleva mostrarmi quella lettera », le ricordò Barbara.
« No, non quella. Quella era solo per farmi sapere che stava bene — al-
meno lei diceva così, ma se non c'era niente da nascondere non mi avrebbe
nascosto l'indirizzo, no? L'ho fatta vedere alla polizia, ma loro non hanno
voluto far niente. Oggi dovremmo avere l'uguaglianza, ma ci trattano da
mezze calzette se non siamo la regina o il primo ministro. »
Frugò nella borsa nera. « È questa la lettera che intendevo. Ha sbagliato
l'indirizzo, si era dimenticata dove abitavo. L'hanno consegnata all'altro
capo della strada e quelli non è che me l'hanno portata, no, hanno cancella-
to l'indirizzo e l'hanno impostata di nuovo. Questo è il genere di cose che
devo sopportare. Se me l'avessero portata potevo trovare Susan mentre era
ancora in quella casa. »
Era solo l'ultimo foglio della lettera, con qualcosa disegnato sul retro. La
scrittura grande e piuttosto infantile se non altro si leggeva facilmente in
quella luce color marmellata. Margery rimase attentissima mentre Barbara
leggeva, pronta a riprendergliela quando avesse finito.

ma adesso posso prendere le droghe o lasciarle esattamente come gli


uomini o le donne o la vita per questo — e così ero pronta ad andarmene
quando ho incontrato la gente con cui sto adesso — non ti piacerebbe o
non capiresti che cosa stavamo facendo ma non lo capiamo fino in fondo
nemmeno noi — non lo sapremo finché non sarà fatto ma non mi importa
— almeno vedremo che nessuno lo sappia prima — non dovrei parlarne a
nessuno ma ho pensato che potevo vedere di dirlo a te così sapevi che non
ero morta — non dovrei neppure usare il mio nome ma lo faccio casomai
te lo sei dimenticato — questo è tutto da
susan la bastarda

Barbara si sentì in grande imbarazzo. La lettura era inquietante, ma che


cosa dimostrava? La girò per dare un'occhiata al disegno e riconobbe tutto
a prima vista: il mercato sotto il cavalcavia, la casa con il cancello murato,
qualche tratto delle case adiacenti che finivano nel nulla. Una faccia spiava
da una finestra alta della casa. Gli occhi erano due cerchietti vuoti, com-
pletamente vuoti.
Margery nascose in fretta la lettera nella borsa e lanciò un'occhiata so-
spettosa al cameriere che passava lì per caso. « Non si lasci ingannare da
come parla. Suona come se stesse cercando di scandalizzare, eh? Ma pensi
solo a quello che dice. La lettera è un grido di aiuto. Non dovrebbe scrive-
re a nessuno, e neppure usare il suo nome, non può fuggire da quella gente
neppure se lo volesse — se n'è accorta di questo, vero? Non dovrebbe dire
dove si trova, e secondo me ha disegnato la casa perché disegnare non è
proprio dire. La loro mente non è più come la nostra, una volta che comin-
ciano a drogarsi. »
Barbara poteva immaginarla a rimuginare sulla lettera, a scoprire nuovi
sensi ogni volta che la leggeva. « Non sta immaginando un po' troppo?
Voglio dire... »
« Non è necessario che mi prenda in parola su questo. C'è qualcuno che
è d'accordo con me. Magari potrebbe incontrarla. »
« Magari. Chi è? »
« Si chiama Gerry Martin. La conosce, no? Dovrebbe conoscerla. E una
scrittrice. » Per un momento riprese un'aria sospettosa. « Be', forse non è il
genere di scrittrice per lei — scrive per i giornali. Ha scritto un sacco, su
queste sette in cui rapiscono i giovani delle famiglie, e io mi sono messa in
contatto con lei. Secondo Gerry quelli che hanno preso Susan si sono spo-
stati perché lei mi ha detto dove erano. Ora Miss Martin li sta cercando. »
« Bene, allora c'è qualcuno che la sta aiutando. »
« Ma io non posso lasciare tutto a lei e non far niente. Lei lo farebbe? »
Barbara ricordò le allucinanti settimane vuote in cui aveva aspettato nella
casa di Otford. « Quando ho trovato quella casa del disegno ed era vuota,
mi sono messa a girare come una pazza, come una di quelle vecchie che si
vedono ciondolare senza meta. Poi ho trovato un appartamento libero nella
strada dove mi ha vista e sa, mi son sentita come se ce l'avesse messo Dio,
là. Andavo alla casa tutti i giorni e ci rimanevo finché potevo. Susan lo sa
che quello è il solo posto dove posso cercarla. »
Per un attimo Barbara sentì solo un senso di solidarietà. « È mai andata a
guardare dentro la casa? »
« Non ne ho avuto il coraggio, magari qualcuno mi faceva arrestare. La
gente è fatta così, non ci crederebbe. Però potremmo andarci insieme, no?
A lei le crederebbero. »
In che cosa si era cacciata, pensò aspra Barbara. Ma era ancora abba-
stanza facile rifiutare, accampare esigenze di lavoro, e stava proprio per
farlo quando un pensiero improvviso la fermò. E se la gente che Margery
cercava era davvero quella che aveva rapito e ucciso Angela? Se lo scopo
delle due telefonate era di avvertire Barbara della loro esistenza, sia pure in
maniera indiretta? E se chi chiamava non aveva avuto il coraggio di essere
più esplicito? Almeno poteva avere un'opportunità, per quanto piccola e
tardiva, di fare ammenda per aver trascurato Angela.
« Sta bene », disse, non del tutto sicura di sé e di quello in cui si stava
imbarcando. « Non credo che ci sia niente di male. Oggi e domani sono
occupata, ma domani sera sono libera. Passo a prenderla a casa verso le
sette. »
« È al numero otto, terzo piano. Non c'è il nome sul campanello. È me-
glio non far sapere troppo di sé alla gente. » Si ripassò il rimmel sugli oc-
chi mentre Barbara chiedeva il conto. « Oh, mi lasci pagare la mia metà »,
disse, ma in maniera così meccanica che non c'era dubbio che sperava in
un rifiuto.
Si avviò verso le scale mentre Barbara pagava per entrambe. Lì inciam-
pò, facendo quasi cadere il cappotto dalla sedia di un cliente. Si affrettò su
per i gradini con un sorriso di scusa. Sembrava che avesse parlato libera-
mente perché aveva bevuto, ma Barbara si chiese se non le avesse taciuto
qualcosa.
« Se non troviamo niente nella casa », disse Margery, quando Barbara la
raggiunse sulla strada, « potremmo dare una mano a Gerry Martin, no?
Così saremmo più persone a cercare. L'unica cosa è che non potrei pagare
dei viaggi troppo lunghi. »
« Vedremo che cosa succede », rispose Barbara, sentendo che si stava
lasciando trascinare troppo in fretta. Guardò Margery sparire nel labirinto
di strade secondarie, poi si diresse verso Curzon Street. Doveva trovare
una scusa plausibile da raccontare a Louise, qualcosa che non la co-
stringesse a spiegare, perché ora che ci pensava aveva le idee poco chiare
su quello che stava facendo, e sul perché lo stesse facendo.

Capitolo 11

Seduta sul letto, Margery guardava dalla finestra. Sopra le case scrostate
e scolorite, l'azzurro sbiadiva nel cielo; da qualche parte nelle vicinanze un
uomo e una donna litigavano. Margery stava leggendo un romanzo: una
brillante attrice che usava il suo talento per rubare, sedurre, ricattare e per
farsi strada nell'alta società internazionale. L'autore aveva dedicato il libro
al suo agente, Barbara Waugh.
Dov'era Barbara? A giudicare dal cielo, doveva essersi fatto tardi. Mar-
gery si affacciò alla finestra. Le case bianche erano come lenzuola appese,
piene di buchi, sopra i grigi marciapiedi; l'uomo aveva smesso di gridare,
la donna ora urlava; due uomini passarono tranquilli, ignorando quelle ur-
la. A Margery piaceva la gente che si faceva gli affari suoi, ma a volte le
pareva che in quei paraggi si esagerasse.
Infilò il libro sotto il letto insieme agli altri. Ne aveva abbastanza, abba-
stanza di bugie. Susan occhieggiava dallo stretto scaffale sopra il letto. Il
sole non ci arrivava mai, e pareva che il suo sguardo arrivasse attraverso la
nebbia anziché attraverso il vetro, su in mezzo alle ombre e alle macchie di
umidità che si raccoglievano sotto il soffitto. Se Margery accendeva la lu-
ce, le macchie scure erano ancora lì, e Susan veniva cancellata da una lama
di luce sopra il vetro.
Susan reggeva un libro di opere di Picasso, che aveva scelto come pre-
mio a scuola. A Margery non piaceva quasi nessuno di quei quadri, che pa-
revano disegni di vandali fatti sul muro, ma d'altra parte non aveva mai
preteso di capire niente di arte; se quelle cose aiutavano Susan, quello era
l'importante.
Magari avesse continuato su quella strada! Margery aveva cercato di in-
coraggiarla a migliorare il suo aspetto, ma Susan guardava appena le cose
che lei le portava a casa in regalo. Prima di lasciare la scuola aveva comin-
ciato a rivoltarsi contro tutto quello che la madre avrebbe voluto per lei.
Troppo tardi Margery aveva capito che doveva esserci qualcuno che gliela
metteva contro, ricordandole tutti gli sbagli della madre. E questo era stato
confermato dal fatto che tanti — i vicini, la polizia — erano stati conten-
tissimi quando Susan l'aveva lasciata.
E chi sa che Barbara Waugh non fosse uguale a loro. Era sembrata gene-
rosa quando aveva bevuto con Margery, ma forse il vino doveva servire a
non farle fare tante domande. Possibile che sapesse così poco delle persone
che vivevano nella casa abbandonata, se poi ne sapeva abbastanza da anda-
re a cercare lì la piccola Angela? Che aveva voluto dire affermando che
Angela era stata uccisa? Forse aveva solo fatto finta di essere comprensiva,
perché Margery non insistesse e lasciasse senza spiegazione queste cose.
Quel giorno era andata alla biblioteca per guardare l'articolo su Barbara
Waugh, per vedere se veramente diceva che Angela era stata uccisa, ma
quando aveva detto che non sapeva la data di pubblicazione l'impiegato
l'aveva trattata come se fosse un'analfabeta. Le avevano detto, senza nem-
meno controllare, che l'articolo non c'era. Era contenta di avergli rubato la
copia del libro che aveva notato nell'ufficio di Barbara — loro non gliel'a-
vrebbero mai dato in prestito — ma non le era stato di nessun aiuto per ca-
pire meglio Barbara Waugh. Come poteva essere sicura di quella donna?
Ma sarebbe poi venuta?
La sigla di « Charlie's Angels » strepitava nell'appartamento a fianco.
Nei giorni in cui poteva permettersi di noleggiare un televisore, guardava
sempre le « Angels » con un certo disprezzo — erano così impeccabili, in-
trepide e irreali — ma dentro di sé avrebbe voluto essere capace di risolve-
re i problemi con la loro abilità. Certo loro non dovevano affrontare la vita
reale, troppo squallida e piena di delusioni. E ora le ricordavano appunto
quanto fosse piena di delusioni, perché la loro sigla significava che erano
le otto e che Barbara non sarebbe venuta.
E così la serata era buttata via. Se c'era qualcosa da scoprire nella casa
accanto al cavalcavia, sarebbe rimasto nascosto mentre loro portavano Su-
san ancora più lontano. Margery era una porcheria di madre, non sapeva
far nulla per salvare la sua bambina.
Improvvisamente si riprese. Ce l'avevano quasi fatta, ma lei era l'unica
persona che quelli non potevano mettere contro Margery Turner. Erano
quasi riusciti a farla diventare quello che tutti volevano che fosse, ma lei
non la si vinceva così facilmente, no, e proprio quando Susan era in peri-
colo. Il mercato era chiuso adesso, non doveva esserci nessuno a chiedersi
che cosa ci facesse lei nella casa vuota. Che l'arrestassero pure, aveva la
seconda lettera di Susan per spiegare perché era lì. Poteva farcela benissi-
mo da sola, non c'era bisogno di nessuna Barbara Waugh.
E, perdio, Barbara Waugh l'avrebbe aiutata se fosse stato necessario. Po-
teva garantire per Margery; dopo tutto anche lei era entrata abusivamente
in quella casa, se quello era entrare abusivamente. Forse aveva pensato che
poteva liberarsi di Margery mentendole, ma da come si era comportata da-
vanti alla segretaria si capiva che aveva qualcosa da nascondere; even-
tualmente Margery poteva giocare su quello. Sorridendosi allo specchio
sopra il lavandino, si truccò gli occhi e uscì.
A parte il rumore del traffico sul cavalcavia, le strade erano più silenzio-
se che durante il giorno. Ora che la luce era più fioca, chiunque aveva la
possibilità di essere se stesso e lei riuscì a guardare direttamente le case
bianche. Poteva distinguere ogni tratto di calce sui fregi dai bordi acuti dei
comignoli. Mentre passava accanto alle finestre aperte, le « Charlie's An-
gels » correvano di casa in casa.
Portobello Road, ora che il mercato era stato tolto, sembrava molto più
larga. Le vetrine erano silenziose come bacheche di musei, ma più polve-
rose. Si arrestò sotto il ponte, in mezzo ai rifiuti, e fissò la casa con il can-
cello murato. Non doveva perdere il coraggio. Forse non c'era niente, là
dentro, da trovare, ma avrebbe comunque dimostrato che era in grado di
affrontare le cose da sola, che non aveva bisogno di appoggiarsi ad altri,
visto che erano tutti così inaffidabili. Fissò la mente su questo pensiero e si
costrinse a uscire dall'arcata del ponte.
Il rumore le inchiodò all'improvviso i pensieri. Aveva già fatto un po' di
strada prima che diventasse proprio doloroso, altrimenti sarebbe tornata
indietro. Sentiva il rumore come se le nascesse nella testa e sgorgasse ver-
so l'esterno. Scavalcò a fatica la poltrona che aveva spezzato la recinzione
tra i giardini e avanzò barcollando fino al portico, per trovare rifugio dal
rumore. Non le importava più che qualcuno la vedesse.
Esitò quando si accorse che la porta d'ingresso era chiusa; ricordava be-
nissimo che Barbara Waugh l'aveva lasciata spalancata. Ma si aprì facil-
mente, rivelando un corridoio che portava, lungo la scala, fino alla cucina.
Attraverso la porta della cucina si vedeva una finestra, oltre la quale era
ammucchiata della spazzatura. C'era una porta aperta su ciascuno dei due
lati del corridoio. Il pavimento, il tappeto troppo stretto e troppo corto per
le scale, le scale stesse, tutto era bianco di polvere.
A ogni passo, il rumore l'accompagnava. Avvertiva la polvere scricchio-
lare sotto i piedi, ma non ne sentiva alcun suono. Guardando indietro, vide
le sue impronte che la seguivano. Nella polvere davanti a lei non c'era al-
cuna traccia. Contenta di riuscire a ragionare nonostante il rumore, chiuse
la porta d'ingresso e si affrettò lungo il corridoio.
La cucina era piena di porte chiuse: armadietti pensili, un frigorifero
malconcio, una stufa scheggiata strappata dal muro con i fili pendenti. La
stufa era vuota, mentre in fondo al frigorifero c'era un oggetto marcito non
identificabile. Quando riuscì ad aprire gli armadietti, con le loro porte scor-
revoli intasate dalla polvere, trovò diversi barattoli che parvero ricoperti di
pelo grigio.
Tornò in corridoio. Il rumore era insistente e continuo, una sostanza
fluida in cui la casa annegava. Aveva lanciato un'occhiata nelle stanze ai
lati del corridoio mentre andava in cucina — stanze lunghe quanto la casa,
nude salvo che per la polvere — perciò ora si fermò, con il cuore che le
batteva fino a farle male. Ma la massa grigia appena dentro la porta di de-
stra era un mucchio di ragnatele e di polvere, o di imbottitura di una pol-
trona, non un animale. Scansandola, entrò nella stanza.
Non c'era niente dove cercare. A parte un caminetto che un tempo era
stato bianco, la stanza era assolutamente vuota. Una cenere nera e untuosa
le volò incontro mentre si chinava sulla grata. Ritornò velocemente nel
corridoio, senza curarsi dello svolazzare della fitta massa di ragnatele.
Anche la stanza di fronte era vuota. Il telaio della finestra che dava sul
retro giaceva rotto sul pavimento. Se tutta la casa era così, che senso aveva
cercare? Ma non poteva saperlo finché non avesse guardato. Perché dove-
va aver paura di andare al piano di sopra? Che importava trovarsi più o
meno vicini alla porta d'ingresso, visto che la casa era così evidentemente
disabitata?
Eppure, salendo le scale, aveva la sensazione di qualcuno assolutamente
immobile, non poteva dire dove, che la guardava. Il genere di sensazione
che può avvertire chiunque in una casa deserta. L'odore della polvere si
raccoglieva nelle narici, l'aria appariva grigia, buia e agitata. Sopra le scale
una tela di ragno gonfia di polvere scura si mosse quasi impercet-
tibilmente.
Tutte le porte del primo piano erano aperte. La stanza da bagno contene-
va un gabinetto senz'acqua in cui stava strisciando un ragno; una macchia
oblunga sul pavimento mostrava il punto dove un tempo era stata la vasca.
Le due stanze granai erano completamente vuote. Ragnatele lacere pende-
vano dal soffitto, ricadendo mollemente lungo le pareti.
Fu contenta di non dover rimanere a lungo nelle stanze: non vedere le
scale la metteva in agitazione. Ma le uniche impronte che andavano verso
di lei erano le sue, e sulle scale davanti a lei non ce n'erano. Cominciava a
sentirsi irritata: era possibile che Barbara l'avesse imbrogliata per farla an-
dare da sola, per farle capire di non seccarla più? Stava solo cercando una
scusa per non andare al piano di sopra; era il nervosismo che la rendeva ir-
ritabile. Fece la faccia cattiva, al nulla, come se questo potesse spaventare
e mandar via il suo nervosismo, e salì in fretta la rampa.
Quelle scale erano più buie del resto della casa. Pareva che il caldo e la
polvere si fossero accumulati tutti lassù, come una oscura opprimente pre-
senza sotto il tetto. Salendo respirava a brevi boccate, ma sentiva il naso
intasato. Improvvisamente si ricordò di una cosa che aveva visto dall'e-
sterno: la finestra di sinistra dell'ultimo piano era murata. Non c'era da stu-
pirsi che fosse così buio. Desiderò non dover entrare in quella stanza.
Ma invece doveva entrarci, anche se dalla porta poteva vedere che lì
dentro era ancora più buio del previsto. La finestra sul davanti era murata,
ma perché non veniva nessuna luce dal retro? Lanciò un'occhiata, a disa-
gio, alla rampa semibuia — nient'altro che le sue impronte — poi si fece
forza ed entrò.
Oltre la porta c'era un passaggio non più largo di una cabina telefonica.
Sulle prime pensò che quello fosse il motivo del buio, poi riuscì a distin-
guere la stanza al di là di una porta aperta in fondo al breve passaggio. La
stanza era ancora più buia. Si spinse avanti e si rese conto del perché. Non
solo la finestra sul davanti, ma anche quella sul retro era stata murata.
Stava muovendo la mano a tastoni nel buio in cerca di un interruttore —
se quella stronza della Waugh non le avesse fatto il bidone ora non avrebbe
avuto tanta paura — quando la raggiunse quell'odore. Era troppo lieve per
poterlo identificare, ma era assolutamente tremendo. Per un attimo pensò
di essere in trappola, che la porta che dava sul pianerottolo si sarebbe chiu-
sa, bloccandola lì dentro nel buio e nel fetore. Nessuno avrebbe sentito le
sue grida. Allora si precipitò fuori sul pianerottolo e sbatté la porta così
forte che il tonfo risuonò al di sopra dell'onnipresente rumore, per tutta la
casa.
Susan aveva vissuto in quella casa. L'avvilimento di Margery era così in-
tenso, anche vago, che temette di sentirsi male. Fu l'avvilimento che la co-
strinse a entrare nell'ultima stanza vuota, anche se poteva vedere che non
c'era niente da trovare. D'impulso gettò un'occhiata dalla finestra posterio-
re. Dietro la casa c'era una vasca da bagno semisepolta sotto un mucchio di
spazzatura che pareva provenire da tutte le case. Se c'era qualcosa da tro-
vare, forse era in quel mucchio.
Si stava affrettando verso il pianerottolo — si era resa conto che se la
porta della camera murata si fosse riaperta lei non l'avrebbe sentita, anche
se non sapeva bene perché questo dovesse renderla nervosa — quando u-
n'asse del pavimento si smosse sotto i suoi piedi. Il pavimento rovinato
stava per cedere sotto il suo peso? Fu sul punto di cadere e fu così che notò
il pezzo di carta che spuntava dalla tavola fuori posto.
L'eccitazione svanì quando vide di che si trattava: una pagina accartoc-
ciata strappata da un libro, come le pagine che aveva visto sparse per il
giardino davanti al portico. Ugualmente tirò fuori la pagina da sotto la ta-
vola e la lisciò sul pavimento. Era di un libro intitolato I filosofi della ca-
mera da letto e descriveva le torture di una madre. Sul retro c'era un'illu-
strazione, ma se era disgustosa come il testo, Margery non voleva guardar-
la. Eppure, non faceva parte della vita che aveva condotto Susan? Riluttan-
te, girò la pagina.
Il disegno non illustrava il testo. Era un ritratto fatto da Susan. Lesse
quello che Susan aveva scarabocchiato sotto, poi guardò lo schizzo del vi-
so. Era più di quanto avesse sperato. Ora Barbara Waugh non poteva più
rifiutare di aiutarla.
Improvvisamente ebbe paura. Senza motivo, ebbe la certezza che non
doveva portare via il disegno dalla casa, che già si era messa in pericolo
trovandolo. Tutte le paure indistinte che aveva avvertito da quando era en-
trata nella casa la stavano aspettando sul pianerottolo. Vi si precipitò prima
di essere troppo terrorizzata per farlo.
La porta della stanza murata era ancora chiusa. Corse di sotto, spaventa-
ta dal rumore dei suoi stessi passi; non poteva sentire altro per il frastuono
del traffico sul cavalcavia, ma se avesse potuto sentire? Pareva che attorno
a lei incombesse qualcosa di più che il calore e la polvere.
All'altro pianerottolo si bloccò, con gli occhi sbarrati. Le sue impronte
nella polvere scendevano al pianterreno è pareva facile ripercorrerle, ma
erano confuse, come se ci avessero trascinato qualcosa sopra. Forse la cor-
rente le aveva semi cancellate, o forse, pensò disperatamente, erano già
prima così. Ma il tempo stringeva. Ci avrebbe pensato una volta fuori dalla
casa.
Scese ancora incespicando fino al ballatoio successivo, afferrandosi alla
ringhiera — una scheggia le si piantò nel palmo — ma lì dovette fermarsi.
I polmoni le scoppiavano; la polvere pareva non aver lasciato spazio per
l'aria. Solo un'altra rampa e avrebbe visto la porta d'ingresso sotto di lei.
Ma da lì poteva già vedere il punto dove s'era raccolta la massa di ragnate-
le, e la massa di ragnatele non c'era più.
Non sapeva cosa l'avesse fatta voltare, stringendo tra le dita la pagina
strappata: certamente non un rumore. Chiaramente un colpo di vento pote-
va aver spostato la massa grigia della porta e forse un colpo di vento stava
facendo arrivare quella massa, o un'altra come quella, verso di lei, saltel-
lando giù per le scale. Nella stanza a pianterreno le era venuto in mente un
animale, ma questo appariva un essere informe, un feto coperto di ragnate-
le e polvere, o di ragnatele e polvere composto. Era così veloce che si era
arrampicato lungo il suo corpo ed era arrivato quasi alla faccia prima che si
mettesse a urlare.

Capitolo 12

L'auto di Barbara si ingolfò sulla rampa di uscita del parcheggio sotto il


Barbican. La usava così raramente in città che aveva avuto diverse setti-
mane per guastarsi. Non avrebbe voluto usarla neppure quel giorno, ma
diversamente sarebbe arrivata in ritardo all'appuntamento con Margery. E
ora non poteva neppure lasciarla lì, perché aveva bloccato la rampa.
Quando riuscì a trovare qualcuno che le desse una mano a spostarla ave-
va perso dieci minuti, e quando finalmente portarono la macchina in un
posto tra le auto parcheggiate, era tutta sudata e ansante. Si pulì le mani
annerite sui jeans. Meno male che si era vestita in modo da poter esplorare
comodamente la casa polverosa.
Fece di corsa la strada dal Barbican alla stazione. Aveva detto a Margery
verso le sette e ora erano quasi le otto meno venti. Se solo Margery fosse
stata sull'elenco avrebbe disdetto l'appuntamento, ma doveva vederla per
poterle fare le domande a cui il giorno prima non aveva pensato.
Nel buio oltre la banchina si susseguivano i treni della linea circolare.
L'avrebbero portata a Notting Hill, ma non a Ladbroke Grove; doveva
prenderne uno e fare il resto del percorso a piedi? Era certa che avrebbe
fatto più in fretta a prendere la metropolitana, anche se questo voleva dire
rimanere sulla banchina deserta a rimuginare sulla notizia che aveva avuto
su Paul Gregory.
Alle otto meno un quarto un treno la portò via. Le stazioni si avvicenda-
vano stancamente. A metà strada due americani con dei berretti da caccia
scesero a Baker Street, e mancavano ancora cinque stazioni. Il libro della
Newton-Brown, almeno, era anche meglio di quanto avesse sperato e lo
aveva proposto immediatamente.
Alle otto e dieci correva su per le scale mobili a Ladbroke Grove, anche
se dentro di sé era certa che correre era assurdo: che senso poteva avere
mai ispezionare la casa deserta? Aveva già avuto abbastanza complicazio-
ni, quel giorno: da un amico editore aveva saputo che Paul Gregory era
stato visto a pranzo con Howard Eastwood, un agente concorrente. Era per
questo che Paul faceva storie sui contratti e che non si faceva mai trovare
al telefono.
Comunque, il problema immediato era Margery. Barbara si affrettò lun-
go le strade biancastre. La polvere gessosa le si posava sul viso, le case ri-
suonavano come radio. Arrivò alla casa di Margery — numero otto, terzo
piano — e suonò il campanello.
Vedendo che non arrivava risposta, si sentì momentaneamente sollevata;
ma perché? Doveva incontrare Margery, sapere come mettersi in contatto
con Gerry Martin. Louise aveva chiamato il Telegraph Information Servi-
ce, ma non avevano notizie di una giornalista con quel nome in nessun
giornale. Forse ormai la giornalista aveva rintracciato le persone di quella
casa — quelli che forse avevano ucciso Angela.
Dopo alcuni tentativi al campanello si diresse verso il cavalcavia. Era
possibilissimo che Margery la stesse aspettando alla casa vuota. Ma quan-
do raggiunse il ponte, della donna non c'era traccia. Era possibile che fosse
dentro la casa? In tutti i casi, visto che ormai ci si trovava, poteva anche
entrare, farla finita.
Stava cercando di resistere all'ondata di rumore, quando dalla direzione
di Ladbroke Grove comparve un'auto della polizia. Si girò in fretta e fece
finta di allontanarsi sotto il cavalcavia, aspettando che la macchina scom-
parisse. Finché non la vedevano entrare nella casa, di che cosa si preoccu-
pava? Il suo stesso atteggiamento furtivo la irritò. Attraversò, dirigendosi
verso la poltrona rotta.
A parte lo scorrere del traffico sopra il ponte non c'era alcun movimento
in vista. Si fece strada attraverso l'erba secca e le pagine strappate di un li-
bro e salì gli scalini del portone. Spinse la porta ed era quasi in casa quan-
do vide quello che c'era all'interno.
Margery era stesa a metà della prima rampa di scale e la sua testa era ri-
piegata troppo bruscamente sul gradino. La gonna era tirata su, lasciando
scoperto un pezzetto di coscia chiara sopra le calze nere. La mano destra
era incastrata sotto il corpo. Ora non sorrideva, anche se pareva così: le sue
labbra erano tirate sopra i denti.
Barbara cercò di riflettere mentre correva verso la siepe: qualcuno degli
apparecchi di allarme per la polizia funzionava, o avrebbe dovuto chiedere
di usare un telefono? Quando vide l'auto della polizia si mise ad agitare
freneticamente le braccia cercando di issarsi sulla poltrona sconnessa. La
macchina si accostò prima che potesse chiedersi quali spiegazioni poteva
dare.
Il poliziotto era giovane. Come molti poliziotti giovani, portava i baffi
per sembrare più anziano. Scavalcò il cancello murato con un volteggio, e
inciampò quasi. Improvvisamente la sua faccia si trasformò in una ma-
schera che le ordinava di prenderlo sul serio.
« C'è una donna in questa casa », gli gridò nell'orecchio. « Credo che sia
morta. Credo che abbia il collo spezzato. »
Lui l'aspettò perché lo accompagnasse nella casa. Il cicalino che teneva
in tasca gracidava. Non appena vide Margery tirò fuori la radio e chiamò
un'ambulanza. Barbara distolse lo sguardo dalla scala; la polvere attorno
alla bocca aperta di Margery le faceva venire in mente uno sciame di mo-
sche.
Il poliziotto controllò il pavimento, poi uscì a dare un'occhiata alle case
adiacenti. « Lei e la signora eravate insieme? » chiese, accostando la bocca
all'orecchio di Barbara.
« Dovevamo incontrarci qui. » Era così vicino che sentiva l'odore della
sua uniforme. « Ero in ritardo e l'ho trovata così. »
« Quando arriva l'ambulanza vorrei che venisse alla centrale a risponde-
re a qualche domanda. » Si girò come a farle capire che non aveva scelta e
andò a raccogliere il contenuto della borsa di Margery, sparso ai piedi della
scala. Portò la borsa con sé e stette accanto a Barbara nel portico. Il suo si-
lenzio era come una minaccia piena di domande. E lei che cosa doveva di-
re alla polizia? Quanto convincente sarebbe stata tutta la faccenda?
Quando arrivò l'ambulanza il poliziotto indicò la casa agli uomini e af-
ferrò la borsa come se fosse un arrestato che teneva per la collottola. Bar-
bara indugiò — forse Margery non era morta, aveva già sentito di persone
rimaste vive anche con il collo spezzato — mentre gli uomini la caricava-
no sulla barella. Uno di loro lanciò un'occhiata a Barbara e scosse la testa,
e lei fece per seguire il giovane agente quando il pezzo di carta scese svo-
lazzando dalle scale.
Era una pagina strappata, rimasta sotto il corpo di Margery. Forse la te-
neva in mano quando era caduta? Mentre Barbara si muoveva veloce verso
le scale la pagina si depose quasi ai suoi piedi. Pur essendo spiegazzata,
riuscì a vedere il disegno. Era uno schizzo che sembrava essere proprio un
suo ritratto.
Immediatamente riconobbe la mano della figlia di Margery, ma perché
aveva raffigurato Barbara così giovane? Poi riuscì a mettere a fuoco l'im-
magine e allora capì che non era il suo viso, ma un viso che le assomiglia-
va. Era il ritratto di un'adolescente che le assomigliava. Probabilmente gri-
dò — nessuno se ne sarebbe accorto, e tanto meno lei — quando si rese
conto di chi si trattava.
Si chinò così in fretta che la vista le si annebbiò — c'era scritto qualcosa
sotto il disegno, ma ora non aveva tempo di decifrarlo — poi di colpo la
pagina le sfuggì, svolazzando in una delle camere vuote. Si sentì come se
le si fosse chiusa una persiana sugli occhi, ma corse come una pazza dietro
il foglio, abbastanza in fretta da vederlo infilarsi nel varco di una finestra
in pezzi. Raggiunse la finestra appena in tempo per vedere la pagina rica-
dere sopra un mucchio di spazzatura che bruciava. La pagina prese fuoco
immediatamente. In pochi istanti fu ridotta in nera cenere, svolazzante nel
vento.
Quando si girò, tremante e come svuotata, completamente annichilita, il
poliziotto la stava aspettando. « È pronta? » chiese. Ma lei lo costrinse ad
aspettare, mentre esaminava ognuna delle pagine sparse tra l'erba davanti
al portico.

Capitolo 13

« Temo proprio che lei sia rimasta vittima di un brutto scherzo », disse
l'ispettore.
Le pareti del suo ufficio erano di un colore che ricordava la trippa, inna-
turalmente vivide sotto i tubi fluorescenti. Chiazze di luce si raccoglievano
sulla scrivania, sulla plastica delle poltrone, sulla coppa della sottile lam-
pada da tavolo; una macchia galleggiava come latte sulla superficie della
tazza di tè, intatta, di Barbara. Tutto sembrava piatto come una pagina, sul-
la quale lei poteva vedere il disegno del viso di Angela.
Doveva rimanere calma, per quanto agitata si sentisse, altrimenti avreb-
be potuto dire troppo. « No, non credo. Sono sicura che questa setta esiste.
» Cominciava a sentirsi confusa: Margery aveva detto che si trattava di una
setta? Aveva dovuto raccontare che secondo Margery Susan era stata coin-
volta nel culto, e anche così le sembrava di tradire la promessa di segretez-
za che aveva fatto alla voce al telefono. Ora era ansiosa di mantenerla,
quella promessa, ma a quanto di tutta quella faccenda lei stessa credeva? «
Non capisco perché pensa che si tratti di uno scherzo. »
« Be', per esempio, se la morta era così preoccupata che sua figlia si fos-
se aggregata a questa setta, perché non è venuta da noi, invece che da lei?
»
« Pensavo che lo avesse fatto. » Margery non le aveva detto che non a-
vevano voluto aiutarla perché Susan aveva più di diciassette anni? « In ef-
fetti mi pare proprio che mi abbia detto così. »
« Deve aver capito male, Mrs. Waugh. Forse intendeva che si è rivolta a
noi quando Susan per la prima volta se n'è andata di casa. » L'ispettore era
gentile con lei — la sua faccia placida e tonda con quei baffi macchiati di
pipa la facevano pensare a un vecchio zio affettuoso — ma sentiva che
stava preparando qualcosa. « Torniamo allo scherzo. Mi diceva che la Tur-
ner si è messa in contatto con lei e l'ha convinta che sua figlia Angela era
coinvolta in qualche specie di setta. Non riesco a capire come avrebbe po-
tuto saperlo, ma per il momento ammettiamolo », disse, con sollievo di
Barbara. « Stasera lei doveva incontrarla a casa sua ma, visto che non c'e-
ra, è andata alla casa che le aveva descritto. Non le è parso curioso che vi-
vesse così vicino a quella casa? »
« No, no, per niente. Si era trasferita lì nella speranza di trovare la figlia.
»
« Questa è la spiegazione che ha dato a lei. »
Improvvisamente l'ispettore era così gentile che lei si fece più nervosa. «
Sì, e poi non le piaceva la gente, dove abitava prima. Era stata contenta di
cambiare casa. »
« Sono sicuro che è vero, ma il perché glielo ha detto? »
« Non me lo ha detto esplicitamente, ma io ho capito che non si fidava di
loro. »
« Ho paura che sia il contrario. Era contenta di andare ad abitare in un
posto dove non la conoscevano. Vede, quella donna aveva scontato una
condanna in penitenziario. »
Non aveva importanza quello che Margery era stata, non poteva modifi-
care la realtà del disegno di Angela. Eppure, la stanza, così vivida, comin-
ciò ad appiattirsi, a perdere prospettiva. « Cosa aveva fatto? »
« Era una ladra. Un tempo era stata anche curata per questo, ma a quanto
pare non era servito a molto. Posso pensare che quando ci venne a dire che
la figlia era andata via di casa noi non fossimo proprio ansiosi di riunirle,
date le circostanze. Deve essere stata un'ottima cosa che la figlia si sia fatta
una vita per conto suo, non crede? Mi scusi », disse, sentendo che qualcu-
no bussava alla porta.
Mentre lui e un altro poliziotto mormoravano fuori dall'ufficio, una sce-
na si ripeteva incessante davanti agli occhi di Barbara: Margery che in-
ciampava su per le scale del ristorante, si afferrava alla giacca di qualcuno,
si allontanava in tutta fretta. Che cosa aveva fatto la mano sinistra dopo
aver preso la giacca? Si era aggrappata alla ringhiera per aiutarla a salire o
era corsa alla borsetta? Ma c'era qualcosa di più importante che Barbara
doveva ricordare.
Prima di poterlo fare, l'ispettore tornò alla sua scrivania. « La Turner le
ha mai chiesto soldi? »
« No, assolutamente mai », rispose lei, e poi le vennero in mente le ulti-
me parole che aveva sentito da Margery: « Non potrei pagare molto per i
viaggi ». Che altro sarebbe venuto fuori su di lei, ripensandoci? « Almeno
», aggiunse a malincuore, « non esplicitamente. »
« Bene, vede che ci siamo arrivati. In realtà la condanna la ebbe per es-
sersi procurata del denaro con delle storie inventate. Dio solo sa che altro
può aver organizzato. In questo momento stiamo controllando il contenuto
del suo appartamento. »
Improvvisamente Barbara capì che cosa stava cercando di ricordare. « E
anche la sua borsa? »
« Sì, naturalmente. Perché me lo chiede? »
« Lei pensa che si era inventata quella setta per estorcermi del denaro,
ma io posso dimostrarle che ha torto. Tra le sue cose troverete una lettera
di sua figlia che prova che quella cosa esiste. »
Lui parve voler obiettare qualcosa, poi ci ripensò. « Tutte le sue cose so-
no qui. Me la mostri lei. »
La condusse in un locale sotterraneo. Non c'erano finestre: la luce al ne-
on congelava le pareti. Una giovane agente, con il viso rigido e senza truc-
co, stava sistemando degli oggetti su un tavolo. « Mi faccia il piacere di
tenerli in ordine », disse a Barbara.
C'erano i libri della biblioteca, un rotolo di banconote che parevano ve-
nire da un portafogli, un certo numero di abiti che avevano l'aria di non es-
sere stati mai indossati, diversi gioielli. La vista di tutto ciò, esposto sotto
la luce impietosa, fece sentire Barbara a disagio: c'era nulla lì che apparte-
nesse a Margery, una traccia qualsiasi di lei? Sì, c'era la fotografia di una
ragazza con un libro, e c'erano i libri di scuola con « Susan Turner » scritto
sulla copertina con una grafia che si faceva sempre più sicura fino a essere
esattamente uguale a quella della lettera che aveva visto Barbara.
Ma la lettera non c'era. Scosse i vestiti e i libri della biblioteca, mentre la
poliziotta si mostrava sempre più contrariata e la luce pareva farsi sempre
più intensa. « Dev'essere rimasta nella casa vicino al cavalcavia. »
« Ma lei lì ha già cercato, Mrs. Waugh. L'agente ha detto che lei ha con-
trollato tutti i fogli in giardino. Era la lettera quello che cercava, no? »
Poteva raccontargli dello schizzo? Sembrava la stessa cosa che rompere
il giuramento. Aveva assoluto bisogno di dirlo a qualcuno, a qualcuno che
sapesse cosa fare, e avrebbe ceduto alla tentazione se lui non avesse ag-
giunto: « Secondo me lei deve guardare i fatti in faccia, Mrs. Waugh. La
Turner ha letto di lei sul giornale e ha deciso di vedere quanto poteva spil-
larle ».
Le ci volle un momento per capire che era stata imbrogliata, ma non da
Margery. « Lei dal primo momento sapeva chi sono. Lei pensa che mia fi-
glia sia morta nove anni fa, e così nulla di quello che le ho detto può essere
vero. »
« Sono sicuro che nessuno potrebbe dimenticare che cosa successe a sua
figlia, Mrs. Waugh. Stia tranquilla, il caso non è chiuso. Un giorno forse
riusciremo ad assicurare i colpevoli alla giustizia. Ma lei deve rendersi
conto », disse, accompagnandola via dalla poliziotta che riordinava con a-
ria sprezzante gli abiti di Margery, « che questa è l'unica speranza che ab-
biamo ora. Non deve permettere che gente come la Turner le dia delle false
speranze. Quelli del suo genere prosperano sulle sventure altrui. »
« No, lei non era così. Non è per questo che è venuta da me. Posso am-
mettere che fosse una ladra, ma era sinceramente preoccupata per sua fi-
glia. » Ora era decisa a difenderla, ora che Margery non poteva farlo per-
sonalmente. « Senta, se fosse stato tutto un trucco, perché sarebbe andata
in quella casa? Di cosa mi avrebbe convinto? Stava sicuramente cercando
qualcosa. »
Lui chiuse dietro di lei la porta dell'ufficio. « Mrs. Waugh, adesso mi di-
rà che sono stati quelli della setta a spingerla giù per le scale per chiuderle
la bocca. »
Lei non aveva pensato niente del genere, ma il suggerimento la mise a
disagio. « No, sono sicura che ha perso l'equilibrio ed è precipitata. Ma po-
trebbe essere successo perché era agitata per qualcosa che aveva trovato. »
Sentì un brivido, ricordando quello che aveva trovato.
A un tratto lui si fece meno gentile: era un poliziotto, e ai poliziotti non
piace aver torto; sembrava seccato dal suo tentativo di giocare alla detecti-
ve. « Tutte le prove suggeriscono che la Turner si sia inventata questa co-
siddetta setta e abbia scritto anche la lettera. Se la lettera fosse stata con-
vincente come lei vuole farmi credere, avrebbe potuto portarla a noi. »
Prese il silenzio di Barbara per consenso e tornò gentile. « Non ha bevu-
to il suo tè. Ne vuole una tazza nuova? »
« Se non ha altre domande vorrei andare a casa. » Aveva bisogno di un
po' di tempo per riflettere indisturbata, ma improvvisamente quell'idea
l'avvilì: sarebbe rimasta sola con l'immagine della schizzo di Angela.
« Certamente. » Mentre le apriva la porta aggiunse: « Lo so, è difficile
credere che qualcuno possa fare uno scherzo così crudele, ma non c'è pro-
prio altro da credere, non le pare? Lei sa che sua figlia è morta, ha avuto il
coraggio di affrontarlo. Molti non ce l'avrebbero fatta a ricostruirsi una vita
come ha fatto lei ».
Fuori, l'aspettava il frastuono del traffico. Un'auto sportiva tutta sporca
le passò davanti vomitando fumo del colore del cielo. Nella semioscurità le
case bianche di Ladbroke Grove tremolavano. C'erano tante ombre dove
qualcuno poteva nascondersi per spiare, tanti giardini resi bui dai portici
sporgenti. Si affrettò verso Holland Park Avenue, sul tappeto di luci da-
vanti ai negozi, e poi giù nella metropolitana.
I corridoi piastrellati erano deserti. Le scale mobili sfogliavano i loro
gradini e li mandavano a strisciare sottoterra, e poi di nuovo in alto. Men-
tre la portavano verso il basso, le salivano incontro le facce con gli occhi
sporgenti scarabocchiate sui muri. Non c'era nessuno sulla banchina, nes-
suno che la guardasse tranne Roddy McDowall schiacciato come una fale-
na contro la parete, e non le importava anche se c'era qualcuno: lei la sua
promessa l'aveva mantenuta.
Al Barbican i marciapiedi erano bui e minacciosi come strade deserte e
sconosciute; ogni pilastro poteva nascondere un intero gruppo di persone. I
lampioni si riflettevano nel lago, sotto la chiesa che oscillava nel riflesso. I
suoi pensieri le parlavano più forte del rumore del treno: se Angela era an-
cora viva — e sembrava non ci fosse altro modo di interpretare il disegno
— dov'era adesso? E con chi? Erano loro quelli che Gerry Martin cercava
di rintracciare?
Anche quando si chiuse in casa, Barbara si sentì osservata. Aveva la te-
sta vuota, i nervi scoperti, c'era una sola ragione per cui non si sentiva
completamente impotente: doveva trovare Gerry Martin. Ma così facendo,
non avrebbe infranto il giuramento? D'un tratto la tensione aumentò, e con
essa il malessere. Lo scetticismo della polizia le aveva permesso di mante-
nere il suo segreto, ma se qualcuno di quelli l'aveva vista andare dalla casa
vuota alla stazione di polizia poteva essere la stessa cosa che aver rotto il
giuramento.

Capitolo 14

Il ricevitore del telefono era solido e reale nella sua mano, il segnale ar-
rivava sonoro al suo orecchio, ma non appena le cadde l'occhio sulla foto-
grafia di Arthur, si ritrovò sulla scala mobile. La penombra si attaccava a
tutto come fuliggine; poteva sentirsela addosso. Forse si era infilata fin
dentro i meccanismi, forse era per questo che le scale continuavano a sob-
balzare e a scattare, e sentiva che non sarebbe mai riuscita a raggiungere la
fine del ripido tunnel. Il tunnel era una massa di buio alta sopra di lei, op-
pure era solo un punto più scuro, reso più profondo dalla distanza? Gli oc-
chi dei manifesti incorniciati la fissavano dalle pareti. Ogni volta che ten-
tava di salire, le scale riprendevano a scivolare all'indietro.
Arthur veniva giù per la scala mobile in discesa e lei ebbe l'impressione
che volesse dirle qualcosa. Non poteva, era solo una sua fotografia, inca-
pace di parlare e di muoversi. Lo vide svanire nel buio dove passavano i
treni. Quando guardò avanti, era quasi arrivata in cima, e lì c'era Angela.
Dietro di lei non c'era altro che l'oscurità, un'oscurità che pareva muo-
versi, ma l'aveva quasi raggiunta. Fu solo quando Barbara cercò di correrle
incontro che lei prese a indietreggiare. Le scale scendevano troppo in fretta
perché Barbara riuscisse a salire, e qualcosa stava succedendo al viso di
Angela. Ma non era Angela, era un suo ritratto, e lei si sentì riprecipitare
nel buio... Barbara tornò alla realtà avvertendo un profondo malessere.
Aveva dimenticato per quale motivo la faccia di Angela l'aveva fatta senti-
re così disperata, ma la sensazione era ancora così viva che quando una
voce disse: « Pronto », le ci volle un momento per ricordarsi cosa stava fa-
cendo.
« Pronto, la biblioteca? » Ora ricordava, ed era urgente. « Può dirmi qua-
li giornali comperate? »
Annotò i nomi mentre la voce li elencava: Times, Telegraph, Guardian...
Doveva essere sicura. « È giusta la mia informazione che una certa Mar-
gery Turner aveva l'abitudine di venire a leggere i vostri giornali? »
« Sì, è giusta. » La voce, di un flebile tono tenorile, si era indurita. « E
questo è tutto quello che faceva. Posso chiedere con chi sto parlando? »
Barbara si sentì in trappola. « Solo un'amica », rispose, e riattaccò.
L'altro telefono squillò immediatamente. La bocca le si fece amara e
secca, il cuore le saltò come in un singhiozzo. C'era una sola voce che a-
vrebbe voluto sentire, invece era Louise. « Paul Gregory è qui. »
« Lo ricevo tra qualche minuto. Puoi vedere se una giornalista che si
chiama Gerry Martin lavora per uno di questi giornali? » Quando le ebbe
dato l'elenco si sentì un po' meno impotente. « Va bene, adesso fallo entra-
re », disse.
Paul portava una camicia di seta blu con una cravatta in tinta e un paio di
costosi jeans stinti. « Allora, Paul », esordì lei.
« Allora », ribatté lui, venendo al punto con una disinvoltura che gli era
nuova. « Mi chiedevo come la prenderesti se qualcun altro si occupasse dei
miei diritti in America. »
« Qualcuno tipo Howard Eastwood. »
« An, lo sai già che mi ha contattato? » Doveva averlo preso alla sprov-
vista, ma lui non lo mostrò. Il successo gli aveva dato una sicurezza che
prima non aveva.
« Editori e agenti fanno parte della stessa comunità, Paul. Le notizie
viaggiano. Ovviamente sta esclusivamente a te decidere chi deve rappre-
sentarti. » Per la prima volta quel giorno si sentì sicura di sé, in grado di
dimenticare le sue preoccupazioni e di affrontare il momento. « Sto riscuo-
tendo un bel po' di interesse in America per Torrenti. Vuoi che ritiri i libri
così che possa ripresentarli Eastwood? »
« Puoi farlo? Voglio dire, questo potrebbe indebolire l'interesse degli
americani? »
« Be', sì, ho paura di sì. »
« Oh, allora non devi farlo. » La sua sicurezza cominciava a vacillare. «
Ma non potresti, non so, come... »
« Passare la contrattazione a Eastwood? No, Paul, questo non lo faccio.
A parte il fatto che è stata una scorrettezza enorme da parte sua invitarti a
pranzo, non ho nessuna stima per lui. Sanno tutti che ha l'abitudine di ven-
dere diritti che non è autorizzato a trattare. Francamente, se decidi di far
gestire a lui i tuoi diritti negli Stati Uniti, non mi sentirò a mio agio nel ge-
stire quelli inglesi. »
« Oh, ma non mi sono impegnato assolutamente in niente. » Il suo viso
cercava di rimanere calmo, ma si strofinava la fronte, che ora era coperta
di un velo di sudore. « Per quanto mi riguarda si trattava solo di un sempli-
ce pranzo. »
« Non eri tenuto a saperlo. » Mentre si risistemava sulla poltrona, gli oc-
chi di Arthur le mandarono uno sguardo. « Ma credimi pure, un agente che
tenta di rubare il cliente di un collega non merita nessuna fiducia. »
Paul era chiaramente sollevato che gliel'avesse lasciata passare così li-
scia. « Comunque », disse, « volevo parlarti dell'idea che ho per il soggetto
del prossimo romanzo. » Sembrava interessante — un uomo che dona il
suo sperma per la fecondazione artificiale e poi anni dopo viene a sapere
un terribile segreto sul suo patrimonio genetico e deve rintracciare il figlio
e decidere cosa fare — ma lei si sentiva depressa e non vedeva l'ora di ave-
re notizie da Louise.
Poco dopo Louise comparve, con il caffè e la brutta notizia: « Non rie-
sco a rintracciare Gerry Martin ».
« Gerry Martin? Dove l'ho sentito questo nome? » Paul aggrottò la fron-
te e sorseggiò lentamente il caffè, come aspettandosi che questo gli stimo-
lasse la memoria. Alla fine si strinse nelle spalle. « Forse ho in mente
qualcun altro. »
Barbara ebbe il sospetto che di Gerry Martin non ne avesse mai sentito
parlare, ma che volesse semplicemente mostrarsi disposto a dare una mano
per cancellare la storia di Eastwood. « Puoi vedere se ha scritto qualche li-
bro? » chiese a Louise, e riuscì a nascondere la propria ansia.
Congedò Paul appena possibile e si dedicò alla correzione di alcuni con-
tratti. Arthur la fissava; quegli occhi fermi erano pieni di una domanda a
cui lei non poteva dare risposta e alla fine girò la fotografia da un'altra par-
te. Doveva telefonare delle modifiche contrattuali a Cape, a Gollancz e alla
New English Library, e continuava a pensare che questo avrebbe occupato
una linea. Ma l'altro telefono era libero; Angela poteva raggiungerla. Per-
ché aveva bisogno dell'assicurazione di una telefonata? Non c'era ragione
di temere che qualcuno stesse a guardare la casa vuota accanto al cavalca-
via, che qualcuno l'avesse vista con il poliziotto lì vicino. Forse aveva an-
che meno da preoccuparsi, forse era stata Margery a fare la telefonata, a-
veva architettato la lettera e poi era andata nella casa per metterci il ritrat-
to; Barbara aveva solo la sua parola per pensare che non sapesse disegnare.
La cosa peggiore era che non poteva essere sicura di niente.
Louise entrò a ricordarle che aveva un pranzo con un redattore di Fonta-
na. « Mi dispiace », aggiunse. « A quanto sembra Gerry Martin non ha
scritto alcun libro. Che cosa sai di lei? Magari c'è qualche altro modo per
rintracciarla. »
« Non ne so niente, Louise. Lascia perdere, non importa. » Forse Mar-
gery aveva inventato anche Gerry Martin.
Desiderò non aver organizzato l'incontro con il redattore proprio in quel
ristorante. Chiese al cameriere se erano stati rubati dei soldi, quel lunedì, e
lui parve guardarla quasi come una complice di Margery, anche quando lei
gli disse a quale stazione di polizia rivolgersi. Il redattore di Fontana tentò
di metterla a suo agio e fece delle offerte per due promettenti opere prime
che lei aveva proposto, ma la sua mente continuò ad andare per conto suo
per tutto il pranzo; dove altro poteva cercare Gerry Martin? A chi poteva
chiedere? Non le veniva in mente nessuno, ma quando lasciò il redattore
una cosa le era chiara: doveva raccontare a qualcuno che cosa le stava ca-
pitando.
Appena arrivata in ufficio telefonò a Ted. « Posso venirti a trovare oggi?
Solo una visita amichevole, o per meglio dire un grido di aiuto. »
« Sono contento di vederti in qualsiasi momento. Vieni adesso. » Sem-
brava che avesse voglia di uno scambio di confidenze. « Stasera devo tene-
re una conferenza sull'editoria alla biblioteca di zona. »
« Arrivo tra un'oretta. Prepara da bere. »
Sfogliò in fretta la corrispondenza e trovò la conferma alla prenotazione
dell'albergo di New York.
Ma come faceva a lasciare Londra anche per pochi giorni se c'era anche
la più remota possibilità che il ritratto di Angela non fosse un imbroglio?
Eppure a New York doveva assolutamente andarci per fare l'asta del libro
di Gregory. Aveva quasi finito di sbrigare la corrispondenza quando chia-
mò Louise. « C'è Paul Gregory al telefono. »
Ne aveva avuto abbastanza di lui per quel giorno. « Veditela tu, Louise,
digli che non ci sono. »
Buttò giù l'ultima delle minute e le portò a Louise perché le scrivesse a
macchina. « Devo andare alla Melwood-Nuttall per un paio d'ore. Chia-
mami se hai bisogno di me. »
Era sulla porta quando Louise disse.: « An, Paul Gregory... »
« Cosa vuole? » Barbara non avrebbe voluto parlare così bruscamente,
ma l'impegno del lavoro le aveva teso i nervi ancora di più. « Non può a-
spettare? » aggiunse in tono più gentile.
« Penso di sì. Solo che si era ricordato di Gerry Martin. »
La stanza cominciò a girare intorno a Barbara.
« Ricordato cosa? »
« Dove gli era capitato di sentire il suo nome. A quanto pare scrive per
un giornale underground, l'Other News. »
« Buon Dio. » E chiaro che la biblioteca non comperava quella rivista:
dovevano essere delle copie omaggio. « Digli che sono dovuta uscire di
nuovo, ma che gli sono molto grata. »
Era così eccitata per essere uscita da quella sensazione di impotenza che
era arrivata quasi alla Melwood-Nuttall — Piccadilly, Shaftesbury Ave-
nue, Charing Cross Road erano un unico miscuglio di sole e di facce —
prima che le venisse in mente di cercare l'Other News. Ne trovò diversi
numeri da Words & Music: a quanto pareva la rivista faceva il possibile
per essere un mensile. Un titolo su una delle copertine rosse e bianche la
portò a un servizio a quattro pagine all'interno: La trappola di Dio, di
Gerry Martin.
Si appoggiò al palo del semaforo vicino al passaggio pedonale e diede
una scorsa all'articolo, che parlava di diversi gruppi religiosi che pretende-
vano dai loro membri la fede totale e tutti i soldi. Fin dalle prime frasi capì
che la ricerca per il servizio era documentatissima.
Pur sentendosi in colpa, sapeva cosa doveva fare, adesso. Sarebbe stata
solo una perdita di tempo cercare di spiegare tutto a Ted, quando Gerry
Martin, chiunque fosse, era già al corrente di quelle sette e forse sapeva
cose che avrebbe dovuto sapere anche Barbara. Si diresse in fretta verso il
suo ufficio.
Louise parve sorpresa. « Ho telefonato a Paul Gregory da parte tua. Ti
vorrebbe a cena con lui e sua moglie. »
« Grazie Louise. » Il servizio informazioni del telefono le diede il nume-
ro dell'Other News, ma non rispose nessuno. Telefonò a Ted per scusarsi. «
Non ti dispiace, vero? »
« Se tu stai bene », rispose lui, e di nuovo Barbara si sentì in colpa; se i
suoi problemi riguardavano la ex moglie lei si sentiva disposta, potendo,
ad aiutarlo, a consolarlo almeno. « Non dovevo dirti niente che non possa
aspettare », aggiunse lui.
Chiamò Paul per accettare il suo invito per la fine della settimana suc-
cessiva, poi continuò a fare il numero dell'Other News, di tanto in tanto,
per tutto il pomeriggio, ma senza risultato. Riuscì a lavorare, ma la sua ec-
citazione calava un po' ogni volta che metteva giù il telefono. Gerry Martin
esisteva; forse questo significava che era vero anche tutto il resto? Angela
era da qualche parte, ragazzina di tredici anni e in potere di qualcuno? I
suoi sentimenti erano come in tanti pezzi, che non riuscivano a rimettersi
insieme. Se Angela è ancora viva, pensò amaramente, allora i suoi rapitori
hanno avuto cura di lei meglio di me.
Lungo la strada verso casa si fermò a un'autofficina; conosceva il pro-
prietario e gli chiese di ripararle l'auto. Lui la accompagnò al parcheggio
sotto il Barbican e portò via la macchina. Il soffitto basso incombeva come
una nuvola temporalesca, il tubo al neon sulla sua testa tremolava come un
lampo. Mentre si dirigeva verso casa, per riprendere i tentativi di mettersi
in contatto con l'Other News, si chiese distrattamente se qualcuno avesse
mai ripulito il parcheggio: uno degli angoli bui sembrava pieno di ragnate-
le.

Capitolo 15

Gerry Martin era molto più alla buona del suo articolo. Al telefono era
sembrata sbrigativa, al limite dell'impazienza, e più giovane di quanto
Barbara avesse immaginato. Certo, si disse, i giornalisti risultano spesso
una delusione quando li si conosce, esattamente come gli scrittori. « Do-
mani sera devo essere al giornale », aveva brontolato la giornalista. « Pen-
so che potrei vederla lì. »
« Domani sera » era arrivato, e Barbara era di nuovo a Hornsey. Le vie
si arrampicavano fino a un'arteria importante che ricadeva improvvisamen-
te verso Crouch End. Quando raggiunse la strada era senza fiato, sentiva la
testa leggera e pulsante come il cuore. Attraversò e discese dall'altra china,
dove la fila di case digradava come canne d'organo.
La sede dell'Other News era una costruzione terrazzata uguale alle altre
della via, di fronte alla gabbia vuota del giardino di una scuola. Una siepe
di ligustro seguiva la strada, pendendo verso il marciapiede, e nascondeva
quasi interamente il piccolo giardino. Passando vicino sentì il pulsare della
macchina da stampa, il cuore rivelatore della casa.
Suonò il campanello e attese. Il crepuscolo cominciava a scendere sulle
colline, che apparivano rappezzate di panno verde; l'antenna di una radio
era uno spillo puntato su un cuscino. Un giovane dai capelli lunghi, con
una canottiera arancione senza maniche, le mani macchiate di inchiostro,
aprì la porta. « Gerry Martin mi sta aspettando », disse lei.
« Non c'è. Vuole parlare con il direttore? » Le voltò le spalle di scatto e
rientrò in casa.
Lei lo seguì. Il pianterreno era stato trasformato in un unico locale. Al-
cuni giovani stavano facendo gli ultimi controlli del prossimo numero del
giornale su due lunghi tavoli a cavalletti, sotto un gran numero di lampade.
Quattro poltrone, tutte diverse, occupavano lo spazio rimasto. Un ragazzo
di una ventina d'anni salì di corsa dallo scantinato, portando alcune pagine
e un odore penetrante di petrolio e di inchiostro. Barbara sedette in una
delle poltrone cercando di evitare le molle rotte.
Finalmente il direttore discese dal piano di sopra. I calzoni e la camicia
di tela dovevano essere gli stessi che indossava una settimana prima. Era
un tipo robusto, sui trent'anni, con una pronuncia blesa quasi oxfordiana,
un vago sorrisetto di superiorità. La settimana prima, quando lei aveva ten-
tato disperatamente di raggiungere Gerry per telefono, lui l'aveva sottopo-
sta a un interrogatorio serratissimo, ma lei aveva detto solo che era stata
Margery a metterla in contatto.
Ora la fissava. « Ah, sì », disse alla fine. « Gerry è fuori per un incarico.
Aspetti pure se vuole, ma io non ci spererei troppo. »
Una volta andato via, lei si trasferì su una poltrona lievemente più co-
moda e si guadagnò un sorriso di comprensione da parte di uno dei giova-
ni, un ragazzo con l'orecchino, che lavoravano al tavolo. Quando fece il
caffè lo portò anche a lei in una tazza scheggiata decorata con una figura di
Paperino. Il caffè era schifoso, ma si costrinse a sorseggiarlo mentre giron-
zolava per la stanza, leggendo i fogli fissati alla parete: un rapporto sulle
polizie private, il Race Relations Act, come comportarsi in caso di arresto.
Lesse il più lentamente possibile, poiché era decisissima a non andarsene
prima di aver parlato con Gerry Martin. Era lì ormai da quasi un'ora.
Quando la porta d'ingresso si spalancò, rumorosamente, lei si girò di
scatto, ma era una ragazzina in jeans e un maglione stinto e informe con
dei buchi ai gomiti. La ragazza salì le scale di corsa, con i sandali che cia-
battavano, i capelli lisci legati con gli elastici in due code saltellanti. «
Quei porci stanno tormentando gli zingari », Barbara sentì dire. « E qual-
cuno ha messo dei cocci di bottiglia tutt'attorno a uno dei campi. Sono riu-
scita a far parlare qualcuno dei nomadi. »
Il direttore mormorò qualcosa. « È ancora qui? » chiese la ragazza, e
scese in fretta giù da Barbara. « Barbara Waugh? Non l'avevo vista. »
Era meno giovane di quanto sembrava a una prima occhiata — qualche
anno più di venti, valutò Barbara — e aveva un paio di occhi pronti e acu-
ti. Ma Barbara dovette sembrare ugualmente insoddisfatta. « Non si lasci
ingannare dal mio aspetto trasandato », disse la giornalista. « Oggi dovevo
essere poco appariscente. Che cosa voleva dirmi? »
« Speravo piuttosto che fosse lei in grado di dire qualcosa a me. »
« Bene, prima devo sapere che cosa le interessa. Sta cercando quelli che
hanno ucciso sua figlia? »
Per un attimo Barbara si sentì mancare, poi si rese conto che evidente-
mente la giornalista — come tutti quelli che Barbara incontrava, a quanto
pareva — aveva letto l'articolo che parlava di lei. « Voglio dire », continuò
Gerry Martin, « nove anni sono un bel po' di tempo, a meno che non si ab-
bia una solida traccia. »
« Non sono sicura che sia morta. » Barbara avvertì con un senso di disa-
gio la presenza delle altre persone attorno ai tavoli. « C'è un posto dove
possiamo parlare in privato? » chiese ansiosamente.
Gerry Martin le fece strada su per le scale fino a una piccola stanza di
fronte a quella del direttore, che le guardò con cipiglio mentre passavano.
La stanza conteneva uno schedario arrugginito, tre sedie da ufficio tutte
graffiate e due scrivanie; non c'era molto spazio per altro. Su una scrivania
una tazza sporca di caffè fungeva da fermacarte accanto a un posacenere
ricolmo di mozziconi. Gerry Martin si infilò a fatica dietro l'altra scrivania
e fece cenno a Barbara di sedere sulla terza sedia. « Perché pensa che sua
figlia sia ancora viva? »
Barbara le raccontò tutto. Non importa che la giornalista avesse un'aria
così anonima — era certo una caratteristica positiva nel giornalismo inve-
stigativo; Barbara era così sollevata nel trasmettere a qualcuno il suo rac-
conto che le pareva quasi di aver affrontato un parto. Nonostante la pro-
messa, raccontò alla giornalista ogni cosa.
« Sì, ho pensato che era una cosa strana, quando ho sentito di Margery
Turner », riflette la giornalista. « Non si muoveva troppo bene, vero? Il
genere di persona da cui ci si può aspettare che cada dalle scale. E così lei
non è mai andata a ispezionare la Casa. »
« No, non ancora, comunque. E lei? »
« Volevo farlo, ma sono stata piena di lavoro. Ora è troppo tardi. Dev'es-
sere bruciata completamente poco dopo che lei è andata via. »
Barbara la guardò fisso. « Non ne sapevo niente. C'era un fuoco dietro la
casa. Evidentemente deve essersi propagato. Ma non le sembra strano che
la casa sia andata distrutta non appena qualcuno ha cercato di ispezionarla?
»
« Forse. » Gerry Martin si strinse nelle spalle. « Ma mi ascolti, c'è una
cosa che mi deve spiegare. Se era davvero sua figlia al telefono, perché
l'avrebbe mandata in una casa che era vuota da settimane? »
Questo Barbara se l'era già domandato; era una forma di assicurazione
che aveva conservato nel fondo della mente, un motivo per credere che
non poteva essere stata Angela al telefono. « Be', forse una spiegazione c'è
», continuò la giornalista. « Se è rimasta nelle mani di quella setta per nove
anni, forse è in grado di pensare solo ai luoghi dove ha vissuto. Se aveva
paura di incontrarsi con lei vicino a dove si trova adesso, potrebbe aver
pensato all'abitazione precedente. »
Le vibrazioni della macchina da stampa risuonavano leggermente attra-
verso la casa; Barbara non avrebbe saputo dire se stava anche tremando, e
dovette chiudere gli occhi. « Mi scusi, Miss Martin, starò bene tra un atti-
mo. »
« Diamoci del tu. » Ora sembrava preoccupata. « Non voglio sconvol-
gerti, Barbara, ma stai pensando che l'assassinio di tua figlia sia stato in-
scenato deliberatamente? »
« Può darsi. » Ora la voce di Barbara tremava.
« Anche secondo me è possibile. Supponiamo che una delle loro donne
volesse la tua bambina perché non poteva avere figli — sono proprio quel
genere di menti fottute che vengono irretite da queste cosiddette religioni.
È abbastanza raro che rapiscano dei bambini dell'età che aveva tua figlia,
ma succede. La cosa in effetti potrebbe spiegarsi più così che non con un
rapimento a scopo di riscatto. Se volevano dei soldi perché non si sono mai
messi in contatto con te? » Stava pensando ad alta voce e pareva si fosse
dimenticata della presenza di Barbara. « D'accordo, vediamo. Magari han-
no pensato che avrebbero attirato meno l'attenzione tenendosi tua figlia
piuttosto che facendo qualsiasi altra cosa. E così dovevano mettere fuori
gioco la polizia. Prendono un'altra bambina, le mettono i vestiti di tua fi-
glia, e l'uccidono. La questione è: da dove è venuta fuori questa bambina?
E come mai non è stata denunciata la sua scomparsa? Non è un'idea alle-
gra, ma magari poteva essere una dei loro » concluse la giornalista.
Barbara sentì che la assaliva la nausea. « Certo non puoi credere una co-
sa del genere. »
« C'era una quantità di cose a cui non credevo finché non ho cominciato
le ricerche per La trappola di Dio. » Cercò di mostrarsi, sia pure in ritardo,
rassicurante. « Ma è chiaro che tutto quello che dico è un'ipotesi. La cosa
importante è che tu pensi che tua figlia sia ancora viva, e io tendo a darti
ragione, per il disegno che hai visto. Voglio dire, Margery Turner non era
proprio quello che definirei una personalità artistica. »
Ormai il fatto che fosse d'accordo era più inquietante che tranquillizzan-
te. « Ma che cosa è questa setta? Sai dove si trova? »
« No, non lo so. Ho avuto un'indicazione, ma non l'ho seguita. L'ho avu-
ta da qualcuno che poteva essere uno di loro. Ho messo insieme un po' di
notizie sul gruppo. »
« Quali notizie? » domandò Barbara, temendo di sentire la risposta.
« Innanzitutto la loro segretezza. » Aprì il cassetto della scrivania e pe-
scò un blocco di appunti. « Mentre facevo le ricerche sulle sette continua-
vo a imbattermi in vaghe notizie su delle persone che non hanno nome. Le
voci più antiche che sono riuscita a rintracciare circolavano a Londra alla
fine degli Anni Quaranta. Poi queste voci si spostano a Dartmoor, Man-
chester, Inverness, Liverpool, di nuovo Londra, Newcastle, Birmingham,
Sheffield, e nuovamente qui a Londra. Come vedi non c'è un disegno geo-
grafico preciso, e fin dove sono riuscita a risalire tra i periodi non c'è mai
continuità. Ci sono dei vuoti che non riuscivo a spiegare, e ho finito per in-
terpretarli come periodi in cui sono rimasti nascosti con successo. Sembre-
rebbero costretti a spostarsi continuamente così che nessuno possa scoprire
troppo su di loro. »
« Non potrebbero essere solo delle voci che si spostano? Non sono una
prova che esistano davvero. »
« In qualche luogo c'era qualcosa di più che delle voci. A Londra verso
il 1970 e a Manchester alla metà degli Anni Cinquanta, dei ragazzetti furo-
no invitati da altri ragazzi, che dicevano di non avere nome, a conoscere i
loro genitori, anch'essi privi di nome. Per fortuna i ragazzi si spaventarono
e non andarono. E in qualcuna delle altre città che ti ho detto l'Esercito del-
la Salvezza diede l'allarme sulla presenza del gruppo. Non riuscirono mai a
rintracciarli e non riuscirono a scoprire molto su di loro, ma la loro impres-
sione nel complesso era che fossero seriamente pericolosi. »
Chiuse il blocco di appunti. « Questo è tutto? » disse Barbara, incredula.
« Più quello che ha detto Margery Turner. La lettera di sua figlia mi ha
permesso di iniziare a mettere insieme un po' di dati che avevo raccolto, e
ho fatto altre ricerche. In effetti c'era una cosa che mi aveva già spinto a ri-
flettere in quella direzione. Ricorderai certamente il processo Manson. Una
delle sue donne disse qualcosa come: "Forse la gente pensa che la Famiglia
sia cattiva, ma c'è un gruppo che la fa sembrare Disneyland, al confronto.
Erano gente senza nome invischiata in faccende in cui neppure Manson a-
vrebbe voluto mettere un dito". »
Quando vide gli occhi di Barbara, si affrettò ad aggiungere: « Non vo-
glio dire che sia lo stesso gruppo, è chiaro. La gente in California è più
sballata. Quel genere di cose non viaggia. Ma in ogni modo il gruppo che
tu stai cercando deve essere trovato. Tu hai visto la lettera che aveva Mar-
gery Turner, sai che intendo dire. Non diffondono materiale scritto, ed è
una cosa sospetta per un gruppo che è sopravvissuto per tanto tempo, e a
quanto pare non hanno neppure denaro. Tutto ciò che è così segreto deve
avere qualcosa di piuttosto brutto. Se sai come cercare, puoi trovare tutto
sulla Massoneria, ma prova a scoprire qualcosa sulla CIA. »
Barbara pensò che alcuni degli anelli di quel ragionamento erano piutto-
sto deboli, ma non c'era tempo per sottilizzare. « Hai detto che hai rintrac-
ciato un membro della setta », disse.
« Esatto. » Gerry aprì un cassetto dello schedario e tirò fuori un ritaglio.
RAGAZZA SENZA NOME TORNA A CASA DAI GENITORI, diceva il
titolo. Secondo l'articolo era fuggita da un'oscura setta religiosa. « Conti-
nuiamo a chiamarla Iris, nella speranza che ricordi », dice la madre in la-
crime al giornalista.
« Ho controllato attraverso il mio contatto stampa sul posto », spiegò
Gerry. « Sembra proprio il gruppo che stai cercando tu. »
Una cosa era chiara a Barbara: la ragazza, Iris, poteva confermare se
Angela era o no nelle mani della setta, e anzi se era viva. « Sei già andata a
trovarla? Posso venire con te? Potrebbe essere più disposta a parlare se le
dico di Angela. »
Gerry pareva dubbiosa, ma non aveva ancora risposto che entrò il diret-
tore. « La roba sui nomadi è buona », disse, mettendosi davanti a Barbara
come se lei non ci fosse. « Ora voglio che tu veda che cosa puoi scoprire
su quei prestiti rhodesiani. Ho annusato qualcosa di grosso, e che puzza.
Occorreranno un sacco di ricerche. »
« Me lo dai proprio adesso l'incarico? Volevo andare avanti con quel
gruppo che ti dicevo, quelli che abbandonano il nome. »
« Quello è roba da giornali popolari della domenica, roba da stampa
borghese. Poco, per noi. Troppo vago. »
« Ho un'indicazione che sembra molto promettente. »
« Non per noi. Comunque non credo che ti avanzerà tempo mentre farai
ricerche su quei prestiti. » Visto che lei non rispondeva, continuò: « Sono
affari tuoi se vuoi passare alla grande stampa. Basta che me lo fai sapere in
tempo quando sei stufa di star qui ».
« Be', ci ho provato », disse Gerry, quando lui se ne fu andato. « È la
stessa cosa in tutti i giornali. Devi fare quello che ti dice il padrone, per
imbecille che sia. Mi dispiace di non poter essere di maggior aiuto. Per es-
sere sincera, ho praticamente abbandonato la storia quando ho sentito che
Margery Turner era morta. »
Barbara si alzò di scatto e chiuse la porta. « E se io fossi in grado di
vendere il tuo rapporto a un giornale a grande diffusione? Se tu scrivi
qualcosa di forte come l'articolo che ho letto, lo vendiamo senza nessuna
difficoltà. Magari potrebbe essere una serie di articoli. Non ti farei pagare
la commissione », aggiunse, e si pentì subito di averlo fatto, perché scopri-
va tutta la sua disperazione.
Gerry rimase per un po' a fissare il suo blocco. Finalmente alzò lo sguar-
do. « Va bene, vengo con te a trovare questa ragazza a Hemel Hempstead.
Probabilmente sono in grado di tirarle fuori più di quanto faresti tu. Dopo
di che, vedremo. Quando vuoi andare? »
« Appena possibile. Domani. »
« Be', prima devo fissare l'incontro. Non possiamo piombare lì senza
preavviso, in un caso come questo. Ti telefono non appena ho preso con-
tatto, va bene? Te lo prometto. »
Quando Barbara raggiunse la strada, il marciapiede pareva tremolare.
Mentre si avviava verso la stazione sotto la luce biancastra dei lampioni,
dovette appoggiarsi a un muro. Ma perché mai doveva sentirsi così mal-
ferma? La giornalista pensava che Margery non potesse aver fatto lei il di-
segno, ma questo non significava molto. Le vennero in mente le ultime pa-
role che le aveva detto Angela a Otford: « Mi porti qualche altro libro che
posso leggere? » E poi, in modo più vivido e anche più doloroso, vide An-
gela che alzava lo sguardo dal libro e le diceva, ansiosa di farsi ammirare:
« Vuoi che ti legga? » « Un'altra volta, amore », le aveva risposto Barbara,
occupata con un manoscritto; ma non c'era stata un'altra volta. Si sentiva
bloccata in un limbo tra le sue memorie e il suo corpo affaticato; tutto era
lontano, irraggiungibile. Forse c'era pioggia nell'aria, o forse stava pian-
gendo.

Capitolo 16

Su Edgware Road, Gerry attaccò a parlare del suo direttore. « Mi ha sen-


tito che chiamavo Hemel Hempstead e l'ha presa male. Avrei dovuto ri-
chiamare più tardi, ma già stavo sudando sette camicie per convincerli a
lasciarmi vedere la figlia. » Passò di corsa con il rosso e sorpassò un auto-
bus in curva. « E poi ha ancora tentato di farmi credere che è perché non
interessa nessuno che non pubblica la storia dei senzanome. Ma non è que-
sto il motivo. »
Barbara non poteva far altro che trattenere il fiato e rimpiangere di non
essere lei al volante — Edgware Road era disseminata di incroci, non tutti
controllati dai semafori — ma la sua auto era ancora in garage. « E qual è
il motivo? » chiese, perché Gerry la stava guardando.
« Be', che potrebbe alienare i lettori. È facile che un bel po' di loro si in-
teressi di occultismo, di misticismo. Criticare qualcosa del genere sarebbe
come dire che fumare l'erba poi ti lascia mal di testa, anche se è vero. »
Bloccò la macchina con un gran stridio di freni davanti a una bambina
che stava attraversando sulle strisce. « E poi evidentemente era convinto di
avermi persuaso a non scrivere l'articolo, e così ho dovuto dirgli che me lo
vendevi tu. Potrai farlo, vero? »
« Certo. Un paio di giornali sono già interessati. » Aveva avuto due
giorni per parlarne in giro, e poi era decisissima. « Inoltre, a seconda della
quantità di materiale che finirai per raccogliere », aggiunse, « si potrebbe
anche pensare a un libro. »
Gerry si immerse con decisione sulla doppia corsia che portava all'auto-
strada. Nel calore di agosto il traffico tremolava come gelatina; i lampi di
sole sparavano dai parabrezza. Un'autocisterna e un camion strinsero in
mezzo la Fiat di Gerry, un autotreno gigantesco incombeva dall'alto; Bar-
bara si sentì sul punto di essere schiacciata, in quel sottile guscio di lamie-
ra. Sull'autostrada la guida di Gerry si fece ancora più folle. Camion grandi
come bungalow si inseguivano a una velocità che a Barbara pareva terrifi-
cante, mentre Gerry zigzagava disinvolta tra di loro passando da una corsia
all'altra. « Era imbestialito », riprese. « Mi ha detto che avevo tutta l'aria di
voler passare a quel sistema che ci eravamo impegnati a combattere, e io
gli ho risposto che stavo cercando di liberarmi dei miei pregiudizi. » Ma
Barbara era riuscita a distaccarsi da se stessa — c'era qualcun altro inchio-
dato nel sedile del passeggero, non lei — e dovette fare uno sforzo per af-
ferrare quello che Gerry intendeva dire.
Hemel Hempstead non fu un gran sollievo. « Ha detto sopra il canale »,
ricordò Gerry, e passò a tutta velocità attraverso la cittadina, rallentando
solo quando raggiunse i negozi. Un parcheggio a più piani faceva girare
una palla a righe sulla punta del suo naso di cemento. Oltre i negozi c'era
una rampa a due corsie e Barbara chiuse gli occhi. Quando li riaprì era ac-
canto al canale; le chiatte passavano silenziose come nuvole, i cigni dor-
mivano racchiusi nelle loro ali. Doveva essere vicina alla sua meta e al-
l'improvviso si sentì inquieta.
Poco dopo Gerry prese una strada che portava sopra il canale. Sulla por-
ta di una bottega di sartoria, chiamata Sarah-Boo, un manifesto di Snoopy
dichiarava Pace sulla terra, buona volontà a tutti. Gerry svoltò a sinistra in
una via che saliva in mezzo a un gruppo di case isolate, raggruppate come
conchiglie attaccate a uno scoglio. I giardini rocciosi mandavano bagliori
viola e gialli. « E da queste parti », fece Gerry.
Più su raggiunsero un dedalo di strade anonime fitte di casette basse.
Tutte le facciate delle case erano occupate per un quarto dalla porta del ga-
rage. Davanti a ogni casa un pezzo di prato senza recinzione grande il
doppio di una macchina si allungava in mezzo ai vialetti di cemento. Gerry
dovette rallentare, controllando i nomi delle strade, poiché ogni volta che
girava un angolo la strada successiva pareva identica alla precedente.
« Eccoci », annunciò, prima che Barbara si sentisse pronta. Scese dalla
macchina e si lisciò la gonna nera: chiaramente si era agghindata per l'in-
tervista. Barbara si sentì circondata dalle strade deserte; attraverso uno spi-
raglio tra le case poteva vedere le colline giallastre dell'Hertfordshire die-
tro l'edificio della Kodak, ma a parte quello non c'erano che le case, che
cantavano il loro canto mattutino di aspirapolvere. Le auto erano fuori, le
casalinghe erano chiuse dentro.
Quando Gerry suonò il campanello più vicino, un uomo massiccio venne
immediatamente alla porta. Aveva la camicia abbottonata anche ai polsi; la
faccia e le mani erano di un rosso arrabbiato probabilmente per il sole, non
per la pressione sanguigna. « Cosa volete? » domandò.
« Io sono Gerry Martin e lei è Barbara Waugh. »
« Lo so bene chi siete. Che cosa volete? »
« Be', gliel'ho spiegato al telefono. »
« No, non a me. » Parve sul punto di chiudere la porta. Barbara si slan-
ciò in avanti, aprendo l'album di fotografie che si era portata — certamente
la foto di Angela a quattro anni l'avrebbe toccato, lei stessa trovava sempre
più difficile guardarla — mentre una donnetta tarchiata, sì e no un metro e
mezzo, apparve dietro di lui, asciugandosi la schiuma di sapone dalle mani
con uno strofinaccio souvenir di Brighton. « Non stare a discutere sulla
porta, George », disse, con un accento che assomigliava a quello di lui. «
Possiamo almeno farle entrare. »
Le fece accomodare nella stanza anteriore, tappezzata con una carta dal
disegno molto discreto. Su una credenza c'erano dei centrini, una ballerina
di ceramica luccicante scintillava sul davanzale della finestra. « Lei è la si-
gnora che sta cercando la figlia », disse la donna a Barbara.
« Questa è una sua fotografia. »
La donna lanciò una rapida occhiata a Gerry. « Lei aveva detto che era
più grande di così. »
« Questa è la fotografia più recente che ho. » Per un attimo Barbara pen-
sò innervosita che adesso la coppia le avrebbe detto di aver letto l'articolo
su di lei. « È da allora che non la vedo », aggiunse e sentì gli occhi riem-
pirsi di lacrime.
Forse la donna ricordò il dolore che aveva provato lei. « Oh, George,
non credo che possa farle nessun male se facciamo vedere questa foto a I-
ris. »
« Non ne sarei tanto sicuro, Maisie. Abbiamo assicurato al dottore che le
avremmo dato pace e tranquillità. È di questo che ha bisogno. »
« Siamo venute da Londra con l'intesa che l'avremmo vista », intervenne
Gerry.
« E io per questo mi sono dovuto prendere una giornata di ferie alla Ko-
dak. » Si volse a Barbara. « Sentite, vi aiuterei se potessi. Solo che non ca-
pisco di che utilità vi potrebbe essere disturbare Iris. Non è riuscita a dirci
neppure dove erano quei fottuti che le hanno fatto quello che le hanno fat-
to. Deve essersene andata via da loro un giorno ed è tornata qui chi sa co-
me. Non staranno ancora dove erano allora, no? Chiamatemi insensibile,
ma secondo me state perdendo tempo. »
« Non mi aspetto che ci porti da loro. Voglio solo sapere se avevano o
no mia figlia. »
« Un po' tardi per preoccuparsi di lei, no? » All'improvviso si sentì pieno
di vergogna. « Mi scusi, è quello che ora sento per me e Iris. Non so niente
di lei e di sua figlia. Non avrei mai dovuto permettere a Iris di lasciare la
casa, poteva seguire chiunque e non vedere dove la stavano portando. » Ri-
luttante diede un'occhiata alla fotografia. « Gliela mostri, se deve farlo »,
brontolò. « Altrimenti se ne andrà convinta che potevamo aiutarla. Ma
quando ve lo dico io dovete andarvene. »
La moglie le accompagnò di sopra. « Non mettetevi a parlare d'improv-
viso », disse a bassa voce. « Non le piacciono i rumori. »
« Sì, e non le piacciono nemmeno tanti estranei. Lei rimanga fuori », ag-
giunse lui, bruscamente, rivolto a Gerry. « Lascio la porta aperta. Potrà
sentire, se c'è qualcosa da sentire. »
La prima impressione di Barbara fu che Maisie avesse aperto la porta
sbagliata: la donna seduta alla finestra della camera da letto era forse un'in-
fermiera? Dimostrava più di quarant'anni, il doppio dell'età di Iris; l'abitino
estivo a righe e il nastro rosa tra i capelli ingrigiti erano troppo giovanili
per lei. Ma Maisie andò direttamente verso di lei. « Iris, c'è una signora
che vuole vederti. »
Iris si voltò con una lentezza penosa. A Barbara venne in mente una
bambola meccanica a cui stesse finendo la carica; gli occhi e il viso pare-
vano un'unica superficie continua, liscia e artificiale come plastica. Poteva
essere una bambola a grandezza naturale che Maisie aveva vestito delle
cose di sua figlia, scolorite dai mesi passati seduta alla finestra. « La signo-
ra cerca la sua bambina », spiegò Maisie alla bambola. « Vuole che tu mi
dica se l'hai mai vista. »
Tenendo aperto l'album, Barbara si fece avanti. Quando Iris ebbe alzato
la testa per guardare, le mani di Barbara tremavano per lo sforzo di tenere
fermo l'album. Ci fu un barlume di ricordo negli occhi della ragazza? For-
se era solo un riflesso indifferente verso l'album, poiché quel barlume era
scomparso quando Iris alzò gli occhi. Guardò verso Barbara come se non
ci fosse nessuno.
« La bambina è più grande di così. Tredici anni », spiegò Maisie, quando
Barbara glielo suggerì con lo sguardo. « L'anno scorso avrebbe avuto do-
dici anni, Iris. L'hai vista l'anno scorso prima di venire a casa da noi? »
L'album scivolò tra le mani di Barbara, le dita scattarono con un rumore
come di un bacio. « Dovrebbe essere molto magra », disse, ricordando il
disegno. « Gli occhi sono azzurri, almeno lo erano. » Si accorse di essere
in lacrime.
« Mi dispiace », mormorò Maisie, dopo una pausa immobile. « Certi
giorni non vuole proprio parlare. Ho paura che questo sia uno di quei gior-
ni. »
Improvvisamente Barbara si rese conto di come Maisie vedeva la figlia:
si era imbattuta in cattive compagnie e aveva attraversato un brutto perio-
do, ma ora era a casa; tutto quello di cui aveva bisogno era tranquillità e la
sua famiglia, si sarebbe ripresa con il tempo. Barbara si girò, sconfitta dal-
lo sguardo vuoto di Iris, e si asciugò gli occhi.
« Se mi lascia una fotografia posso fargliela vedere ancora », stava di-
cendo Maisie. « Potrei farle sapere se dice qualcosa. »
« Grazie », rispose meccanicamente Barbara, e le porse l'album; lei non
si sentiva capace di sceglierne una. Lasciò correre lo sguardo per la came-
ra, su un faro in miniatura che doveva accendersi con una pila, una rivista
scolastica del 1969, un manifesto con un disegno indiano composto di mi-
nuscole figure umane che tutte insieme formavano l'immagine di un oc-
chio, un quaderno aperto a una pagina su cui una mano adolescente aveva
scritto una poesia (« Oh, lascia ch'io mi cali nell'umido tepore del buio »),
una bambola con le pupille tirate via che le ricordava sgradevolmente la
faccia che l'aveva fissata da quel disegno della casa. Presumibilmente lo
scopo di tutto questo era far sì che Iris si ricordasse di se stessa, ma a
quanto pareva quello scopo era fallito; che possibilità aveva Barbara?
Quando Maisie le restituì l'album, si diresse verso il pianerottolo. Geor-
ge si girò pesantemente verso le scale e Gerry le fece un sorriso e le diede
un abbraccio che voleva essere un incoraggiamento. Maisie lasciò la foto-
grafia nella stanza e aveva quasi raggiunto la porta quando Iris disse: « Mi
hanno fatto prendere qualcuno da New Street ».
Sulle prime Barbara non fu sicura di aver sentito la voce, tanto era esile
e confusa. Ma quando si precipitò nella stanza, con Maisie che di malavo-
glia indietreggiava per lasciarla passare, vide che le labbra di Iris si stava-
no muovendo, sia pure, per il momento, senza nessun suono. Alla fine la
voce le raggiunse. « Dovevo svegliarlo. Lui venne via con me e... Dopo
andammo a Sheffield e... » La voce continuava a sfumare, come una radio
con le batterie scariche. « Io li ho lasciati un giorno e sono venuta a casa »,
concluse.
« C'era una ragazzina con te mentre eri via? » Barbara cercò di non par-
lare troppo d'improvviso, ma doveva stabilire un contatto finché c'era la
possibilità. « Una ragazzina sui dodici anni che somigliava a questa? »
Forse Iris avrebbe esaminato la foto, ma un uccello si mise a cantare
fuori dalla finestra. Si girò da quella parte come se avesse paura di farlo :
la schiena curva, la testa ritirata tra le spalle come una tartaruga. La sua
voce pareva venire da un punto che la luce del sole non poteva raggiunge-
re. « Quando ero piccola trovai un uccello in giardino. Credevo che dor-
misse. Quando lo girai cominciò a muoversi, ma erano delle cose che gli
strisciavano dentro. »
La madre le prese le mani, ma lei continuò, monotona con lo sguardo
fisso. « Dove io dovevo vivere con loro, le cose continuavano a essere vi-
ve. La cosa brutta entrava dentro le cose e le faceva muovere. »
« Non ti agitare, Iris. Lo sai che è solo la tua immaginazione. Ora sei a
casa. »
« Entrava dentro di noi. Ci faceva fare le cose. » Divincolò la mano dalla
stretta della madre. Con una voce semistrozzata dal disgusto di sé, conti-
nuò: « Mi piace ripensarci ».
Fu questa la sua ultima parola. Il suo sguardo era come ripiombato verso
l'interno, si stava stringendo tra le braccia come per tenere tutto fuori. «
Non aveva mai detto delle cose del genere », commentò Maisie, in tono di
evidente rimprovero per Barbara.
« Non si può credere alle cose che dice », la rassicurò George. « È que-
sto che le hanno fatto. Non ti ricordi, che ci scrisse che stava per lasciare il
paese? Glielo avevano fatto scrivere loro, certamente, così che non l'a-
vremmo cercata. » Mentre accompagnava in fretta Barbara e Gerry giù per
le scale, disse: « Adesso avete visto perché non volevo che la disturbaste.
Dovrebbe proprio sperare di riavere sua figlia prima che sia ridotta nelle
stesse condizioni. »
Aveva un tono aspro, ma in un certo senso era rassicurante; se era stata
davvero Angela a fare le due telefonate, certamente era più in sé di Iris.
Ma Iris era un esempio della gente con cui stava? Quando Barbara uscì di
casa la luce del sole le ferì gli occhi, come se il groviglio spigoloso dei
suoi pensieri non fosse già abbastanza doloroso.
Gerry si accorse del suo stato d'animo. Non appena raggiunsero l'auto le
disse: « Non so se tua figlia è viva, ma farò tutto quello che posso. Credo
di essere in grado di rintracciare questa gente ».
La cosa fu troppo improvvisa. Barbara non poté far altro che fissarla
mentre la macchina prendeva velocità giù, per la collina. « Ho un'altra
traccia, ma non sapevo bene come usarla, finora. Scoprire i prestiti alla
Rhodesia non serve a nessuno, questa gente invece va fermata. E tu sei si-
cura di poter vendere i servizi quando li avrò scritti, no? »
Apparve il canale. Lo svincolo a due corsie portò la macchina dall'altra
parte e la corsa riprese. « Ho intenzione di tentare di infiltrarmi tra loro.
Può darsi che non ci sentiamo per qualche settimana, ma ti farò sapere se
ho trovato Angela appena posso. »
Barbara cercò di usare il tono più disinvolto possibile. « E dove conti di
cercarli? »
« Per ora questo preferisco tenerlo per me, Barbara, se non ti dispiace.
Se ti metti a cercarli anche tu rischi di spingerli a nascondersi prima che io
li abbia raggiunti. Cerca di non preoccuparti se non mi senti per un po'. »
L'auto schizzò sull'autostrada; in lontananza il traffico e il paesaggio si
fondevano. « Sai », confidò la giornalista, « ho la sensazione che questo
possa essere un punto di svolta nella mia vita. »

Capitolo 17

Il cielo della sera, mentre Barbara costeggiava in macchina Regent's


Park, era del colore del fumo. Oltre i cancelli le foglie avevano un aspetto
umido e tropicale. Un profumo di giungla arrivava dal finestrino aperto
dell'auto, odori selvatici di animali, su tutti dominava il profumo dei fiori.
Le scimmie strillavano di là dagli alberi, un leone ruggì. Le mani di Barba-
ra erano appiccicate al volante dal caldo, i vestiti appesantiti dall'umidità.
Si sentiva già abbastanza a disagio senza dover cenare con Paul Gregory e
sua moglie.
In Camden Town tutte le porte dei pub erano spalancate; le coppie sta-
vano sui marciapiedi a bere birra. Mentre svoltava nella strada laterale do-
ve abitavano i Gregory, in un appartamento che si affacciava sopra una
banca, un uomo uscì in fretta da un ristorante indiano facendosi aria con un
ventaglio.
Parcheggiò di fronte alla casa e suonò il campanello. Forse la serata non
sarebbe stata poi tanto pesante, soprattutto se Paul le dava tanto alcool
quanto ne prendeva lui. Se non altro non si trovava a casa o al lavoro, ad
aspettare nervosamente che suonasse il telefono.
Una donna alta con un abito nero lungo aprì la porta. L'abito, che pre-
sumibilmente avrebbe dovuto coprire le caviglie, le lasciava scoperte rive-
landole ossute quanto le braccia della donna e il suo viso affilato. « Barba-
ra Waugh? » disse, e strinse brevemente la mano di Barbara. « Sybil Gre-
gory. »
Al primo piano qualcuno faceva esercizi di scale di flauto, al secondo si
sentiva una sirena della polizia. I Gregory vivevano all'ultimo piano, sotto
il tetto spiovente. Nella stanza principale, dove il soffitto scendeva verso la
parete, la prima cosa che Barbara vide fu il telefono. Non poté far a meno
di sentirsi in ansia, anche se Gerry Martin aveva avuto solo un paio di
giorni per mettersi in contatto con la setta. Era improbabile che potesse
chiamarla così presto.
« Paul, c'è la tua agente », annunciò Sybil vivacemente. « Dopo che le
hai offerto da bere, ti spiace mettere a letto Bevis? Katrina, a quest'ora do-
vresti essere già pronta. Raggiungimi in cucina, Barbara, quando avrai a-
vuto da bere. »
Dopo che ebbe versato una vodka Stolichnaya a Barbara, Paul si affrettò,
chiedendo scusa, verso il bagno, con il figlio piccolo in braccio. Lei si di-
resse verso la cucina, oltrepassando una stanzetta con un letto a castello
dove una bambina si stava abbottonando l'uniforme da girl scout.
Sybil stava cuocendo le bistecche. Un leone ruggì nel parco, come se
avesse sentito l'odore della carne. « Questa è Imogen con suo padre », dis-
se alla bambina, quando squillò il campanello. « Va' e fammi essere orgo-
gliosa di te. È quasi una guida », comunicò a Barbara. « Sei mai stata negli
scout? »
A Barbara era quasi venuto in mente qualcosa, ma il pensiero svanì pri-
ma che riuscisse ad afferrarlo. « No, mai », rispose.
« Io sì, per anni. Ho iscritto Katrina alle scout, e Bevis sarà lupetto non
appena avrà l'età. Non c'è niente di meglio per metterli in forma. » Forse
era proprio quello di cui Paul aveva bisogno, una scout cresciuta che sape-
va far andare avanti la casa e arrangiarsi con quello che avevano — ma
Barbara stava ancora cercando di afferrare quel pensiero che le era sfuggi-
to. In qualche modo sentiva che se fosse riuscita a definirlo avrebbe desi-
derato non averlo fatto.
« Vederli crescere mi ha aiutato a superare i momenti difficili che ab-
biamo attraversato », stava dicendo Sybil. « Non c'è niente che possa sosti-
tuire la famiglia, checché qualcuno voglia farci credere. » Barbara annuì
vagamente, poiché aveva appena capito dove Paul doveva aver scritto Un
torrente di vite, lì su un tavolo nell'angolo più lontano dal fornello: mo-
menti difficili, davvero. « Oh, ti chiedo scusa », esclamò Sybil, « sono sta-
ta molto indelicata. Paul mi ha detto che hai perso tuo marito e poi la bam-
bina. »
Barbara non fece nessun commento, riuscì solo a vuotare il bicchiere. «
Hai già finito il tuo drink », notò Sybil, in tono di sorpresa o di rimprovero.
« Versatene tu stessa un altro se Paul è ancora occupato. »
Barbara sedette su un letto matrimoniale trasformato in divano e indugiò
versandosi la vodka mentre cercava di definire le sue sensazioni. Le sovra-
coperte dei primi romanzi di Paul fissate alla parete cominciavano ad ac-
cartocciarsi, valigie come scatole cinesi raccoglievano la polvere sopra
l'armadio. Doveva essere contenta che Gerry fosse in caccia. Non c'era
nulla che lei potesse fare ora, se non andare avanti con il suo lavoro. .
Tornata in cucina, Sybil le domandò: « Che ne pensi di Paul come scrit-
tore? »
« Penso che ha le potenzialità per scrivere qualcosa di ancora migliore di
quello che ha scritto finora. »
« Secondo me è il miglior scrittore che io abbia mai letto. » Non era la
prima moglie di uno scrittore che Barbara sentiva parlare così. « Dimmi il
nome di un solo scrittore vivente migliore di lui. »
« È eccezionalmente bravo », annuì Barbara, ignorando la sfida. « Mi ha
raccontato il soggetto del suo prossimo romanzo. Ha già cominciato a la-
vorarci? »
« Comincerà solo dopo che ci saremo trasferiti. » Si era fatta guardinga.
« Pensiamo di andarcene in Irlanda, quando vedremo un po' dei soldi della
vendita che hai fatto tu. Laggiù sanno come si tratta un artista. »
« Sì, diversi miei clienti sarebbero d'accordo con te. » Gli scrittori in Ir-
landa non pagano tasse. Barbara riuscì a spostare la conversazione sul mo-
do in cui le diverse società trattano gli scrittori, terreno su cui le trappole di
Sybil erano più facilmente evitabili. « Ho saputo che hai fatto delle obie-
zioni quando Paul ha incontrato un altro agente », disse comunque Sybil,
durante la cena.
« Paul è libero di cambiare agente quando vuole. » Paul arrossì come un
bambino che deve rimaner zitto mentre gli adulti parlano di lui. « Ma cre-
do che non gli convenga. »
« Be', è naturale che tu lo creda. Spero che mi perdonerai la franchezza,
ma voglio essere sicura che i suoi libri fruttino fino all'ultimo penny possi-
bile. Voglio essere assolutamente certa che ai nostri figli non tocchi mai
più un altro di quei brutti periodi. Certamente, Paul, sono sicura che non
succederà, eppure », si rivolse a Barbara, « mi domando se da qui puoi ge-
stire i suoi affari in America come farebbe un agente americano. »
« Ma io posso essere lì in meno di una giornata ogni volta che ne ho bi-
sogno. Devo trovarmi a New York il mese prossimo per condurre l'asta.
Dato che gestisco tutti i diritti in lingua inglese sono in grado di negoziare
un accordo complessivo migliore che se dovessi mettermi a discutere con
un altro agente per decidere la spartizione dei territori. Spunterò delle con-
dizioni che Howard Eastwood non oserebbe nemmeno prendere in consi-
derazione. »
« Scusami », ribatté Sybil, « ma noi non abbiamo modo di sapere se
quello che stai dicendo è giusto o sbagliato. Questo devi ammetterlo. »
« Eastwood è uno schifo di agente. » Barbara si rese conto che aveva
bevuto un bel po', ma non aveva importanza. « Si fa pubblicità su una
mezza dozzina di riviste. Un buon agente non ha bisogno di pubblicità. »
Perché attaccare Eastwood quando poteva promuovere se stessa? « È inuti-
le dire che faremo più soldi negli Stati Uniti che qui », continuò, « ma pos-
so promettervi che sarà ancora meglio di quanto sperate. »
Solo più tardi, mentre guidava con cautela verso casa lungo Euston
Road, si chiese se non fosse caduta nella più grossa trappola della serata.
Aveva presunto che la cena della sera fosse un'offerta di pace, ma non ser-
viva invece a coglierla con la guardia abbassata? In un certo senso non a-
veva molta importanza — era certa che a New York avrebbe avuto ottimi
risultati, come aveva promesso — ma questo significava che si era impe-
gnata ad andarci il mese prossimo, qualunque cosa accadesse. Doveva
convincersi di aver fatto tutto quanto era in suo potere; ora toccava a Gerry
Martin.
Fu contenta di uscire dal parcheggio sotto il Barbican. Altri tubi al neon
cominciavano a vacillare; sopra le gobbe semibuie delle macchine la luce
creava l'impressione che il soffitto tremolasse. Un'ombra le fece lanciare
un'occhiata verso l'angolo dove aveva visto il mucchio di ragnatele. Qual-
cuno doveva aver fatto pulizia, perché l'angolo era libero. Desiderò di po-
ter fare qualcosa per fermare quel tremolio, quegli oscuri movimenti re-
pentini dietro le macchine.
Un piccolo riflettore era puntato sul lago. La chiesa di St. Giles sembra-
va ritta su palafitte grazie al riflesso dei lampioni. Quando fu pronta per
andare a letto Barbara dovette spegnere tutte le luci, che non si era accorta
di aver acceso. Finalmente si addormentò, ancora cercando di riafferrare
l'idea che le era venuta prima di cena. Era sicura che aveva a che fare con
Angela.
Le pareva di essersi appena addormentata quando la sveglia telefonica
chiamò, ma il sole già lambiva le tende. Cercò a tentoni il telefono, seccata
perché era ancora mezzo addormentata. Niente poteva svegliarla al mattino
come parlare con qualcuno. Sistemò il ricevitore sul cuscino. « Pronto »,
mormorò.
Era la comunicazione più disturbata che avesse mai sentito. Non riusciva
neppure a sentire la voce. « Pronto », riuscì ad articolare più chiaramente,
e dopo una pausa la voce si fece più forte. « Sono io, mamma », disse.
Barbara strinse il ricevitore, ma questo andò a sbattere sul pavimento,
come se glielo avessero strappato via. Stavolta era certa che la voce era
quella di Angela, non uno scherzo, e all'improvviso si rese conto di come
era stata ansiosa di liquidare le telefonate, di credere che Angela fosse
morta e sepolta. Si buttò disperatamente sul tappeto, con la testa che le
scoppiava, e afferrò il ricevitore. « Dove sei? » gridò.
Il mormorio di risposta era meno chiaro del ronzio dell'elettricità. « Non
ti sento », disse Barbara, sul punto di crollare. « Parla più forte. »
« Non posso parlare molto più forte. Ti chiamo adesso che tutti dormo-
no. » Ma non tutti, perché proprio in quel momento Barbara sentì la voce
di un uomo attraverso il ricevitore. Non riuscì a distinguere le parole, ma il
tono era inequivocabile, crudele e beffardo. A un tratto la linea si interrup-
pe.
Barbara riuscì a fare il numero del centralino, nonostante le dita paraliz-
zate. Quando finalmente il centralino rispose, spiegò in tono arrogante a
Barbara che era troppo tardi per rintracciare la chiamata Barbara rimase al-
l'apparecchio per dieci minuti mentre il telefono suonava all'Other News, e
cominciò a sentirsi sgomenta per la sua stessa incapacità di reagire. Final-
mente la voce assonnata di una donna le rispose a fatica e pur di liquidarla
le diede il numero di casa di Gerry Martin.
Al numero di Gerry non rispose nessuno. Barbara si precipitò alla casa,
un appartamento in un edificio a Brixton dall'aspetto fuligginoso e cadente.
Non sapeva lei stessa cosa voleva: temeva che ormai la setta si fosse messa
in allarme sospettando la presenza di una spia; e temeva ancora di più che
Gerry tardasse a mettersi in azione, ora che forse sapevano che Angela li
aveva denunciati alla madre. Ma le ragazze che abitavano nell'appartamen-
to di fronte dissero che Gerry aveva pagato due mesi di affitto in anticipo e
non aveva lasciato indirizzo. Dovunque fosse, era impossibile rintracciarla.

Capitolo 18

Mentre attraversava Regent's Park il cielo si fece nero. Gerry era troppo
lontana dallo zoo per rifugiarsi lì. Corse sotto una quercia, con la borsa di
canapa sdrucita che le batteva sull'anca, quando i primi goccioloni comin-
ciarono a cadere. Non appena si appoggiò al tronco le si chiusero gli occhi:
una nuvola di sonno le si raccolse attorno, assorbendo i suoni, attenuando
la sensazione di ruvido della corteccia e il mal di piedi. Si appisolò addos-
sata all'albero e attese che lo scroscio passasse.
Ma era un temporale. Quando si svegliò per la seconda o terza volta, le
parve di trovarsi su un'isola nel mezzo di un lago in tempesta. L'aria era
una massa di acqua grigia che l'inzuppava da qualsiasi lato dell'albero si
mettesse. La pioggia le cadeva addosso dagli strati di foglie, trovandosi
mille passaggi. Tutt'attorno a lei l'erba si agitava come sul punto di anne-
gare.
Poteva andare peggio, pensò acidamente; poteva ancora trovarsi a lavo-
rare per un giornale locale, cercando di arrampicarsi su montagne di noti-
zie — matrimoni, infrazioni stradali, conferenze nei locali della chiesa —
per fare un altro passo sulla strada del giornalismo autentico. Oppure pote-
va star scrivendo per l'Other News, che era un altro vicolo cieco: La trap-
pola di Dio poteva essere buono quanto si voleva, ma quel numero non a-
veva venduto molte copie in più. Più piccolo è il giornale, meno opportuni-
tà si hanno di farsi un nome. Be', eccola qui, giornalista investigativa indi-
pendente, finalmente, e quello si presentava come il più bagnato e squalli-
do lavoro possibile su questa costa del Mare del Nord. Stava diventando
davvero la vagabonda per cui voleva farsi passare, e poteva solo sperare
che infradiciarsi in quel modo la rendesse ancor più convincente.
Finalmente la pioggia cominciò ad attenuarsi. Il viso tondo del sole fece
uno strappo nelle nuvole. Gerry tirò fuori dalla borsa il suo secondo paio di
scarpe, poi si incamminò tra il fango e l'erba scivolosa verso Euston Road.
Tutti gli edifici sembravano come lavati e messi ad asciugare; i tetti delle
auto fumavano come barre di ghiaccio. Si affrettò verso la stazione, dove
ormai cominciava a sentirsi come a casa sua.
L'alta, spaziosa, anonima sala d'attesa di Euston era affollata di gente in
coda che usciva dal varco di controllo dei biglietti. Qui c'erano una dozzi-
na di ragazzini con lo zaino, là degli scozzesi con delle ginocchia che pa-
revano ustionate, là un cieco che seguiva il suo cane nel dedalo di valigie e
carrelli.
Gerry si chiuse in un gabinetto della toilette per signore, si spogliò com-
pletamente e si asciugò con l'asciugamani che aveva nella borsa. Si era
portata un cambio di biancheria, ma per altri vestiti non c'era spazio. Men-
tre la maglietta e i jeans sgocciolavano appesi alla porta lei sedette sul bor-
do della tazza, ciondolando la testa in cerca del sonno perduto di una set-
timana. Era una settimana ormai che faceva la vagabonda, e non aveva
concluso niente. Possibile che fosse sulla pista sbagliata?
Tutte le informazioni che aveva avuto sembravano combaciare perfetta-
mente. Si era sentito parlare della gente senza nome anche a Londra, il che
confermava le sue deduzioni: se Angela era nelle mani della setta non a-
vrebbe osato avventurarsi lontano da loro per incontrarsi con la madre. Da-
to che le aveva promesso di incontrarla vicino a Portobello Road questo
significava che erano da qualche parte in città. La giovane Iris aveva detto
che doveva svegliare qualcuno a New Street: non poteva significare altro
che la stazione di Birmingham, sede del gruppo subito prima di Sheffield.
L'Esercito della Salvezza a Manchester aveva sentito di vagabondi avvici-
nati da persone che rifiutavano di dire il loro nome o quello della loro or-
ganizzazione. Doveva essere in questo modo che reclutavano i loro mem-
bri, e così Gerry si era trasformata in vagabonda nella speranza di farsi av-
vicinare.
Si appoggiò oscillando alla canna dell'acqua e sobbalzò, tremando. Un
conto era congratularsi con se stessa per essere riuscita a mettere insieme
gli indizi, tutta un'altra cosa era trame delle conclusioni. L'ultima settimana
le era parsa interminabile — fingere di dormire a Euston, e qualche volta
senza fingere neppure, sonnecchiare durante il giorno sulle panchine di un
parco — ma perché si era aspettata di poter stabilire il contatto così presto?
Non aveva idea di quanto fosse ampio il gruppo, della frequenza con cui
reclutava nuova gente. Se solo fosse stata in grado di interrogare Iris ora
sarebbe stata più preparata.
Non doveva esitare. Doveva impedire a tutti i costi alla bambina della
foto di Barbara di diventare come Iris. Nonostante quello che aveva detto
per non alimentare troppo le speranze di Barbara, riteneva probabilissimo
che Angela fosse viva. E poi, con questa indagine si sarebbe fatta un nome.
Con un'improvvisa apprensione, afferrò il blocchetto dalla borsa, ma la bu-
sta di plastica all'interno della borsa aveva impedito alla pioggia di rag-
giungere il quaderno; stava imparando i piccoli trucchi della miseria. Le
sue note parevano scarse per una settimana di lavoro, ma dovevano servire
solo a rinfrescarle la memoria quando si fosse messa a scrivere gli articoli.
Quando di nuovo si trovò appoggiata alla tubatura si decise a rivestirsi.
Gli abiti erano ancora tutti bagnati, le ginocchia dei jeans ancora zuppe,
ma una passeggiata al sole li avrebbe asciugati. Attraversò il salone di Eu-
ston, passando accanto a un giovane pallido che sembrava un monaco, un
morto di fame, con la tonsura più lunga da un lato, e per un momento sentì
che non ce la faceva: la folla era troppo rapida e caotica, il rumore enorme,
incomprensibile, terrificante. Se solo avesse potuto introdursi di nascosto
in casa per un giorno e recuperare un po' di sonno! Ma quello poteva esse-
re proprio il giorno in cui il gruppo cercava reclute. Doveva rimanere pron-
ta.
Per quanto irrazionale fosse la cosa, stava cominciando a sentirsi senza
casa e senza amici proprio come sembrava. Fu tentata di chiamare Barbara
Waugh, ma non aveva niente da dirle. No, c'era qualcosa di meglio che po-
teva fare per sentirsi meno vulnerabile.
Fuori dalla stazione infilò la tessera del bancomat nella cassa automatica
sul muro e batté il suo numero di codice. Quando si fu infilata venti sterli-
ne in tasca si sentì più sicura, finché si rese conto che se un membro del
gruppo l'aveva vista, la sua copertura era rovinata. Si guardò furtivamente
attorno, ma quelli che la guardavano si stavano chiaramente domandando
se avesse rubato la carta. Era incoraggiante.
In cinque minuti fu in Tottenham Court Road e starnutì alla luce del so-
le. Un pranzo messicano avrebbe dovuto aiutarla a liberarsi del raffreddo-
re, se ce n'era uno in arrivo. Ma da Viva Tacos non la lasciarono entrare. «
I tavoli sono tutti prenotati », le disse senza espressione il cameriere. Stava
vivendo tutte le conseguenze del suo travestimento.
Finalmente trovò uno snack bar dove le avrebbero servito il suo san-
dwich attraverso un finestrino. Sedette su una panca di fronte a un negozio
di televisori, dove la faccia di un uomo in vari colori e dimensioni stava
muovendo la bocca. Gli occhi continuavano a chiudersi mentre mangiava.
Si trattenne dal tornare subito a Euston e avanzò a fatica, in mezzo ai
nugoli di turisti, per Oxford Street, per un po'. Di tanto in tanto trovava ri-
fugio in qualche grande magazzino — alcuni erano più freschi — ma il
personale di sicurezza la seguiva finché lei non ne usciva. Era ben contenta
di essere così convincente, ma non poteva permettersi di farsi arrestare.
Al Marble Arch svoltò per Park Lane. Le limousine argentate passavano
silenziose, portieri in uniforme la guardavano con il cipiglio nel caso pen-
sasse di avvicinarsi ai loro alberghi. Riuscì a dormire un'oretta in Hyde
Park, ma si svegliò tremando nonostante il sole. In una farmacia comprò
della vitamina C — avrebbe dovuto farlo prima — e convinse la commes-
sa a darle un bicchiere di acqua calda per sciogliervi una di quelle bustine
dal gusto di limone.
Gironzolò per Piccadilly fino a Leicester Square. Al di sopra dei tetti le
gru sembravano brancolare nel cielo. Ebbe la sensazione che la sua mente
fosse lassù con loro, e cercasse di far presa su qualcosa, probabilmente il
suo corpo. Dopo essere rimasta seduta per un po' in Leicester Square andò
al cinema. Se non altro là dentro sarebbe stato meno umido.
Si addormentò prima ancora che il film iniziasse, e quando il suo russare
la fece svegliare di scatto, un uomo stava sbudellando un bambino deforme
con un paio di forbici. Chiuse gli occhi in fretta, finché le grida del bambi-
no la svegliarono di nuovo nel mezzo dell'identica scena. Un grumo di o-
scurità con gli occhi color lumaca la stava fissando da sopra la sua spalla.
Uscì dal cinema prima che le chiedessero di andarsene, e fu sorpresa di
scoprire che il giorno era finito. Era entrata nel cinema con la luce piena e
ora era buio, tranne che per i fari delle macchine che fendevano la strada
bagnata. Aveva dormito per due spettacoli di seguito.
Si affrettò a risalire lungo Charing Cross Road, sui marciapiedi chiazzati
di neon. Tottenham Court Road le parve un film dell'inizio della sua pas-
seggiata pomeridiana, un film proiettato a scatti a ritroso. La fretta le face-
va sentire il corpo infocato, e ora cominciava anche a pungerle dappertutto.
Prima di raggiungere Euston Road dovette reggersi a un lampione temendo
di sentirsi male.
Quando arrivò nell'atrio di Euston rallentò, ansimando. Il rumore del suo
respiro era sottile e irreale, troppo esile anche per provocare un'eco. Una
voce rimbombava dall'alto, annunciando i treni. C'erano poche persone in
giro, che l'atrio e la voce facevano sembrare minuscole. Andò a cercarsi un
sedile, con le gambe che le tremavano.
I pochi sedili — panche strette fatte chiaramente apposta per scoraggiare
i vagabondi dal dormirci — erano tutti occupati. Sui marciapiedi dei binari
c'erano panchine? Se comperava un biglietto di ingresso, il controllore l'a-
vrebbe lasciata entrare? Ma in quel caso sarebbe stata fuori di vista per
qualcuno che andasse in cerca di vagabondi. Stava indugiando presso le
transenne quando vide un giornalista che conosceva che si avvicinava a
grandi passi.
Era sul punto di salutarlo quando si rese conto di quello che stava facen-
do. Allora si infilò nella toilette, con una sensazione assurda di clandestini-
tà. Certamente non sarebbero mancate altre occasioni di sentirsi assurda,
prima che la ricerca fosse terminata.
L'anziana incaricata della toilette delle donne le diede un bicchiere di
acqua calda con cui prese un'altra bustina di vitamina C. « Sta bene, cara?
» le chiese la donna premurosamente, e Gerry dovette spiegarle che era so-
lo un po' di raffreddore. Nello specchio vide quello che vedeva la donna: i
foruncoli le erano peggiorati, accentuati da un pallore malato; i capelli pa-
revano spago fangoso. Più ancora che di dormire, quando questa faccenda
fosse finita, aveva bisogno di passare delle ore dentro un bagno caldo.
Ora doveva tornare nella sala della stazione. Si era quasi abituata a dor-
mire in piedi — in quel modo era meno probabile che la mandassero via
— ma quella sera aveva paura di non averne la forza. Tutto la svegliava, i
pacchi dei giornali buttati a terra, le voci amplificate che davano le comu-
nicazioni del personale, gli ubriachi che le alitavano in faccia, i poliziotti
che erano lì quando apriva gli occhi come se fossero in attesa di arrestarla.
Le sole persone da cui avrebbe voluto essere svegliata non avevano nome.
Finalmente trovò un pilastro a cui appoggiarsi, nel mezzo della sala. Si
assicurò che il libro di von Daniken sporgesse dalla borsa tra i suoi piedi
— voleva che la prendessero per una credulona in cerca di qualche vago
mistico segreto — poi chiuse gli occhi. Forse delirava, poiché le sembrò di
sprofondare improvvisamente in un bozzolo; il pilastro dietro le sue spalle
si fece soffice e orizzontale. La calda luce dietro le palpebre l'attirò dentro
di sé.
« Ho detto, vuoi venire da noi per la notte? » Era un ufficiale dell'Eserci-
to della Salvezza, che mantenne la sua aria paziente quando lei lo fissò con
uno sguardo assente, e anche quando mormorò malamente qualcosa. Non
poteva essere certa che non fosse un sogno, uscito dalla sua ricerca sull'E-
sercito della Salvezza. Pareva tutto poco convincente, come l'orologio che
le diceva che aveva dormito per un'ora.
Ora che si era svegliata non riusciva più a riaddormentarsi, e il raffred-
dore era peggiorato. Il pilastro ondeggiava, il pavimento era il ponte di una
nave durante una tempesta, il comandante era un gigante che si chinava
verso di lei, che urlava informazioni sui treni. Sì, era in una stazione, la
stazione di Euston, e c'era gente che girava ascoltando la radio, oppure
quelle erano le voci delle persone? Era impossibile dirlo, erano tutti piccoli
e confusi. Una cosa sembrava chiara: se avesse avuto adesso l'occasione di
infiltrarsi nel gruppo, ne avrebbe potuto fare un ben scarso uso.
Non aveva scelta. Doveva andare a casa per quella notte e cercare di
smaltire dormendo il raffreddore, sperando di non aver perso l'occasione
buona. Certo una sola notte non poteva aver importanza. Quando fosse
tornata a Euston si sarebbe attrezzata meglio per far fronte ai cambiamenti
meteorologici.
Si girò, sempre appoggiata al pilastro, e guardò l'orologio, che aveva
guadagnato una mezz'ora. Come faceva ad arrivare a casa ora che i treni
erano fermi per la notte? A volte i taxi l'avevano ignorata anche quando
era in condizioni migliori. Forse, se si. metteva in coda al parcheggio di
Euston, e se era pronta a mostrare i soldi, un taxi l'avrebbe caricata. Si co-
strinse ad aprire gli occhi e pensò di aver visto male l'ora. Come potevano
essere passati dieci minuti dall'ultima volta che aveva guardato l'orologio,
un paio di pensieri fa? Eppure era così, e una giovane donna malconcia,
con i capelli che parevano pece pettinata, la stava fissando. « Ti serve un
letto? »
Gerry stava per rifiutare quando si rese conto di quanto stesse male: la
giovane donna dal lungo viso, la stazione, il suo corpo stesso, era tutto di-
stante e inafferrabile come ghiaccio. Non ce la faceva ad affrontare una di-
scussione con un tassista. « Da dove vieni? » chiese.
« Dal London Refuge. Abbiamo un furgoncino, fuori. Non importa se
non hai soldi. »
Chiaramente questo significava che il letto era quanto di peggio, ma l'of-
ferta era irresistibile. Se c'era altra gente a dormire al London Refuge, ma-
gari potevano dirle qualcosa sui senzanome; i barboni erano l'unico gruppo
che non aveva interrogato, e potevano essere proprio quelli che ne sapeva-
no di più. Seguì la donna nella notte rigida.
Quando raggiunsero il furgoncino in una strada laterale comparve dietro
di lei un giovane, con una tonsura da monaco. Non si era accorta che le
stava seguendo. « Tu viaggi dietro », disse, aprendo gli sportelli.
Gerry pensò che sul sedile anteriore c'era posto per tre, ma non aveva
voglia di discutere, neppure quando vide la confusione nel retro, scatole,
attrezzi arrugginiti e mattoni, così lerci che sembravano saldati tra loro. Si
sistemò nello spazio libero e lo sportello fu richiuso immediatamente die-
tro di lei.
Si era appena seduta che il furgone partì con un sobbalzo. Il divisorio
dietro il guidatore non aveva aperture, e dal finestrino posteriore non pote-
va vedere molto, salvo i lampioni che scorrevano nella notte. Riuscì ad ap-
poggiarsi alla parete del furgone e tentò di ricordarsi se avesse mai visto
prima il giovane e la donna. Non li aveva già scorti diverse volte a Euston?
Mentre andavano verso il furgone aveva notato dei capelli bianchi tra quel-
li tinti della donna.
Ogni volta che il veicolo rallentava Gerry si sporgeva verso il finestrino,
e così quando giunsero a destinazione vide dove si trovavano: Earls Court,
appena dietro Cromwell Road. L'avrebbe forse riconosciuta solo dal rumo-
re.
Quando il giovane aprì la porta, lei vide che si trovavano su un vialetto
sotto un folto gruppo di alberi, di fronte a una casa a tre piani. Tutt'attorno
al portico il terreno sembrava incrostato di vernice. Forse gli alberi aiuta-
vano a bloccare il rumore, ma qui sembrava ancora più forte. Il fogliame
ondeggiante risuonava come i camion che correvano ruggendo verso l'au-
tostrada. Si sentiva intasata di rumore e di catarro.
Quando alzò gli occhi verso la casa, da una finestra in alto Barbara
Waugh la fissava.
Per un attimo pensò che il delirio fosse peggiorato, poi si rese conto che
era una ragazza magra che assomigliava a Barbara. Non poteva essere che
Angela, e annaspò — ma aveva urtato contro lo spigolo del furgone, e i
suoi accompagnatori dovettero pensare che era per quello che aveva fatto
quel verso soffocato. « Sei stanca », disse la giovane donna con aria indif-
ferente, mentre l'accompagnavano verso la casa.
Gerry guardò in alto, senza alzare la testa, prima che raggiungessero il
portico. Angela si stava ritirando nella stanza semibuia e pareva circondata
da diverse figure; la stavano invitando o costringendo ad allontanarsi dalla
finestra? La donna di Euston aprì la porta scrostata mentre Gerry saliva i
gradini cigolanti. Oltre la porta, l'ingresso e le lampadine non schermate
erano di un colore bruno sporco. In fretta, perché non si chiedessero come
mai esitava, entrò nella casa.
Capitolo 19

QUANDO la porta si chiuse dietro di lei ebbe paura che non sarebbe
riuscita a comportarsi con naturalezza, era troppo stanca e troppo malata
per sostenere la finzione. Per fortuna doveva solo comportarsi come uno
che è stanco, e questo non era un problema. Anzi, le cadde quasi la borsa,
avendo dimenticato che la teneva in mano, mentre la donna la conduceva
di sopra.
Dentro la casa il rumore del traffico era attutito, un'ottusa massa confusa
di suono che sembrava fondersi con la luce sporca in un unico elemento
soffocante. Forse la carta da parati era marrone, forse le macchie sul tappe-
to delle scale avevano un disegno e un colore. C'erano delle voci che mor-
moravano dietro la porta della stanza dove aveva visto Angela? Non pote-
va dirlo con certezza.
C'erano tre porte sul primo pianerottolo e tre all'ultimo piano, dove la
donna accompagnò Gerry. Accanto alla lampadina grigiastra c'era un lu-
cernario chiuso con delle assi. La donna aprì una porta e fece scattare un
interruttore, ma la stanza rimase al buio. « Non funziona », disse piatta-
mente. « Il tuo letto è vicino alla porta. »
Quando Gerry avanzò poté distinguere due file di materassi contro la pa-
rete, tre letti per ogni fila. La luce proveniente dalla finestra aperta rag-
giungeva a stento quello che era stato assegnato a lei; delle forme oscure
erano ammucchiate sopra gli altri. La donna attese finché Gerry non si fu
spogliata, rimanendo in slip, poi le tirò addosso la coperta e chiuse la por-
ta.
Per un attimo Gerry temette che la chiudessero a chiave, ma la donna
andò subito di sotto; il cigolio degli scalini si distingueva nel frastuono del
traffico. Gerry rimase sdraiata, incastrata dagli altri letti e dal buio che a-
veva un odore di umido anche attraverso il raffreddore. Era riuscita a infil-
trarsi nel gruppo. Era stato facile.
Senza dubbio avrebbero cercato di tirarla dentro, probabilmente la mat-
tina dopo appena sveglia; le sette devono acchiapparti quando e dove sei
più vulnerabile. Ora era meno ansiosa e sentì di delirare meno. Potevano
fare ogni sforzo per farle il lavaggio del cervello, non sarebbero mai riusci-
ti a ridurla come Iris. Quel genere di cose funzionava solo con personalità
meno solide della sua.
Aveva bisogno di dormire per essere pronta per loro, ma ci sarebbe riu-
scita? Dormire in una stanza, insieme con gente che non aveva mai visto la
rendeva oscuramente agitata, e poi c'era il rumore. Probabilmente il gruppo
sceglieva di vivere in case di quel tipo perché il rumore abbassava gli affit-
ti, se pure non ci si insediavano abusivamente, come a quanto pareva ave-
vano fatto vicino a Portobello Road. Si stava chiedendo se sarebbe riuscita
a sonnecchiare quando cadde profondamente addormentata.
Si svegliò che era ancora buio, ma si sentiva più fresca e completamente
libera dalla sensazione di delirio. Aveva solo un mal di gola così forte che
fu contenta di non dover parlare. Rimase sdraiata aspettando che gli occhi
si adattassero all'oscurità. La finestra era priva di tende, ma gli alberi erano
efficaci quanto le imposte; i bagliori della pioggia scintillavano sopra le
foglie. Il frastuono del traffico aveva raggiunto il tono di un lamento acu-
tissimo. A parte quello, riusciva a sentire solo il suo respiro congestionato.
Non sentiva il respiro dagli altri letti.
Certo, il rombo del traffico poteva coprire ogni altro rumore, ma im-
provvisamente si sentì agitata. Sedette sul letto e si sporse verso quello vi-
cino. Dalla figura raggomitolata pareva non giungesse alcun rumore. Gerry
si tenne al bordo del materasso e si sporse ancora di più, ma la sua presa
era più debole di quanto pensasse e perse l'equilibrio. La mano libera le fi-
nì dentro la forma nel letto accanto — si infilò in profondità in quella for-
ma.
Riuscì a trattenere un grido, rendendosi conto che non c'era una persona,
solo un cuscino avvolto tra le coperte. Non aveva svegliato gli occupanti
degli altri letti con il rumore della caduta? Si costrinse a fare un giro di ri-
cognizione, nonostante l'agitazione le desse l'idea che uno di loro la stava
guardando nel buio. Tutte le figure erano letti disfatti.
Rimase ritta accanto alla finestra, dove c'era un po' più di luce. Ora an-
che nel suo letto pareva ci fosse qualcuno. Non riusciva a trovare un moti-
vo per cui dovesse sentirsi a disagio — probabilmente la gente che dormi-
va in quella stanza ora era altrove — ma continuava a cercarne uno. Im-
provvisamente capì che cosa non andava: ora che era più vicina al traffico,
quel tono acuto si era allontanato. Non aveva niente a che fare con il traffi-
co. Era il pianto di un bambino all'interno della casa.
Bene, lei sapeva che nel gruppo c'erano dei bambini, e si sa che i bambi-
ni a volte piangono. Dopo un po' tornò al suo materasso, ma invece di
stendersi si accovacciò, cercando di localizzare il pianto del bambino. Fuo-
ri dalla finestra i rami sgocciolavano e ondeggiavano. Che c'era che non
andava in quel pianto? Perché sembrava così soffocato?
Finalmente, riluttante, si alzò e socchiuse la porta. Per quanto la girasse
lentamente, la maniglia cigolò. Uscì in punta di piedi sul pianerottolo de-
serto, tra due porte chiuse. Il pianto veniva dal basso, e ora capì che cosa
non andava. Non era soltanto soffocato, sembrava anche imbavagliato.
Doveva ignorarlo. Se si tradiva adesso il gruppo poteva fuggire prima di
essere fermato — ma come poteva ignorarlo? E se era la figlia di Barbara?
Non aveva importanza chi fosse, Gerry doveva scoprire cosa stavano fa-
cendo al piccolo. Si vestì in fretta, poi prese la borsa, nel caso qualcuno
trovasse il suo quaderno, e scese furtivamente le scale.
Mettendo i piedi sul bordo dei gradini riuscì a evitare che scricchiolasse-
ro, ma il corrimano era instabile. A metà strada perse l'equilibrio e dovette
reggersi: appena lo afferrò quello cedette di schianto. Per un momento
pensò che sarebbe andato giù, facendola precipitare nella tromba delle sca-
le. Vi rimase attaccata per un po' trattenendo il fiato e chiedendosi se qual-
cuno avesse sentito.
Finalmente raggiunse il piano inferiore. Nella luce marroncina le tre por-
te avevano un aspetto irreale, come disegnate e dipinte su un muro. Al di là
della porta centrale, nella stanza dove aveva visto Angela alla finestra, fu
sicura di sentire delle voci che mormoravano. Il rumore del traffico doveva
aver impedito a quelli che erano dentro di sentire la ringhiera che aveva
ceduto. Questo significava che se c'era qualcuno che la seguiva non ne a-
vrebbe sentito i passi?
Il pianto era ancora sotto di lei. Sembrava più lontano che mai. Superò le
porte in punta di piedi e scese l'altra rampa. L'ingresso appariva immerso
in quella luce cremosa che saliva verso di lei. Improvvisamente il pianto
cessò e lei si bloccò, a metà dell'ultima rampa. Da là poteva vedere la porta
d'ingresso e si rese conto che era chiusa con un catenaccio. Qualunque co-
sa scoprisse, da quella parte non sarebbe stata certamente in grado di trova-
re alcuna via d'uscita.
Ma doveva rimanere finché non avesse scoperto tutto sul gruppo. No,
non si stava esponendo, certamente chiunque sarebbe sceso per andare in
aiuto al bambino — chiunque, non solo una spia. Forse il bambino ora sta-
va bene, ma doveva accertarsene.
Quando raggiunse l'ingresso guardò su, inquieta, verso le scale deserte,
poi si costrinse a girarsi con le spalle alla porta chiusa dell'ingresso. C'era-
no quattro porte che davano sull'atrio, compresa una sotto le scale; proba-
bilmente quella portava in cantina. In fondo all'atrio luccicavano nella cu-
cina gli attrezzi metallici. Così rimanevano due stanze. Andò alla prima,
tra le scale e la porta d'ingresso.
Quando spinse la porta all'interno cadde un indumento. Lo sentì cadere e
sentì il morbido ostacolo mentre continuava a spingere. Temeva che l'in-
dumento si incastrasse sotto la porta rendendola più rumorosa, ma ci fu so-
lo un lieve fruscio. Dopo un po' la porta fu socchiusa abbastanza da per-
metterle di guardare dentro.
La stanza era meno buia di quella all'ultimo piano: attraverso i tronchi
passava più luce che tra il fogliame. Tuttavia passò qualche momento pri-
ma che fosse in grado di vedere. Fissò gli occhi sulla finestra senza tende e
ignorò l'impressione di movimento accanto a lei. Quando riuscì a vedere
meglio, si accorse che la stanza era completamente vuota. Non c'era nulla
dietro la porta, neppure un gancio da cui potesse essere caduto un indu-
mento.
D'un tratto si sentì così terrorizzata che non fu sicura di potersi muovere.
Era lì, sporta in avanti, mezza dentro e mezza fuori dalla stanza, le mani
aggrappate alla cornice della porta una sopra l'altra, incapace di mollare la
presa. Soprattutto aveva paura di alzare lo sguardo. Non ce n'era bisogno,
poteva vedere che il bambino non era lì, poteva lasciarsi, spingersi via dal-
la cornice della porta, fuori dalla stanza. Ricadde nell'ingresso e a stento
riuscì a non sbattere la porta chiudendola.
C'era un'altra porta chiusa, verso la cantina e la cucina. Doveva andare
avanti, non poteva uscire dalla casa. Andò comunque prima in cucina, la
cui porta aperta la rendeva meno minacciosa. Nella penombra distinse il
contorno di un lavandino, un fornello, una tavola con delle sedie attorno.
Non c'era altro da vedere.
Non poteva perdere altro tempo. Quello che c'era da scoprire, qualunque
cosa fosse, si trovava nell'ultima stanza. Strisciò verso la sua porta, appog-
giandosi con una mano alla parete umidiccia. La maniglia era fredda, ap-
piccicosa. La sua ombra, un ammasso nero con una forma completamente
diversa dalla sua figura, si acquattò.
Quando ebbe socchiuso la porta scoprì che la stanza era buia. Dovette
tastare alla cieca la parete invisibile in cerca dell'interruttore. Ecco qualco-
sa di rotondo, una sporgenza in cui si imbatterono le dita. Era effettiva-
mente l'interruttore, con la levetta spezzata. Abbassò il mozzicone rimasto.
Non c'erano bambini nella stanza. Sotto la lampadina non schermata c'e-
ra una sedia di legno e un tavolo zoppo, uno schedario, una scansia piena
di libri messi a casaccio. Una tenda nera, spessa come una coperta, era in-
chiodata alla finestra. Fece d'impulso un passo avanti e si chiuse piano la
porta alle spalle. Forse questa stanza le avrebbe dato un'idea degli scopi
del gruppo.
Se i libri erano in disordine, il loro tema era fin troppo preciso. Enciclo-
pedia del delitto, Storia della tortura, Cannibalismo e sacrificio umano, Il
flagello della svastica — l'ossessione al sadismo era quasi soffocante. Qui
c'era un'edizione illustrata di de Sade, poi un libro intitolato Il mandala
Manson. Uno degli scaffali era pieno di libri con la copertina senza titolo,
che per il momento preferì non aprire: gli interessi del gruppo erano già
sufficientemente chiari.
Non era l'influenza che la faceva star male, ora. Le era tornato in mente
il tono di angosciato disgusto di Iris mentre diceva: « Ci facevano fare del-
le cose. Mi piace ripensarci ». Pensò ad Angela, al pianto del bambino.
Perché era cessato? Evidentemente andando allo schedario, stava tentando
di ritardare la sua ricerca perché era certa che i cassetti li avrebbe trovati
chiusi a chiave.
Quando tirò il cassetto superiore, questo uscì sferragliando, così forte in
mezzo al rumore soffocato del traffico che la lasciò senza fiato. Conteneva
nastri, cassette e bobine di film in scatole contrassegnate solo con dei nu-
meri, e si sentì nonostante tutto sollevata dal fatto di non essere in grado di
dire cosa contenessero. Ma anche il secondo cassetto era aperto, e questo
era pieno di fotografie.
Ne pescò una manciata e le portò sulla scrivania sotto la lampada. Do-
vette sollevare una foto per eliminare il riflesso, ma non appena realizzò
quello che raffigurava senti l'impulso di buttarla via. Si costrinse invece a
guardare meglio, nella disperata speranza che vista più attentamente si ri-
velasse un fotomontaggio.
La foto era stata scattata in una foresta. Riconobbe immediatamente gli
alberi giganteschi: sequoie, in California. Inchiodato a uno dei tronchi c'era
un corpo nudo. Benché fosse nitido in modo abominevole, non avrebbe
potuto dire né il suo sesso né la sua età. Troppa roba ne era stata asportata.
Sfogliò la manciata di foto mentre tutto il suo corpo si rivoltava, dispera-
tamente ansioso di andar via. Il resto delle immagini era ancora peggio.
Molte erano state fatte in California. Le tornò in mente il riferimento a un
gruppo che una delle donne di Manson aveva definito peggio della Fami-
glia; forse, dopo tutto, c'era una connessione.
La gran parte delle foto erano state scattate in case molto simili a quella
in cui ora si trovava rinchiusa Gerry. Gli interni erano tipicamente inglesi;
qualcuno di essi poteva essere proprio di quella casa? Le mani non le ri-
spondevano più, era incapace di smettere di sfogliare le fotografie. Ormai
sapeva che le foto non erano false; erano troppo fredde, piatte come reperti
di polizia, spaventose nell'indifferenza per quanto andavano mostrando.
Forse aveva sbagliato a supporre che il gruppo scegliesse le sue case in
zone rumorose perché più economiche; probabilmente il rumore doveva
servire a soffocare i suoni provenienti dall'interno della casa.
Stava inconsciamente raccogliendo le foto, rendendosi conto di quanto
altro poteva esserci nello schedario — cosa potevano aver registrato quei
nastri, quei film? — quando il pianto riprese. Non aveva ancora guardato
in cantina. Per un attimo si sentì ondeggiare sulla sedia e temette di essere
sul punto di svenire, ma un momento dopo si trovò a correre verso la porta,
dimenticando Barbara Waugh, il suo travestimento, la sua missione. Sape-
va solo che doveva salvare il bambino.
Corse in punta di piedi in cucina e sotto l'acquaio trovò un coltello da
macellaio in un cassetto. Rabbrividì quando la lama le tagliò la pelle del
pollice, ma così affilato la rassicurava. Nonostante il tremito alle gambe, si
diresse a grandi passi verso la porta della cantina e la spalancò, tenendo
basso il coltello.
Un passaggio ingombro portava a una rampa di scale che davano su una
seconda porta. La luce stagnante dell'ingresso si raccoglieva attenuata nel
passaggio e luccicava su un interruttore di fondo. Il pianto era cessato già
quando lei era in cucina, ma doveva venire da laggiù. Scendendo aveva la
sensazione che la curvatura del soffitto la spingesse verso il basso. Quando
aprì la porta con un calcio e vi trovò il buio dietro, immediatamente abbas-
sò l'interruttore.
La cantina era ampia, con i muri di mattoni non intonacati, e pareva
completamente vuota. L'unica nuda lampadina lasciava gli angoli in om-
bra, ma in nessuno di essi poteva esserci un bambino. Sbigottita, si fece
avanti. D'un tratto sbucò fuori, sopra di lei, qualcosa della grandezza di un
bambino, lungo il soffitto.
Fece un sobbalzo così violento che lasciò cadere il coltello, che tintinnò
sul pavimento di cemento. Ma non c'era nulla sopra di lei tranne lei stessa:
il soffitto era coperto di piastrelle di specchio. Si fissò nervosamente là in
alto, pendere capovolta, rimpicciolita e impotente. Aveva appena co-
minciato a chiedersi se quelle piastrelle di specchio erano state messe lì in
modo che la vittima del gruppo potesse vedere quello che le stavano fa-
cendo, quando sentì dei passi che scendevano verso la cantina.
Raccolse il coltello e indietreggiò, desiderando subito di essersi nascosta
piuttosto dietro la porta. Le sarebbe servito a poco: sugli scalini c'erano
quattro uomini. Entrarono nel locale e la fissarono, con visi inespressivi.
Chiusero subito, mettendosi tra lei e la porta.
Non l'avevano ancora raggiunta quando qualcun altro arrivò giù dalle
scale correndo leggero. Era una bambina sui sei anni, con un pigiama rosa
a coniglietti azzurri. Sorridendo a Gerry, si mise due dita in bocca ed emi-
se un monotono lamento. Era quello il pianto soffocato .che aveva sentito
Gerry.
Gerry era stata attirata laggiù come una bestia al macello, e comprese
una cosa che avrebbe dovuto immaginare molto prima: il gruppo non cer-
cava reclute, tra i vagabondi, cercava vittime. La bambina ridacchiava e
sembrava innocentemente contenta di sé. Gerry levò il coltello e lo strinse
per il manico, scivoloso per il sudore. « State indietro », disse agli uomini.
Loro si fecero avanti, fissandola negli occhi. Ora si stavano allargando;
il coltello non ce l'avrebbe mai fatta a tenerli a bada tutti. « Non provateci
», avvertì, con la voce che le grattava la gola. « Sono una giornalista. Sono
stata mandata qui a fare indagini su di voi. »
L'uomo sulla sinistra fece un sorriso cattivo, scoprendo pochi denti mar-
ci e giallastri dietro le labbra spesse. « Sì, come no », disse.
« Lo sono. Guardate questo se non ci credete. » Riuscì a tirar fuori il
quaderno dalla borsa che teneva sotto il braccio sinistro e lo lanciò all'uo-
mo. « Al giornale sanno che sono qui. »
Lui prese al volo il quaderno e lo strappò a metà senza neppure guardar-
lo. La bambina squittiva di gioia. Gli uomini, inarrestabili come robot, e-
rano quasi arrivati a Gerry; sopra di lei la sua figura pendeva per i piedi
mentre i quattro la serravano in mezzo. Era quasi contro la parete. « Barba-
ra Waugh sa che sono qui », disse, e si rese conto che loro sapevano che
stava mentendo; non poteva sapere dove l'avrebbero portata. « La madre di
Angela », continuò disperata.
« Qui i nomi non contano », ribatté l'uomo sulla sinistra, mentre quello
sulla destra allungava la mano e le torceva il braccio finché lei non lasciò
cadere il coltello. Quello con le labbra spesse lo raccolse. La bambina
guardava affascinata mentre gli altri uomini la tenevano e lui le tagliava i
tendini delle braccia e delle gambe.

Capitolo 20

L'East Anglia era una verde pianura che terminava in scogliere frasta-
gliate. I gabbiani planavano lungo le spiagge, sfiorando la cresta delle on-
de. Il Mare del Nord aveva il suono di un'immensa foresta tempestosa; le
ondate esplodevano contro le rocce dell'insenatura sopra la quale stava
Ted. « La mamma ha detto che sarebbe bello se una volta potessimo uscire
tutti insieme per un giro in macchina », disse Judy.
Il vento sulla cresta gli faceva svolazzare la barba spingendone la voce
dietro le spalle. « Ma sei sicura che è proprio quello che ha detto? »
« Sì, perché ha detto che se potevamo permetterci una macchina pote-
vamo andare in posti nuovi in vacanza. »
Era proprio tipico di Helen, e certamente aveva sperato che Judy glielo
dicesse. « Le parlerò io », promise.
Nel viaggio verso casa, la linea dell'orizzonte sulla campagna piatta era
tanto vicina da parere irreale; a un certo punto Judy chiese: « Sei proprio
certo che la settimana prossima sei via? »
« Sì, amore, devo proprio. » Aveva la possibilità di fare un viaggio in I-
talia che più o meno coincideva con quello di Barbara. Ora Barbara pensa-
va di non riuscire ad andarci, ma era evidente che aveva un gran bisogno di
una vacanza. « Visto che stai leggendo di re Artù, non appena ritorno ti
porto a Glastonbury. »
« Pensavamo che se non andavi potevi venire con noi. »
Era certo che Helen non aveva pensato niente del genere, qualsiasi cosa
potesse aver detto a Judy. « Ho paura di essere già impegnato. »
« Vai via con Barbara? »
« Cosa? » Il tono accusatorio nella sua voce fu un colpo spiacevole, ma
lui sapeva chi ce l'aveva messo. « Che ne sai di Barbara? » Lui non gliel'a-
veva mai neppure nominata.
« Era la signora che andavi a trovare quando eravamo nel vecchio appar-
tamento. »
Questo non poteva saperlo, a quel tempo, era troppo piccola. « Sì, Judy,
vado via con lei. Proprio come tu e tua madre andavate via con tuo zio
Steve. »
Quel punto segnato non gli diede nessuna soddisfazione. Scopo del di-
vorzio era stato evitare a Judy quel genere di ostilità. Stava per domandarle
se c'era qualcuno nuovo — chiamarli zii gli pareva una cosa infantile, ma
come doveva chiamarli? — quando Judy disse: « Mamma dice che tu pre-
ferisci Barbara a noi ».
« Non a te, Judy. » Si trattenne dal dire altro, anche se si sentiva sempre
più arrabbiato. Tuttavia, quando riportò Judy a casa e lei andò in bagno a
lavarsi, poté affrontare l'argomento con calma; non avrebbe ottenuto niente
perdendo le staffe. « Helen, credo che non sia di grande utilità parlarle di
Barbara Waugh. »
« Che fastidio può darti? » Helen stava riducendo un vecchio vestito in
strofinacci per la polvere, certo per mostrare fino a che punto le toccava fa-
re economie. « Ti fa sentire in colpa? » chiese, senza alzare lo sguardo.
« Sì, naturalmente. Tutto quello che le racconti di me mira a questo. Vo-
glio dire, dirle che potevamo andar via insieme — davvero lo avresti volu-
to? »
« È evidente che tu non avresti voluto. Già le lesini quell'unico giorno
alla settimana. »
« Chi ti ha messo in testa questa idea, in nome di Cristo? »
Lo fissò dura. « Non farmi ridere. Non sei cambiato tanto, è inutile che
cerchi di farmelo credere. La tua Barbara Waugh ti ha mai visto quando
hai la luna? Probabilmente con lei ci stai più attento. Lei non dipende da te
come noi un tempo. Può sempre piantarti quando ne ha abbastanza. »
Sapeva quello che sarebbe seguito — allusioni, silenzi accusatori,
sguardi che sottintendevano che avrebbe dovuto sapere quello che lei stava
pensando, e se no era ancora più nel torto — ma non riuscì a fermarsi a
questo punto; non ne era mai stato capace. « Che luna? » domandò.
« Be', quella di adesso è un discreto esempio. Non dirmi che hai dimen-
ticato gli anni in cui ti sentivi il capo di casa. Per quanto ne so sei esatta-
mente lo stesso ora, quando porti fuori Judith. Lei dice di no, ma io spero
solo, per il tuo bene, che sia vero. » Lo fissò mentre le forbici attaccavano
l'ultimo pezzo di stoffa. « Lo sai che tutte le notti, prima che tu venga a
prenderla, ha gli incubi? »
« Non mi meraviglia. »
« Se questo vuole significare qualcosa, certamente non significa niente
per me. »
Questa era sempre la via sicura per fargli perdere la pazienza. « Voglio
dire che la metti in uno stato tale che non sa più che pensare. Mi piacereb-
be sapere che razza di stronzate le fai ingozzare sul mio conto. »
« Sei ignobile come certi libri che pubblichi. Questa è un'altra cosa che
potresti insegnarle, solo che non te lo lascerò fare. Ricordati che in custo-
dia ce l'ho io. Dammi solo un pretesto e ci penso io a non fartela vedere
più. »
« Forse non te la darebbero più, la custodia, se la contestassi adesso. » Si
era intrappolato in una discussione che non voleva neppure vincere. « Ti
toccherà mostrare al tribunale ben altro che questa specie di isteria, per te-
nermi lontano da Judy. »
« Secondo te loro ci credono che tu tieni a lei? No, se io gli dico quanto
sei legato a una donna che non è riuscita neppure a badare a sua figlia. Non
c'è da meravigliarsi che te la prendessi con Judith. Non sono gli altri che ti
fanno sentire in colpa, sei tu stesso. »
Aveva quasi ragione, ma per caso: quando era tornato a casa, la prima
volta che era stato a letto con Barbara, aveva dovuto controllarsi per non
apparire troppo felice. Ma Helen sospettava già da mesi una relazione con
Barbara, e aver dato fondamento ai suoi sospetti lo aveva sollevato dal
senso di colpa, lo aveva fatto sentire libero quanto non era mai stato in vita
sua. Forse Barbara aveva contribuito a mettere fine al matrimonio, ma non
proprio come intendeva Helen.
« Scusami Helen, non ho intenzione di discutere di Barbara. » Bussò alla
stanza da bagno mentre lei lo guardava con freddezza. « Sto andando via,
Judy. La prossima volta ti porto a Glastonbury. »
In Upper Street un tappeto arrotolato era appoggiato a una vetrina; ac-
canto al tappeto uno straccione si drizzò e avanzò barcollando verso Ted,
ma la bottiglia di vino vuota lo mancò. Non mi meraviglia che Helen sia
depressa, pensò Ted costeggiando gli squallidi negozietti. La discussione
era stata nel complesso troppo familiare per fargli del male ed era certo che
Helen non intendesse seriamente separarlo da Judy. Davvero aveva una
così scarsa opinione dei libri che lui pubblicava? Avrebbe dovuto chiederle
per quali libri lo stava accusando, ma lei comunque non gli avrebbe rispo-
sto; era troppo tortuosa per questo. Era tortuosa come sarebbe stata l'inve-
stigatrice privata protagonista del suo libro.
Perdio, certo che lo sarebbe stata. Schiacciò il clacson, che strillò a una
strada vuota. Certo, in questo modo l'investigatrice avrebbe affrontato il
suo lavoro, non come un Philip Marlowe in gonnella. Arrivò a casa in fret-
ta, riscrivendo capitoli dentro di sé.
Appena a casa si mise a scrivere, cancellando interi paragrafi scribac-
chiando tra una riga e l'altra. Improvvisamente tutto quello che andava ma-
le nelle pagine che aveva scritto sembrava chiaro e sistemabile. Rielaborò
tre capitoli in due ore, e l'energia che aveva accumulato lo spinse a iniziar-
ne uno nuovo. E lì si trovò arenato a metà pagina. La detective era auto-
noma, ora, non aveva nulla dell'amarezza adolescenziale di Philip Marlo-
we perché il mondo era meno romanticamente perfetto di come lo avrebbe
voluto lui, ma il racconto esigeva un tradimento, dopo, un test per verifica-
re la sua compassione. Quale poteva essere?
Barbara poteva aiutarlo. Quando guardò di là dal lago vide che la sua fi-
nestra era accesa; dietro il tetto di casa sua il ruvido tramonto si stava o-
scurando. Rispose al telefono prima che lui sentisse lo squillo. « Sì? » dis-
se con ansia.
« Ciao, Barbara, sono Ted. » Pensò che avrebbe dovuto dire: « Sono so-
lo io ».
« Ciao Ted. » Faceva del suo meglio per non far trasparire la sua delu-
sione. « Cosa c'è? »
« Ho fatto un po' di lavoro sul romanzo, ma ora sono arrivato a un punto
morto. Ti andrebbe un drink? »
« Sì, vieni da me e te ne offro quanti ne vuoi. Dammi solo qualche mi-
nuto. »
Lui aveva pensato a un pub; ma in ogni modo sarebbe riuscito a parlarle:
erano settimane che non parlavano a lungo. Lei gli era sembrata sempre
troppo esausta o nervosa per starla a seccare con il suo romanzo. Si era
concentrato nel tentativo di convincerla ad andare in vacanza, con o senza
di lui. Era chiaro che aveva bisogno di uno stacco.
Mise un disco di Charlie Parker per darle un po' di tempo, cercò un pez-
zo da inserire nel puzzle di Playboy, poi si avvio verso casa di Barbara, co-
steggiando il laghetto rosato. Sotto la chiesa di St. Giles stringhe bianche
di luce si agitavano come vermi. Un giovane magro, pallido, con una ton-
sura da monaco, stava accanto al salice sulla piattaforma di mattoni rossi e
osservò Ted mentre suonava al campanello.
Ted riuscì, stringendosi i pugni in tasca, a nascondere la sua costerna-
zione quando Barbara aprì la porta. Aveva un'aria ancora peggio che so-
vraffaticata; la sua faccia era devastata, quasi incolore sotto il trucco; gli
occhi sembravano non vedere più. Era successo qualcosa da quando lui
aveva chiamato.
« Entra e mettiti seduto. » Stava facendo del suo meglio per apparire pa-
drona della situazione, ma si vedeva quanto si stava sforzando. « Devo dir-
ti una cosa. »

Capitolo 21

« Dammi solo un minuto », disse Barbara, e sedette poggiando il viso


sulla mano. Le girava la testa; era certa che se solo avesse spostato il go-
mito sarebbe crollata sulla scrivania. Lì o in ufficio, era sempre alla mercé
del telefono.
Che cosa desiderava di più, ricevere la telefonata di Gerry, o non averla
mai mandata in cerca di Angela? Tutt'e due le cose, desiderava, disperata-
mente e senza possibilità di scelta, fin da quando aveva sentito la voce
crudelmente beffarda di uno dei rapitori di sua figlia. Poteva solo sperare
che non si fosse accorto che Angela stava telefonando, sperare che a que-
sto punto Gerry fosse riuscita a infiltrarsi nel gruppo, ma forse questo era
sperare troppo. Se pure avesse trovato il coraggio di infrangere ancora di
più il suo giuramento, non poteva rivolgersi alla polizia, con il rischio di
spingere il gruppo a darsi alla macchia prima che Gerry fosse riuscita a pe-
netrarvi. E comunque non le avrebbero creduto. Lei stessa ci aveva messo
tanto a credere ad Angela.
Si era buttata a corpo morto nel lavoro, in ufficio e a casa, per essere si-
cura che i suoi clienti non finissero per risentire negativamente della situa-
zione. Qualche volta pensava che il vero motivo per cui faceva tutte quelle
telefonate era impedirsi di stare a rimuginare attorno all'apparecchio. Spes-
so le pareva di essere osservata, soprattutto nelle gallerie e nei sottopas-
saggi del Barbican. Da sola, a letto, troppo esausta per dormire, le pareva
di essere fatta di fil di ferro arrugginito. Si sentiva peggio di quando la po-
lizia le aveva detto che Angela era morta. Almeno allora le era parso la fi-
ne di qualcosa.
Finalmente lasciò la scrivania e si trascinò fino al bagno, dove si spruzzò
il viso con un po' d'acqua fredda. Indugiò qualche minuto a truccarsi, pur
sapendo che questo non le avrebbe cancellato dagli occhi i segni dell'ango-
scia. Le pareva di passare ogni notte, tutta la notte, a risalire sulla scala
mobile, che scivolava all'indietro con il suo movimento regolare. A volte
c'era Angela ad aspettarla in cima, a volte aveva l'aspetto di Iris, grigia e
tormentata. La notte prima era comparso il viso di Arthur, non più grande
di una capocchia di spillo. Angela aspettava contro un'oscurità irrequieta,
impaziente di prendere forma, ma quando Barbara aveva guardato di nuo-
vo la cima della scala mobile, ad aspettare c'era un serpente con la testa
gonfia, rosa e umido come un feto.
Uscì in fretta dal bagno: lo specchio non le restituiva che l'immagine
dell'apprensione. Che poteva fare in attesa di Ted? Sulla scrivania, in due
blocchi, c'era un manoscritto, ma dubitava di avere il tempo di leggere un
altro capitolo. Era circondata da libri, da storie. Si sentì come murata dal-
l'irrealtà. Non c'era nulla a cui fosse in grado di afferrarsi solidamente.
La finestra di Ted era ancora illuminata. Si stava dirigendo verso la scri-
vania, per dirgli di venire pure quando volesse, quando il telefono squillò.
Purché non fosse lui che le comunicava che non sarebbe venuto più... « Sì?
» rispose con ansia.
« Sono io », disse Angela.
Barbara si sentì come ubriaca di sollievo e subito si mise a sedere. Allo-
ra i rapitori non l'avevano vista telefonare. Ma lo stesso domandò: « Stai
bene? »
« Ma sì, certo che sto bene. »
Sembrava infastidita, proprio come una bambina con una madre troppo
protettiva. Barbara si sentì vagamente imbrogliata: come parlare così
quando era in pericolo? Prima di poter riflettere su questa sensazione,
chiese: « Perché hai chiamato? »
« Perché ho bisogno di te. »
Barbara riuscì a trattenere le lacrime, non voleva che i singhiozzi le im-
pedissero di sentire. Angela che aveva evidentemente ripensato alla do-
manda, disse di nuovo: « Perché stiamo per andar via ».
« Dove? » L'orecchio le faceva male, tanto forte stava stringendo il rice-
vitore. Angela doveva trovarsi nella casa dei rapitori, perché parlava sotto-
voce. « In Scozia », rispose. « Non ti so dire dove. »
Si trasferivano perché si erano accorti che Gerry li cercava, o era riuscita
a penetrare nel gruppo? Non c'era modo di chiederlo, anche se Angela non
avesse aggiunto: « Ora non posso parlare più. Devo andare ».
Per un po', dopo che il telefono tacque, Barbara si sentì quasi rincuorata.
Angela era incolume. Se aveva avuto un momento di irritazione quando
Barbara le aveva chiesto come stava, era stato semplicemente perché forse
non si rendeva conto di essere in pericolo. Ma più ci pensava più la cosa le
pareva avvilente. Cosa mai le stavano facendo senza che lei se ne accor-
gesse? Se fino a questo punto Gerry non li aveva trovati, Barbara era la so-
la che avesse una qualche idea di dove stavano andando. Come poteva, sa-
pendolo, sopportare l'idea di non far nulla?
Si mise a camminare avanti e indietro per la gabbia del suo appartamen-
to, lanciando ogni tanto un'occhiata alla finestra ormai spenta di Ted e a un
giovane che pareva un monaco, fermo lì probabilmente ad ammirare la
chiesa. Finalmente suonò il campanello. Non ce la faceva più a tenere per
sé il suo segreto. « Entra e mettiti seduto », disse. « Devo dirti una cosa. »
Raccontò tutto a Ted davanti a due bicchieri che nessuno dei due toccò.
Lui la guardava fisso, nascondendo con una mano la bocca, e quel che
provava. Quando Barbara ebbe finito di parlare desiderò di averglielo detto
prima: anche se lui non era informato quanto Gerry sull'argomento, avreb-
be potuto esserle di appoggio più di lei. « Non capisco come questa setta
avrebbe inscenato la morte di Angela », disse Ted.
« Secondo Gerry Martin potevano aver ucciso una delle loro bambine. »
« Gerry Martin ha l'aria di essere una che ama le notizie sensazionali.
Ma ti sembra verosimile che dei genitori lascino uccidere una figlia solo
perché qualcun altro voleva Angela? »
Si accorse che stava aggrottando la fronte: quello che si era aspettata era
conforto, non obiezioni. « Ti viene in mente una spiegazione migliore? »
« Se non fosse per le prove dell'esistenza di questa setta, o quel che sia,
mi verrebbe il sospetto che sei vittima di un'estorsione. »
« Questo non riesco proprio a capirlo. »
« Be', tanto per cominciare mi pare una coincidenza troppo comoda che
Angela abbia cominciato a telefonarti proprio quando è uscito l'articolo su
di te, non ti sembra? Potrebbe voler dire che qualcuno ha letto l'articolo e
ha pensato che evidentemente stavi facendo tanti soldi, tanti che valeva la
pena tentare qualcosa. Tutte queste telefonate potevano servire ad ammor-
bidirti, in modo che quando si fosse presentato qualcuno con l'offerta di re-
stituirti Angela tu avresti accettato qualsiasi richiesta. Non dico che lo a-
vresti fatto, solo che foro potevano pensarlo. Dopo tutto, il fatto che la set-
ta esista non significa necessariamente che Angela sia viva. » Si sporse e le
prese la mano, che lei lasciò, inerte, tra le sue. « Per quello che posso vede-
re », proseguì, « l'unico motivo per pensare che sia viva è che Margery
Turner ti ha dato l'impressione di non saper disegnare. E se faceva parte
del piano? »
« No, Ted. Il motivo per pensare che Angela sia viva è che mi ha chia-
mata tante volte — due volte da quando Margery è morta. »
« Se era Angela. Se non era una complice di Margery che ha deciso di
andare avanti lo stesso anche se l'altra era morta. »
Con uno sforzo Barbara riuscì a non ritirare di scatto la mano dalle sue.
Arthur non avrebbe mai cercato di convincerla del contrario della verità,
lui le sarebbe stato vicino finché Angela non fosse tornata. « Ted, lo so che
la tua intenzione è di aiutarmi, ma non puoi aiutarmi cercando di dimostra-
re che ho torto. Io lo so che è Angela quella che chiama. »
« Ne sei certa? Ti ha mai detto qualcosa che sapete solo tu e lei? Tu glie-
l'hai mai chiesta? Barbara, tu non hai il coraggio di affrontare l'idea che
possa essere una mistificatrice. Ti stai riducendo uno straccio, e forse sen-
za un motivo. »
Si sentiva intrappolata dalle attenzioni che le dimostrava, dalla confu-
sione che stava creando. Il suo largo viso arruffato le incombeva addosso,
e lei si sentì come una bambina sopraffatta da un adulto insensibile, solo
che lei non era una bambina. « Lo so che in una certa misura ti senti re-
sponsabile di quello che è successo ad Angela... »
« Oh, per l'amor del cielo, Ted. Io non mi sento responsabile in una certa
misura, mi sento responsabile completamente. Devo essere certa, questa
volta, di fare tutto il possibile. »
« Bene, come vuoi tu. L'ultima cosa che vorrei è sconvolgerti ancora di
più. È solo che guardando obiettivamente la situazione, trovo difficile cre-
dere che qualcuno si sia preso la briga di simularne la morte per poterla te-
nere con sé. »
« Questo è perché tu, tua figlia non l'hai mai voluta. Era un tale peso che
non sei riuscito neppure a vivere con lei. Mentre io Angela la volevo più di
qualsiasi cosa al mondo, e ho permesso che me la portassero via. Non è
giusto. »
Tacque sbigottita. Non avrebbe potuto fargli colpa se se ne fosse andato
via senza una parola, ma invece lui disse: « E così la settimana prossima
vai su in Scozia ».
« Sì, devo andare. Devo tentare di ritrovarla. »
« Non puoi viaggiare sola per tutta la Scozia. È stata una cosa buona che
non siamo riusciti ad avere quelle prenotazioni per l'Italia. »
Le mancò il coraggio di parlare, per paura di scoppiare in singhiozzi. Lui
dovette accorgersene, perché la tenne stretta senza parlare per un po'. Alla
fine andarono in camera da letto. Lei aveva voglia di fare l'amore, ma cad-
de immediatamente addormentata tra le sue braccia. Tranne la promessa di
aiuto, aveva già dimenticato tutto quello che lui le aveva detto.

Capitolo 22

Fuori da Lancaster, la roccia grigia prendeva a salire, tagliando campi e


boschi. Sull'orizzonte del Lakeland i cumuli di foschia si distinguevano a
stento dal cielo. A volte i cumuli si facevano più vicini, incombendo sopra
l'autostrada. Ruscelli e fiumi scintillavano tranquilli nelle vallette sassose,
le pecore e i massi spiccavano tra l'erba delle scarpate.
Oltre Carlisle la carta si venava di fiumi, ma non c'era nulla a segnare il
confine con la Scozia tranne un cartello stradale e un improvviso spasimo
di apprensione dentro le viscere di Barbara. Presto l'orizzonte apparve
striato di nuvole temporalesche, che negli strati più bassi riflettevano il
verde dell'erba. Al di sopra della strada le balze erano rigate da strisce di
terreno nudo o punteggiate da file di abeti. Quando la strada si faceva più
diritta lei aumentava l'andatura, ansiosa di raggiungere i centri abitati, scu-
re macchie enigmatiche sulla carta.
Non c'era quasi anima viva quando giunsero a Dumfries, città fluviale
dove non riuscirono a trovare nessuno che sapesse indicare loro un risto-
rante. A Kilmarnock le fabbriche sporcavano il cielo, le anonime case po-
polari racchiudevano una valletta e i ricordi di Robert Burns. Barbara cer-
cò senza risultato in entrambe le cittadine; non riusciva a immaginare
qualcuno che tentasse di nascondersi nell'una o nell'altra.
Glasgow si presentava più promettente. Era anche più vasta di quanto il
disegno sulla carta le avesse fatto credere, ed era ancora in espansione. La
sua periferia invadeva i campi e li riempiva di cemento e rifiuti, grigi
frammenti sparpagliati sulla carta. Addentrandosi, gli edifici si assiepa-
vano spuntando dal verde; piloni, alti palazzi e ciminiere di fabbriche do-
minavano la zona. Era ormai da due giorni a Glasgow e aveva esplorato sì
e no il centro della città. Cominciava a rendersi conto dell'inutilità della
sua ricerca.
Lasciò Sauchiehall Street ed entrò nell'albergo, attraverso le lame di luci
intrappolate nella porta girevole. Il lampadario della hall diffondeva una
luce nebbiosa; una delle ninfe che sostenevano la galleria aveva il naso
spezzato. In una saletta attigua alcuni clienti guardavano la televisione. U-
n'anziana signora grattava il pavimento con il bastone e gridava « Donald
», chiamando il facchino. Andò di sopra.
Ted non era in camera sua. Fece una doccia, poi sedette accanto alla fi-
nestra. I palazzi degli uffici, in stile gotico come a Chicago, scendevano
verso il Clyde, le automobili sobbalzavano lungo le discese; qualche gu-
glia si levava come un totem senza volto tra i grattacieli della riva opposta.
Un uomo dal viso rosso come vino scadente sedette sul marciapiede di
fronte a lei e riuscì a fatica a togliersi la scarpa per studiarsi il piede nudo.
Turisti e gente in giro per compere passavano in massa sotto la sua fine-
stra, e lei non poteva fare a meno di scrutare quei visi, anche i più lontani,
che svanivano nel caldo e non erano mai quelli che sembravano. Un edito-
re scozzese un giorno le aveva detto che rimanendo abbastanza a lungo in
Sauchiehall Street si vede passare tutto il mondo. In tutto il mondo ora c'e-
ra una sola faccia che lei avrebbe voluto vedere, e quel modo di dire le pa-
reva uno scherzo di cattivo gusto.
Più cercava, più la difficoltà aumentava. I compiti più semplici erano
tortuosi. Polizia ed Esercito della Salvezza non erano di nessun aiuto, e
forse, le venne il dubbio, le nascondevano informazioni vedendola così e-
vasiva. Doveva stare attenta a non dar loro un motivo per mettersi a cerca-
re; chissà che non fossero state le indagini di Gerry Martin a spingere il
gruppo lontano da Londra. Poteva solo sperare che al momento Gerry fos-
se con loro, e che stesse scoprendo tutto sulla setta.
Perché avrebbero dovuto scegliere proprio Glasgow? Barbara sapeva
che doveva essere la Scozia, e l'elenco dei luoghi che le aveva fatto Gerry
faceva prevedere un grosso centro, una città importante, ma di città impor-
tanti ce n'erano a decine in Scozia. Quindi poteva solo continuare la sua ri-
cerca ostinatamente, e sperare. Nella Mitchell Library, un bibliotecario che
chiaramente la vedeva come una seccatrice un po' sballata la indirizzò al-
l'università: lì forse avrebbe trovato un ricercatore di storia locale che po-
tesse esserle d'aiuto. Nessuno poté farlo e lei si ridusse a girovagare per le
strade, scrutando case e facce. La metà del tempo aveva la sensazione di
essere osservata. Nessuna meraviglia che Ted fosse preoccupato per lei.
Evidentemente era per questo che l'aveva accompagnata, non perché le
credesse. Almeno oggi lo aveva convinto ad andarsene in giro per conto
suo.
Ma ora che era rimasta sola non poteva fare altro che rimuginare. Si era
portata dietro del materiale da leggere, ma in quel momento lavorare le pa-
reva impossibile. In strada continuava la sfilata interminabile di facce, il
bulbo della doccia spuntava dal buio dello specchio del bagno. Quando si
accorse che teneva gli occhi fissi sul telefono della doccia, si costrinse ad
andare di sotto. Aveva telefonato in continuazione a Louise per chiedere se
ci fossero state chiamate personali e per lasciare il suo ultimo numero, ma
poteva darsi benissimo che se Angela e Gerry avevano telefonato avessero
appeso subito sentendo una voce estranea.
Rimase per un po' nel foyer cercando di liberarsi dell'idea di Angela che
telefonava a casa sua, correndo chi sa quale rischio, e non riceveva rispo-
sta. Nella saletta i clienti residenti lavoravano a maglia o facevano le paro-
le crociate, dando qualche occhiata annoiata alla televisione. Uomini e
donne sembravano sbiaditi come le poltrone; c'era un lieve profumo mu-
schiato di acqua di lavanda, un'atmosfera di vecchiaia che avanza su chi fa
finta di non vederla. La strada sarebbe stata meno deprimente nonostante il
caldo e la folla. Poteva guardare le facce e fingere di cercare Ted.
Meglio ancora, poteva comprare i giornali della sera. Questo sembrava
un po' una speranza. Forse un titolo, un trafiletto, un annuncio pubblicita-
rio le avrebbero fornito un indizio; c'era sempre speranza. Si spinse attra-
verso le porte girevoli verso la folla dai colori falsati, che tornarono nor-
mali non appena lei emerse dai vetri, nella polvere, nel sole e nel frastuono
del traffico.
L'edicola più vicina era nascosta all'angolo di un edificio di uffici. Una
donna con un cardigan rosa appoggiato sulle spalle sedeva dietro il piccolo
banco, lavorando ai ferri un golf da bambino. Quando Barbara aveva pro-
vato a lavorare a maglia per Angela, il suo tentativo di golfino aveva co-
minciato a disfarsi non appena aveva finito il primo ferro, e non aveva po-
tuto fare altro che ridere di se stessa. Ora si morse le labbra perché il dolo-
re portasse via il ricordo. Prese i giornali della sera e guardò in giro per
trovare qualche altra cosa da leggere.
Cosmopolitan era del mese prima, e lo aveva già letto; nient'altro pareva
valesse la pena. Si ritrovò a fissare la rivista Fato, e, riluttante, la prese dal
banco. Doveva guardare anche quella, non poteva permettersi di ignorare
nessuna possibilità. « Spero che lì trovi conforto », disse la donna dietro il
banco.
« Prego? »
La donna si ritirò immediatamente in se stessa. « Solo un'impressione
che mi ha dato. Non intendevo offenderla. »
« Non mi sono offesa. » Barbara trafficò nella borsa. « Non avevo capito
quello che ha detto. »
« Purché non pensi che la sto spiando. » La donna la guardò da sopra ai
ferri ticchettanti. « Chiunque sia la persona che ha perduto, non deve di-
sperare. »
« Ci provo », mormorò Barbara, rissando il denaro per rimanere padrona
delle sue emozioni.
« Forse avrà sue notizie, se è questo che vuole. Ha provato con un me-
dium? »
« Dio ce ne guardi! »
« Chiedevo solo. » La donna si era di nuovo ritratta; stavolta, pareva, de-
finitivamente. Raccolse i ferri in una mano e prese i soldi di Barbara con
l'altra. « Allora, le piace la nostra città? »
« Sono certa che mi piacerebbe », rispose Barbara, sentendo un che di ir-
ragionevole in quello che diceva, « se avessi meno cose a cui pensare. »
« Povera cara. » Mentre le passava il resto la donna le strinse la mano. «
Forse c'è qualcuno che può aiutarla più di un medium. »
Barbara riuscì a mantenere un'espressione interessata e grata. « Chi? »
« Me lo ha detto una persona che ha comprato la stessa rivista che ha
preso lei. Ci è andata una sola volta, ma dice che l'ha trasformata. Si riuni-
scono giù a Broomielaw, sotto i ponti. Mi sembra che avesse detto il gio-
vedì sera. »
Cioè quella sera. Forse era una traccia, forse nel gruppo poteva esserci
qualcuno in grado di aiutarla, qualcuno che magari conosceva altri gruppi
più clandestini. « Questo è tutto quello che sa? Come si chiamano? »
« Questo è tutto quello che mi ha detto, ma le dico che era una donna
trasformata. Pensavo che potesse interessarle. »
Riprese il suo lavoro a maglia, con l'aria di aver fatto tutto quello che
poteva. « Non so come si chiamano. »
« Grazie lo stesso. Davvero, è stata molto gentile. » Barbara si costrinse
a sorridere prima di voltarsi. La donna aggiunse qualcosa e allora Barbara
si precipitò a cercare Ted, per dirgli che dovevano andare alla riunione
quella sera. La sua ansia era vicinissima al panico, poiché la donna aveva
detto: « Forse non hanno nome ».

Capitolo 23

Broomielaw era un'importante arteria a quattro corsie che correva lungo


il Clyde. Quando ci arrivarono si stava facendo buio; tracce di luce balena-
vano sul fiume come un tubo al neon moribondo. Avevano impiegato venti
minuti a piedi dall'albergo, e Ted aveva insistito perché prima mangiasse-
ro. « Certo che dobbiamo andarci », aveva detto, « ma potremmo aver bi-
sogno di energia. »
Come tutte le strade portuali, Broomielaw di sera era quasi deserta. Le
marche fluorescenti dei whisky torreggiavano sopra i marciapiedi. Presu-
mibilmente i bar sotto le insegne erano pieni: qualcuno beveva alla botti-
glia seduto sulle panchine lungo il fiume. Nessuno li guardava. Barbara si
sentiva osservata, ma perché mai qualcuno avrebbe dovuto seguirli dall'al-
bergo?
Notò immediatamente il ponte, sul quale correvano i binari della ferrovia
fiancheggiati da due strade. Sotto le arcate, sul muro più lontano dal fiume,
brillavano due violente luci arancioni. Tra le due luci, la strada era deserta,
e deserto, a parte i tappeti d'ombra tra i pilastri, era il marciapiede. Non
c'era assolutamente nessuno.
Forse la donna dell'edicola aveva sbagliato il giorno, o forse erano sem-
plicemente arrivati tardi. I riflessi dei lampioni pescavano nell'acqua,
chiazze di nafta defluivano lungo la corrente. L'ombra di Barbara allunga-
va la testa fin dentro il fiume. Non avrebbe dovuto avercela con Ted per il
ritardo, ma non poteva farne a meno.
Fu Ted, però, a vedere la porta. Era socchiusa e si trovava sul muro tra
due fanali arancioni. Coperta com'era di manifesti, lei l'aveva presa per un
cartellone mezzo scollato. Si affrettò, stringendo gli occhi abbagliati.
Accanto alla porta c'era un cartello che diceva LUCE IMMORTALE in
grosse lettere. Evidentemente era stato messo sul marciapiede per annun-
ciare la riunione. Qualunque cosa fosse la « luce immortale », si disse, po-
teva esserle d'aiuto. Quando Ted riuscì a spingere la porta, che cedette ri-
luttante di un mezzo metro prima di bloccarsi, entrarono.
Il corridoio, tappezzato con un parato che cadeva a pezzi, era reso anco-
ra più buio dalla luminosità della sala che si vedeva in fondo. Qualcuno
nella stanza stava parlando con una cadenza rapida e vivace, come quella
di un venditore. Quando Barbara giunse in fondo al corridoio, pensò per un
attimo, smarrita, che erano capitati per sbaglio nel mezzo di un concerto di
un gruppo pop: quattro figure vestite di bianco salmodiavano sul podio, al-
ternandosi abilmente nelle battute, davanti a un pubblico seduto su delle
sedie pieghevoli di legno. Ma un ometto sui sessant'anni, con un vestito
troppo largo, si avvicinò a lei e a Ted bisbigliando e cercò di farli sedere
sulle sedie più vicine. Bastò lui a far capire che quella voleva essere una
riunione religiosa.
Barbara resistette al suo invito pressante e si trovò un sedile più vicino
possibile al podio, in modo da essere pronta a interrogare quella gente non
appena avessero finito il loro numero. Le pareti imbiancate erano cosparse
di macchie lattiginose; dietro il palco, sulla parete, una serie di buchi cir-
condava la zona dove una volta era stato appeso un bersaglio a freccette.
Sedendosi fece cigolare forte la sedia, ma l'ometto ebbe solo il tempo di
lanciarle un'occhiata severa prima di allontanarsi per accompagnare al suo
posto un altro ritardatario.
Il quartetto sul podio vendeva reincarnazione. Dal loro accento era im-
possibile stabilire da dove venissero. « Noi tutti siamo destinati ad avere
una vita migliore di questa », disse la donna più giovane, ma più Barbara li
guardava, e meno vivi le apparivano. Sembravano appena usciti da un
serial televisivo, un giovane e una giovane dal viso fresco in mezzo a una
coppia più anziana, tutti e quattro forniti dello stesso identico sorriso sma-
gliante. Solo il gomito sporco dell'abito della donna anziana, che aveva e-
videntemente urtato contro qualcosa dirigendosi verso il palcoscenico,
sembrava un elemento non previsto.
Il pubblico era grigio. Dovunque guardasse Barbara vedeva abiti e capel-
li del colore del fumo stantio che la metà dei presenti aspirava da sigarette
smozzicate. Il loro aspetto era di gente che lavorava in squallidi uffici o in
botteghe in strade semiderelitte, se pure lavorava; di gente che invecchiava
accudendo ai propri vecchi e che sarebbe morta senza sposarsi e sola nella
casa decrepita dei genitori. Erano lì quella sera perché erano affamati di
fede, di qualsiasi cosa che potesse dare una spiegazione alla loro vita.
E il quartetto diceva loro esattamente quello che volevano sentirsi dire, e
glielo diceva con tanta abilità che nessuno aveva il tempo di riflettere tra
un'affermazione e l'altra. « Noi tutti siamo buoni, ma qualcuno di noi l'ha
dimenticato », diceva il giovane, e immediatamente la sua giovane moglie,
o sorella, aggiungeva: « È facile dimenticare. Questa è la difficoltà che Dio
mette sul nostro cammino: per questo dobbiamo aver fede. E con la fede
ognuno di noi può ricordare. Possiamo ricordare tutto il bene che abbiamo
fatto in altre vite ».
Sentì che Ted era irrequieto, e anche lei cominciava a irritarsi: come po-
teva questo garrulo quartetto dirle qualcosa sull'occulto, qualcosa di non
previsto dal loro programma? Ma non doveva andarsene prima di esserse-
ne accertata. Ebbe più forte che mai l'impressione di essere osservata. Sen-
za dubbio dipendeva dal fatto che era così tesa.
Ora stava parlando la donna dall'aria materna. « Qualunque possa essere
la nostra vita attuale, noi abbiamo avuto vite migliori, e ne avremo ancora.
Una volta che vi sarete ricordati di quelle buone vite le vostre sofferenze
attuali sembreranno meno che un sogno. » Fece un passo ondeggiante in
avanti, e Barbara si rese conto che era zoppa; per questo doveva essersi
sporcata la manica. « Noi possiamo darvi la chiave per quelle vite. »
Adesso arriva l'articolo da vendere, pensò Barbara, ma l'uomo anziano
disse: « Ma c'è una cosa che dovete ricordare. In quelle vite voi avete fatto
del bene, ma anche del male. Ognuno dei vostri più nascosti brutti pensieri
è il ricordo di qualcosa che avete già fatto in un'altra vita. Non è male ave-
re questi pensieri, perché sono cose passate e già perdonate. Rendersi con-
to di questo vi aiuterà a sollevarvi al di sopra di essi ».
Un treno rombò sopra la loro testa e diede a Barbara la possibilità di
guardarsi alle spalle senza sembrare paranoica. Nessuno la stava osservan-
do in quel preciso istante, ma qualcuno aveva appena smesso di farlo, una
donna dal grosso naso nell'ultima fila, quella che era entrata subito dopo di
lei. Forse stava solo guardando il palcoscenico e aveva distolto lo sguardo
imbarazzata quando Barbara si era girata: le persone del pubblico per lo
più avevano un'aria timida, poco desiderosa di farsi notare. In ogni modo
la donna aveva girato la faccia.
L'uomo anziano stava ancora parlando, con dolcezza ma con energia, un
padre che ha da comunicare sgradevoli fatti della vita. « Non è possibile
mettere via questi pensieri. Loro non farebbero che entrare più in profondi-
tà dentro di voi e crescere. È così che inizia la corruzione, quando fingia-
mo con noi stessi che il male non ha niente a che vedere con la nostra per-
sona. E così che si comincia a perdere il controllo di se stessi e delle pro-
prie potenzialità. »
Non pareva precisamente quello che il pubblico si aspettava o voleva
sentirsi dire — Barbara si accorse che alcuni degli ascoltatori erano a disa-
gio, qualcuno mormorava — né sarebbe servito a ritrovare Angela. Conti-
nuava a tornarle in mente l'amica medium di Miss Clarke, inutile come
queste chiacchiere. Quando, con la scusa del mormorio che si era levato, si
girò, non ebbe più dubbi che la donna con il naso a fragola la stesse osser-
vando. Il viso della donna si girò immediatamente, con un ciuffo di capelli
che le copriva un occhio.
« Ma tutti noi abbiamo in noi stessi la capacità di fare il bene », proseguì
la giovane donna, con grande sollievo del pubblico. « Il bene non si può
uccidere. Risorgerà sempre. Nessuno è al di là della redenzione, a meno
che non abbandoni tutto ciò che lo rende umano. Essere umani significa
essere potenzialmente buoni. »
Doveva essere lo sguardo della donna dal grande naso a far sentire Bar-
bara a disagio, ma intuiva che c'era dell'altro, qualcosa che le era sfuggito.
Lo sforzo di afferrare questo qualcosa le raschiava i nervi. « Ma il bene
che è in noi può essere corrotto », gridava ora il giovane. « Dobbiamo stare
in guardia contro coloro che vorrebbero distruggerlo. Ci sono sempre quel-
li che hanno dato le spalle alla loro umanità, a tutto ciò che potrebbero
raggiungere con il bene. »
D'un tratto Barbara ricordò quello che aveva quasi dimenticato, o che
forse non poteva sopportare di riportare alla memoria. « Anche ai loro no-
mi? » domandò d'impulso.
« Nomi? » Il sorriso rassicurante del giovane esitò: alle prove non era
stato interrotto. « Hanno dato le spalle ai loro nomi, vuol dire? Sì, alcuni di
loro abbandonano anche i loro nomi, forse. » Balbettava quasi, e la donna
con aria materna intervenne pronta. « Pochi di noi incontrano qualcosa che
possa corromperli totalmente », disse al pubblico, ma Barbara sentiva solo
le parole dell'amica di Miss Clarke.
Ted le stava stringendo le mani come se sapesse cos'era che non andava,
ma tutti i suoi sensi sembravano sopraffatti dalla voce della medium: « Già
adesso ha un grande potere spirituale. Bisogna trovarla prima che distrug-
gano quello che è ».
La medium aveva avuto ragione a sostenere che Angela era ancora viva,
quindi doveva aver ragione su tutto. Barbara si girò di scatto, senza accor-
gersi che stava strappando la mano da quella di Ted, e vide infine che la
donna con il naso a fragola aveva il viso storto.
Di colpo si ritrovò sul treno in cui la donna dal viso storto si era seduta
accanto ad Angela. Non poteva essere la stessa donna, sembrava molto più
vecchia dell'altra, anche se erano passati nove anni, ma mentre afferrava
Ted per un braccio, costringendolo ad alzarsi, Barbara vide che la donna
aveva paura di lei. Ricordò la paura e l'odio negli occhi di quell'altra men-
tre fissava Angela, ricordò Angela che si rinchiudeva in se stessa come per
una premonizione, e l'incubo parve sul punto di ricomporsi in tutti i suoi
elementi. Uscì nel passaggio tra le sedie e immediatamente la donna si in-
filò nel corridoio.
« Quella donna », ansimò a Ted. « È una di loro. » Forse lui si domandò
come facesse a saperlo, ma la seguì senza una parola. Le sedie pieghevoli
si chiusero rumorosamente dietro di loro, l'uomo con il vestito troppo largo
cercò di trattenerli, ma la giacca si impigliò e lo fece ricadere sulla sua se-
dia. Nel corridoio il cartello ondeggiò, cadde contro la parete. Lei lo supe-
rò di corsa, e così facendo lo buttò di lato.
La strada deserta sembrava incendiata dai fanali arancioni. Oltre la stra-
da il fiume e il cielo erano bui; la notte si raccoglieva come fumo sotto il
ponte. Barbara fece appena in tempo a vedere un movimento dietro uno dei
pilastri sulla sinistra. « Tagliale la strada! » gridò correndo verso la ferro-
via.
Quando raggiunse il pilastro non c'era altro che un uccello grigio che
svolazzava tra una miriade di echi. Percorse disperatamente tutta quella
gabbia di pilastri, si sporse dietro ognuno di loro, ritornò sempre correndo
sulla strada principale, dove Ted si era fermato, senza fiato. La sua ombra
affondava nel buio.
Infine ritornò sul lungofiume. Le arcate sgocciolavano, uno sciame di
zanzare si staccò da qualcosa che galleggiava sull'acqua e si precipitò sul
suo viso, ma lei era troppo stravolta per scacciarle. Alla sua destra, contro
la bassa arcata del ponte stradale, una forma irregolare poteva essere l'abito
bluastro della donna.
Barbara avanzò lentamente. Un treno passò sferragliando sopra il ponte
della ferrovia; lampi di luce pescarono nell'acqua. Avrebbe trattenuto la
donna finché non fosse arrivato Ted ad aiutarla, per quanto forte quella po-
tesse lottare — ma forse la forma bluastra non era affatto la donna, forse
era una macchia, un fitto di erbacce. L'aveva quasi raggiunta quando la
forma schizzò via infilandosi sotto l'arcata.
« Da questa parte, Ted! » Se non si fosse chinata, correndo, lo spigolo
della bassa arcata le avrebbe spaccato la testa. Il lungofiume era più buio
della strada, ma questo voleva dire che poteva vedere la sagoma della don-
na, delineata contro le luci lontane e i riflessi nell'acqua. Il terreno, sotto i
suoi piedi, era disuguale, come di pietrisco, e più di una volta inciampò.
Tozze forme nane dalla testa arrotondata si allineavano sul suo cammino
— bitte che a stento riusciva a scansare. Eppure la stava raggiungendo, an-
che se il respiro le si faceva sempre più affannoso a causa della corsa.
Improvvisamente la donna svoltò sulla strada. Barbara la seguì ansando,
scivolando su un tratto di prato che odorava di erba tagliata. La donna si
infilò di corsa in una traversa deserta immersa nella violenta luce arancio-
ne. Ted arrivò con il fiato grosso da Broomielaw e raggiunse la traversa
svoltando contemporaneamente a Barbara.
Non c'era tempo o fiato per parlare. Corsero lungo la via deserta sotto fi-
nestre che per il gioco delle luci apparivano nere. Lei sentì lo sforzo nel re-
spiro di Ted; anche lui, come lei, doveva essere fuori allenamento, ma la
donna che stavano inseguendo era parsa meno in forma di loro. Erano or-
mai sul punto di raggiungerla quando lei si buttò sulla sinistra.
Quando Barbara raggiunse l'angolo vide davanti a sé la stazione, con i
grandi finestroni ad arco illuminati come quelli di una cattedrale. La donna
correva sotto il largo ponte che portava le linee ferroviarie verso Broomie-
law, correva sui tappeti di luce davanti a una dozzina di negozi. Mentre
correva accanto a una coda di persone in attesa del bus, Barbara pensò di
gridare perché la fermassero. Ma non le rimaneva più fiato, e comunque
non era sicura di convincerli ad aiutarla.
La donna svoltò a sinistra in Union Street. Lanciò un'occhiata a Barbara,
poi parve fare uno sforzo finale. Quando Barbara arrivò, con il respiro an-
sante e rotto, all'angolo, pensò che la donna fosse riuscita a seminarla. Poi,
dietro un gruppo di passanti, ne colse per un attimo l'immagine mentre si
infilava in un passaggio tra due negozi.
Anche Ted la vide e corse sul marciapiede opposto per bloccarle la stra-
da. Era all'altezza del passaggio e stava riattraversando quando Barbara lo
raggiunse. L'espressione di lui era di sconfitta, e vedendo il passaggio lei
capì perché. Non era l'ingresso di un negozio. Era un passaggio che condu-
ceva alla stazione ferroviaria.
Mentre si affannava su per gli scalini che portavano alla stazione sentì
un treno che partiva. In cima alle scale un ubriaco cercò di bloccarla, ma
lei riuscì a spingerlo via. La sala della stazione era affollata di persone che
fissavano gli avvisi delle partenze e degli arrivi; il brusio era quello di un
teatro durante l'intervallo. In quel momento stavano ritirando l'avviso di un
treno per Edimburgo e lei corse al varco dei viaggiatori. « Per caso », an-
simò al controllore, « è passata di qui una donna appena adesso? »
« Una donna? Un sacco di donne. »
« Un momento fa. » Lui stava già voltandosi dall'altra parte e lei dovette
fare uno sforzo per non prenderlo per un braccio. « Una donna vestita di
blu. »
« Sì, di blu, di verde, di giallo e arcobaleno a pois rosa. Basta che abbia-
no il biglietto... »
Era inutile. Sentiva i treni che partivano per altre città e non poteva con-
trollarli tutti. Inciampò, e sarebbe caduta se Ted non l'avesse sorretta. C'era
solo un'ultima vaga possibilità. « Dobbiamo tornare là », disse.
Ma la porta sotto i ponti di Broomielaw era ormai chiusa e sbarrata con
un catenaccio: la Luce Immortale era spenta. Tornò senza parole all'alber-
go, trascinandosi per le strade. Una pioggia leggera prese a cadere sul suo
viso e sulle braccia nude, ma nulla poteva rinfrescarla. Non aveva il corag-
gio di chiamare la polizia, non poteva far nulla tranne sperare che Gerry
avesse trovato la setta, sperare in un'altra telefonata. Certamente la setta si
sarebbe di nuovo spostata non appena la donna avesse raccontato che Bar-
bara l'aveva scoperta.
« Non importa », mormorò Ted, prendendo Barbara per un braccio. «
Cercheremo di trovarli domani mattina. » La stava accompagnando verso
le scale e lei sentiva che la sua intenzione era di aiutarla — ma ora avrebbe
dovuto spiegargli perché aveva inseguito la donna, e questo significava
che alla fine avrebbe dovuto ammettere con se stessa tutte le sue paure.

Capitolo 24

Quando fu certo che Barbara dormisse, Ted andò nella sua camera, che
era adiacente, telefonò in portineria per assicurarsi che non la disturbasse-
ro. Rimase accanto alla finestra e si sforzò di riflettere. La pioggia esegui-
va una sua danza frastagliata nella strada; le finestre illuminate si sovrap-
ponevano sopra il Clyde, fluttuavano lungo il fiume buio verso il mare.
L'anonima gaiezza della stanza sembrava rallentare i suoi pensieri. Andò
di sotto.
Disse alla giovane donna al bureau di informarlo se Barbara chiamava la
sua camera, poi ordinò un caffè. Nella saletta il televisore spento mostrava
il riflesso rigonfio delle poltrone; un leggero odore di fumo di pipa e di tal-
co aleggiava tra gli scaffali semivuoti e i tavoli cosparsi di riviste scompa-
ginate. Sedette in una poltrona che odorava di tabacco e si mise a pensare a
Barbara.
Andava male. Capiva che se ne accorgeva lei stessa. Evidentemente si
era sentita osservata per settimane, e l'incontro di quella sera con la donna
sotto il ponte l'aveva convinta di aver ragione. Poteva non essere solo ma-
nia di persecuzione — un motivo per fuggire la donna doveva averlo —
ma era magari banale, ragionevole addirittura, rispetto alle cose che Barba-
ra fantasticava su Angela.
Quelle cose sembravano riandare tutte al rapimento, alle affermazioni di
una cosiddetta medium, e questo decisamente dimostrava la precarietà del
suo stato mentale; poteva essere davvero questa la stessa Barbara Waugh
che un tempo definiva i libri di occultismo trappole per imbecilli? Quella
Barbara non si sarebbe neppure avvicinata a una montatura come la Luce
Immortale, mentre ora era convinta che Angela avesse poteri psichici che i
rapitori stavano tentando di distruggere, che aveva visto suo padre e dopo
che era morto ci parlava, che emanava un alone di pace che dava serenità a
chiunque si trovasse accanto a lei. A chiunque tranne ai killer, a quanto pa-
reva: loro erano gente senza nome, gente convinta che lei rappresentasse
una forma di minaccia; la donna dal viso storto era una di loro, e aveva av-
vertito i suoi poteri il giorno che le si era seduta accanto sul treno. Per que-
sto ce l'avevano messa tutta per portar via Angela. La Luce Immortale a-
veva spiegato perché i senzanome non potevano semplicemente ucciderla:
la minaccia che costituiva per loro sarebbe subito rinata.
Ted non poteva dire a quanto di tutto ciò Barbara credesse, forse neppu-
re lei era convinta. Forse lei intendeva dire solo che la setta riteneva Ange-
la insopprimibile. Lui comunque aveva tentato di razionalizzare i suoi pen-
sieri: udire il marito subito dopo la morte e credere che Angela lo avesse
visto poteva essere la proiezione fantastica di un desiderio; niente esclude-
va che Angela avesse la capacità di pacificare chi le stava attorno, senza
per questo cessare di essere una bambina normale. Ma alla fine si era ac-
corto che non faceva altro che renderla ancora più tesa. Aveva dovuto insi-
stere per farle prendere un paio di sonniferi, poi aveva dovuto rassicurarla
che qualsiasi cosa potesse aver detto, l'avrebbe comunque aiutata. Certo
che l'avrebbe aiutata, ma in che modo?
Quando il fattorino si fu allontanato, lui bevve il suo caffè, dolce e bol-
lente, nella speranza che gli acuisse la mente. Continuava a pensare che la
ricerca non avrebbe condotto a nulla — uno dei motivi per cui aveva volu-
to accompagnarla era il sostegno che poteva darle qualora lei avesse cedu-
to alla disperazione — ma forse non era lucido e obiettivo come gli piace-
va credere. Forse intimamente la sua speranza era che lei non trovasse An-
gela, che la bambina fosse davvero morta nove anni prima? Il fatto che
Barbara non aveva figli non faceva forse parte di ciò che lo attraeva in lei?
Forse sì, ma ora era ingiusto con se stesso; il suo interesse per lei non era
poi così egoistico. Se questa gente senza nome aveva davvero Angela, se
Barbara fosse riuscita a riaverla, come sarebbe stata la bambina dopo nove
anni? Probabilmente Barbara non osava neppure chiederselo.
La sua logica cominciava a impaniarsi. Non era il caso di seguire questo
filo di ragionamento. Lui era ancora convinto che Angela fosse morta e
che Barbara fosse vittima di un'estorsione: certamente questa era la spiega-
zione più semplice. La donna con il viso storto probabilmente la stava se-
guendo per controllare se le false tracce l'avevano ammorbidita. Il suo de-
siderio era solo mettere le mani su di lei, su uno qualsiasi dei bastardi che
stavano facendo tutto questo a Barbara.
E, perdio, forse ci sarebbe riuscito — forse c'era un modo per aiutare,
comunque. Rimise giù rumorosamente la tazza sul vassoio. Ora che sape-
vano che aspetto aveva uno dei persecutori, dovevano rivolgersi alla poli-
zia. Doveva convincere Barbara che Angela non ne avrebbe ricevuto nes-
sun danno.
D'un tratto si sentì molto più utile. Finì in fretta il caffè, poi andò per un
po' sotto il tendone all'ingresso dell'albergo. Profumi di cucina greca e in-
diana aleggiavano in mezzo alla pioggia, i manichini nelle vetrine palpita-
vano dietro cortine d'acqua, i riflessi nuotavano sotto le automobili. Era lì
quando arrivò un fattorino. « Mrs. Waugh », disse.
« È sveglia? » Aveva sperato che dormisse fino al mattino. « Va bene,
vado su. »
« No, è qualcuno che le vuole parlare. Lei aveva detto che non bisogna-
va disturbarla. »
Era mezzanotte passata. Poteva essere la ragazza che si faceva passare
per Angela? Se solo l'avesse incontrata a faccia a faccia... Ma quando ri-
spose al telefono nel foyer, la voce della ragazza sembrava troppo adulta. «
Voglio parlare con Mrs. Waugh », disse.
« Sta dormendo. Ha avuto una giornata faticosissima. Posso fare qualco-
sa? Io sto con lei. »
« Posso parlare solo con Mrs. Waugh. »
Chi poteva telefonare a quell'ora e con quell'aria di segretezza? « Mi
chiamo Ted Crichton. Barbara mi ha chiesto di parlare con chiunque aves-
se chiamato mentre lei dormiva » Prima ancora di essere sicuro se faceva
bene a dirlo, aggiunse: « Compresa sua figlia ».
Ci fu una pausa. Aveva rivelato il segreto di Barbara e non sapeva nep-
pure a chi. Allora la voce disse: « Lei sa chi sono io? »
« Sì, credo di sì. » Non era neppure sicuro di chi lei voleva far credere di
essere. « Cosa vuole? »
« Volevo vedere la mia mamma. »
Se lo scopo era di convincerlo, il risultato fu l'opposto: la voce suonava
imbarazzata in maniera grottesca, un'attrice che poteva convincere una
madre distrutta, ma non lui. Sentì crescersi dentro una rabbia gelida. « Se
viene qui posso accompagnarla da lei. »
« Non posso. Volevo vederla in un posto. »
« Allora magari è meglio che veda me. »
Stavolta il silenzio fu molto più lungo. Non doveva essere apparso suffi-
cientemente convinto da questa voce che cercava di farsi passare per quella
di una tredicenne. Forse era la donna con il viso storto, che non aveva pre-
so nessun treno, ma era sgusciata da un'altra uscita della stazione. Stava
imprecando con se stesso — l'aveva avuta quasi a tiro... Se solo non si fos-
se mostrato così ansioso — quando lei disse: « Sta bene ».
« Vuole vedermi? Adesso? »
« Non appena può arrivare dove le dirò. Venga il più presto possibile. »
Gli diede le indicazioni; non pareva troppo lontano. « Deve venire da solo
», aggiunse, « e non dica a nessuno che sta venendo. »
« Non si preoccupi. »
Mise giù immediatamente. Con un sorriso tirato, si precipitò di sopra a
prendere il cappotto. Esitò un attimo solo, davanti alla porta di Barbara,
prima di scendere. Anche se fosse stata sveglia, sarebbe stata l'ultima per-
sona a cui avrebbe detto dove stava andando. Finalmente aveva la possibi-
lità di scoprire personalmente che razza di gioco stavano giocando i suoi
persecutori.

Capitolo 25

L'inseguimento della donna evidentemente lo aveva stancato più di


quanto pensasse. A metà della salita dovette arrestarsi: la pioggia sulla pel-
le gli pareva fatta di gocce acide. Il cielo nero era bassissimo sui tetti sgoc-
ciolanti; un aereo o una folata di vento gli passò sopra la testa. Quando eb-
be ripreso un po' di fiato ricominciò a salire.
La strada era deserta, e deserta appariva Sauchiehall Street, là in fondo.
La discesa asfaltata grondava acqua; i marciapiedi parevano oleosi sotto la
luce di due lampioni. Superò arrancando una scuola con porte e finestre
sbarrate e raggiunse Hill Street, dove gli era stato detto di svoltare.
Hill Street era fiancheggiata da abitazioni con sporgenti finestre a bo-
vindo. Attraverso la pioggia i graffiti balenavano sui muri, parevano agi-
tarsi e fremere; un enorme scarabocchio dalle lunghe gambe pareva appiat-
tito come un ragno sul fianco di una casa. Ted si sbottonò il soprabito — la
pioggia stava diminuendo, l'umidità gli faceva accapponare la pelle —
mentre avanzava lungo le case.
Via via che procedeva, i porticati di pietra prendevano un aspetto sempre
più cadente. Accanto ai portici, dove le targhe stradali erano state rimosse,
spiccavano delle macchie pallide come erba cresciuta sotto una pietra. I
giardini erano una massa di erbacce incontrollate. I globi vuoti dei lampio-
ni ciondolavano nel buio.
Non era nervoso, si disse. A vederlo, sembrava abbastanza minaccioso
da scoraggiare qualsiasi aggressore, ed era certamente abbastanza forte da
affrontarli, se necessario. Eppure lo snervava quella sensazione di essere
osservato, anche se un tocco di paranoia non era affatto sorprendente in
quelle circostanze. Quel movimento improvviso nel giardino dietro di lui
era certamente un effetto della pioggia. Non si voltò neppure, sarebbe stato
assurdo. In ogni modo, il movimento ora era davanti a lui.
Il faro di una macchina di passaggio gli mostrò che doveva girare alla
traversa successiva. Sul muro d'angolo spiccava una caricatura scheletrica,
in mezzo a una ragnatela di graffiti. Quando raggiunse la strada vide che il
muro era tutto un ammasso di graffiti, ma non riuscì a ritrovare la caricatu-
ra dalle lunghe gambe che lo aveva colpito pochi momenti prima. Ovvia-
mente era solo un effetto della luce, della pioggia.
Questa strada era ancora più scoscesa della precedente. Scendendo tra un
alto muro e una costruzione che luccicava come asfalto, dovette appog-
giarsi per evitare di prendere velocità e inciampare. Pur essendo abbagliato
dai lampioni, riuscì a vedere che anche lì i muri erano tutti coperti di scritte
e disegni.
Le ginocchia gli facevano male per la ripida discesa. Si fermò un mo-
mento e scrutò la via, che conduceva verso una superstrada e altre due lar-
ghe strade. L'illuminazione, almeno, era viva come quella dei fulmini, ma
gli mostrava solo i marciapiedi in tutta la loro desolazione. Solo un ubriaco
arrancava lungo lo stretto salvagente di cemento in mezzo alle corsie di
traffico.
Ted arrivò in fretta in cima al cavalcavia pedonale accanto al quale do-
veva aspettare. Presto l'ubriaco sparì tra le case grigie e la solitudine fu to-
tale, salvo per le macchine che scivolavano via. Il lampo di un movimento
vicino al cavalcavia doveva essere stato l'effetto della pioggia sotto la luce
dei lampioni.
Le corsie della strada si dividevano in due svincoli che si collegavano
con l'Inner Ring Road, una superstrada a quattro corsie. Un traffico conti-
nuo le percorreva tutte; il frastuono era spaventoso. Cespugli, arbusti ed
erbacce, biancastri come muffa sotto la luce dei fari, racchiudevano la
rampa di cemento del cavalcavia. Chi doveva incontrarlo sarebbe venuto
su dalla rampa?
Per un po' la tenne d'occhio. Le foglie si agitavano sotto la pioggia, ma
nient'altro si muoveva. Seguiva con gli occhi ogni macchina che passava,
anche se era improbabile che arrivassero in auto: sarebbe stato poco con-
vincente. Non c'era altro da guardare. Si sentiva come Cary Grant, in attesa
in mezzo al deserto in quel film di Hitchcock. Sicuramente Inner Ring
Road non era meno desolata.
Cominciò a camminare avanti e indietro per il marciapiede, non avendo
nient'altro da fare, ma all'improvviso fu assalito dai sospetti. E se fosse sta-
ta davvero Angela, al telefono, e le avessero impedito di venire? Ci crede-
va malvolentieri — non credeva ancora ad Angela — ma l'alternativa pro-
babile non era incoraggiante. Era stato attirato lì perché loro potessero ave-
re Barbara?
Non potevano farle del male. Se avessero telefonato non le avrebbero
passato la comunicazione, e se avessero avuto il coraggio di andare all'al-
bergo non gli avrebbero detto in che camera era né li avrebbero lasciati sa-
lire. Eppure si chiese a disagio tra quanto tempo sarebbe potuto tornare da
lei. Un altro quarto d'ora — era l'una di notte ormai. Stava passeggiando
avanti e indietro e discutendo con se stesso, quando tra i cespugli una fac-
cia lo fissò.
No, non poteva trattarsi di una faccia. Doveva essere stata una cartaccia
rimasta impigliata un attimo tra i rami prima di essere soffiata via. Si era
già spiegato perché si sentiva osservato. Eppure, quando colse di nuovo
l'immagine di quella lunga cosa pallida, che spiccava più bianca tra il
bianco sporco delle foglie, cominciò a scendere, per dimostrare a se stesso
che non c'era niente.
Il cavalcavia era molto più scuro delle strade. La vegetazione rendeva
più strette le rampe di cemento, frammenti di raggi di fari scintillavano ab-
baglianti tra il fogliame. Le arcate inferiori del cavalcavia erano ricoperte
di graffiti. Si chinò oltre la balaustra e scrutò i cespugli ma, da quello che
poteva vedere, non c'era nascosto niente. Scese in fretta la rampa, per ve-
dere dove conducesse, per vedere se ci fosse nascosto qualcuno lì, a osser-
varlo.
A metà strada il cavalcavia si biforcava all'altezza di due frecce metalli-
che; i graffiti ne avevano resa illeggibile la scritta. Una rampa portava giù
verso un marciapiede sul bordo dell'Inner Ring Road; un sentiero di ce-
mento saliva sulla superstrada, parallelo alle corsie. Vedeva bene che non
c'era nessuno in fondo alla rampa. Si diresse lungo il sentiero tra i cespugli
agitati dal vento.
Appena svoltò seguendo una curva si trovò circondato dal cemento. Le
due ramificazioni della strada dove era stato ad aspettare portavano sopra
di lui, la superstrada passava di sotto. Il rumore stringeva da tutte le parti;
non riusciva a sentire neppure il rumore dei suoi passi. Non poteva vedere
altro che le strade e l'argento dei terreni incolti in mezzo a esse.
Il sentiero faceva un'altra curva tra i cespugli. Avanzò, pur convinto che
non ci sarebbe stato niente da vedere. Le sottili membra pallide dietro il
fogliame erano, chiaramente, degli steli che si agitavano nella brezza umi-
da. Quando raggiunse il posto non riuscì neppure a ritrovarle. Un'altra
rampa deserta riportava su al marciapiede opposto al punto dove era rima-
sto ad aspettare.
Ne aveva abbastanza. L'appuntamento mancato cominciava ad apparirgli
come uno scherzo che gli avevano giocato. Forse era per quello che l'ave-
vano attirato lì, per fargli capire che era inutile che cercasse di avere la
meglio su di loro. In ogni caso, aveva lasciato Barbara sola fin troppo a
lungo: se si svegliava e non lo trovava? Tornò in fretta tra la folla di pila-
stri di cemento sopra la superstrada. Lì si fermò. Tra lui e le rampe, accan-
to alle frecce di ferro arrugginito, due uomini dal viso inespressivo erano
in attesa.
Non appena lo videro la loro espressione si fece ancora più vuota. Quan-
do avanzarono lui si girò di scatto e si avviò in fretta sotto il cavalcavia.
Non sapeva se quei due erano una trappola messa lì per lui, ma non aveva
intenzione di scoprirlo, proprio ora che non aveva una via di scampo. Si
precipitò lungo la stradina di cemento sopra la superstrada — se lo pren-
devano lì nessuno avrebbe sentito — fino alla curva tra i cespugli ondeg-
gianti. Una volta raggiunta la strada principale poteva voltarsi a fronteggia-
re gli uomini — solo che altri due, con le facce ugualmente vuote, stavano
scendendo dall'altra rampa verso di lui.
Quando si girò i primi due l'avevano quasi raggiunto. Uno di loro, un
giovane magrissimo con i capelli alla frate, gli pareva di averlo già visto.
Ted si mise a correre verso di loro, prendendo l'aria più minacciosa possi-
bile, ma i due gli bloccarono la strada. La luce di un faro attraverso il fo-
gliame fece apparire le loro facce ancor più simili a maschere.
Appena il giovane che pareva un monaco gli fu abbastanza vicino, Ted
lo colpì. La sensazione che gli fece il suo mento fu di un pezzo di roccia
dentro una sottile copertura di carne molliccia. Il giovane si appoggiò alla
balaustra e si massaggiò la faccia, ma subito dopo si raddrizzò. Le nocche
di Ted dolevano come se ci avesse dato una martellata, ma il giovane pa-
reva non aver sentito niente.
Di scatto Ted si mise a correre, ma non arrivò lontano. Due di loro lo
raggiunsero all'altezza della discesa pietrosa. Quando lo agguantarono per
le braccia lui cercò di colpirne uno con un calcio all'inguine, ma perse l'e-
quilibrio sul cemento umido. Loro lo spinsero all'indietro sul terrapieno. I
sassi gli si conficcarono nella schiena, la ghiaia e schegge di vetro gli feri-
rono le mani.
Riuscì ancora a divincolarsi e a insultarli, anche se non poteva neppure
sentire la propria voce. Dovettero mettersi in tre, e ci volle anche un po' di
tempo, per immobilizzarlo al punto da consentire al più grosso dei quattro
di colpirlo con violenza alla nuca. D'un tratto si sentì la testa come un pal-
lone sgonfio; gli vennero le vertigini e una terribile nausea. I fari di un ca-
mion sopra di lui parvero bruciargli gli occhi. Si sentiva così male che
quando la vecchia apparve dietro la curva non gli fece nessun effetto.
Ma era una passante, un'anziana donna con i capelli tutti bianchi, e ave-
va visto quello che gli stavano facendo. Loro non l'avevano notata, e lei si
allontanò zoppicando più in fretta possibile. Ted riprese a dibattersi in mo-
do da distrarre la loro attenzione, anche se lo sforzo gli aggravò la sensa-
zione di nausea. Voleva ardentemente che facesse in fretta, che scomparis-
se prima che la vedessero, che chiamasse la polizia o qualcuno che potesse
venire in aiuto.
Era quasi arrivata a superare la curva quando cadde. Forse questo fu tut-
to: era inciampata e caduta attraverso un varco nella ringhiera. I fanali del-
le auto tremolavano tra le foglie, tutto passava fluttuando lentamente attra-
verso il suo cervello, e Ted non poteva essere sicuro di aver visto una figu-
ra aggrappata in mezzo ai graffiti sotto il cavalcavia. Forse era soltanto il
movimento dei rami. Certamente era impossibile che qualcosa con una
lunga testa biancastra fosse sgattaiolato giù a trascinare la vecchia tra i ce-
spugli.
Gli uomini lo tirarono in piedi e lo fecero scendere di corsa per il sentie-
ro, nonostante le gambe molli. I suoi pensieri erano tutto quello che era in
grado di controllare, e gli venne in mente che se mai uno degli automobili-
sti l'avesse visto l'avrebbe preso per un ubriaco che doveva essere portato a
braccia fino a casa. Per un momento temette che i suoi rapitori fossero sul
punto di buttarlo sull'autostrada. Lo spinsero invece tra i cespugli, tra i rovi
che gli scorticavano le mani, in un sottobosco di rifiuti che gli impacciava
il passo. Al di là di tutto questo, una rampa fatta di detriti portava giù a una
casa.
Pareva impossibile che ci fosse una casa in quell'isola di terreno abban-
donato sotto i cavalcavia. Evidentemente avevano deciso di lasciarla lì
perché non valeva la pena neppure di demolirla. Ted si sforzava di ragio-
nare per convincersi che se non altro riusciva ancora a pensare lucidamen-
te, visto che non poteva far nulla per impedire che lo trascinassero verso
l'edificio. Una tenda sporca si scostò come la palpebra di un rettile: era at-
teso. La porta si aprì e fu trascinato dentro, con i calcagni che tentavano di
impiantarsi nel pietrisco. Gli uomini lo spinsero con violenza nella sala
buia e il rumore gli si chiuse attorno.

Capitolo 26

Barbara non sapeva se stava sognando. La luce del sole filtrava tra le
tende e illuminava il suo letto vuoto e disfatto, oppure c'era dentro lei, in-
visibile a se stessa, e sognava di guardarsi dall'alto? E se no, Arthur era
davvero così vicino a lei?
Lui c'era, ma si andava rimpicciolendo. Se non lo avesse trovato in fretta
sarebbe svanito, e lei sentiva quanto era ansioso. Barbara si affrettò alla fi-
nestra, ma nessuna delle teste che avanzavano oscillando in strada era la
sua. Si stava dirigendo verso il bagno quando realizzò l'assurdità del suo
comportamento. La sensazione della presenza dell'uomo svanì improvvi-
samente: la faccia si ritirò nel buio della sua mente, si fece più piccola di
un atomo, e lei si trovò completamente sveglia.
E non c'era nulla che la distraesse dalle sue paure — dalle peggiori delle
sue paure, quelle che non aveva rivelato a Ted temendo di ammetterle an-
che con se stessa. Se la setta aveva rapito Angela perché aveva paura dei
suoi poteri, questo significava che erano poteri troppo forti per loro; le te-
lefonate di Angela dimostravano che era ancora in possesso di un forte
senso della sua persona — ma cosa potevano averle fatto, o cosa contava-
no di farle, per piegarla?
Niente di tanto terribile, a giudicare dal tono delle sue telefonate — o la
ragazza era troppo ingenua e fiduciosa per rendersi conto di quello che
stava facendo? Improvvisamente Barbara non volle più essere sola. Si infi-
lò i vestiti e andò in fretta a bussare alla porta di Ted. Nessuna risposta.
Bussò più forte e scrutò lungo il corridoio. Su un vassoio davanti a una
porta una tazza di caffè stava goffamente in bilico su un'altra. Le radio nel-
le camere trasmettevano senza posa allegri motivetti. Quando un carrello
pieno di biancheria si affacciò alla porta delle scale di servizio lei chiamò
forte la cameriera. « Che ora è? »
« Quasi le dieci. »
Allora il suo orologio non andava male. Lui le aveva detto che si sareb-
bero rivisti a colazione, ma poi doveva aver deciso di lasciarla dormire. Si
lavò in fretta e scese di sotto. C'era ancora qualcuno nella spaziosa sala da
pranzo, sotto i lampadari ingialliti; un'anziana signora aspettava che qual-
cuno la spingesse via nella sua sedia a rotelle, un uomo dai baffi argentati
abbassò il giornale e accennò un saluto a Barbara. Il rumore più forte era il
tintinnio di un cucchiaio su una tazza, il grattare di un coltello su un toast.
Nessuno dei clienti seduti a far colazione era Ted.
Uno dei camerieri disse che gli pareva che Mr. Crichton avesse fatto co-
lazione, ma chiaramente non ne era certo. Barbara ordinò il breakfast e
cercò di mantenere la calma: sicuramente era uscito a fare due passi. O
forse si era messo in cerca per conto suo? Gli ultimi occupanti dei tavoli
andarono via, i camerieri cominciarono ad apparecchiare per il pranzo.
Improvvisamente sentì che i suoi nervi non ce la facevano più a sopportare
quei rumori attutiti e andò in fretta al bancone della portineria per vedere
se Ted le aveva lasciato un messaggio.
Non c'era nessun messaggio, disse la ragazza, ma la sua chiave era in
portineria. Barbara le chiese quando aveva lasciato la chiave. « Non saprei
», rispose la ragazza. « Certo, prima che io prendessi servizio. »
« A che ora, cioè? »
« Le sei e mezzo. »
Dove mai poteva essere andato così presto? Anche ammesso che non
riuscisse a dormire — a volte gli capitava — non le avrebbe lasciato un bi-
glietto? A meno che non contasse di rientrare prima del suo risveglio. « È
assolutamente certa che Mr. Crichton non ha lasciato nessun messaggio? »
« Be', anche se lo ha fatto, sicuramente qui non c'è. »
Era possibile che si fosse perduto? Forse quella era una possibilità rassi-
curante, ma non al punto da lasciarla fare colazione. « Mi dispiace », disse
al cameriere, « ho avuto delle brutte notizie. » E immediatamente desiderò
non aver trovato proprio quella scusa.
Per un po' attese nel foyer. Gli ospiti passavano come al rallentatore, bat-
tendo i bastoni da passeggio, scrutandola dalle sedie a rotelle. Il balenare
delle porte girevoli sfocava le immagini, la costringeva continuamente a
guardare fisso per assicurarsi che non fosse Ted. Avrebbe dovuto farle pia-
cere vedere che lui non si sentiva legato, che si sentiva libero di uscire per
una passeggiata. Evidentemente le aveva lasciato un messaggio che era
andato perduto.
Alla fine si fece strada attraverso la porta girevole e si mise ad aspettare
davanti all'albergo. Di tanto in tanto una testa spiccava al di sopra del caos
delle facce, ma non era mai quella di Ted. Non bastava che non riuscisse a
trovare Angela? Avrebbe voluto mettersi a cercarlo, ma non aveva idea da
dove cominciare. E se fosse ritornato mentre lei lo stava cercando, sarebbe
stato lui a non sapere più dov'era lei.
Si avventurò fino al marciapiede di fronte e lasciò correre lo sguardo
lungo Sauchiehall Street. Da un lato si vedeva l'Inner Ring Road, dove le
costruzioni parevano grigie come fumo. All'estremità opposta c'era un'area
pedonale. La gente si fermava davanti ai negozi, degli operai si issavano su
un'impalcatura come ragni che ricostruissero una tela, un cartellone davan-
ti a una porta annunciava un'esposizione di libri prima della vendita all'a-
sta. Ted si era chiesto che libri potessero essere.
Prima di rendersi conto della sua intenzione, si trovò diretta alla sala d'a-
ste. Poteva arrivarci e tornare in dieci minuti, anche meno. Non importava
dov'era stato, solo dov'era adesso, solo che fosse al sicuro. Ma certo che lo
era, perché non avrebbe dovuto? Lei lo sapeva quanto potevano assorbirlo
i libri. Non si sarebbe sorpresa se avesse scoperto che era stato un'ora e più
a sfogliare vecchi volumi senza accorgersi del trascorrere del tempo.
Passando veloce accanto a un centro commerciale sentì una fanfara che
suonava. Un orologio a pendolo che pareva un castello-giocattolo dipinto
d'oro aprì le sue porte per far uscire i cavalieri e batté sei colpi. Lo fissò, al
di là di un poliziotto con le maniche corte e un tatuaggio sull'avambraccio,
ma il quadrante diceva undici. Si fece largo tra la folla e salì di corsa i gra-
dini che conducevano alla casa d'aste.
In cima alla seconda rampa c'era una lunga sala vuota, grande come un
bungalow. File di sedie attendevano la vendita all'asta davanti a un podio.
Gli scaffali e i tavoli da esposizione, rimpiccioliti dalla vastità del salone,
erano carichi di libri. Librai forniti di blocchetti per appunti studiavano le
rilegature, una coppia di mezza età con un'abbronzatura da gente ricca gi-
ronzolava adocchiando le illustrazioni. Vide subito che Ted non c'era.
Si scostò per lasciar passare due uomini che portavano una cassa piena
di libri. Non c'era neppure un nome di autore che conoscesse. Un dorso di-
ceva Il flusso psichico, ma lei ne aveva più che abbastanza dell'argomento.
Se ne tornò avvilita verso l'albergo.
L'aroma di pane appena sfornato le fece alzare lo sguardo verso il centro
commerciale. Le figure uscite dal castello mentre scoccavano le sei si era-
no ritirate. Gli uomini del servizio di sicurezza si aggiravano per la zona,
comunicando l'un l'altro con i walkie-talkie. In fondo alla galleria di nego-
zi, dietro un carretto rosso e giallo riempito di piante grasse, c'era Ted.
O forse qualcuno che gli somigliava. Era in piedi davanti alla cassa della
panetteria, e lei poteva vederlo solo di schiena. Corse giù per la galleria
sotto le luci fluorescenti, verdi, viola, rosa, gialle, azzurre. Il pavimento
scintillante sembrava ricoperto di lurex. Dai negozi venivano motivi di
canzonette, qualcuno così debole che poteva essere un'allucinazione. Nien-
te era reale, salvo l'odore del pane — ma quando raggiunse Ted anche lui
pareva sufficientemente reale.
Si sentì così sollevata che dovette sedersi su una poltroncina scivolosa di
plastica color cioccolato. Non appena ebbe modo di guardarlo più attenta-
mente, esclamò: « Ti sei fatto male ».
Lui si guardò le nocche escoriate come se non fossero sue. « Non è nul-
la. Solo un gatto che non era particolarmente cordiale. »
Perfino lui non aveva mai avuto un'aria così arruffata; evidentemente
doveva proprio essersi alzato prestissimo. « Dove sei stato? »
« Ho cercato la Luce Immortale per te. Sono solo uno dei mille gruppu-
scoli religiosi, uguali a tutti gli altri. Non sanno niente di quello che ti inte-
ressa. Ne sarebbero terrorizzati. »
Il suo umore era strano, quasi esultante; forse dipendeva dall'insonnia.
Nonostante il sollievo, Barbara non riusciva a condividere il suo stato d'a-
nimo; ma almeno ora lui pareva crederle, più della sera prima. « Che pos-
siamo fare adesso? » chiese.
« Be', non dobbiamo dire alla polizia della donna che abbiamo visto. Ora
che l'abbiamo scoperta, i senzanome saranno più all'erta che mai. »
Lei questo lo aveva già pensato, ma sentirselo confermare la rese ancor
più apprensiva. « Pensi che faranno qualcosa ad Angela? »
« No, non credo. Non ne hanno motivo. »
« E allora tutto quello che possiamo fare », concluse lei disperata, « è
sperare che Gerry sia riuscita a trovarli. »
« Non mi stupirebbe se si facesse sentire presto. Ma no, credo che pos-
siamo fare qualcosa di più che sperare. Ieri sera pensavo che la donna po-
tesse essere entrata nella stazione per metterci fuori strada, ma quando ci
ho ripensato mi è venuto in mente che aveva un biglietto in mano. »
« Non me n'ero accorta. Sei certo? »
« Lo vedo chiaro come vedo te adesso. »
« E allora siamo di nuovo al punto di partenza. Possono essere dovun-
que. »
« Be', non esattamente. Ho controllato i treni che sono partiti poco dopo
che l'abbiamo vista. Ho un elenco delle loro destinazioni. È lì che dobbia-
mo cercare. »
Non pareva un gran che come traccia, ma la sua foga era contagiosa. «
Potremmo cominciare dalla più grande », continuò. « Dovrebbe essere E-
dimburgo. Dovremmo cominciare immediatamente. »
Si alzò in fretta, e pareva impaziente che lei lo seguisse. Era un sollievo
per lei essere guidata, una volta tanto; si sentiva troppo esausta per prende-
re l'iniziativa. L'odore del pane svanì, un torrente di facce che a stento vide
la portò via. « Di una cosa sono certo », concluse Ted. « A Glasgow non
troverai niente. »

Capitolo 27

Quando Barbara si accorse che stava scendendo, tornò verso il rondò e


ripercorse la strada fino al punto di partenza, lungo il canale. Sotto un cielo
che pareva sbiancato dal sole, Hemel Hempstead era un unico, continuo
lampo abbagliante. Sul canale le increspature dell'acqua erano fulmini al
rallentatore, il bianco dei cigni sulle rive era quasi accecante. I riflessi del
sole sui finestrini della macchina la abbagliavano, come se non fosse già
difficile guardare.
Svoltò a sinistra all'altezza di Sarah-Boo, la sartoria, e riprese a salire.
Sopra i giardini rocciosi e le costruzioni imbiancate, il labirinto di casette
tutte uguali si richiudeva. L'aveva già percorso una volta ed era tornata in-
dietro, ma le era difficile distinguere anche le strade in salita. Non cono-
sceva il cognome di Iris, dato che all'Other News non erano riusciti a tro-
vare il ritaglio; non riusciva a ricordare il nome della strada né il numero
della casa. Sapeva solo che era su una salita, ma questo valeva praticamen-
te per tutte le case.
Le porte sfilavano una dopo l'altra come campioni di vernici in un cata-
logo. La madre di Iris aveva aperto la porta verde. La madre di Iris aprì la
porta, che era dipinta di rosso. Dietro la porta azzurra c'era la madre di Iris.
Barbara era avvilita di non essere in grado di ricordare un particolare così
semplice; allora non si era resa conto che le sarebbe potuto servire in se-
guito.
Da qualche parte ronzava una falciatrice, dei bambini si lanciavano una
palla a strisce attraverso i vialetti e i radi prati senza siepi, ma questi detta-
gli sembravano troppo reali per quelle case. Forse in parte era effetto della
tensione, ma non del tutto. Si accorse che stava di nuovo scendendo verso
il rondò e ricominciò a cercare la casa. Non c'era altro posto dove andare.
In Scozia non aveva trovato niente. A Stirling, Dunfermline, Kirkcaldy,
Perth, Dundee, Montrose, Aberdeen e negli stretti vicoli che portavano alle
spalle delle ampie vie di Edimburgo, non c'era nulla da trovare. Sospettava
che l'incontro con la donna dal viso storto avesse spinto i senzanome a
spostarsi in un'altra parte del paese. Barbara era tornata al suo ufficio e non
aveva trovato nessuno dei messaggi che aveva sperato, ma solo una gran
quantità di segni di interessamento per Cherry Newton-Brown.
Per certi versi questo l'aveva fatta sentire peggio. L'interesse suscitato
dal romanzo della Newton-Brown era notevolmente più alto di quanto lei
avesse previsto, e questo significava che la sua capacità di giudizio era in
calo. Non che fosse tanto sorprendente date le circostanze, ma non riusciva
ugualmente a giustificarsi. Aveva sperato di condurre l'asta per Paul Gre-
gory da Londra: anche se sarebbe stato meno complicato tenerla a New
York, non pensava di essere in grado di lasciare il paese, visto come stava-
no le cose. Adesso, però, a New York doveva andarci per forza, perché il
romanzo della Newton-Brown meritava di essere presentato personalmente
agli editori. Aveva anche prenotato un volo per gli Stati Uniti, ma non riu-
sciva a decidersi ad andar via: prima doveva rivolgere qualche domanda
all'unica persona a lei nota che avesse visto Angela.
Le case assolate, senz'ombra, sfilavano via veloci. Le antenne della tele-
visione erano scintillanti fratture nel blu patinato del cielo. Le porte dice-
vano giallo, arancio, viola, e non significavano niente. I bambini insegui-
vano ancora la palla, una matassa a strisce che chi sa come rimbalzava an-
cora. Magari poteva chiedere a loro dove abitava Iris, ma non c'era ragione
di supporre che la conoscessero. Forse i loro genitori, ma perché avrebbero
dovuto dirlo a Barbara? Non avevano nessun motivo per non essere diffi-
denti. Si sarebbero richiusi nei loro gusci, dietro le porte smaltate, le tende
accuratamente tirate. Negli spazi tra le tende ogni tanto si vedevano delle
bambole. Improvvisamente ricordò, e si mise in cerca.
Dovette fare un quarto giro completo prima di vedere quel riflesso vio-
letto. Dal fondo del prato non poteva essere sicura — il riflesso era brillan-
te come una lama — ma sì, era proprio la ballerina di porcellana. Spense il
motore e rimase seduta qualche minuto. Voleva davvero saperlo che cosa
stava facendo la setta ad Angela? Poteva sopportare di non saperlo?
Mentre si avviava lungo il sentiero verso la casa, incespicò; Ted la sor-
resse prendendola per il gomito. Le parve che qualcuno stesse sbirciando
da una finestra del primo piano, ma quando guardò in su non vide nessuno.
Forse era la madre di Iris, che si ritirava per non farsi vedere dai poco gra-
diti visitatori; dovettero infatti suonare tre volte prima che Maisie venisse
ad aprire. Lanciò un'occhiata dura a Ted per fargli capire che non la inti-
midiva affatto. « Cosa volete? » chiese a Barbara.
« Volevo chiederle se potrei scambiare due parole con lei. »
« Temo che non sia possibile. Sono occupatissima. A badare a mia figlia
», aggiunse, sottolineando pesantemente la frase. Forse si accorse di essere
stata cattiva e aggiunse più gentilmente: « Era soltanto con me che voleva
parlare? »
Non era il caso di mentire. « Veramente volevo parlare proprio con sua
figlia Iris. »
« Be', lei sa che ha tutta la mia comprensione, ma temo che questo non
sia possibile. Oltre tutto mio marito non lo gradirebbe. »
« Lui lavora non lontano da casa, no? » intervenne Ted. « Posso andare a
prenderlo? Magari cambierebbe idea. »
Barbara desiderò che avesse tenuto la bocca chiusa, pur sapendo che
parlava con l'intenzione di rendersi utile; dopo quello che gli aveva detto
del padre di Iris lungo la strada, avrebbe dovuto capire che così le rendeva
le cose più difficili. Aveva distratto Maisie, che chiese: « Lei è un altro
giornalista? »
« No, è solo un amico. La giornalista che lei ha conosciuto sta cercando
di infiltrarsi nel gruppo che ha rapito sua figlia, e anche noi abbiamo fatto
delle ricerche. Ci siamo arrivati vicino, li abbiamo rintracciati in Scozia,
ma ora mi tocca andare in America senza neppure sapere dove hanno por-
tato la mia bambina. »
« Se la sconvolge tanto può non andarci. »
« Non è così semplice », spiegò Ted. « C'è gente il cui lavoro dipende da
lei. Se non ci andasse sarebbe lo stesso che lasciare il lavoro. »
« Credo che la bambina stia bene, continua a telefonarmi. Voglio sola-
mente sapere che cosa potranno farle », disse Barbara, e si sentì sul punto
di scoppiare a piangere.
Forse Maisie temette che Barbara potesse svenire o crollare davanti a ca-
sa sua. Alcuni bambini stavano guardando dai gradini della casa di fronte.
« Entrate a sedervi per qualche minuto », li invitò Maisie. « Posso offrirvi
una tazza di tè prima che andiate via. »
Nella stanza sul davanti non era cambiato nulla. Solo che Ted la faceva
apparire più piccola. Maisie stava mormorando qualcosa al piano di sopra:
a Barbara parve di sentire: « Non venire di sotto ». Evidentemente aveva
già fatto il tè per sé e per Iris, poiché quasi immediatamente rientrò spin-
gendo un carrello con le tazze e una teiera. Sembrava diffidente verso Ted,
e Barbara la capiva: era già piccola rispetto a Barbara, ma Ted avrebbe po-
tuto sollevarla con una mano. Eppure, l'idea di aver timore di Ted era ridi-
cola. « Come sta Iris? » chiese Barbara.
« Meglio. Qualche giorno è abbastanza ciarliera. Vorrei che continuasse
così. »
« Abbiamo scoperto dell'altro su quelli che l'hanno rapita. »
Ted stava bevendo il suo tè come se non si accorgesse che scottava. La
tazza era un fragile guscio nella sua mano. « Sappiamo che aspetto ha una
di loro. Se gliela descriviamo, potremmo provocarle uno choc e costringer-
la a ricordare. »
« Non voglio assolutamente che abbia uno choc. » Maisie era allarmata,
ma mai come lo era Barbara: che diavolo gli era venuto in mente? Prima
che Barbara potesse intervenire, Maisie chiese: « Come mai sapete com'è
fatta quella persona? »
« Perché ci ha seguito, a Glasgow », rispose Ted.
« Vi ha seguito? » La tazza nelle mani di Maisie ondeggiò, versando del
tè. « Ma allora potrebbero avervi seguito fin qui! »
« Be' », cominciò Ted, e dal tono pareva così insensibile che probabil-
mente avrebbe detto che sì, era possibile, se Barbara non fosse intervenuta.
« La donna sa che l'abbiamo vista », spiegò. « Anzi, l'avevamo quasi presa.
Sono certa che non oseranno più seguirci. »
« Come fa a dirlo? Poteva esserci qualcuno che voi non avete notato. »
« Sono sicura di no », rispose Barbara, chiedendosi se ne era proprio
convinta. « Ma guardi, ce ne andiamo appena possibile se la nostra presen-
za qui la rende nervosa. Potrebbe lasciarmi parlare per cinque minuti con
Iris. Stia certa che non ho la minima intenzione di darle nessuno choc, vo-
glio solo parlarle. Ted rimarrà di sotto e ci aspetterà lì, vero Ted? »
Maisie non lo guardò, e forse fu meglio, perché lui non aveva affatto l'a-
ria di accettare la proposta. « L'ha già vista una volta », obiettò.
« Ma c'è una cosa che non avevo pensato di chiederle. » Improvvisa-
mente Barbara fu contenta di continuare a discutere, anzi ansiosa di far an-
dare avanti la discussione, poiché lei e Ted erano più vicini di Maisie al-
l'ingresso, e Barbara sentiva qualcosa che sfuggiva alla madre: qualcuno
scendeva dal piano di sopra. « Avrei dovuto chiederle se c'era una bambina
che continuava a parlare di sua madre. Non so se Gerry Martin glielo ha
detto — è la giornalista che mi ha condotto qui — ma Angela, sarebbe mia
figlia, continua a telefonarmi. Se lei si fidava di sua figlia più che degli al-
tri potrebbe aver fatto il mio nome. »
Continuava a parlare, neppure convinta lei stessa di tutto quello che sta-
va dicendo, ma i passi si avvicinavano, attutiti certamente da un tappeto e
dalle pantofole, e Maisie non li sentiva. « Le ho fatto vedere la fotografia
che lei mi ha lasciato », disse Maisie. « Me lo avrebbe detto, se sua figlia
le avesse parlato di lei. »
« Non è detto, magari non ha riconosciuto la foto. Probabilmente non
conosceva Angela per nome, probabilmente per quello che ne sapeva Iris
non ce l'aveva neppure, un nome. Se glielo chiedessi direttamente potrebbe
ricordarlo », insistette Barbara, e cercò di bloccare Ted. Troppo tardi: lui si
era alzato di scatto e aveva aperto la porta mentre i passi raggiungevano
l'ingresso. « Salve Iris », disse.
Barbara lo avrebbe preso volentieri a calci. Certamente la sua intenzione
era di fermare Iris prima che la madre la riportasse al sicuro di sopra, ma
che scena doveva trovarsi davanti quella povera ragazza già così sofferen-
te? Una porta che si spalancava in casa sua, un enorme sconosciuto che l'a-
spettava — nessuna meraviglia che si ritraesse di scatto fissandolo a occhi
sbarrati.
Maisie la fece entrare nella stanza, tenendola ben lontana da lui. « Tu
conosci già questa signora. È lei che portò la fotografia della sua piccola
da mostrarti. Questo signore è un suo amico », aggiunse, con un'occhiatac-
cia a Ted.
Quando Iris si fu sistemata — sedette come se fosse di porcellana, con la
paura di rompersi — Barbara cercò gentilmente di farle delle domande,
nonostante l'aperta disapprovazione della madre. Ma la ragazza sembrava
incapace di distogliere lo sguardo da Ted, e più lo guardava più diventava
visibilmente agitata. Barbara avrebbe voluto sentirle dire che la setta non
aveva cercato di distruggere Angela, che averla catturata le era bastato, ma
come poteva formulare la sua domanda in maniera che Iris non ripensasse
a ciò che l'aveva ridotta in quello stato? Ted doveva sentirsi sempre più a
disagio sotto quello sguardo, poiché si alzò e andò a mettersi accanto alla
finestra. Questo non fece altro che distrarre Iris ancora di più, e farla ritira-
re ancora di più in se stessa. Non aveva detto neppure una parola. « Ted »,
disse Barbara, con tutta la calma di cui era capace, « ti dispiace aspettarmi
fuori? »
« Non c'è bisogno che l'aspetti. Potete andare tutti e due. » Maisie fissa-
va le mani di sua figlia che si stringevano una all'altra in cerca di conforto,
che si tormentavano sempre più disperatamente. « Scusatemi, non voglio
sentire altro. Gliele farò io le sue domande non appena riterrò che sia pos-
sibile. Ho ancora il suo indirizzo. »
Al centro del rondò la testa di Barbara cominciò a girare. Ted fermò la
macchina sul margine della strada giusto in tempo perché lei si allontanas-
se barcollando verso il bordo erboso e vomitasse la sua tazza di tè. Dopo
un po' anche lui scese dall'auto e le si mise accanto, fissandola con un'aria
tranquilla che voleva evidentemente essere rassicurante. Quando lei fu in
grado di risalire in macchina, lui guidò più lentamente attraverso le pesanti
ondate di calore verso l'autostrada. « Lo so che ti ho rovinato l'occasione »,
disse, poi sorrise verso il paesaggio inuguale. « Ma mi era venuto in mente
che c'è un'altra cosa che posso fare. »

Capitolo 28
Quando Iris guardò nello specchio del tavolino da toletta, le parve di ve-
dere il riflesso di un movimento nel letto illuminato dalla luce del sole, un
dimenarsi sotto le lenzuola. Il movimento stava per spostare il lenzuolo, e
così lei avrebbe visto com'era. Per un momento si sentì come si era sentita
il giorno prima — le braccia volevano stringersi così forte al suo corpo che
si sarebbe fatta troppo piccola perché qualunque cosa potesse raggiungerla
— ma poi si accorse che a muoversi era solo l'ombra delle tendine. Era a
casa ormai. Niente poteva farle del male. Il male non c'era, lì, anche se era
andato a farle visita.
Quando toccò il cassetto in alto la sua mano esitò. Nella strada un bam-
bino cantava una canzoncina; giù per la collina qualcuno potava una siepe
e il rumore era più tagliente delle cesoie; dentro la sua stanza il sole teneva
tutto immobile, ma il suo timore era che non potesse farlo ancora per mol-
to, ora che il male aveva visto dov'era lei.
Ma proprio per questo doveva cercare. Il pensiero la spinse ad agire, le
fece aprire il cassetto. Non c'era altro che la biancheria del padre, niente
che se ne stesse nascosto in agguato mentre lei vi trafficava dentro in fret-
ta. Sicuramente l'indirizzo non era lì: la donna lo aveva dato a sua madre.
Si inginocchiò e aprì il secondo cassetto. Doveva fare in fretta, prima che
sua madre scoprisse quello che stava facendo. Non glielo avrebbe lasciato
fare, se avesse saputo.
Forse a volte la madre aveva ragione. Il giorno prima le aveva detto di
rimanere di sopra finché i due visitatori non fossero andati via. Iris era sce-
sa in silenzio — non era una bambina a cui si poteva dire di rimanere in
camera sua; si sentiva come se non lo fosse mai stata, si stava ricostruendo
nel presente, avendo dimenticato praticamente tutto il suo passato — ed
ecco che la porta si era aperta, e lì c'era quell'enorme uomo con la barba.
Appena visti quegli occhi aveva capito che cos'era. Tutti i senzanome
avevano quell'impronta nascosta che nessun altro era capace di riconosce-
re, quella fisionomia come se qualcosa li avesse mangiati all'interno fino a
renderli gusci vuoti. Aveva cominciato immediatamente a richiudersi in se
stessa. La cosa peggiore era che lui l'aveva chiamata per nome, nome che
lei aveva appena cominciato a credere suo. I senzanome non le lasciavano
neppure avere un nome a cui aggrapparsi per sfuggire al loro potere.
Doveva farlo sapere alla donna, alla donna che cercava sua figlia. Non le
veniva in mente nessun altro a cui dirlo: certamente sua madre non avreb-
be voluto saperlo. « Ormai sei a casa tua, Iris. Non pensare a quelle cose. »
Voleva credere che Iris aveva dimenticato; e forse un giorno ci sarebbe
riuscita.
Possibile che la madre avesse buttato via l'indirizzo di quella donna?
Non si era presa la briga di riportarlo nella sua rubrica. Ma il giorno prima
aveva detto che ce l'aveva ancora, e sua madre non avrebbe mentito. Do-
veva essere da qualche parte là dentro.
Forse era in uno dei vestiti di sua madre nell'armadio. Stava attraversan-
do in fretta la stanza, rasentando il letto dove quel grasso rigonfio tremo-
lante non era altro che un cuscino turbato dall'ombra, quando sentì la voce
della madre sulle scale. « Iris, dove sei? »
« Sono qui. » Ora riusciva a parlare abbastanza facilmente; solo quando
l'argomento cadeva su cose che non voleva ricordare le sue labbra comin-
ciavano a torcersi come vermi. Doveva trovare una scusa logica per trovar-
si in camera della madre. Prese l'album di fotografie e si mise seduta sul
letto.
« Benissimo, Iris, stai pure qui se ti fa piacere. » Non appena si fu assi-
curata che Iris stesse bene, tornò di sotto. Iris aveva la sensazione che la
madre fosse sempre stata così, sempre ansiosa di credere che nulla turbasse
la figlia, sempre lì a controllarla, ma senza averne l'aria. Per un momento,
guardando una foto di sé con i genitori, Iris fu sul punto di ricordare — ma
doveva trovare l'indirizzo. Si alzò in piedi, cautamente per non disturbare
il rigonfio sotto il lenzuolo, e andò all'armadio.
Il biglietto da visita era nel terzo vestito in cui guardò. BARBARA
WAUGH - AGENTE LETTERARIO, diceva. Doveva essere stato lavato
insieme con il vestito, poiché la scritta a penna sul retro quasi non si leg-
geva più: riuscì a stento a decifrare l'indirizzo nel Barbican. Chiuse in fret-
ta l'armadio: stava per venirle in mente la stanza buia dove l'oggetto appe-
so nell'armadio non era un vestito, ma qualcosa che guizzava come un
verme su un amo. Forse era solo un incubo che le pareva un ricordo, dato
che di ricordi ne aveva così pochi. Corse in camera sua.
Ora doveva sbrigarsi. Tirò fuori la sua carta da lettere. Dall'odore pareva
vecchia di anni, e lo era. Francobolli non ne aveva, ma pensava di procu-
rarsene uno. Un orologio batté le cinque. Suo padre sarebbe arrivato in sta-
zione alle sei. Se non riusciva a essere lì prima di quell'ora il suo piano sa-
rebbe fallito.
Non appena la prese in mano, la penna le sfuggì via. Non le riusciva di
scrivere dei senzanome più di quanto le riuscisse di parlarne. Quella trac-
cia di male era rimasta dentro di lei. Stava per ricordare cose che aveva
aiutato a fare, stava per ricordare quella volta che era caduta nel buio di
una delle stanze dalle finestre murate e aveva cercato di dirsi che ciò che
aveva toccato era solo un rotolo di fune viscida. Il rischio di ricordare le
vuotò immediatamente la mente, con suo grande sollievo. Se non altro i ri-
cordi non erano più tentatori.
Poteva scrivere dell'uomo con la barba. Era arrivato più tardi dei suoi ri-
cordi; i senzanome non potevano impedirle di scrivere di lui. Doveva dirlo
a qualcuno, in modo che potessero prendere i senzanome prima che i sen-
zanome riprendessero lei. Poteva scrivere, anche se la sua mano tremava.
Ma l'orologio stava battendo il quarto, e non aveva ancora scritto nulla.
Improvvisamente seppe con precisione cosa fare. Scrisse l'indirizzo sulla
busta. Dovette scrivere tutto l'indirizzo in stampatello grande, poiché la sua
mano tremava tanto che scrivendo in un altro modo la sua grafia sarebbe
stata illeggibile; rimase appena lo spazio per il francobollo. Poi, senza in-
terruzione, scrisse: L'UOMO CHE HA PORTATO A CASA MIA È UN
SENZANOME. POSSONO FARGLI FARE TUTTO QUELLO CHE
VOGLIONO. IRIS. Infilò il foglio nella busta. Leccò il lembo così in fret-
ta che si fece un taglio sulla lingua, poi scese senza perdere tempo al piano
di sotto nascondendo la lettera in una tasca del vestito. Aveva paura che le
sue mani, contro la sua volontà, tirassero fuori la lettera e la facessero a
pezzi. « Andiamo a prendere papà? » propose.
« Sì, certo, se ti fa piacere. » Almeno questa parte del suo piano era
semplice; sua madre si mostrò sorpresa e compiaciuta. A volte portavano
Iris a fare una passeggiata serale, quando c'era meno traffico. Doveva ap-
parire come un passo avanti della ragazza.
Sua madre impiegò un po' di tempo per prepararsi, ma per quanto ne sa-
peva lei non c'era alcun bisogno di affrettarsi. Sarebbe anche scesa con tut-
to comodo giù per la collina, fino alla strada, se Iris non le avesse fatto
fretta. Ma certamente la madre doveva essere contenta che Iris non rima-
nesse indietro intimorita dal traffico.
Sulla strada lungo il canale, il rumore del traffico era un muro invisibile.
Iris si fece forza per oltrepassarlo, ma ogni secondo si faceva più intenso,
scuotendole i nervi. Cercò uno spazio nella colonna di macchine e la ma-
dre la fece attraversare fino al sentiero che portava giù al canale.
Vicino all'acqua c'era molto meno rumore. I riflessi degli alberi ondeg-
giavano come alghe. Nel campo di calcio sulla riva opposta cavalli e muc-
che brucavano l'erba tra le due reti. Una chiatta aspettava che la chiusa si
riempisse; alcuni giovani a torso nudo seguirono con lo sguardo Iris men-
tre passava. Sicuramente erano lì per una gita sul canale, non avevano
niente a che fare con i senzanome.
Quando l'orologio batté la mezz'ora la ragazza si sforzò di affrettare il
passo, anche se erano ormai all'altezza del ponte stradale. Dalle due parti
del canale il rumore del traffico era schermato dal terrapieno erboso, salvo
dove il ponte incrociava il canale. Mentre ci passava sotto, veloce, l'acqua
si faceva oscura, metallica; si trovò presa in quella trappola di cemento dal
frastuono che bloccava entrambe le estremità, ma riuscì a farsi strada at-
traverso il rumore e spinse il cancello cigolante che dava sul viale.
Ora niente poteva fermarla. Gli ippocastani coprivano il sentiero e lei
raccolse una castagna d'india, con un gesto da bambina. Denti d'acciaio
circondavano i tronchi per scoraggiare le arrampicate. Nell'erba alta lungo
il canale, dei cavalli erano ritti vicino ai loro puledri sdraiati. Non erano
ancora le sei meno un quarto quando le due donne raggiunsero il pub ac-
canto alla stazione e Iris disse: « Devo andare in bagno. Non occorre che tu
venga con me. Non ci metto molto ».
« Va bene, cara. » La madre parve un po' ansiosa, ma anche contenta che
Iris si sentisse in grado di avventurarsi da sola nel pub.
Qualche avventore, pochi per via dell'ora, era appoggiato al bancone.
Sopra una porta un cartello indicava la toilette, ma non era quello ciò che
lei cercava. Andò direttamente dalla donna dietro il banco. « Devo imbuca-
re una lettera con urgenza », disse: si era esercitata in silenzio per ore per
dirlo bene. « Mi può vendere un francobollo? »
« Un minuto, vedo. » Trafficò nella sua borsa per più di un minuto; il
rintocco del quarto rieccheggiò attraverso la finestra. La madre di Iris pro-
babilmente si stava chiedendo cosa le fosse successo: e se fosse entrata a
controllare che Iris non fosse sgusciata lì dentro per farsi un drink di na-
scosto?
La donna alzò gli occhi dalla borsa. « No, mi dispiace. Pensavo di aver-
lo. »
Quando Iris si volse con aria abbattuta dal bancone — era assolutamente
impreparata all'eventualità che il piano fallisse — vide una piccola faccia
piena di lentiggini e di venuzze rosse che la fissava. Si strinse forte, ma era
solo un anziano pensionato più basso di lei di tutta la testa. « Era tanto ur-
gente? » chiese.
« Sì. » Non riuscì a dire altro, si sentiva le labbra gonfie.
« Lo conservavo perché mi piaceva la figura. » Le porse un francobollo
su cui Peter Rabbit torreggiava sopra la testa senza corpo della regina Eli-
sabetta. « Non dovrebbe essere difficile procurarmene un altro », concluse
speranzoso.
Lei incollò il francobollo sulla busta prima che l'uomo potesse ripensar-
ci. Non appena gli ebbe dato i soldi corse fuori, nascondendo la lettera. La
madre si avviò immediatamente su per la rampa che conduceva alla stazio-
ne.
Sul muro appena fuori dalla stazione c'era una cassetta per le lettere.
Approfittando del fatto che la madre la precedeva e guardava avanti, Iris si
fece forza, tirò fuori la lettera e la infilò nel buio della finestra. Per un
momento si sentì agitatissima, ma come altro poteva proteggersi? Si affret-
tò a raggiungere la madre.
Un treno passò con un ruggito lacerante. Una faccia immobile la fissò at-
traverso lo sportello dei biglietti. Tutto sembrava ritirarsi davanti a lei: la
piccola stazione a due marciapiedi, la luce del sole così fissa da parere ir-
reale. La lettera era ormai al sicuro. Niente avrebbe potuto fermarla, ormai.
Dopo poco un treno portò il padre. Lui non parve del tutto contento di
vederla e guardò male la madre, a cui non aveva ancora perdonato di aver
fatto entrare Barbara Waugh il giorno prima. « Stai meglio, oggi? » chiese
a Iris.
« Sì. » Ora c'erano tutti e due i genitori a proteggerla, niente poteva farle
del male. Poi vide il furgone postale che si allontanava dalla buca, si im-
metteva sulla via principale e scompariva in fretta, e di colpo si sentì terro-
rizzata. Era stata così occupata a eludere sua madre che non si era resa
conto di quello che stava facendo. Sarebbe stata al sicuro se non avesse
scritto la lettera — l'uomo con la barba aveva visto che lei non costituiva
una minaccia. Ora aveva tradito i senzanome, e sentiva che loro lo sapeva-
no.
Improvvisamente le tornò in mente il giorno in cui li aveva lasciati, il
giorno in cui si era sentita così stordita da quello che aveva appena aiutato
a fare che era uscita di casa senza pensare. Era così fuori di sé che forse lo-
ro, con tutto il loro potere, non si erano neppure accorti che se ne andava.
In qualche modo aveva preso un treno per casa, ed era già a metà strada
quando l'avevano trovata nello scompartimento deserto e assolato. Dopo di
che non ricordava nulla per settimane, fino al giorno in cui si era ritrovata
nella sua camera a casa, apparentemente al sicuro — al sicuro fino a quel
momento.
Seguì i genitori al sole, come se questo potesse esserle d'aiuto. Ora si
stavano dirigendo verso il viale. Non si accorgevano di com'era buio sotto
gli alberi, di come scintillavano quei denti metallici? Non si rendevano
conto che qualsiasi cosa poteva piombare giù dal basso fogliame o striscia-
re su dall'erba alta? I senzanome una volta le avevano detto che non sareb-
be mai riuscita a tradirli; ma che se solo ci avesse provato loro lo avrebbe-
ro saputo. Ora se lo ricordava, troppo tardi. Per tutta la strada lungo il via-
le, un cavallo le camminò a fianco, fissandola. Quando i genitori videro
che la cosa la turbava tentarono di scacciarlo.
Il cancello cigolò e si fermarono ad aspettare che li raggiungesse sotto il
ponte. La madre era davanti a lei, il padre dietro, ma non potevano impedi-
re al rumore di circondarla. Ora ricordava perché la spaventava tanto: era
uguale al rumore in quelle case decrepite in cui l'avevano costretta a vive-
re. Possibile che il male fosse anche là dentro? I senzanome ora dovevano
essere più potenti. Sentivano di essere vicini al loro scopo, quale che fosse;
le cose che facevano — le cose che lei aveva aiutato a fare — li avevano
portati ancora più vicini.
« Forza Iris », disse il padre, impaziente. Aveva tanta paura che potesse
spingerla che immediatamente si fece avanti. Non appena si trovò sotto il
ponte il rumore creò un muro dalle due parti: l'acqua rallentò, congelandosi
in una grigia striscia corrugata. Il rumore le si chiudeva attorno, spessa at-
mosfera semibuia, impalpabile ma impenetrabile. Sentì rallentarsi tutti i
movimenti.
I genitori non se ne accorsero. Loro camminavano avanti, portandola
con loro, e in qualche modo riuscì a trovarsi fuori dalla trappola del ponte.
Il sole l'agguantò, ma almeno quello era neutrale. Gli alberi stavano a testa
in giù nell'acqua, annegando. Di là dal canale una palla batté rumorosa-
mente contro un bastone da cricket. Un treno sferragliò lungo la linea lon-
tana, stridendo come un'unghia su una lavagna. Per lo meno adesso si tro-
vava all'aperto, e più vicina a casa, ma quanto al sicuro sarebbe stata in ca-
sa? Non c'era in vista nulla che potesse farle del male; nulla si muoveva
tranne la piccola forma sopra di lei. Alzò gli occhi.
Era un uccello, e improvvisamente precipitò. Lei si ritrasse, ma non sta-
va attaccando lei. Cadde sul sentiero ai suoi piedi. Continuava a muoversi,
ma era tutto coperto di sangue.
« Dio mio », mormorò suo padre, e le impedì di vedere mentre lo supe-
ravano in fretta.
Le stavano dicendo che sapevano cosa aveva fatto, che potevano fare
tutto quello che volevano. Non sarebbe stata più al sicuro a casa. Ricordò
l'agitarsi sotto le lenzuola, e che altro poteva esserci ad aspettarla? Sedette
sulla riva del canale. L'erba secca le pungeva le gambe e le braccia, i suoi
genitori la chiamavano, e poi la chiamavano più forte, ma queste distrazio-
ni esterne già cominciavano a sfumare. Gambe e braccia le si erano strette
forte contro il corpo, spingendola giù nel buio dentro di sé, dove nulla po-
teva raggiungerla.

Capitolo 29

Quando le bambine uscirono schiamazzando dalla scuola sul lago, con i


capelli e le mantelline rosse al vento, Barbara si rese conto che era mezzo-
giorno. Ted ormai avrebbe dovuto già essere lì. Si sporse dalla finestra e
scrutò attraverso il ciuffo di capelli che il vento le spingeva davanti agli
occhi, ma non riuscì a vedere altro che il postino sulla rampa del Barbican.
Sperò che Ted si sbrigasse: quel ritardo dava tempo ai suoi dubbi di ri-
prendere vita.
Quando fece il suo numero non ebbe risposta, ma poteva vedere che era
ancora in casa: dietro la sua finestra c'erano delle figure che si muovevano.
Era successo qualcosa che gli impediva di venire a darle una mano?
Il vento di settembre era inaspettatamente freddo. Il salice pendeva sopra
la piattaforma di mattoni, la chiesa, capovolta, tremolava. Il postino era di-
retto al suo appartamento, ma non aveva il tempo di aspettarlo; era troppo
occupata a lottare con le folate di vento lungo la rampa, un vento che le fa-
ceva svolazzare i vestiti e le spingeva i capelli sugli occhi. Il cicaleccio
delle bambine continuava ad arrivare da sopra l'acqua, a ondate.
Era sugli scalini che conducevano all'appartamento di Ted quando ebbe
l'impressione che qualcuno la prendesse per la spalla. Solo afferrandosi al-
la ringhiera riuscì a non cadere. Doveva essere stato il vento, ma per un
momento le era parso che qualcuno l'avesse toccata come per impedirle di
andare oltre. E in quel momento aveva pensato ad Arthur.
Suonò il campanello di Ted, suonò di nuovo. Il vento arrivava a folate
lungo la balconata. Stava per bussare quando le fu aperto ma non da Ted.
Era una donna più anziana di lei, con un fazzoletto legato stretto attorno al
viso stanco. I suoi occhi si fecero ancora più sottili mentre diceva: « Lei è
Barbara Waugh? »
Una donna soltanto poteva accoglierla con tale freddezza. « Lei è... »
« Sì, ero sua moglie. Sa, ho pensato spesso di affrontarla, ma sono con-
tenta di aver lasciato perdere. Lei è proprio come me l'ero immaginata. »
Ted comparve dietro di lei nell'ingresso, e lei avanzò sulla balconata. « Mi
chiedo soltanto se si rende conto di quanto lo ha cambiato », disse aspra-
mente. « Neppure la figlia lo riconosce più. Immagino che sarà soddisfatta,
ora che lo ha tutto per sé. »
Si allontanò a grandi passi, il fazzoletto svolazzante. Barbara seguì Ted
in casa mentre lui cercava le chiavi. L'incontro con Helen era stato troppo
improvviso e breve per sconvolgerla, ma sollevava comunque degli inter-
rogativi, nessuno dei quali lei aveva particolarmente voglia di porre. Prima
di poter dire nulla notò il dattiloscritto in una cartella sul divano. « Hai fi-
nito il romanzo? » chiese.
« Così sembra. Portatelo via, se vuoi. »
« Sì, certamente. Lo leggerò sull'aereo. » Si accorse che Ted aveva biso-
gno di incoraggiamento: aveva un'aria del tutto indifferente al romanzo,
come se non avesse nulla a che vedere con lui. Forse il motivo era Helen. «
Che cos'era quella scena proprio ora? » dovette chiedergli.
Lui la spinse fuori dall'appartamento. « Oh, niente, qualcosa su Judy.
Non è più la stessa con me da quando sono andato in Scozia. »
« Vuoi dire che si è ingelosita perché ci sei andato con me? Dimmi la
verità. »
Una folata gli distorse la voce: non poteva essere che stesse davvero ri-
dendo. « Potrebbe essere così », disse.
La stava incalzando così in fretta da non lasciarle quasi modo di riflette-
re. « Ma è tutto qui? Non mi pare un gran motivo perché sua madre sia ve-
nuta a trovarti. »
« Helen esagera sempre, te l'ho già detto. Era solo un pretesto. »
« Un pretesto per che cosa? Non vorrà cercare di non farti più vedere
Judy, no? »
« Non lo so. E comunque adesso non ha importanza. Ora non dobbiamo
correre il rischio che tu perda l'aereo. »
Evidentemente doveva essere rimasto scosso dalla visita di Helen, ma
voleva fingere il contrario. Non appena lei aprì la porta lui si affrettò a se-
guirla. « Ti prendo le valigie, se mi dici dove sono. »
Si fermò di scatto: aveva urtato con il piede un mazzetto di lettere spar-
pagliandole sul pavimento. Si chinò in fretta e le raccolse. Ne osservò una
con attenzione, poi se l'infilò in tasca.
« Questa non è per te. La consegno io più tardi. Ora non c'è tempo. »
Effettivamente non aveva l'aria di essere indirizzata a Barbara: la scritta
sulla busta era tutta in maiuscole tremolanti e lasciava appena lo spazio per
l'affrancatura. Le altre lettere erano tutte di scarso interesse. Ted era già di
ritorno nell'ingresso con le sue valigie. Era così ansioso di andare che lei
quasi dimenticò di lasciargli le chiavi dell'appartamento.
Sulla via per l'aeroporto di Heathrow nessuno dei due parlò molto. Oltre
Hounslow i campi sembravano congelati dal ghiaccio blu del cielo. In certi
momenti Ted pareva quasi non accorgersi che stava guidando. Doveva es-
sere preoccupato per Judy, e per colpa di Barbara.
Quando si accorse che lei lo guardava con uno sguardo preoccupato, lo
interpretò male. « Andrà tutto bene », disse. « È tutto sotto controllo. Sarò
nel tuo appartamento tutte le volte che ci saresti tu. Se chiama qualcuno
puoi star sicura che risponderò. »
Questo lei lo sapeva — aveva passato tutto il viaggio da Hemel Hem-
pstead a convincerla — ma quando fu il momento di fare il check in non si
sentì più tanto sicura di riuscire a farcela. Lui sarebbe stato nel suo appar-
tamento tutte le notti che lei avrebbe passato a New York, gli aveva detto
cose che solo Angela poteva sapere, ma era sufficiente? Era troppo tardi
per consentirsi dei dubbi: Ted aveva messo il suo bagaglio sul nastro tra-
sportatore e ora le valigie si allontanavano, come tante bare verso il forno
crematorio. « Non preoccuparti », le disse lui, stringendole il braccio così
forte che le fece male. « Se Angela chiama, so esattamente cosa fare. »

Capitolo 30

L'asta del libro di Gregory durò due giorni e quando fu terminata Barba-
ra si sentì come se al mondo non esistesse nient'altro che la sua suite al-
l'Algonquin e la veduta monocroma della Quarantaquattresima ovest attra-
verso l'alto finestrone vittoriano. Chiamò Paul per dirgli che la vendita si
era conclusa con una cifra di milioni; le rispose Sybil, che dovette mostrar-
si sia pure a malincuore entusiasta.
Dopo l'asta, Barbara non riuscì a rilassarsi. Avrebbe potuto dare un party
nella sua suite, ma era troppo occupata con gli incontri con gli editori per
promuovere il romanzo della Newton-Brown. Tra un incontro e l'altro ten-
tò di passeggiare. Cori invisibili cantavano Sch nberg in Bryant Park, le
pietre nelle vetrine dei gioiellieri sulla Quarantaquattresima est sfolgora-
vano come se stessero ancora cristallizzandosi, i riflessi dei grattacieli si
incontravano e si fondevano sulla gigantesca superficie curva del Monsan-
to Building. Non poteva allontanarsi troppo dall'albergo, poteva sempre
chiamare Ted.
Ma, anche se ora si sentiva stanca e nervosa, la sua agitazione aveva da-
to buoni frutti. L'interesse per il libro della Newton-Brown era forte, e po-
teva condurre l'asta da Londra. Doveva solo incontrare una redattrice sua
amica per discutere del romanzo di Ted e poi poteva confermare la preno-
tazione sul primo volo disponibile per Londra.
Stava per darsi una rinfrescata quando suonò il telefono. Era Cathy Da-
nieli, la redattrice che stava guardando il romanzo di Ted. « Sali pure », le
disse Barbara. Era arrivata in anticipo perché era ansiosa di comprare il
romanzo? Barbara ci aveva dato un'occhiata in aereo, ma era troppo preoc-
cupata per poterlo giudicare serenamente; aveva continuato a chiedersi
come avrebbe reagito Angela se telefonando a casa sua avesse sentito una
voce di uomo. E se avesse pensato che la setta aveva intercettato la sua
chiamata? Barbara sperava soltanto che Ted riuscisse a convincerla del
contrario.
Cathy arrivò poco dopo, con un abito lungo e ampio e una coda di caval-
lo. Si salutarono con un bacio, poi Barbara si affrettò verso il bagno.
Stava finendo di lavarsi, gli occhi le bruciavano per il sapone, quando il
telefono suonò di nuovo. « Rispondo io », gridò Cathy. .
Barbara si sciacquò in fretta il viso e chiuse il rubinetto in tempo per
sentire Cathy che diceva: « Mi dispiace, la comunicazione è molto distur-
bata. Vuole ripetere il suo nome, per favore? »
Improvvisamente Barbara si sentì in apprensione. Si precipitò dal bagno,
strofinandosi il viso con l'asciugamano. Prima di raggiungere il telefono
sentì Cathy che diceva: « Ecco, adesso la sento. Vuole attendere un attimo,
per favore? »
Si volse a occhi spalancati a Barbara, coprendo con una mano il micro-
fono. « È Laurence Dean », disse. « Vuole parlarti. »
Barbara ovviamente sapeva benissimo chi fosse — aveva prodotto di-
versi film di eccezionale successo — ma avvertì una sorta di fastidio: ave-
va quasi finito il suo lavoro a New York, voleva tornare a casa. « Che cosa
desidera esattamente? Tu forse lo sai? »
« Sarà meglio che glielo chieda tu stessa. È uno che ci tiene a fare le co-
se come si deve. »
La morbida voce dall'accento californiano suonò molto compita, ma
molto fioca; Barbara dovette tendere l'orecchio. « Conto di essere a New
York all'inizio della settimana prossima, Mrs. Waugh », disse, « e ritengo
che lei sia ancora lì. Mi chiedevo se sarà libera di vedermi. »
« Be', veramente avevo una mezza intenzione di tornare a Londra doma-
ni. » Cathy la fissava a bocca aperta, suggerendole a gesti di cambiare ap-
proccio. « Voleva discutere di qualcosa in particolare? Mi scusi, rimanga
un momento in linea », disse, visto che Cathy continuava a sbracciarsi.
« Guarda che si impegnerà solo in un incontro diretto », le sussurrò
Cathy. « Se cerchi di forzarlo perderà l'interesse. Ma credimi, non chiama
mai un agente se non è seriamente interessato a uno dei suoi libri. Devi in-
contrarlo, Barbara. Ne verrà fuori qualcosa di grosso. »
« Benissimo; Cathy. Mi scusi, continui, prego », aggiunse al telefono.
« Stavo leggendo alcuni libri che credo tratti lei », spiegò pazientemente
la voce lontana. « Pensavo che un incontro potrebbe essere utile per tutti e
due. »
« A quali libri si riferisce? »
Cathy si batté avvilita la fronte con la mano e chiuse gli occhi. « Mi
sembra che lei abbia un cliente che si chiama Paul Gregory. »
« Sì, esatto. » Si sentiva impotente, incastrata dal suo interesse. Quando
lui suggerì di vedersi il martedì lei accettò, poi riaprì la bocca per rifiutare,
ma lui aveva già riattaccato. La sua perplessità doveva essere evidente,
poiché Cathy chiese: « Si è ritirato? Oh, Barbara, te l'avevo detto ».
Barbara le raccontò quello che le aveva detto mentre scendevano di sot-
to. « Barbara, è magnifico. Sono sicura che è la prima volta in vita sua che
si impegna fino a questo punto. Ha l'aria di un affare grossissimo. »
Barbara si sforzò di mostrarsi contenta, ma fu grata alla penombra della
hall. Nel banco dei giornali un titolo in piccolo diceva: SEGUACI DI
UNA SETTA CALIFORNIANA INCRIMINATI; c'era sempre qualcosa
che le riportava lì la memoria, a quanto pareva. « Andiamo fuori a bere
qualcosa », propose Cathy in tono fermo. « È un bel po' che te ne stai chiu-
sa qui dentro. »
Il bar era piccolo e semibuio. Alcuni uomini erano seduti a bere accanto
al lucido bancone e guardavano un televisore su cui le facce avevano il co-
lore della carne cruda. Le due donne sedettero a un tavolino e ordinarono
due Black Russian. Dopo un paio di sorsi Cathy chiese: « Posso fare qual-
cosa per te? »
« Credo di no, Cathy, ti ringrazio. È una faccenda personale, niente a che
vedere con il lavoro. »
« E allora parliamo di lavoro. Il romanzo di Ted Crichton mi è piaciuto
molto. C'è bisogno di lavorarci, ma sarò felice di farti un'offerta. »
Un presidente degli Stati Uniti di un rosa sfocato apparve all'improvviso
sullo schermo televisivo. La voce forte dell'annunciatore continuava a in-
trecciarsi con quella di Cathy. « Questa è una buona notizia », commentò
Barbara, cercando di concentrarsi sul lavoro. « Ci sono dei punti particola-
ri su cui secondo te c'è da lavorare? »
« Dovrebbe rimaneggiare i primi capitoli. Sono le scene più avanti che
mi hanno convinta definitivamente sul libro — sai, da quando l'investiga-
trice scopre che il suo amico è in combutta con l'organizzazione. Ma così
com'è messa la cosa è un po' troppo improvvisa. Dovrebbe inserire un po'
di indizi in anticipo. In questo modo dà l'idea di una soluzione affrettata. »
« Glielo dirò. » Diverse persone tutte rosa televisivo venivano condotte
in un tribunale, nascondendo le facce davanti alla telecamera. « Oppure
potresti scrivergli tu facendo il mio nome. Ufficialmente non è un mio
cliente. »
« Ma ora gli farai tu da agente, no? »
« Ho sempre pensato che è meglio evitarlo, con gli amici. Complica i
rapporti in tutti i sensi. » Stava tentando di sentire quello che diceva l'an-
nunciatore. Quando Cathy riprese a parlare, Barbara le fece cenno di star
zitta e rimase male lei stessa per la violenza del gesto. L'aula di tribunale e
le figure seminascoste erano scomparse, il lettore stava parlando di inqui-
namento. « Che stava dicendo del fatto che non trovano il nome di qualcu-
no? » chiese Barbara.
« Non saprei, non stavo ascoltando. »
« Qualcosa su certa gente portata davanti a un tribunale che ha dovuto
incriminarla senza conoscerne i nomi. »
« Ah, dovrebbero essere quegli sballati in California. Non ne hai sentito
parlare? Evidentemente eri troppo presa dalla tua vendita. Be', la polizia
non è stata in grado di rintracciare quasi nessuno dei loro nomi e così han-
no dovuto dargli degli pseudonimi perché la corte potesse incriminarli. »
Le braccia di Barbara cominciarono a irrigidirsi dalla tensione; mise giù
il bicchiere. « Che altro sai di loro, Cathy? Puoi dirmi tutto quello che ri-
cordi? »
« Non l'ho seguita molto, questa storia. E uno strano posto, la California.
Ma questi erano una specie di colonia di freak, mi pare, che facevano delle
cose molto brutte, magia nera e tortura, quel genere di roba. Arrivavano
voci su di loro in continuazione, ma nessuno era riuscito a rintracciarli fino
a questo momento. Questa è l'unica cosa che ricordo. Secondo la polizia
alcuni di loro hanno fatto in modo che fossero scoperti, perché erano terro-
rizzati dalle situazioni in cui si stavano cacciando di loro propria volontà. »
Barbara si accorse di tremare, anche prima che Cathy continuasse: « La
faccenda che mi ha più sconvolta è il fatto che alcuni di loro avevano dei
bambini. Voglio dire, riesci a immaginare in che modo crescono quei ra-
gazzi? »
Barbara cercò di alzare il bicchiere, ma dovette lasciarlo per non rove-
sciarne tutto il contenuto. « Chi potrebbe dirmi qualcosa di più? » riuscì a
domandare.
Cathy la fissò. « È importante, per te, vero? Va bene, aspettami qui men-
tre faccio una telefonata. Ho qualche amicizia utile. »
Barbara fu grata a Cathy perché non aveva cercato di chiederle altro. Le
teste degli avventori si sollevavano quando la loro mano destra alzava il
bicchiere; il resto del corpo poteva essere anche paralizzato. In onda, due
lottatori erano aggrappati l'uno all'altro e lei non riusciva a capire se quel
colore di carne cruda era finto o era sangue. Finalmente Cathy le fece cen-
no di accostarsi alla cabina telefonica dall'altra parte del locale. « Quanto
ci tieni a sapere? »
« Moltissimo. » Barbara dovette appoggiarsi al bancone; le unghie le
scivolarono sul legno lucidato. « Ti prego, fammici parlare », disse con an-
sia.
« Questa non è la persona di cui hai bisogno. » Rivolta al telefono, ag-
giunse: « Sta bene, dille di chiamare Barbara Waugh all'Algonquin Hotel
». Riappese e sorrise, come se Barbara dovesse essere contenta. « Ti chia-
merà tra un paio d'ore. »
Pareva un'eternità. « Non posso chiamarla io adesso? »
« Be', non credo. È una conoscenza della mia conoscenza. Voglio dire,
in California è più presto di tre ore. Molto probabilmente ora sta andando
al lavoro. » Strinse il braccio di Barbara come se così potesse farla smette-
re di tremare. « Cerca di rilassarti. Parlamene, se pensi che possa servirti. »
« No, non posso. » Poteva solo immaginare il peggio se ne avesse parla-
to adesso. « Non posso », ripeté stancamente.
« Non importa. Vieni, finiamo il nostro drink. » Ma, se qualcuno doveva
chiamarla all'albergo, Barbara doveva tornarci immediatamente. Visto che
non riusciva a portarla verso il loro tavolo, Cathy la seguì in strada. « Ti
accompagno fino all'Algonquin. Possiamo parlare della faccenda di Cri-
chton la settimana prossima, se preferisci, quando avrai sistemato quest'al-
tra cosa. Non farti sommergere, d'accordo? Mia madre diceva una cosa che
ho sempre trovato molto utile — niente è brutto come lo si immagina. »

Capitolo 31
Quando Barbara, affannata, entrò nell'Algonquin, subito l'avvolse la pe-
nombra. La hall era affollata; i pallidi palloncini delle facce avanzavano
ballonzolando da un'oscurità che sembrava resa più fitta dal loro mormora-
re confuso. Sfiorò con una mano la foglia fredda e untuosa di una pianta in
vaso; con l'altra toccò una faccia all'altezza della sua coscia, una faccia che
pareva di pasta di pane. Doveva essere un bambino.
Si fece strada fino al banco dei giornali, ma non riuscì a trovare il titolo
che aveva visto prima. Forse era in una pagina interna che era stata esposta
per sbaglio. Comprò una copia di tutti i quotidiani e si avviò verso le scale,
che spesso erano più rapide dell'ascensore. Gli occhi si stavano adeguando
alla scarsa luce, ma si sentiva ancora minacciata dalla folla, che poteva ve-
derla senza che lei riuscisse a distinguerla.
Aveva quasi superato il banco della portineria quando l'impiegato la vi-
de. « Mrs. Waugh, c'è stata una telefonata per lei. »
Cathy si era sbagliata: il suo contatto l'aveva chiamata mentre lei non era
ancora all'albergo. Adesso certamente sarebbe uscita per qualche servizio e
Barbara non sarebbe neppure riuscita a sapere chi era: Cathy non sarebbe
stata a casa prima di qualche ora. Ma l'impiegato consultò un appunto e
continuò: « Ha telefonato il signor Crichton da Londra una mezz'ora fa ».
Perché non le aveva lasciato un messaggio? Barbara fece di corsa il cor-
ridoio verso il suo appartamento, rasentando porte di un colore nero luci-
do, negative giganti sulle pareti bianche. Su ciascuna di esse pareva ci fos-
se la sua immagine non completamente sviluppata, un'ombra in corsa con
macchie più chiare al posto della faccia e delle braccia. In una delle stanze
la suoneria soffocata di un telefono stava squillando. Quando riuscì a gira-
re la chiave nella sua porta e ad aprire, il telefono stava ancora squillando,
ma non era il suo.
Gettò i giornali sul pavimento del soggiorno, e cominciò subito a forma-
re il numero. A metà si bloccò, gemendo come in un incubo, perché aveva
dimenticato il suo numero di casa. Sei tre otto, mormorò, sei tre otto, e sta-
va cominciando a chiedersi come si faceva a chiamare le informazioni per
un numero in Inghilterra quando il numero le tornò in mente. Lo compose
e rimase in ascolto. Nessuno rispose.
Ricordò senza difficoltà il numero di Ted, ma fu inutile. A migliaia di
miglia di distanza, ma vicino al suo orecchio, il telefono continuò a squil-
lare all'infinito. Il suo orologio segnava quasi l'una, per cui a Londra dove-
vano essere quasi le sei. Allora aveva composto veloce e sicura, il numero
della Melwood-Nuttall, e il telefono dell'ufficio aveva suonato a lungo
prima che le venisse in mente che era sabato: non poteva esserci nessuno.
Rimise giù con cautela il microfono, per evitare di perdere il controllo,
poi lo fissò come fosse una bomba. Le rimandò un bagliore, un nero gru-
mo di silenzio. Ormai in California dovevano essere le dieci e forse la
giornalista aveva ricevuto il messaggio che diceva di chiamarla. Che cosa
voleva dirle Ted?
Cominciò a cercare nei giornali, per impedirsi di pensare. Ben presto il
pavimento attorno a lei fu coperto di sparatorie, bombardamenti, rapimen-
ti. Finalmente trovò il titolo su una pagina in fondo, ma l'articolo diceva
della setta molto meno che del suo capo, un uomo il cui nome era ora noto
come Jasper Gance.
O forse Kaspar Ganz. Questo era il nome con il quale si era spacciato
per psichiatra per poter visitare il braccio della morte con il pretesto di fare
delle ricerche. Più atroce era il crimine, più ansioso era di intervistare il
criminale. Dopo essere stato scoperto era stato interrogato da un vero psi-
chiatra, che aveva diagnosticato un interesse morboso per il sadismo e le
mutilazioni. Ganz, o Gance, era stato imprigionato poco prima della se-
conda guerra mondiale, ma dopo l'attacco a Pearl Harbor era stato richia-
mato. Da allora non se n'era più sentito parlare, fino a ora.
Il giornale riportava una versione del rapporto dello psichiatra più com-
pleta di quella pubblicata a suo tempo, e a Barbara pareva pazzesco che
Ganz potesse essere stato rilasciato. Lui riteneva che i peggiori omicidi e-
rano inesplicabili in termini di psicologia criminale. Uno dei criminali in-
tervistati aveva descritto la sensazione di essere vicino a qualcosa, o parte
di qualcosa, che l'atto del torturare non gli aveva mai lasciato vedere chia-
ramente: la sensazione di star tentando di placare una fame più grande di
lui. Ganz aveva sostenuto che lui e gli altri — Gilles de Rais, Jack lo
Squartatore, Peter Kürten — erano stati spinti a sperimentare i peggiori
crimini per conto di qualcosa al di fuori di loro. Forse i criminali formava-
no un disegno nel corso dei secoli, o forse erano fasi di una ricerca dell'a-
trocità suprema. Lo psichiatra ipotizzava che tutto ciò facesse parte di una
elaborazione fantastica di Ganz per giustificare il suo interesse irrealizzabi-
le. Ma ora, continuava l'articolo, era chiaro che Ganz era riuscito a convin-
cere altri delle sue idee.
Certamente questo non poteva aver niente a che fare con Angela, certo
lei non poteva essere coinvolta in una cosa del genere, eppure Barbara co-
minciava a desiderare disperatamente di sentire ancora la sua voce, che la
rassicurasse. Il giornale non parlava di bambini, ma accennava al fatto che
Ganz probabilmente aveva mandato in giro dei discepoli per diffondere la
sua parola e le sue pratiche, per impedire che se ne arrestasse la diffusione.
Che cosa era così ansioso di dirle Ted? Perché non telefonava?
La televisione! Il notiziario doveva essere più aggiornato dei giornali —
avrebbe dovuto accenderla immediatamente. Vi si precipitò, calpestando e
strappando i giornali, e cominciò a passare da un canale all'altro. Qui c'e-
rano le vittime di un quiz, una coppia di mezza età che si agitava nervosa e
perdeva colore. Qui Godzilla, che incombeva su una fabbrica, qui una
pubblicità in spagnolo, ma lei già stava correndo di nuovo al telefono tra
uno svolazzare di fogli di giornali, perché le era venuto in mente da dove,
forse stava chiamando Ted.
La sua ispirazione scemò di colpo: dovette sforzarsi per finire di com-
porre il numero. Ted poteva anche essere lì, ma ora le pareva del tutto im-
probabile. Lei gli aveva dato anche la chiave del suo ufficio. Poteva aver
trovato Angela e aver deciso che quello era il luogo più sicuro dove na-
sconderla durante il weekend.
Quando il telefono lontano cominciò a suonare, ora sfocandosi ora tor-
nando chiaro, lei lo immaginò mentre squillava nel suo ufficio deserto, ma
invece il ricevitore venne alzato immediatamente. « Ehm, agenzia di Mrs.
Waugh », disse una voce fioca.
Era una voce di donna, una voce giovane, una voce di ragazza. Barbara
si sporse in avanti, chiudendo gli occhi come se questo potesse proiettare i
suoi desideri più lontano. « Chi è al telefono? » chiese, più forte che poté.
La risposta arrivò debolissima. Improvvisamente ci fu una scarica elet-
trica e Barbara credette quasi di aver sentito dire « Angela ». Era sull'orlo
della sedia, l'orecchio le faceva male per la pressione del ricevitore. « An-
gela » gridò « sei tu? »
Ma la ragazza non rispondeva più. Da qualche parte, in lontananza, al di
là delle scariche, delle voci parevano litigare, o chiacchierare. Barbara si
mise la mano libera sull'orecchio sinistro e sentì qualcosa come il rapido
pulsare di una macchina dentro la testa. Una voce confusa arrivò al di so-
pra dei disturbi, senza preavviso. « Chi parla, prego? »
« Sono Barbara Waugh e lei è nel mio ufficio. » Per lo meno fu in grado
di tradurre il tremito in una fredda rabbia. « Farà bene a dirmi immediata-
mente chi è lei. »
« Scusami, Barbara, sono Louise. Dovevo sbrigare un po' di corrispon-
denza. Hannah non è stata bene la settimana scorsa. »
La sua voce si fece per un momento riconoscibile. Chiaramente la voce
infantile aveva detto Hannah, non Angela. Evidentemente Louise era rima-
sta indietro con il lavoro in assenza di Barbara, ma ora non aveva impor-
tanza. Barbara cercò una domanda da farle. « Abbiamo avuto notizie di
Ted Crichton, recentemente? »
« Sì, ha chiamato ieri. Voleva sapere se saresti tornata prima del previ-
sto. Probabilmente aspetta notizie sul suo libro. »
Ed evidentemente era per questo che aveva chiamato all'Algonquin. Sa-
lutò Louise e rimase seduta chiedendosi cosa fare. Le ombre si arrampica-
vano sugli edifici di fronte alla finestra, la faccia del giornalista portorica-
no di un'emittente in lingua spagnola comparve sullo schermo, i giornali
frusciavano ogni volta che Barbara si muoveva. Forse poteva telefonare a
uno dei giornali, forse lì sapevano dirle qualcosa di più sulla setta. Poteva
avvisare il centralino dell'albergo di interromperla, se arrivava una chiama-
ta. Allungò stancamente la mano verso l'apparecchio.
Ma ecco i membri della setta sullo schermo, ancora nell'aula del tribuna-
le, che si nascondevano la faccia. Anche se il giornalista aveva notizie più
recenti, per lei era mutile, dato che non capiva una sola parola di spagnolo.
Fissò lo schermo nella speranza di cogliere un'immagine delle facce dei
seguaci e si trovò di fronte Kaspar Ganz che la fissava.
Fu solo un attimo, poi il cameramen cambiò inquadratura. Sulla lunga
faccia aguzza, secca e dura come quella di un insetto, quegli occhi sem-
bravano uscirgli dalle orbite. Barbara poté solo pregare che quegli occhi
non avessero mai visto Angela.
Cominciò a cambiare canali, per non darsi il tempo di immaginare cosa
stesse dicendo il giornalista portoricano. Un pubblico acclamava, i concor-
renti facevano smorfie disperate, mostri rassicuranti zampettavano per la
piccola gabbia dello schermo, il telefono suonava.
Rimase impigliata con i piedi nei giornali. Tutta la stanza sembrava fru-
sciare. Si liberò dei fogli scalciando e afferrò il ricevitore. « Accetta una
chiamata a suo carico da parte di Janet Lieberman, da San Francisco? »
chiese il centralinista.
« Sì, certo. » La sua voce era ferma, anche se le gambe le tremavano.
Janet Lieberman era molto sbrigativa, quasi scortese. « Mrs. Waugh, ho
saputo che vuole delle notizie su Kaspar Ganz. Perché? »
« Perché... » Certo non importava se rivelava il segreto, così lontano da
casa. « Perché ho paura che mia figlia possa essere rimasta coinvolta con
quella gente, in Gran Bretagna. »
« Spero che lei abbia torto. » Improvvisamente assunse un tono com-
prensivo. « Cosa vuole sapere? »
« Tutto. Tutto quello che è in grado di dirmi. »
« Allora magari potrei scriverglielo. »
« No, per favore, devo saperlo adesso. Ho letto di Kaspar Ganz. Voglio
sapere che cosa faceva fare alla gente che apparteneva alla sua setta. »
« Be', gli faceva mandar giù la sua teoria — sa, la storia che i crimini
apparentemente immotivati vengono commessi per conto di qualcos'altro.
Lo scopo degli omicidi sarà chiaro solo quando il disegno sarà completo.
In un certo senso la teoria è impeccabile, dato che liquida tutte le obiezioni
prima ancora che vengano sollevate, e immagino che i seguaci la trovasse-
ro rassicurante. C'è chi ha bisogno di quel genere di rassicurazioni. »
Barbara la sentì riluttante a continuare. « Mi sta dicendo quello in cui
credevano », si costrinse a dire. « Ma che cosa facevano? »
« Immagino che avrà sentito che hanno abbandonato il proprio nome.
Questo dovrebbe dimostrare che erano solo strumenti di quello che stavano
facendo. » Non poteva più scantonare. « Quello che facevano: be', rapiva-
no la gente e la torturavano a morte. Credevano nella reincarnazione, per
cui potevano dirsi che le sofferenze delle loro vittime erano insignificanti,
perché nessuno, sostenevano, può ricordare quello che ha sofferto nelle al-
tre vite. Be', questa è la California, questo genere di spazzatura, e Ganz fa-
ceva drogare i suoi seguaci insieme con lui, cosa che deve aver irretito an-
cora di più le loro menti. Questo non vuol dire che i suoi seguaci in Gran
Bretagna li abbiano seguiti in tutto e per tutto. »
Barbara desiderò di potersi sentire rassicurata, ma c'era una domanda
che doveva fare. « Non capisco come mai c'è voluto tanto tempo per pren-
derli. »
« Be', i rapimenti non erano tanti. Le loro vittime se le facevano durare a
lungo. » Chiaramente si pentì di averlo detto, poiché si affrettò ad aggiun-
gere: « A quanto pare qualcuno di loro si è denunciato spontaneamente
perché ormai erano abbastanza vicini al loro obiettivo da cominciare a far-
sene un'idea. Comunque gli arresti sembrano non aver preoccupato per
niente Ganz. Da quello che ho sentito, infatti, i suoi qui vorrebbero far ar-
restare gli altri, solo che sono letteralmente incapaci di dare la minima in-
formazione su di loro ». Dopo una pausa domandò: « Era questo che vole-
va sapere? »
« No, non completamente. » Barbara lo avrebbe tanto voluto. « Ho senti-
to dire che alcuni avevano dei figli. Fino a che punto erano coinvolti? »
Ci fu un silenzio più lungo. « Quanti anni ha sua figlia? » chiese poi Ja-
net Lieberman.
« É solo una bambina. L'hanno rapita. »
« Pensavo che fosse più grande. » Forse Janet Lieberman esitava per po-
terle dare la notizia più gentilmente, o forse sperava che questo desse a
Barbara un po' di speranza. « I bambini vengono iniziati a tredici anni »,
disse.
La stanza dell'albergo si fece piatta come lo schermo del televisore. I co-
lori tremolarono, parvero sul punto di uscire dai contorni. Il pavimento pa-
reva fremere come una scarica continua di elettricità. « Vuol sapere altro?
» chiese Janet Lieberman.
« No. » Più che una risposta era una preghiera. « Grazie di aver chiama-
to », concluse Barbara meccanicamente e rimise giù il ricevitore, ma non
riuscì a staccare la mano, mentre tentava di riflettere su quello che poteva
fare.
Non avrebbe mai dovuto lasciare l'Inghilterra. Ora tutto quadrava, ma lei
lo sapeva già da prima, Angela sarebbe stata iniziata, solo che non se n'era
resa conto. Lo aveva quasi capito quella sera dai Gregory, quando Sybil
aveva accennato alla figlia che doveva affrontare la cerimonia per diventa-
re guida scout. Angela doveva aver cominciato a chiamare perché aveva
paura dell'iniziazione e ora, se chiamava a casa della madre quando c'era
Ted, avrebbe sentito la voce di un uomo, di un estraneo. Forse questo l'a-
vrebbe spaventata e allontanata definitivamente.
Barbara stringeva ancora il microfono quando il telefono suonò. La sen-
sazione fu di aver ricevuto una scossa elettrica, ma riuscì ad alzare il rice-
vitore e a impedire al telefono di cadere dal tavolo. « Mr. Ted Crichton da
Londra », disse il centralinista.
Non poteva aspettare per avere notizie del romanzo? « Che cosa vuoi? »
chiese, non appena ebbe la comunicazione. « Che cosa c'è? Perché conti-
nui a chiamarmi? »
« Perché so dove è Angela », rispose lui.

Capitolo 32

Quando Glasgow si fu allontanata per la terza volta, Barbara si sentì co-


me intrappolata in una giostra. La voce del comandante annunciò che la pi-
sta non era ancora libera e nessuno parve preoccuparsi, salvo Barbara; le
hostess camminavano imperturbabili avanti e indietro, i passeggeri si
stringevano nelle spalle e sorridevano. Lei era sospesa a migliaia di metri
di altezza e gridava che la lasciassero scendere, ma nessuno la sentiva.
Riuscì a soffocare il suo grido silenzioso: non l'avrebbe portata certo più
vicina alla sua destinazione.
Glasgow era passata un'altra volta ancora quando il paesaggio si inclinò
d'un tratto. La giostra era caduta dal suo asse. Chiuse gli occhi, sentendosi
irreale, sospesa in un sogno dal cambio di fuso orario, anche se invece fi-
nalmente quella era la realtà: Ted l'aveva convinta che stava andando dav-
vero nel luogo dove si nascondeva la setta.
Sulle prime non aveva osato credergli. E se la setta lo aveva imbroglia-
to? Era certo di aver parlato con Angela? Alla fine ce l'aveva fatta a con-
vincerla. Anche Angela doveva averlo trovato convincente, se gli aveva
dato l'indirizzo.
Barbara non poteva impedirsi di avvertire un po' di senso di colpa. Non
c'era niente di strano nel fatto che Angela avesse bisogno anche di un pa-
dre e Ted doveva esserle sembrato un sostituto più che accettabile. Poteva
esserlo, con il tempo? Non era il caso di sognare. Angela non poteva esser-
si fidata completamente di Ted, altrimenti sarebbe andato subito lui a Gla-
sgow, senza aspettarla. E invece aveva detto a Barbara che doveva andare
anche lei nella casa.
Improvvisamente comparve la pista. L'atterraggio andò liscio come l'o-
lio. Si trovò circondata da persone che le si affollavano attorno per recupe-
rare i propri bagagli, mentre lei era ancora bloccata nella sua poltrona. L'a-
ereo non aveva neppure finito di rullare. Sarebbe stata fortunata se avesse
lasciato l'aeroporto in meno di un'ora.
Ted aveva insistito perché gli facesse sapere al più presto con quale volo
sarebbe arrivata, per poterla andare a prendere a Glasgow. Alla fine era
riuscita a prenotare un posto su un volo che raggiungeva Glasgow via
Londra la domenica mattina. Quando lo aveva richiamato nel suo apparta-
mento c'era voluto un po' di tempo perché rispondesse, quanto bastava a
farle chiedere se c'era qualcosa che non andava. No, disse lui, tutto era per-
fetto. L'avrebbe aspettata.
Il suo bagaglio parve metterci un'eternità. Le sue valigie erano quasi le
ultime sul nastro. Mentre aspettava ripensò a Laurence Dean. Aveva dovu-
to mandargli un telegramma per disdire l'incontro. Forse questo avrebbe
smorzato il suo interesse per Un torrente di vite, forse ora il film non si sa-
rebbe mai fatto. Sybil aveva avuto ragione a essere così riluttante.
Riteneva di non aver niente da dichiarare alla dogana, ma il funzionario
non era tanto sicuro. Era giovane e visibilmente determinato a farsi valere.
Barbara aprì le valigie e attese mentre lui trafficava in mezzo alla sua bian-
cheria. Due chiazze rosse di imbarazzo e di delusione gli comparvero sulle
guance. La guardò con occhio severo mentre segnava il bagaglio con il
gesso e le faceva cenno di andare.
Nella sala d'attesa principale le suonerie amplificate squillavano come
campanelli giganti, una voce chiara e sonora annunciava i voli. Tra la folla
di persone che aspettavano i viaggiatori Ted non c'era, naturalmente. Se-
condo gli accordi, in quel momento lui la stava aspettando al Glasgow Air-
port, non qui a Prestwick, e ignorava completamente il cambiamento di
programma di Barbara. Dopo avergli parlato al telefono a New York, lei si
era infatti resa conto che non ce l'avrebbe fatta ad aspettare tanto. Mentre
faceva scalo a Londra, cosa succedeva ad Angela? Più con disperazione
che con speranza aveva richiamato la linea aerea e aveva saputo che c'era
stata una rinuncia su un volo diretto per Prestwick.
E così era sola. Quando le era venuto in mente che poteva mandare un
telegramma per avvertire Ted, stava già correndo al Kennedy Airport, ap-
pena in tempo per prendere l'aereo. Per lo meno sapeva dove stava andan-
do: si era fatta dare l'indirizzo della casa di Glasgow, per avere la prova
definitiva che Ted sapeva. Avrebbe soccorso lei Angela — non avrebbe
sopportato l'idea di aspettare Ted, con il rischio di arrivare troppo tardi.
Davanti all'uscita il bus per Glasgow era pronto a partire. Le porte scor-
revoli le si aprirono davanti. Lasciò cadere il bagaglio accanto all'autobus e
rovistò nella borsa mentre l'autista attendeva pazientemente. Non aveva
ancora trovato il borsellino che il panico cominciò a torcerle le viscere. Era
stata così occupata a fare piani su quello che avrebbe fatto a Glasgow che
si era dimenticata dei soldi. Non aveva quasi niente in moneta inglese.
Racimolando tutte le monetine, riuscì a mettere insieme la somma ne-
cessaria; pagò il biglietto e trascinò il bagaglio a bordo. La domenica tutte
le banche erano chiuse, ma poteva prendere dei soldi dalla cassa automati-
ca in Sauchiehall Street, se ne aveva il tempo.
L'autobus si avviò verso Glasgow. I campi scintillavano sotto la luce del
primo mattino, nuvoloni dalla forma allungata si ammassavano sopra le
colline, nel freddo cielo di fine settembre. Davanti a Barbara, un uomo dal
collo che pareva fatto di carne cruda tagliata a dadini stava leggendo un
giornale della domenica. DOV'È FINITA LA NONNINA AMATA DA
TUTTI I BAMBINI? La foto sotto il titolo mostrava un'anziana signora
con i capelli bianchi e un ciuffo argentato. I bambini del posto l'adoravano.
Era scomparsa da settimane. La polizia concentrava le ricerche nell'area di
Glasgow, ma Barbara aveva i suoi problemi a cui pensare. Chiuse gli occhi
e cercò di appisolarsi; aveva dormito poco sull'aereo.
Si svegliò al terminal di Glasgow. Qualcuno aspettava tra gli autobus si-
lenziosi sotto la bassa tettoia di cemento. Il viaggio era stato più lungo di
quanto avesse previsto: erano quasi le otto. Aveva tempo per fare quello
che doveva, o era meglio andare subito all'aeroporto di Glasgow a incon-
trare Ted? Fu tentata da questa seconda soluzione, ma non doveva perdere
il controllo dei nervi. Se andava alla casa così presto avrebbe avuto il van-
taggio della sorpresa.
Lasciò le valigie al terminal, poi si diresse veloce verso Glasgow, co-
steggiando un parcheggio che pareva un grigio capannone di montagne
russe pieno di ombre. Era sola in una città fantasma, era circondata da
tombe, da una moltitudine di finestre bianche come ghiaccio. Un tubo al
neon baluginava da una finestra al quarto piano. Tutto le si stringeva ad-
dosso in maniera opprimente. Uccelli che parevano grandi come coperte
sbattevano le ali sotto le grondaie.
In cima alla salita una ragnatela di cavi elettrici aveva catturato un uccel-
lo. Cadde mentre lei raggiungeva l'incrocio. Era solo un pezzo grigio di
qualcosa, carta o stoffa, che si allontanò svolazzando giù per la collina. Gi-
rò a sinistra verso l'Inner Ring Road.
Ne sentì il rumore non appena oltrepassò l'Albany, un albergo con le fi-
nestre che parevano quadrati di carta incollati sulle mura di cioccolato. Un
troncone di strada, botteghe cadenti ricoperte di annunci, la condusse sulla
via.
C'era un isolato di case tutte scrostate. Alcune avevano negozi e bar a
pianterreno, ma le finestre dei piani superiori sembravano semicieche. Ol-
tre il limite non pavimentato della strada, il sottopassaggio dell'autostrada
amplificava il rombo dei camion. Mentre attraversava il ponte stradale per
raggiungere le case, le parve che una sega circolare le fosse penetrata nel
cranio.
Superò in fretta la Mitchell Library con le sue mura verdastre. Una don-
na di pietra sedeva davanti all'ingresso, aspettando che la biblioteca apris-
se. Più avanti, dei pilastri reggevano un tratto abbandonato di autostrada,
con le due estremità nel vuoto, come se il cemento già cominciasse a cade-
re in rovina. La colonna di traffico era ferma al semaforo, i motori pulsa-
vano come una fabbrica. Ma in una fabbrica le avrebbero dato dei parao-
recchi.
Ormai doveva essere vicina al luogo dove doveva andare. Dall'altra par-
te del semaforo il marciapiede era rotto; sentiva carte di dolciumi che le si
appiccicavano alle suole. La giornata si andava riscaldando, ora che si av-
vicinavano le nove. Le macchine la spruzzavano di polvere, che le si infil-
trava anche in gola.
Le porte di un cinema erano inchiodate sotto i graffiti; le lettere di pla-
stica dell'insegna ciondolavano sopra la tettoia. Lo stretto marciapiede
conduceva a una stazione di servizio, e all'improvviso sentì una morsa acu-
ta di apprensione nello stomaco. Questa doveva essere la stazione di servi-
zio di West Graham Street, vicina al punto da cui, le aveva detto Ted, a-
vrebbe potuto vedere la casa.
Quando raggiunse la stazione di servizio camminò lentamente, guardan-
do al di là della strada. Sopra il sottopassaggio dell'autostrada i pilastri sfi-
lavano spuntando uno dietro l'altro mentre lei avanzava. Come poteva es-
serci spazio per una casa in quel labirinto di cemento che era il bordo del-
l'autostrada? Ted era stato imbrogliato. Era arrivata fin lì per niente.
I piani biancastri di cemento si incrociavano a mano a mano che lei an-
dava avanti, in mezzo al rumore del traffico — ma uno di loro era più scu-
ro degli altri e sembrava muoversi di meno. Un altro passo e poté vedere la
luce del sole su una finestra, che mandava lampi in mezzo al sudiciume. Si
arrestò nel punto in cui solo la strada e un caos di cemento la separavano
dalla casa. Aveva avuto torto a mettere in dubbio l'efficienza di Ted. L'a-
veva portata proprio dove doveva andare.

Capitolo 33

Non appena attraversò, in direzione dei pilastri, si accorse che sarebbe


stata visibile dalla casa molto prima di raggiungerla. Tra la strada e la por-
ta d'ingresso c'era infatti un pezzo di terreno abbandonato di almeno una
ventina di metri. Per guardare più da vicino si nascose fra i pilastri.
Era un edificio anonimo, con una coppia di finestre a bovindo una sopra
l'altra. Forse un tempo era stata l'ultima casa di un isolato; ora si innalzava
solitaria sul margine dell'autostrada. Quale che fosse stato originariamente
il suo colore, adesso era annerita come il fondo di un camino. Sopra le te-
gole grigie e untuose del tetto, erano rimasti solo dei frammenti dei comi-
gnoli originari.
Le finestre erano tutt'e due dotate di pesanti tende, Certamente sarebbero
state schermate anche tutte le finestre del retro. Che cosa nascondevano
quelle tende? Si girò a disagio; si era resa conto che il rumore dell'auto-
strada le avrebbe impedito di sentire se qualcuno la seguiva nascondendosi
dietro i pilastri. Rimanendo lì ferma, l'ansia sarebbe diventata intollerabile.
Non aveva modo di strisciare attorno alla casa senza esser vista, per cui si
diresse spedita verso la porta d'ingresso.
Una bambola senza capelli, con braccia e gambe girate all'indietro, la
fissava con un occhio e un'orbita vuota. L'attenzione di Barbara era con-
centrata sulle tende delle finestre, ma il suo sguardo sfiorò distrattamente
rifiuti sparsi in giro, uno specchietto retrovisore semisepolto, un mosaico
di vetri rotti, una giacca, o un pezzo di tappeto bagnato, una crisalide gi-
gante blu e bianca che era stata una scarpa, un pezzo di tubo di rame ver-
dastro. Senza fermarsi raccolse il tubo, che apparve rassicurantemente pe-
sante. Ma sarebbe poi stata capace di usare un'arma, lei che in vita sua non
aveva mai incontrato la violenza? Per come si sentiva adesso, era sicura di
sì.
Le tende erano immobili. Era così intenta a non perderle d'occhio che
raggiunse quasi la porta senza rendersi conto che era aperta. Era una trap-
pola? Le auto rombavano sopra e sotto di lei, isolandola insieme con la ca-
sa; nessuno degli automobilisti poteva aiutarla, e anzi, probabilmente non
potevano neppure vederla; e se anche l'avessero vista in difficoltà non sa-
rebbero stati in grado di fermarsi. Alzò il pezzo di tubatura sopra la testa e
spalancò la porta con un calcio.
L'interno era inanimato come la facciata, ma più buio. Uno stretto corri-
doio, passando accanto a due porte aperte, conduceva a una cucina scolori-
ta dall'unto e dalla ruggine. Una luce tetra aleggiava tra le pareti brunastre
al di sopra del lucido tappeto annerito, coperto di impronte di fango secco.
Da qualche parte doveva essersi rotta una conduttura perché l'acqua scintil-
lava come la traccia di una lumaca sulla parete di sinistra, sopra le scale.
Pareva evidente che la casa era disabitata da mesi.
Ted si era sbagliato. Angela evidentemente non si era fidata completa-
mente di lui, di quella voce estranea in casa di sua madre. Gli aveva indi-
cato l'indirizzo vecchio, per dargli una lezione, forse. Ora era di nuovo
fuori portata, e la sola ragione per cui Barbara riuscì a trattenere le lacrime,
era che se avesse cominciato a piangere non si sarebbe più fermata.
Finalmente si fece avanti. Stringeva sempre il pezzo di tubo, anche se
apparentemente non c'era nulla da temere. Doveva vedere il genere di po-
sto dove Angela era stata costretta a vivere. Avanzò nell'ingresso e d'un
tratto ebbe paura.
Non erano solo l'oscurità e il freddo improvviso. L'aria era fredda e
spessa, pareva di avanzare nel fango. O forse era la sua mente, più che il
suo corpo, a sentirsi circondata, con i pensieri soffocati. Riuscì a convin-
cersi che erano solo i suoi timori ad agitarla, la paura di quello che poteva
trovare e il cambio di fuso orario stava facendo il resto. Niente poteva farle
del male in una casa disabitata. Poteva vedere che anche le porte del piano
superiore erano spalancate.
Eppure si rese conto che stava strisciando contro la parete del corridoio e
che, anche camminando con tutto il peso, non avrebbe sentito i suoi passi.
Cominciò ad avanzare in fretta, per fare il giro della casa e uscirne il più
rapidamente possibile, perché le pareti del corridoio sembravano troppo
vicine. Era solo l'apprensione, il cambio di fuso orario e la penombra: non
doveva permettere che questo le scombussolasse i pensieri.
La prima delle stanze a pianterreno era vuota, a parte un certo numero di
materassi sul pavimento, da cui uscivano, come vermi giganti, pezzi di im-
bottitura. Andò oltre, ed era quasi arrivata alla cucina quando si rese conto
di aver sofferto di un momentaneo oscuramento, un buio nella coscienza,
come per un intervallo di sonno. Inutile cercare nella cucina: il forno e gli
armadi erano aperti — le loro viscere buie avevano l'aspetto schifoso di
nidi di ragni. Si girò verso la seconda stanza.
Lì non c'era altro che una mezza dozzina di poltrone di fronte a un cami-
no pieno di fuliggine. Le si formò davanti agli occhi l'immagine grottesca
dei seguaci della setta che si sistemavano davanti al fuoco, la sera, per
chiacchierare o leggere il giornale: e infatti un giornale spuntava da sotto il
bracciolo della poltrona più lontana. Anche se la penombra faceva parere
le pareti rigonfie, lei entrò nella stanza.
Quando guardò il giornale non poté credere alla data. Evidentemente al
buio non riusciva a leggere bene. Fece per scostare le tende, ma non appe-
na le toccò la sua mano si ritrasse: più che tende, parevano una massa di
ragnatele sporche e appiccicose. Era stato solo il suo tocco a farle agitare
leggermente? E se ci fosse stato qualcuno dietro? Furiosa con se stessa —
stava diventando paurosa come Iris — le aprì con il tubo, poi si girò verso
il giornale.
Non si era sbagliata. Era il giornale del giorno prima. LA POLIZIA
PERLUSTRA GLASGOW IN CERCA DELLA PENSIONATA
SCOMPARSA, diceva un titolo. Tutto d'un tratto quel titolo le parve sini-
stramente significativo, ma non se la sentì di raccogliere il giornale, ap-
poggiato a quella poltrona a tre gambe dalla cui pelle spuntava una specie
di pelliccia biancastra. Non aveva mai visto una pelle che mostrasse così
palesemente la sua origine animale. Anzi, per come la poltrona deformata
si protendeva verso di lei, pareva non completamente morta.
E così la setta era stata lì fino al giorno prima. Quelle erano le condizioni
in cui avevano costretto Angela a vivere. Uscì d'impeto dalla stanza — era
tutto quello che poteva fare per esprimere la sua sgomenta furia impotente
— e arrivò quasi in cucina prima di tornare di scatto in sé. Quei vuoti do-
vevano essere provocati dalla tensione e dal cambio di fuso, ma erano pro-
fondamente snervanti. La tensione era già abbastanza forte senza che ci si
mettesse anche il suo corpo.
Si avviò su per le scale. Qualche pezzo di tappeto le stridette sotto i pie-
di; un'umidità oscura le si raccolse attorno alle scarpe. Sopra la tromba del-
le scale si spalancava l'ingresso del solaio, irraggiungibile. In cima alle
scale il linoleum era impregnato d'acqua: un filo d'acqua rugginoso si ri-
versava dalla tazza intasata del bagno.
Perse l'equilibrio quasi subito. Colpì con il palmo la parete e la sentì unta
e pelosa. Doveva essere l'intonaco sbriciolato. Strofinandosi di furia la
mano sulla manica, guardò nella stanza.
Una doveva essere il dormitorio principale, poiché era piena di materas-
si. Se questi e i materassi del piano di sotto erano tutti occupati, in casa
dovevano esserci state più di una ventina di persone. Dovette guardare a
lungo prima di essere sicura che adesso non fossero occupati, che nessuno
di quei mucchi di coperte lise si muovesse. Il rumore del traffico le pulsava
dentro la testa, Le pareti le parevano sempre più lerce. Si precipitò nell'al-
tra stanza.
A parte uno schedario annerito, era semivuota. Era quasi arrivata allo
schedario quando si accorse che il pavimento del camino era pieno dei re-
sti inceneriti di libri. Quando le rimosse, le pagine carbonizzate si disfece-
ro, sollevandosi in una fuliggine che la fece tossire. E rese la stanza ancora
più buia, così buia che lei corse allo schedario, sperando che non contenes-
se niente che la obbligasse a rimanere. E infatti quando tirò fuori i cassetti
vide che tutto il contenuto era stato bruciato.
Ora che il suo desiderio era stato soddisfatto, si rese conto che non era
rassicurante, anzi, pareva qualcosa di spaventosamente definitivo. Si sfor-
zò di trovare un senso a quella impressione, ma l'aria della stanza, agitan-
dosi oscuramente, le intasava il cervello come le narici. Corse fuori, scivo-
lando sul linoleum bagnato, e si precipitò giù per le scale. Era solo il buio
a far apparire gonfie le pareti. Il movimento strisciante che intravedeva so-
pra di sé sul muro non era altro che l'acqua che scorreva. Ora era al pian-
terreno. Tra un momento sarebbe stata fuori. Ma la porta posteriore era
bloccata.
Aveva avuto un altro blackout ed era tornata nella cucina senza neppure
accorgersene. Doveva ammettere con se stessa che quei vuoti di coscienza
erano paurosi, perché la paura l'avrebbe aiutata a correre lungo il corridoio
e fuori dalla porta davanti invece di spingerla là. Ma non era a causa del
blackout che stava entrando nella cucina e si girava a vedere quello che era
rimasto nascosto dietro la porta per tutto il tempo: la porta della cantina.
Non si era mai trattato di blackout. Era stata la sua volontà a essere sof-
focata, non la sua coscienza. Non poté far nulla per impedire alla sua mano
di raggiungere la porta della cantina. Avvertì la sensazione tattile della
maniglia — uno strato di polvere o di ragnatele che vi era attaccato e che
ora si appiccicava alle sue dita — ma non poteva ritrarsi. Quando la porta
si aprì cigolando in un momento di silenzio del traffico, non riuscì neppure
a sollevare il pezzo di tubo.
Al di là della porta una rampa di rozzi scalini conduceva nell'oscurità.
Immediatamente si fece avanti. L'atmosfera buia della casa le aveva invaso
il cervello; era incapace di fermarsi. Anche se l'ombra ai piedi della scala
puzzava come un mattatoio e brulicava come se tutta una folla la stesse a-
spettando con il fiato sospeso, non poté far altro che richiudersi la porta al-
le spalle, scendere i gradini e aspettare nel buio. Non poté neppure allunga-
re la mano in cerca di un interruttore.
Quando si girò verso la porta, per chiudere fuori la scarsa luce, scivolò.
Stava precipitando nel buio. Forse una parte della sua mente se lo aspetta-
va, era in allarme, poiché aggrappandosi alla parete per riprendere l'equili-
brio, la mano libera urtò l'interruttore. La luce si accese sotto di lei e vide
dove stava andando.
La cantina non era grande, ma la luce era troppo fioca per illuminare gli
angoli. Erano pieni di ombre o di cos'altro? Quel posto le dava ancora la
sensazione di essere affollato, anche se poteva vedere che non c'era nessu-
no. Sul pavimento sotto la lampadina c'era una gabbia improvvisata con
delle sbarre di ferro tenute insieme dalla corda. Le sbarre erano conficcate
nel pavimento. Dalle sbarre della gabbia, grande appena per contenere un
bambino, spuntava una massa di capelli, tutti bianchi con un ciuffo argen-
tato.
Forse l'urto della caduta lungo le scale l'aveva fatta tornare in parte in sé.
L'orrore di quello che stava fissando la trasse momentaneamente da quella
sensazione di impotenza; barcollò verso la porta per aprirla. I tacchi le si
piegavano sui gradini, era come se l'avida oscurità l'avesse agguantata per
trascinarla giù, ma riuscì ugualmente a emergere nella cucina e a correre in
direzione del corridoio.
La penombra gonfia le schiacciava i pensieri, la volontà stava cedendo,
ma la porta d'ingresso era spalancata, la luce del sole era quasi raggiunta.
Era appena uscita dalla cucina che si arrestò. In mezzo al frastuono del
traffico sentì un passo veloce, più leggero di un piede nudo, ma sufficien-
temente pesante da far scricchiolare le scale. Tra lei e la porta d'ingresso,
qualcosa stava scendendo al pianterreno.

Capitolo 34

Rimaneva la porta posteriore. Non doveva aver paura di tornare nella


cucina; almeno là c'era più luce che nell'ingresso, e poi aveva ancora il
pezzo di tubo in mano. Poteva spaccare il vetro della portafinestra — era
più basso della finestra sopra il lavandino — e uscire di lì. Le gambe le pa-
revano molli dalla paura, ma riuscì a correre. Non aveva tempo per pensa-
re.
Appena entrata in cucina dimenticò quale porta cercava. Era quella più
vicina, sicuramente, quella con gli scalini che conducevano in basso; pote-
va nascondersi lì. La minaccia sommessa ora aveva raggiunto l'ingresso e
si stava avvicinando lenta, ma inesorabile. Dai tonfi ritmati dei passi sem-
brava che avesse una gamba molto più pesante dell'altra e che il corpo stri-
sciasse contro tutt'e due le pareti.
Improvvisamente a causa del rumore del traffico, Barbara non poté sen-
tire più niente, neppure i singhiozzi di panico che cominciarono a scuoterla
quando si rese conto che stava andando di nuovo nella cantina. Corse ver-
so la porta chiusa, quella che dava sul retro della casa, sollevando il tubo
con entrambe le mani. Non osò guardarsi indietro mentre scagliava il tubo
con tutta la forza contro il vetro.
Forse la finestra era stata rinforzata per tener lontano i ladri. L'estremità
del tubo si curvò leggermente, ma il vetro rimase intatto. Qualcosa si stava
facendo più vicino e più delineato nella penombra dell'ingresso e lei stava
picchiando selvaggiamente contro il vetro con il pezzo di tubatura. Non
poter sentire il rumore dei colpi amplificava la sensazione della loro inuti-
lità.
A un tratto apparve sulla finestra una crepa simile a un minuscolo ramet-
to. Insisté con violenza con il suo attrezzo e le schegge caddero verso l'e-
sterno, scintillando al sole. Ora il varco era grande a sufficienza per la-
sciarla passare, ma doveva riuscire ad arrampicarsi.
Non era mai stata un'atleta. Cercò di afferrarsi al telaio vuoto, ma le
schegge taglienti erano incastrate dovunque cercasse una presa. Le parve
di vedere un movimento nella sala d'ingresso, un movimento che prendeva
quasi tutta la porta, ma le sue mani si ritraevano davanti ai frammenti di
vetro.
Allora vide il fornello. Era abbastanza vicino alla porta. Lo trascinò più
vicino e avvertì qualcosa che si strappava dalla parete. Improvvisamente
sentì odore di gas, e forse era il gas a intorpidirle i pensieri, facendole
chiedere perché si dava tanto da fare quando c'era già una porta aperta che
l'aspettava.
Si issò di furia, con un piede dentro il forno. La scarpa le scivolò sul
grasso, ebbe per un attimo la visione del buio soffocante del forno e allora
riuscì a buttarsi fuori dalla finestra rotta.
La caduta le graffiò le braccia e le provocò un taglio sulla spalla destra.
Il tubo di rame le cadde di mano. Si rialzò immediatamente e si mise a cor-
rere verso i pilastri di cemento. Anche se era libera dalla casa, di nuovo
nella realtà quotidiana, la assalì il terrore che qualcosa l'aspettasse dall'al-
tro lato dell'edificio. Nulla si muoveva, a parte qualche cartaccia, nulla si
nascondeva tra i pilastri. Ma neppure quando ebbe attraversato la strada e
raggiunto la stazione di servizio ebbe il coraggio di rallentare la sua corsa
sempre più frenetica.
Alla fine rallentò di quel tanto che le permetteva di pensare. Dei pedoni
stavano attraversando il cavalcavia verso Sauchiehall Street; le campane
della chiesa in mezzo al frastuono del traffico si sentivano appena, un suo-
no distorto come un motore guasto. Almeno lì c'era gente che pareva nor-
male e lei la seguì attraverso il ponte. Quelli che incrociavano il suo sguar-
do lo distoglievano immediatamente.
Mostrava tutta la disperazione che sentiva dentro? La setta doveva aver
trovato un altro nascondiglio, ora che la polizia era alla ricerca della vec-
chia rapita. Ben più orribile dell'idea che avessero imbrogliato Barbara,
c'era di nuovo il pensiero che avessero coinvolto Angela in quello che era
avvenuto nella cantina. No, non era stata ancora iniziata, di sicuro. Barbara
si aggrappò a questa convinzione, con tutta la forza della sua angoscia.
Aveva seguito i pedoni fino a metà di Sauchiehall Street senza rendersi
conto di dove stava andando. Doveva procurarsi del denaro per prendere
l'autobus per l'aeroporto. Doveva assolutamente vedere Ted, stare con lui.
Le pareva che lui fosse l'unico punto fermo che le rimanesse.
Quasi non poté credere all'orologio, quando vide che non erano ancora le
dieci. Ted sarebbe stato ad aspettarla, al varco della dogana verso le undici
e mezzo. Infilò la tesserina di plastica nella fessura accanto all'ingresso
della banca e attese che la piccola saracinesca metallica si sollevasse sco-
prendo la tastiera su cui comporre il numero di codice.
Non accadde nulla. Cercò di tirare la copertura, casomai si fosse blocca-
ta, ma era solida come una patella sullo scoglio. Le ci volle un po' prima di
accorgersi delle fioche lettere elettroniche che si erano accese sopra la fes-
sura: NON ABILITATA AD ACCETTARE LA SUA CARTA. E allora
perché la tessera non veniva fuori? Immediatamente vide il perché: una
targa rossa lo diceva chiaramente: FUORI SERVIZIO.
La fessura era troppo stretta perché potesse raggiungere la carta; e questa
comunque sarebbe stata certamente nel profondo delle viscere della mac-
china. Stava per mettersi a urlare, ma a che sarebbe servito? Anche se pa-
reva si fosse trasformato in farsa, l'incubo che stava vivendo non era meno
intollerabile.
L'unica era andare a piedi. Aveva visto un cartello stradale uscendo dal-
l'Inner Ring Road: l'aeroporto era a diversi chilometri, dall'altra parte del
fiume. Non sarebbe mai riuscita ad arrivare in tempo. E se fosse andata al-
la stazione degli autobus e avesse scongiurato uno degli autisti, o qualche
passeggero, di aiutarla? Ma molto probabilmente sarebbe stata solo una
perdita di tempo.
Si incamminò verso il fiume. La gente che la guardava pareva chiedersi
se avesse dimenticato che era giorno di riposo. Finalmente trovò un ponte
ai piedi delle strade collinose, tra una selva di gru immobili. Impiegò dieci
minuti ad attraversarlo. L'acqua scorreva, come a ricordarle maliziosa la
sua sensazione di torpore.
Lasciato il ponte perse la strada per l'aeroporto. Qualche minuto dopo ri-
trovò l'indicazione del cartello che la indirizzava verso la zona residenzia-
le, fatta di linde casette simili a carillon. I bambini piccoli agitavano i loro
sonagli nei giardinetti davanti alle case, quelli più grandi guidavano mac-
chinine di plastica, altri si dondolavano sulle altalene. Le ci vollero più di
venti minuti per percorrere quel placido quartiere.
Alla fine imboccò una strada fra i campi, sotto un cielo che sembrava
fatto di vapore e fumo, assolutamente immobile. La spalla le dava un dolo-
re sordo, si sentiva il vestito fradicio di umidità. Il marciapiede ora era solo
una gettata di ghiaia, che le mordeva i piedi attraverso le suole.
Alzare il braccio per chiedere un passaggio acuì il dolore. Un paio di au-
tomobilisti rallentarono, finché non la videro in viso. Negli intervalli tra
una macchina e l'altra la strada odorava di erba, ma la sua testa era ancora
piena del fetore della cantina, dell'immagine della gabbia. Che stavano fa-
cendo, ora, dove avevano portato Angela?
Alle undici il marciapiede era scomparso del tutto. Dovette arrancare tra
i campi e tenersi il più vicino possibile alla strada. L'erba alta le appesanti-
va il passo. Le farfalle volavano via, frammenti di colore che vedeva sva-
nire nell'attimo stesso in cui comparivano svolazzando, come se la sua vi-
sta stesse facendosi irregolare. Le macchine lontane tremolavano come at-
traverso un velo d'acqua. Sentiva la gola arsa come il terreno al margine
della strada.
Qualche volta dovette fare dei giri tortuosi, cercando di non perdere
d'occhio la strada. Le toccò scavalcare del filo spinato. Attraversò i terreni
di qualche fabbrica, ma nessuno pareva badare a lei. Ormai era troppo
stravolta dalla stanchezza per camminare diritto. Crollò a terra e vi rimase
per qualche minuto. Erano le undici e venti e dell'aeroporto non c'era trac-
cia.
Dopo qualche minuto cominciò a vedere gli aeroplani, miniature scintil-
lanti che si levavano o scivolavano giù lungo fili invisibili, ma era quasi
mezzogiorno quando arrivò in vista dell'aeroporto. Dovette tornare sulla
strada per poter attraversare un piccolo canale, e quando finalmente il traf-
fico le permise di salire sul ponte, stava singhiozzando dalla rabbia.
Giunta dall'altra parte cominciò a correre. L'edificio dell'aeroporto on-
deggiava da una parte all'altra, ma rimaneva in lontananza. Gli automobili-
sti dovevano prenderla per ubriaca, poiché si tenevano ben distanti da lei;
qualcuno si fermò aspettando che passasse. Un profondo boato le assor-
dava le orecchie. Forse erano gli aerei in cielo.
Un autobus stava fermo davanti all'edificio dell'aeroporto. Barbara lo
aggirò barcollando, per controllare tra i passeggeri, ma nessuno di loro era
Ted. Arrancò verso l'edificio, e si sarebbe appoggiata alle porte per trovare
sostegno se quelle non si fossero aperte scivolando silenziose davanti a lei.
All'interno faceva forse più fresco, ma non era in grado di notarlo. Un
orologio segnava le dodici e trentasette. Tutto le girava attorno — centi-
naia di persone che parlavano tutte insieme, formavano code agli sportelli,
ascoltavano gli altoparlanti e salivano in fila per due sulla scala mobile.
Gli animali montarono a due a due, la voce era un computer che doveva
parlare a numeri, un oracolo che traduceva ad alta voce il suo codice. I ba-
gagli sfilavano via dietro le quinte, per non farsi mai più rivedere, proprio
come Angela. La gente si girava, sorrideva, perché lei era tanto disperata
da sperare che uno di loro fosse Ted. Gira, gira, gira, questo stava facendo
lei ora, alla ricerca di un uomo, quelle erano le prime tre parole di una can-
zone che aveva sentito una volta che portava Angela in braccio. Avrebbe
dovuto portarsela sempre in braccio, mai lasciarla andare. Le facce si gira-
vano, si gira una carta nella speranza che sia quella vincente, ma ognuna di
loro era una carta perdente. La sua mente era sul punto di precipitare in se
stessa.
Finalmente vide il cartello delle informazioni. Riuscì a raggiungere la
scala mobile e vi montò, trascinata dalla folla. Si sentiva come intrappolata
in una vetrina, in mezzo ai manichini. La ragazza alle informazioni le sor-
rise con aria efficiente. Il volo da New York via Londra? Era stato tratte-
nuto a Heathrow. No, si corresse la ragazza mentre Barbara provava una
fitta di speranza, non era più lì, era arrivato un bel po' di tempo fa. Ormai i
passeggeri dovevano essere usciti dall'aeroporto. Se c'era qualcuno ancora
in attesa, doveva essere laggiù. Proprio là, signora, dove vede quella donna
con i calzoni rosa e viola.
Barbara barcollò verso il capannello. Qualcuno raggiunse il gruppo pri-
ma di lei e lo accompagnò verso l'uscita. Al di là dei pochi rimasti ad a-
spettare scorse una giovane donna magra che parlava tranquillamente con
qualcuno che le sedeva accanto su una panca di plastica. Barbara girò zop-
picando attorno a un gruppo di newyorkesi, che si lagnavano ad alta voce
dei facchini, e vide che l'altra persona era Ted.
Non osò parlare subito. Sedette accanto a lui — c'era appena posto suffi-
ciente sulla panca — e gli strinse il braccio per qualche secondo. Alla fine
disse: « Grazie a Dio sei qui. Avevo paura che te ne fossi andato ».
Quando lui l'ebbe guardata per un po' senza parlare, lei realizzò che c'era
qualcosa che non andava. Ted si alzò di scatto e lei fece per dirgli che a-
vrebbe preferito rimanere seduta, che magari poteva portarle qualcosa da
bere, ma vide che lui si allontanava da lei, che si allontanava dalla ragazza
magra con i capelli biondi tagliati corti dall'altra parte della panca. La ra-
gazza aveva qualcosa da dirle e improvvisamente Barbara si sentì al mas-
simo della depressione: ecco un'altra traccia, un'altra pista falsa, un'altra
mossa nel gioco interminabile che non avrebbe mai vinto.
Allora la ragazza la guardò dritta negli occhi. « Ciao, mamma », le disse.

Capitolo 35
Gli aerei si levavano silenziosi con il loro corpo massiccio. Si facevano
più piccoli per poi fondersi con le nuvole. Giù nella sala dell'aeroporto, i
viaggiatori si affannavano avanti e indietro in cerca di amici o di informa-
zioni, ma finalmente Barbara poteva rimanere seduta immobile. La coca-
cola aveva placato la sua sete, il rum aveva attutito la caotica realtà dell'ae-
roporto abbastanza da poterle far credere che il suo sogno si era realizzato.
Sulle prime pensò che si trattasse di un trucco. Questa giovane donna
così sicura di sé, con i capelli come un cespo di paglia, non poteva essere
Angela, non poteva essere la bambina che aveva avuto tanto bisogno della
sua mamma. Ma il viso somigliava a quello di Barbara, era troppo simile
allo schizzo che aveva potuto vedere per un attimo dopo la morte di Mar-
gery. La giovane si era alzata dalla panchina di plastica, con quegli occhi
blu profondo che fissavano Barbara, e Barbara aveva visto la voglia viola-
cea sulla spalla destra nuda. Si era alzata a sua volta e aveva stretto a sé
Angela, piangendo.
Ora Angela le sorrideva pacatamente dall'altra parte del tavolino al bar
dell'aeroporto, rassicurandola che la sua agitazione era naturale, che con il
tempo sarebbe andato tutto bene. Non c'era da stupirsi che Barbara si sen-
tisse a disagio: aveva perso una bambina di quattro anni e ritrovava un'ado-
lescente che dimostrava più della sua età. Probabilmente durante la ricerca
non aveva mai creduto fino in fondo che si sarebbero riviste. Per quanto
inquietante fosse l'aspetto maturo di Angela, esso era anche rassicurante,
poiché significava che era sopravvissuta agli ultimi nove anni.
Improvvisamente sorrise ad Angela. Certo, ora si mostrava sicura perché
era insieme con sua madre. Certo, non aveva un tono così sicuro quando
era nelle mani della setta, quando non aveva idea di cosa poteva capitarle.
Ma questo ricordava a Barbara le domande che voleva farle, per quanto
ansiosa fosse di non turbare la ragazza.
Le prese la mano per ancorarla a sé nel presente. « Come hai fatto a
scappare? Quando sono andata all'indirizzo che mi ha dato Ted » (comin-
ciava a rendersi conto di quante erano le cose a cui non avrebbe dovuto al-
ludere, almeno per molto tempo ancora) « la casa era deserta. »
« Quando ho saputo che avevano deciso di trasferirsi ancora gli ho tele-
fonato. Non ho fatto altro che uscire appena l'ho visto. Poi siamo venuti
qui e ti abbiamo aspettato. »
Le indagini della polizia dovevano aver reso i suoi rapitori meno accorti.
Se è così, pensò Barbara, avrei dovuto avvertire la polizia mesi fa. La fine
della sua ricerca si dimostrava quasi banale: Angela pareva non rendersi
conto del pericolo che aveva corso, del terrore che la madre aveva provato
per lei. Tanto meglio così, ma il pensiero della setta metteva Barbara in a-
gitazione. « Non sai dove sono andati? »
Angela si strinse nelle spalle. « Ormai saranno molto lontani. »
Come faceva a saperlo? Improvvisamente Barbara si sentì nervosa più di
quanto fosse mai stata. Erano circondati da estranei, ognuno di loro poteva
essere lì a spiarle. Se erano in attesa dell'occasione buona per riprendersi
Angela probabilmente la ragazza li avrebbe riconosciuti; ma se non li no-
tava in tempo? Quelle donne sedute al tavolo vicino all'uscita, non erano
vestite in maniera troppo dimessa per viaggiare in aereo? Quell'uomo gros-
so di fronte a Barbara stava guardando Angela di sottecchi solo perché so-
spettava che non avesse l'età per entrare nel bar? « È meglio che ci muo-
viamo », disse Barbara d'un tratto. « Adesso mi sento bene. »
Ed effettivamente si sentì bene, quando Ted si alzò in piedi. Lui sarebbe
stato in grado di affrontare chiunque tentasse di portargli via Angela. An-
gela era al sicuro tra lui e la madre. Quando la folla ai piedi della scala
mobile si fu chiusa attorno a loro, Barbara si mise all'erta, ma non aveva
paura.
Ted fece strada fino alla macchina, che era parcheggiata vicino all'edifi-
cio. « Ti dispiace guidare tu fino a Londra? » disse Barbara. « Non credo
di sentirmela in questo momento. »
« Non mi dispiace affatto. » La guardò senza espressione. « Anzi, ci ten-
go. »
Passarono per Glasgow a ritirare il bagaglio, poi Ted insisté perché
mangiassero qualcosa prima di iniziare il lungo viaggio verso casa. Trova-
rono un posto che vendeva hamburger di fronte alla stazione ferroviaria e a
Barbara tornò in mente la sera in cui avevano inseguito la donna dal viso
storto. La setta era proprio a Glasgow, nonostante quello che le aveva detto
Ted, ma ora non aveva più importanza. Si sentì al sicuro dentro il ristoran-
te, dove non c'erano finestre che dessero sulla strada. Doris Day e Marilyn
Monroe, giovanissime, risplendevano sulla parete. Angela prese il suo
hamburger con le due mani e Barbara provò un impeto di amore alla vista
della sua bambina.
Quando raggiunsero l'autostrada a Carlisle erano quasi le quattro. Final-
mente Barbara fu in grado di accorgersi che l'autunno era cominciato; il
sole era una macchia di luce sopra gli alberi color ruggine, le foglie fru-
sciavano sotto le ruote della macchina. Lei sedeva dietro insieme con An-
gela, mentre Ted guidava e manovrava la radio dell'auto. Avvertiva il con-
tinuo desiderio di attirare Angela a sé, di stringerla, ma sentiva che la ra-
gazza non era ancora pronta a concedersi. Era normale che fossero come
estranee dopo nove anni, e inoltre adesso Angela si trovava improvvisa-
mente in un mondo diverso. Dopo nove anni di segregazione, forse trovava
la libertà perfino inquietante.
Per un po' Barbara si limitò a rimanere seduta in silenzio accanto a lei.
Era come un assaggio della tranquillità che avrebbero condiviso. File ordi-
nate di pini si avvicendavano all'orizzonte, qualche macchina filava lungo
l'autostrada. Ted aveva trovato una stazione locale che mandava in onda
canzoni americane. Poi fu trasmesso il notiziario: i treni da Londra risenti-
vano delle conseguenze di uno sciopero, c'erano banchi di nebbia sulla M6
tra Penrith e Kendal, un tratto dell'Inner Ring Road era temporaneamente
interrotto, una casa era stata distrutta da un'esplosione e la polizia riteneva
che la causa fosse stata una fuga di gas. « Dio mio, sono stata io », escla-
mò lei. « È quella casa. »
Quando Angela fece un fugace sorriso Barbara si pentì di averlo detto.
Anche se la casa e il suo influsso erano stati distrutti, e anche se questo
l'aiutava a dimenticare, non era un buon motivo per ricordare ad Angela la
vita che vi aveva condotto. Certamente Angela aveva altre memorie.
« Ti ricordi la nostra casa di Otford? C'era un ruscello che ti piaceva tan-
to, oltre il prato dell'Archbishop's Palace. E le ochette nello stagno ti face-
vano sempre ridere. » Le stava parlando come a una bambina, ma non sa-
peva come altro parlare: doveva ancora abituarsi al fatto che la figlia non
aveva più quattro anni.
Ma Angela le stava rispondendo. « Qualcosa me la ricordo. Zia Jan abi-
tava alla porta a fianco. Tu mi lasciavi con lei. » Per un attimo Barbara
pensò che stesse per parlare del rapimento, forse per accusarla, ma Angela
continuò: « E mi ascoltavi dall'intercom quando io ero in camera mia ».
« È vero. » Improvvisamente ricordò quello che le sentiva dire. « Ti ri-
cordi di tuo padre? » mormorò.
« E come faccio? » Aveva un tono aspro. « Lui se n'era andato. »
Era un modo infantile di dire che era morto prima che lei nascesse, o in-
tendeva qualcos'altro? Barbara non volle chiederlo. « Sembra tanto tempo
fa, Otford. Quasi un'altra vita », disse, sforzandosi di rivolgersi a lei come
a una sua pari. « Ho fatto strada, da allora. Mi sta andando piuttosto bene.
Solo che finora non avevo nessuno con cui dividere il mio successo. »
Angela rispose alla stretta della sua mano, ma Barbara si sentiva imba-
razzata: con Ted presente le pareva di dire delle banalità, e forse quelle ba-
nalità finivano anche per tradire il vago sogno segreto di dividere con lui la
sua vita — sì, forse aveva sognato anche quello. Ma lui pareva così assorto
nella guida da non sentire neppure.
Alle quattro e mezzo sulle creste rocciose del Lakeland scese la nebbia.
Ted aveva spento la radio; l'unico suono che si sentiva era il ronzio del
motore. Quando il soffice grigiore si strinse alla macchina, Barbara risentì
le pareti gonfie della casa che la attorniavano. Aveva bisogno di dormire,
ecco tutto. Ora che aveva Angela poteva addormentarsi, tanto c'era Ted a
tenerla d'occhio.
Quando raggiunsero lo svincolo di Kendal, la nebbia si diradò. Ted ac-
celerò superando alcuni autostoppisti che inalberavano dei cartelli con su
scritto Glasgow.
In gran parte erano adolescenti — Barbara si chiese angosciata se la set-
ta avesse mai rapito degli autostoppisti — ma uno degli uomini era note-
volmente più anziano. Per un momento la sfiorò l'idea che fosse Arthur,
finché vide la sua faccia.
Dopo Kendal il paesaggio si fece più piatto. La strada sempre uguale pa-
reva il disegno di un videogame ed era altrettanto irreale. La sensazione di
aver visto Arthur la fece sentire improvvisamente spossata, ma cercò di
rimanere sveglia. « Senti », propose ad Angela, « ti piacerebbe fare una
vacanza? Avevo intenzione di andare in Italia, quest'anno, e credo che lo
farò, per festeggiare. Devo vendere un libro per uno dei miei autori, ma
appena fatto possiamo andare. »
Le venne in mente Ted. « Oh, Ted, non ti ho detto la bella notizia! Ho
trovato un acquirente per il tuo romanzo. Lo capisci perché ho dimenticato
di dirtelo, no? Cathy Danieli ti scriverà. »
« Bene. » Pareva avesse a stento registrato la notizia. Davvero, doveva
proprio cercare di dormire, le pareva di stare in macchina con una coppia
di estranei. Certo, Angela sarebbe stata un'estranea ancora per un po', ed
evidentemente Ted si stava adeguando alla situazione. Eppure quella sen-
sazione la metteva a disagio, e la cosa migliore che potesse fare era dormi-
re.
La svegliò il rombo del camion. Era circondata da camion e cemento. Il
frastuono la avviluppava, le soffocava la mente. La casa era andata distrut-
ta, ma il suo potere no. Li aveva riportati lì, dentro la gabbia di cemento.
Poi vide che non era affatto l'Inner Ring Road. Era l'autostrada all'altez-
za di Birmingham, nel mezzo di un groviglio di strade. Si rilassò, anche se
sentiva il cuore batterle all'impazzata, poi si rese conto che Ted aveva pre-
so la corsia sbagliata. Li stava portando a Birmingham.
Quando lo avvertì dell'errore lui lanciò un'occhiata feroce attraverso lo
specchietto. Doveva essere indirizzata al traffico dietro di loro, non a lei.
Chiaramente, stava guidando da quattro ore senza un'interruzione, e chi sa
da quanto tempo era sveglio, se aveva raggiunto anche la casa di Glasgow
prima di andare a prendere lei all'aeroporto. Avrebbe voluto offrirgli il
cambio alla guida, ma si sentiva ancora molto assonnata.
Quando si avvicinarono al grill dell'autostrada a Corley lei insistette per-
ché si fermassero. Il lungo locale era pieno di famiglie, con i bambini che
giocherellavano con il cibo e piagnucolavano. Il sonno non le aveva fatto
bene: tutti quelli che entravano la rendevano nervosa, anche quando i nuo-
vi arrivati erano dei gruppi familiari: dopo tutto anche quelli della setta a-
vevano figli.
Non avrebbe dovuto sentirsi tranquilla ora che era con Angela? Ma dopo
nove anni di prigionia non c'era da stupirsi che la ragazza non irraggiasse
più pace. Forse aveva ancora i suoi poteri, forse sarebbero riapparsi con il
tempo. Pazienza, non faceva sentire in pace sua madre. Ma Barbara dove-
va stare molto attenta, perché ora aveva delle allucinazioni. Sulla soglia del
locale era apparso Arthur, e le faceva segno con urgenza di avvicinarsi, ma
ovviamente quando guardò meglio non era Arthur.
Quando lasciarono l'autogrill si stava facendo buio. Ted le era parso ri-
luttante a proseguire. Quando gli chiese se ce la faceva a guidare ancora lui
scattò: « Sì, certamente ». Si chiese se la sua irritazione potesse dipendere
in parte dal fatto che si sentiva escluso dal ricongiungimento.
Negli ultimi centocinquanta chilometri fino a Londra il paesaggio si fece
più morbido, confuso e grigio. I campi si trasformavano in rapidi schizzi
fatti di nebbia, i cespugli ai margini dell'autostrada erano cumuli informi
che fremevano nel vento, l'orizzonte incombeva. Le lame gemelle dei fari
sciabolavano senza posa. Una roulotte con le luci spente oscillò accanto al-
la macchina e Barbara credette di vedere una faccia schiacciata contro il
finestrino posteriore. Le facce, in ogni macchina che li sorpassava, pareva-
no fissarla. Doveva avere le allucinazioni, le pareva di vedere, dietro i ce-
spugli al lato della strada, una figura magra che saltellava alla stessa velo-
cità della macchina, spuntando a scatti con la testa grigia dal fogliame.
Raggiunsero Hendon verso le dieci. Ted pareva avere difficoltà a trovare
la strada per Londra; a un certo punto si rimise sull'autostrada, finché vide
che le due donne lo guardavano fisso. Barbara insisté perché rimanesse
con loro per la notte e lui parve incapace di opporsi. Voleva che lui fosse lì
nell'eventualità che la setta tentasse qualche colpo. All'indomani ci avrebbe
pensato il giorno dopo.
Prima di raggiungere St. John's Wood dovettero fermarsi spesso ai se-
mafori. Barbara continuava a controllare che le portiere dell'auto fossero
chiuse per bene. Se qualcuno le avesse spalancate e avesse afferrato Ange-
la mentre erano fermi a un semaforo! Su Euston Road alcuni pedoni attra-
versarono davanti alla macchina, facendola irrigidire ancora di più. Anche
quell'uomo dalla faccia triste che assomigliava ad Arthur la spaventò. Sa-
rebbe stato così il resto della sua vita con Angela?
Neppure il Barbican sembrava sicuro. Il garage sotterraneo pareva molto
buio, gli angoli oscuri e intasati. Erano solo i tubi al neon tremolanti che
facevano apparire inquieto il buio degli angoli. Però il soffitto pareva più
basso che mai. Barbara si trovò circondata da automobili e furgoni, ognu-
no dei quali poteva nascondere un'imboscata.
Ted stava tirando fuori le sue valigie. Barbara disse ad Angela di rima-
nere con lui mentre lei andava avanti ad aprire la porta di casa. Questo le
permise di passare in fretta tra le file di veicoli parcheggiati e di accertarsi
che non c'era nessuno a spiare. Salì gli scalini fino alla galleria e si accorse
che era ancora agitata. Lunghe dita nere spuntavano dal salice verso la
chiesa, il vento mormorava sotto i tozzi pilastri di cemento. La sua ombra
la seguiva dal parcheggio e pareva immergersi in tutte le zone più buie.
Certo era solo la sua ombra.
Non ho motivo di essere nervosa ora, si disse. Angela era al sicuro con
Ted e non c'era ragione per cui la setta potesse volere Barbara. Eppure, so-
lo quando arrivò all'appartamento si sentì sollevata. La chiave era già nella
sua mano. Aprì in fretta la porta e accese la luce.
Ecco finalmente qualcosa di familiare — il tappeto verde scuro, la tap-
pezzeria discreta, la litografia di Escher che ribaltava la prospettiva rove-
sciandola dall'esterno all'interno, perfino l'odore del suo profumo, anche se
non si era mai resa conto che potesse essere così persistente — ma la pri-
ma cosa che notò fu la lettera sulla soglia. Richiuse la porta e si incammi-
nò per il corridoio con la lettera in mano.
Proveniva da Hemel Hempstead. L'intestazione della Kodak era sbarrata
sulla busta. Tra un minuto avrebbe visto che notizie avevano per lei i geni-
tori di Iris, ma prima voleva uscire dal corridoio, che le pareva più stretto
del solito. Doveva essere l'effetto dell'esperienza che aveva vissuto a Gla-
sgow. Sperò che svanisse appena avesse acceso tutte le luci.
Accese il lampadario centrale del soggiorno e si fece avanti, infilando
un'unghia sotto il lembo incollato della busta. Ted doveva aver rovesciato
una bottiglia di profumo nella fretta di prenderle il bagaglio per New York,
perché l'odore era soffocante. Fece alcuni passi prima di alzare lo sguardo
per vedere cos'altro ci fosse che non andava.
La lettera le cadde immediatamente di mano, ma ebbe la sensazione che
impiegasse qualche secondo prima di toccare terra. Era come se il suo choc
l'avesse rallentata, congelandola in volo come aveva congelato i suoi pen-
sieri. Libri e dischi erano tutti sparsi per il pavimento. Tutti i mobili erano
stati spostati e sembravano pesantemente insozzati. L'album delle fotogra-
fie era sul tappeto davanti a lei. Quasi tutte le foto erano state strappate via.
Stava raggiungendo disperatamente l'interruttore della luce quando due
bambini, un maschio e una femmina sugli otto anni, vennero fuori da die-
tro le librerie. Rimasero a guardarla con gli occhi che brillavano, mentre il
braccio di un uomo le stringeva con forza la gola.
Quando la vista cominciò ad annebbiarsi, sentì che la presa allentava.
Evidentemente la volevano viva. Ora li vedeva tutti, una ventina e più, che
uscivano dalle altre stanze. Quando vide la donna dal viso storto cominciò
a divincolarsi selvaggiamente, ma inutilmente. E così avevano trovato un
altro nascondiglio. Si chiese sfinita se i loro poteri gli permettessero anche
di aprire le porte senza chiave.
Si sforzò di mostrarsi rilassata, per quanto possibile, così che la lascias-
sero respirare. Anche se l'appartamento era impregnato del suo profumo,
riuscì ugualmente a sentire l'odore dell'uomo che la teneva, un odore di su-
dore stantio e di hascisc. Probabilmente sapeva che l'appartamento era iso-
lato acusticamente, perché la presa si era allentata tanto da lasciarla libera
di gridare se voleva. Questa era la sua occasione. Non appena la porta si
fosse aperta si sarebbe messa a gridare a Ted e ad Angela di fuggire. Non
doveva pensare a quello che la setta poteva farle, purché Angela si salvas-
se.
Quando sentirono la chiave nella serratura, uno degli uomini si spostò
mettendosi dietro la porta. La chiave esitò un momento, poi la porta si
mosse. Il braccio le strinse immediatamente la gola e non le fu possibile
emettere neppure un suono.
Ma l'uomo che la teneva aveva calcolato male. Se ne rese conto anche se
la vista le si stava oscurando. La teneva in modo fosse visibile anche in
fondo al corridoio. Ted l'avrebbe vista subito. Forse sarebbe riuscita a dir-
gli con gli occhi di mettere Angela in salvo, di non far correre rischi ad
Angela per salvare lei.
Quando la porta si aprì, Angela era sulla soglia. Ted appariva dietro di
lei, il viso inespressivo. Tutti e due entrarono in fretta. Quando Ted chiuse
sbattendo la porta, Angela vide la madre e gli altri. Gli occhi le si allarga-
rono e il loro potere fu improvvisamente così intenso da far star male. Sor-
rise trionfante, vincitrice di una lunga gara. « Meglio imbavagliarla prima
di portarla giù », disse.

Capitolo 36

Un sobbalzo improvviso scaraventò Barbara contro la fiancata del fur-


gone. Riuscì a rimettersi dritta, annaspando con le mani legate dietro la
schiena, la spalla destra che le pulsava, in modo da poter guardare dal fine-
strino posteriore. L'odore della polvere le penetrava nelle narici, sentiva il
sapore della carta e dell'inchiostro della lettera che le avevano ficcato in
bocca. Sentì che stava per vomitare. Forse questo avrebbe spostato il ba-
vaglio.
Il furgone attraversava veloce la zona del porto. Magazzini anonimi in-
combevano lungo le strade deserte, una pioggia di luce calava dai freddi
lampioni. Forse la setta cercava un posto isolato come quello? Raddoppiò
gli sforzi per spezzare la corda che la legava. Doveva liberarsi prima che il
furgone si fermasse, prima che venissero a prenderla.
Ma i suoi sforzi non davano nessun risultato apprezzabile. I legacci che
le stringevano polsi e caviglie, fragili all'apparenza, erano solidissimi. Non
aveva molto spazio per divincolarsi: valigie e bauli occupavano quasi tutto
il retro del furgone, dandole un senso di soffocamento. Anche se fosse riu-
scita a liberarsi, c'era dietro un altro furgone che li seguiva: non sarebbe
mai riuscita ad aprire la portiera senza farsi vedere. Ciononostante conti-
nuò a lottare, cercò di separare a forza i polsi senza badare ai nodi che le
penetravano nella carne. Doveva continuare a tentare finché c'era una pos-
sibilità di salvare Angela.
Ma ce n'erano ancora di possibilità, se Barbara si era già tanto sbagliata
su di lei, sulla sua iniziazione? Evidentemente non era qualcosa che co-
minciasse a un tratto quando i ragazzi compivano i tredici anni; quello era
solo il momento in cui la cosa veniva completata. Evidentemente l'inizia-
zione di Angela era incominciata non appena l'avevano catturata.
E il suo gioco con la madre, quell'attirarla da un posto all'altro, faceva
parte dell'iniziazione. Forse Angela avrebbe continuato a giocare con lei,
confondendola e sfibrandola prima che fosse uccisa, se la setta non fosse
stata costretta a lasciare alla svelta Glasgow. Ora che l'avevano catturata,
in che consisteva il resto dell'iniziazione?
Non doveva pensarci. Soprattutto non doveva ripensare allo sguardo di
odio che aveva visto negli occhi di Angela. Era stata la setta a indurre
quell'odio in Angela. Chissà di cosa l'avevano convinta — forse che Bar-
bara le aveva portato via il padre, a giudicare dal commento amaro che a-
veva fatto in macchina. Senza dubbio l'avevano messa contro la madre, ma
per il momento la cosa più importante era ricordare che avevano bisogno
di corromperla completamente. Questo non voleva forse dire che finché
l'iniziazione non fosse stata completata poteva sempre essere salvata?
Forse sì, ma quando Barbara ricordò i suoi occhi, le parve che non ci
fosse scopo a tentare. La medium aveva avuto ragione, nove anni prima:
Angela aveva un grande potere. Ma ora quel potere si era pervertito, al
servizio dei senzanome, al punto da essere irriconoscibile. Nessuna mera-
viglia che Ted fosse un burattino in mano loro — probabilmente lo era fin
dal giorno in cui era scomparso a Glasgow — anche se una delle cose peg-
giori era stata il suo sguardo di indifferenza mentre le legava i polsi.
Angela appariva molto peggio: al di là dell'indifferenza. Quando i loro
occhi si erano incontrati, Barbara si era sentita distrutta, inutile, con nessun
significato che quello della vittima da sacrificare. Gli occhi di Angela ap-
parivano di un azzurro innaturale, come inquinati. Il loro sguardo era rima-
sto immobile sulla madre mentre la legavano e la imbavagliavano. Era
grazie ad Angela che la setta era prossima al suo scopo? Poteva essere il
suo potere quello che la setta attendeva?
Barbara non poteva pensare a questo, l'avrebbe portata alla disperazione.
Le braccia le si erano gonfiate e tremavano mentre tentava di allentare i
nodi ai polsi, i malleoli strofinavano l'uno contro l'altro mentre strisciava le
caviglie avanti e indietro. Doveva riuscire a far cedere i legami di un cen-
timetro, anche di mezzo, per avere quella spinta in più di forza di cui aveva
bisogno.
Ormai il furgone si era lasciato Londra alle spalle. Non ci fu altro che la
strada per miglia, tranne qualche fabbrica lontana illuminata dai fanali ol-
tre i campi bui. I camion passavano vicini, animando con i fari le ombre tra
i bauli che ingombravano il furgone. Tra due dei bauli era buttato un sac-
co, o un cappotto.
Sarebbe riuscita ad attirare l'attenzione di un camionista? Cercò di stri-
sciare verso le portiere posteriori, per poter schiacciare il viso contro il fi-
nestrino, ma un cumulo di valigie le bloccava la strada. Si sforzò di mon-
tarci sopra — non importava se fosse caduta — ma era impossibile. In o-
gni caso l'uomo al volante del furgone di dietro l'avrebbe vista prima di
qualsiasi camionista. Tra i bauli vicini allo sportello, il sacco o il cappotto
aveva il brutto aspetto di una piccola figura dalla testa ciondolante.
Cercò tra i bagagli come meglio poté, alla ricerca di un bordo metallico
con cui potesse tagliare le corde. Niente, evidentemente i rapitori si erano
assicurati che non ce ne fosse nessuno. Le ombre si agitavano tra i bauli
ogni volta che passava un camion. Il furgone pareva farsi sempre più pic-
colo e polveroso; si sentiva un odore aspro e secco. Quando i fari passava-
no accanto al furgone, la forma tra i bauli pareva annuire verso di lei, sol-
levando una specie di faccia scavata.
Improvvisamente il furgone si staccò dai camion con un sobbalzo, im-
mettendosi su una strada non illuminata. Barbara fu gettata a corpo morto
sul mucchio delle valigie, una delle quali si aprì di scatto. Ora l'unica luce
era quella proveniente dal furgone di dietro, una coppia di macchie fioche
che traballavano sul soffitto lasciando il resto dell'interno al buio. Un altro
scossone la ributtò contro la parete. Sentì qualcosa cadere con un tonfo
dalla valigia aperta e rotolare fino alla sua coscia.
Contorcendosi riuscì a toccare l'oggetto con una mano. Forse era un so-
prammobile, qualcosa di fragile, visto che era avvolto in un pezzo di stof-
fa, che pareva incrostato di sporco. In qualche punto era morbido, o era la
stoffa? Forse era una qualche specie di contenitore. Ma perché quell'odore
di terra che mandava doveva essere di per sé così orribile? Barbara si di-
vincolò con violenza finché non riuscì a mandare con un calcio l'oggetto
avvolto dall'altra parte del furgone.
Quando il veicolo si fermò, per lei fu quasi un sollievo. Poi i fari del
furgone di dietro si spensero e il sollievo svanì. Era sola al buio con quegli
odori di terra e di polvere, con un impercettibile movimento tra lei e la
portiera. Si sentiva soffocare per la carta che aveva in bocca, ma rimase as-
solutamente immobile, come se questo avesse potuto renderla invisibile.
Quando arrivarono a prenderla stava tremando dallo sforzo o dalla paura.
In un primo momento le parve che non ci fosse niente, fuori dal furgone,
solo il buio attraversato dal sibilo del vento. Quando gli occhi si abituaro-
no all'oscurità vide che si trovavano sulla riva di un piccolo fiume che pre-
sumibilmente finiva nel Tamigi. Tutt'attorno a lei la palude scintillava sot-
to un cielo che baluginava come di nebbia. Quelle macchie all'orizzonte
potevano essere colline o nuvole. I cumuli di oscurità più vicini al fiume
erano case, forse abbandonate; tutte le finestre erano buie.
Angela arrivò dove due degli uomini tenevano Barbara. Fissò la madre
per un po'. La sua faccia nell'ombra era incomprensibile, come nebbia, ma
i suoi occhi scintillavano. Alla fine il suo sguardo oltrepassò Barbara, po-
sandosi sul furgone in cui era stata rinchiusa. Barbara non riuscì a capire
perché i due uomini si fossero irrigiditi, stringendola più forte, finché sentì
qualcosa che veniva fuori dal veicolo.
Ted lo vide prima di lei. Per un momento la sua faccia si contrasse,
sgomenta, poi tornò inespressiva. In un attimo la forma nana era arrivata
saltellando fino ad Angela. Nel buio la si sarebbe potuta prendere per un
bambino, non fosse stato per quella testa malferma sproporzionatamente
piccola, per quella pelle cascante. Lasciò cadere l'oggetto avvolto che odo-
rava di terra ai piedi di Barbara. Quando il pacco si aprì, Barbara chiuse gli
occhi.
« Pensavo che dovessi vederla », disse Angela. « Apparteneva alla tua
amica Gerry Martin. »
Barbara aspettò il più a lungo possibile prima di aprire gli occhi, ma
quando li aprì Angela teneva ancora l'oggetto per i capelli perché lei lo ve-
desse. Non era spaventoso come aveva temuto: era così incompleto che
poté fingere che fosse irriconoscibile. Anche così, dovette distogliere lo
sguardo, strozzata dal tampone di carta.
« Non importa », disse Angela, scrollando le spalle. « Sarai anche tu così
quando avremo finito. Solo che nel tuo caso ci metteremo più tempo. »
Porse l'oggetto alla cosa nana, che sgusciò via subito, verso la palude.
Barbara non sapeva più reagire. L'unica cosa che riuscì a pensare fu che
tutti si erano ritratti davanti alla cosa — tutti tranne Angela.

Capitolo 37

Quando i bauli e le valigie furono scaricati, i furgoni si allontanarono nel


buio. Svanito il rombo dei motori, non si sentì più alcun rumore oltre quel-
lo delle erbe della palude che si agitavano al vento. Anche i bambini erano
silenziosi, i bambini con addosso l'odore soffocante del profumo di Barba-
ra.
Se fosse riuscita a spostare il bavaglio le sue grida di aiuto si sarebbero
sentite fino a molto lontano. Certo avrebbero svegliato qualcuno nelle case
vicine, se mai quelle case fossero state abitate. Stava cercando senza farsi
accorgere di spingere in avanti quel tappo di carta che aveva in bocca, ma
questo era fissato solidamente contro il palato. Se lo avesse spinto via più
violentemente, i suoi rapitori se ne sarebbero accorti; dovevano essere in
grado di vedere la sua faccia, ora che lei riusciva a vedere le loro — la
donna con il viso storto, un uomo grosso con i capelli a spazzola, una don-
netta tarchiata con un sorrisetto fisso, un uomo dalle labbra spesse con la
lingua che continuava a venir fuori guizzando. Tutti sembravano imbaraz-
zati dalla sua presenza come vittima ed evitavano di guardarla. Certamente
quando fosse venuto il momento di torturarla si sarebbero mostrati molto
più entusiasti.
Le pareva che fossero passate delle ore da quando aveva cominciato a
lottare con il bavaglio. Era impossibile valutare il trascorrere del tempo
sotto quel cielo così basso. L'inchiostro aveva un sapore amarissimo. I suoi
guardiani parevano del tutto indifferenti a dove si trovavano, al vento geli-
do e alla desolazione. Senza dubbio questo era uno degli effetti della con-
vinzione di essere solo strumenti, rispetto a ciò che stavano facendo. A-
vrebbe dovuto credere anche lei che Angela fosse solo uno strumento —
incapace di comprendere quello che faceva — ma purtroppo le era impos-
sibile.
Prima che fosse riuscita a smuovere il bavaglio, gli autisti dei furgoni fu-
rono di ritorno. Gli uomini della setta raccolsero i bagagli e seguirono in
silenzio Barbara verso il fiume. Sembrava banale come un incubo, la paro-
dia di una gita domenicale che non osasse aver luogo alla luce del giorno.
C'era perfino una coppia di vecchietti curvi, perché la scena somigliasse
ancor più a una scampagnata in famiglia. Chiudeva la processione un uo-
mo che non portava nessun bagaglio. Barbara non riuscì a distinguere fa
faccia.
Uno dei rapitori le aveva sciolto le gambe. I due uomini le camminavano
a fianco ai lati del sentiero, in mezzo all'erba. Era già a metà strada quando
si rese conto che il corteo si stava dirigendo verso le case. Se la setta in-
tendeva nascondersi in uno di quegli edifici, certamente i vicini li avrebbe-
ro sentiti.
Angela guidò la fila in uno dei lunghi giardini, dove il fiume scintillava
sotto un rozzo ponte. La fila andò direttamente oltre il bungalow e Barbara
vide che in fondo al giardino era ormeggiata una barca a motore, accanto a
un piccolo pontile. Cercò di gridare, ma l'unico suono che emise fu un ver-
so soffocato.
La metà del bagaglio era già stata trasferita a bordo quando nel bunga-
low si accese una luce. Barbara si tese come una molla, pur fingendo di es-
sere inerte e disperata. Quasi immediatamente il portico posteriore si acce-
se. La porta si spalancò e un uomo corpulento si affacciò a fissare la gente
raccolta nel suo giardino.
Lei riuscì a divincolarsi da una delle sue guardie e a fare un passo incer-
to verso il proprietario della casa, ma non servì a nulla. Quando ebbe visto
le persone che aspettavano nel buio, spense la luce del portico e si avviò
alla barca, vi salì e si mise ad aspettarli nella cabina. Barbara avrebbe do-
vuto notarlo, che era vestito per una traversata.
Sul ponte c'era appena spazio sufficiente per tutti. I bambini, i due che
aveva visto nel suo appartamento più una bambina, sui sei anni, furono
mandati nella cabina di pilotaggio. Obbedirono immediatamente, e si mi-
sero a sedere a terra, contro la parete della cabina aperta. Quando Barbara
fu spinta sul ponte in mezzo al gruppo, la barca oscillò paurosamente. Non
avrebbe potuto sentirsi più vulnerabile di così.
Non appena furono tutti a bordo, l'imbarcazione si staccò dal pontile con
un ruggito. Certo il rumore avrebbe svegliato qualcuno nelle case — ma le
case ormai si allontanavano, ed erano sempre buie. Le facce dei suoi rapi-
tori erano illuminate, ora, verdi verso tribordo, rosse a babordo. Grazie al
riflesso dei quadranti verso tribordo nella cabina di guida ora poteva vede-
re con chiarezza alcuni di loro. C'erano Angela e Ted, che la guardavano
senza emozioni, un giovane con una tonsura che le parve di aver già visto,
una ragazza con i capelli che parevano un cappello di catrame. Alcuni di
loro cominciarono a fissarla con avidità, ora che erano in viaggio.
Ben presto le case sparirono nella palude. C'era solo la piatta terra sen-
z'alberi, interrotta dalle ampie strisce più scure dei canali. Sopra l'orizzon-
te, verso il Mare del Nord, le nubi avevano il colore della cenere. Qua e là
qualche chiazza pallida si agitava, si allontanava acquattandosi tra l'erba.
Erano, quelli, i soli segni di vita.
Quando la barca raggiunse la scogliera, Barbara cominciò a tremare. Al
di là delle paludi saline e delle insenature seminascoste, il Tamigi condu-
ceva verso il mare aperto. Era lì che la barca si stava dirigendo. I senza-
nome erano diretti verso un altro paese? Come potevano pensare di fare la
traversata, ammassati in quella barchetta? Forse dovevano incontrare una
nave, o forse non gli importava neppure dove andavano, ora che erano vi-
cini alla loro meta.
E lei era la vittima che li avrebbe messi in grado di raggiungerla, final-
mente, quella meta. Mentre la barca si immetteva nel Tamigi, la sua lingua
lottava sempre più violentemente, graffiandosi sui denti. A distanza di mi-
glia, lungo la riva, dove le fiamme arancioni danzavano sopra la desola-
zione metallica di una raffineria di petrolio, si raccoglievano delle navi ci-
sterna. Anche se fosse riuscita a lanciare un grido, non lo avrebbero mai
sentito al di sopra del rumore del motore, e comunque la barca si stava al-
lontanando dalla riva.
La lingua scivolò, gonfiò la guancia, e Angela vide cosa stava facendo.
Quando si fece avanti, Barbara si strinse in se stessa, sgomenta di aver
paura di sua figlia. Ma Angela le ficcò due dita in bocca con disprezzo e ti-
rò fuori la carta. Sua madre poteva gridare forte quanto voleva, in quell'e-
norme deserto.
Dapprima Barbara non osò parlare. Non conosceva più Angela, non a-
veva idea di come entrare in contatto con lei, aveva paura di provare. Ma
doveva provare. « Grazie, Angela », disse con voce incerta.
Angela si stava già volgendo altrove e non le concesse neppure un'oc-
chiata. Forse non riconosceva più il suo nome. Barbara non riuscì a sop-
portare la sua indifferenza. « Angela, ascoltami », disse più forte, cercando
di ignorare le sue guardie, che apparivano pronte a chiuderle la bocca.
Quando Angela si fermò, la sua espressione chiarì subito che non era
stato, per le parole di sua madre. Barbara gridava al vento, la sua bocca era
amara per l'inchiostro, ma doveva andare avanti. « Non lo so che cosa ti
hanno detto di me, ma io avrei passato tutta la vita a cercarti, se loro non
mi avessero fatto credere che eri morta. Hanno ucciso una delle loro figlie
per farmelo credere. Non avrei osato sognare che eri ancora viva, fino al
giorno in cui mi hai chiamata. Tu devi saperlo come mi sentivo, anche se
non vuoi che loro lo sappiano. Tu te lo ricordi quanto ti amavo. Te lo ri-
cordi quanto mi amavi. »
Angela appariva irritata e improvvisamente Barbara credette di sapere
perché: a giudicare dalle cose a cui aveva accennato nel viaggio da Gla-
sgow, quello che ricordava con più chiarezza era il fatto che Barbara la la-
sciava per tutto il giorno, l'aveva lasciata per farla rapire dalla setta. Aveva
ragione, ovviamente; aveva tutte le ragioni per odiare sua madre. Qualun-
que cosa le avessero fatto, sarebbe stata una forma di giustizia.
Riuscì a scacciare lo sconforto: c'era un'altra cosa che Angela aveva det-
to in macchina. « Tu credi che io ti abbia portato via tuo padre », disse di-
sperata. « Sono sicura che te lo hanno detto loro, ma non è stato assoluta-
mente così. Sono stati loro a portarti via da lui portandoti via da me. »
Per un attimo Angela mostrò i denti. Era gelosa come solo un bambino
sa esserlo, o incolpava lei anche della morte del padre? Il ponte era scivo-
loso, Barbara si sentiva le gambe intorpidite per essere state legate tanto a
lungo, la barca ondeggiava. Fu certo per queste ragioni che cadde disperata
ai piedi di sua figlia, non perché Angela le avesse lanciato uno sguardo.
Barbara riprese a parlare, angosciata. « Non lo so che cose vogliono che
tu mi faccia, Angela, ma non capisci che questo comunque vuol dire che io
per te significo ancora qualcosa? Loro se ne rendono conto ed è per questo
che hanno cercato di farti sentire il contrario. Altrimenti non sarebbero sta-
ti così ansiosi che tu mi facessi cadere nella tua trappola. »
Angela la guardò, e i suoi occhi erano vuoti come un cielo limpidissimo.
« Non è stata un'idea loro. Ti ho scelto io. Prima abbiamo usato sempre e-
stranei. Questa è l'unica ragione per cui avevo bisogno di te. »
Appariva freddamente razionale, per nulla sulla difensiva. Le stava di-
cendo la semplice verità. Si girò: con sua madre aveva chiarito. Gli altri
fissarono Barbara ed era evidente quanto fossero impazienti di cominciare.
Solo gli occhi di Ted erano inespressivi.
Ma non c'era stato un lampo di pietà nel suo sguardo, quando era cadu-
ta? Certamente si era mostrato spaventato quando quella cosa era uscita dal
furgone. La sua personalità non era completamente distrutta, non avevano
avuto abbastanza tempo. Forse poteva raggiungere quello che era rimasto
di lui, se solo fosse riuscita a incontrare il suo sguardo.
Era sdraiata sulla spalla che le faceva male e sperò che lui la guardasse;
e alla fine la guardò. Si sforzò di sorridere alla persona che era stata un
tempo, alla persona che era ancora da qualche parte dentro di lui, alla mer-
cé del suo corpo di burattino. Cercò di mettere nella sua muta richiesta di
aiuto un'immagine di lui, un'immagine di quello che erano stati l'uno per
l'altra, dei momenti che avevano diviso. Lui oscillava avanti e indietro, ma
la guardava ancora in faccia e una vaga espressione spaventata cominciava
a disegnarsi nei suoi occhi, come se stesse iniziando a svegliarsi, ma con la
paura di farlo. In quel momento la donna tarchiata indicò Barbara, il sorri-
setto trasformato in un ghigno. « Sta cercando di farsi aiutare da lui! »
strillò.
« Ora con lui abbiamo finito. Non riuscirà a nuotare. » Infatti Ted non
sapeva nuotare, ma pareva che Angela intendesse che anche se ne avesse
avuto la capacità, lei gliel'avrebbe tolta. « Ha cercato di imbrogliarmi
quando siamo venuti da Glasgow », disse.
Non appena lo guardò, lui si girò e si diresse verso il parapetto di destra.
Barbara non lo aveva svegliato abbastanza da metterlo in grado di resiste-
re? Evidentemente no, poiché attraversò senza esitazioni il ponte, seguen-
do il varco che gli altri gli facevano. Le loro facce erano verdi per il rifles-
so delle luci di navigazione, e infiammate; la lingua dell'uomo dalle labbra
spesse sgusciava avanti e indietro tra i denti, la donna tarchiata si fregava
le mani. Il loro potere, o il potere che servivano, era più forte.
Barbara poteva sentirlo, adesso, perché si era impadronito di lei come
degli altri. Ted non importava, non significava niente. L'enorme buio di là
dal parapetto lo rendeva completamente insignificante. Lui aveva senso so-
lo come offerta a quel buio, a quello che il buio rappresentava. La corru-
zione di Angela non contava niente. Barbara non aveva significato, tutta la
sua vita non ne aveva. Lei era un'offerta, come tutto il resto del mondo, e
ben presto nient'altro che questo sarebbero stati tutti. Ben presto il potere
sarebbe stato in grado di rivendicare per sé le sue offerte.
La mente di Barbara si ritrasse, poiché aveva avuto un'immagine fugace
della fonte di tutto ciò, che si gonfiava impaziente nella sua tenebra, infini-
tamente lontana e forse infinitamente grande, ma vicinissima come gli a-
bissi della sua mente. Ora la sua coscienza tornò sulla barca, ma non servì.
Ted era vicino al parapetto.
Angela evidentemente gli stava imponendo di fare con calma per diver-
tirsi, o per divertire l'oscuro potere. Dopo tutto Angela non era che uno
strumento del potere, ma Barbara non aveva modo di sfruttare quell'intui-
zione. Anche se era vero, non aveva senso. Solo l'incedere di Ted condu-
ceva verso un senso, e anche allora la sua morte sarebbe stata insoddisfa-
cente, troppo rapida.
Il buio incombeva sopra Ted, pareva chiudersi affamato attorno alla bar-
ca, beffarsi delle luci microscopiche del ponte e della cabina. Ted era al
parapetto e lei sentì il rumore dell'acqua come "un'enorme bocca spalanca-
ta. Era rassegnata alla sua morte, quasi bramosa del suo significato. Ma
qualcuno si stava curvando su di lei, prendendole la spalla come per scuo-
terla dalla sua trance. Era l'uomo di cui non era riuscita a vedere la faccia.
Seppe immediatamente che era Arthur. Non aveva osato credere che fos-
se lì, e aveva avuto ragione a non sperarci: lui non era neppure in grado di
farla alzare in piedi. Quello che poteva fare era solo farle sentire la sua pe-
na per lei, una pena così acuta che irruppe nell'indifferenza e le rese le sue
emozioni. Ora le era possibile di nuovo soffrire vedendo Ted che si avvia-
va a morire, poteva gridare verso di lui, e il suo grido non otteneva niente.
La guardarono tutti con aria vuota mentre Ted si afferrava al parapetto e lo
scavalcava. Quando lei gridò più forte lui non si girò neppure.
Ma si girò Angela, e guardò fisso Barbara. Per la prima volta appariva a
disagio. Forse si stava chiedendo come avesse fatto Barbara a gridare
quando avrebbe dovuto essere ammutolita dal potere — ma no, non era so-
lo questo. Stava guardando in direzione di Barbara, non proprio Barbara.
La sua espressione si fece tirata e ostile. « Va' via », disse.
Parlava con suo padre. Forse sentiva il suo dolore. Sì, lo sentiva, perché
i suoi occhi brillavano malvagi cercando di prenderlo sotto il suo controllo.
Come poteva legarlo con il suo potere se non riusciva neppure a vederlo? «
Lasciami stare », disse gelida, ma lo sguardo esitava; forse stava lottando
per non guardare i suoi ricordi. Stava ricordando i giorni in cui lei e il pa-
dre parlavano in segreto, quando lui aspettava vicino al suo lettino finché
lei non si addormentava? Le stava parlando adesso?
Gli altri la fissavano a disagio. L'oscuro potere sembrava farsi indietro
ora che lei era distratta. Lei oscillava, forse non solo per il movimento del-
la barca. Gli occhi le brillavano ancora, ma stava chiaramente lottando per
liberarsi dall'assalto della pena. « Lasciami stare », grìdò, e ora la sua voce
tremava.
Improvvisamente ci fu un trambusto nella cabina di guida. Ted si era ri-
preso almeno in parte mentre il controllo di Angela si era allentato. Aveva
aggredito l'uomo al timone e lo aveva abbattuto. Accertatosi che l'uomo
era privo di sensi, si era messo al timone e aveva puntato verso la coste del
Kent.
Gli uomini della setta si volsero verso di lui. Era più facile da affrontare
che il comportamento di Angela. « Facciamolo a pezzi », sibilò la donna
tarchiata. Forse sentiva che torturandolo avrebbero fatto tornare il nero po-
tere. Si affollarono dentro la cabina, schiacciando i bambini contro la pare-
te. Le loro mani erano artigli.
Ted cercò di mantenere la presa del timone con la sinistra mentre con
l'altra mano si difendeva. L'uomo dalle labbra spesse indietreggiò al primo
pugno; il labbro inferiore era tumefatto e sanguinava. Ma la barca oscillava
da una parte all'altra, dirigendosi ora verso le navi cisterna ora verso l'altra
costa, e Ted perse l'equilibrio. Improvvisamente una mezza dozzina di loro
gli si attaccarono alle braccia.
La ragazza con i capelli di pece gli piegava all'indietro le dita della ma-
no, tentando di spezzargliele. La donna tarchiata gli aveva afferrato le
gambe e gli mordeva con forza la coscia. Angela guardava i suoi, e d'un
tratto la sua faccia si riempì di disgusto. Per come le tremava la bocca,
Barbara pensò che parte del suo disgusto, forse la gran parte, era rivolto a
se stessa.
Quando la ragazza spalancò gli occhi, gli uomini della setta cominciaro-
no a urlare. Sciamarono fuori dalla cabina come insetti, strappandosi la
carne come se le loro viscere avessero preso una vita loro. Le facce, vol-
tandosi verso le luci rosse, parevano di carne viva, e forse lo erano. Cerca-
vano di aprire il loro corpo per raggiungere quello che li stava torturando.
Alcuni si precipitarono ciecamente in acqua, come per annegare quello che
c'era dentro di loro.
Barbara ricordò che Iris aveva detto che il male era dentro di loro, ma
ora era Angela che provocava tutto ciò. Era come un'infantile dimostrazio-
ne esagerata di pentimento, un'esibizione di disgusto per se stessa, la prova
che aveva ripudiato tutto quello che rappresentava la setta, forse per poter
riconquistare l'affetto del padre. Le sue vittime barcollavano per il ponte
ingombro, inciampando addosso a Barbara. Il giovane con la tonsura si
torturava la faccia, e a Barbara parve di vedere uno dei suoi occhi spinto
via dall'interno. Strinse gli occhi con forza e si raggomitolò in se stessa
finché le urla non furono cessate e la barca parve vuota.
Quando riaprì gli occhi era rimasta sola, con Angela, Ted e i tre bambi-
ni. I bambini erano accoccolati sul pavimento della cabina; apparivano
storditi, incapaci di rendersi conto di quello che stava accadendo. Appena
ebbe slegato i polsi della madre, Angela fece per ritirarsi, disgustata e pie-
na di vergogna. Barbara la prese per le mani e la tenne stretta, nonostante i
tentativi della ragazza di sottrarsi al contatto. Temeva che Angela potesse
buttarsi in acqua per la vergogna.
Ted aveva ripreso il timone. La costa del Kent appariva più vicina, nel-
l'oscurità. I campi inondati scintillavano al di là dei frangiflutti. Sull'oriz-
zonte delle paludi, le fiamme rendevano rosse le nuvole sopra la raffineria
di petrolio. Barbara si chiese dove sarebbero riusciti ad attraccare.
Improvvisamente Ted cominciò a lamentarsi. Pareva così disperato che
Barbara gli andò vicino, portando Angela con sé. Non appena gli fu accan-
to lui lasciò il timone e si accasciò tremando contro la parete della cabina.
« Oh, Cristo », continuava a mormorare incessantemente.
« Va tutto bene, Ted. » Fu lieta di vedere che Angela prendeva il timone,
con l'aria di essere veramente capace di guidare la barca. « Ora è finita. »
« Non va tutto bene. Tu non sai che cosa ho fatto. Sì, lo sai in parte, l'ho
fatto a te. » Quando lei cercò di abbracciarlo, lui si ritrasse di scatto. « Non
devi lasciarti toccare da me! » grìdò.
« Te le hanno fatte fare loro quelle cose. Non potevi farci niente. » La
sua faccia si era fatta inespressiva, come nel tentativo di nascondere qual-
cosa dentro di sé, e lei ebbe paura di vederlo diventare come Iris. « Qua-
lunque cosa tu abbia fatto, puoi dirmela. Non c'è nessun altro a cui puoi
dirlo più che a me. »
Non aveva scampo. « Stavo per portare Judy da loro, solo che loro non
volevano che la polizia si mettesse poi a cercarla », proruppe, girando la
faccia dall'altra parte.
« Ma non lo hai fatto. Non hai fatto niente a cui non possa rimediare.
Ora va tutto bene. »
Tutto d'un tratto la barca si mise a vibrare. Barbara guardò ansiosa An-
gela, finché vide che avevano raggiunto un pontile. Al di là non c'era altro
che il terreno buio e le fiamme lontane, ma aveva un'aria sufficientemente
solida. Angela stava cercando di manovrare la barca in modo da accostare
al piccolo molo. « Ormeggiate voi », disse.
La poppa stava virando verso il pontile. Ted corse d'un tratto in fondo al-
la barca, contento di avere un compito che lo occupasse, e svolse la cima. «
Non ce la fa da solo », disse Angela ansiosamente.
Barbara corse da lui, passando davanti ai bambini che parevano non sa-
pere più neppure dove si trovassero. Per un momento esitò accanto al pa-
rapetto, poi saltò nel buio. Il legno traballò sotto i suoi piedi, ma mantenne
l'equilibrio, nonostante si sentisse esausta. Si mise ritta, pronta ad afferrare
la cima — e allora vide Angela che la fissava.
D'un tratto si rese conto che non c'era nessun bisogno di ormeggiare la
barca, che questa si muoveva così lentamente che sarebbe stato facile
prendere in braccio i bambini e saltare. Era stata Angela a fare in modo che
non ci pensasse prima? E forse ora lasciava che lo capisse, ora che era
troppo tardi.
Mentre Ted si sporgeva per lanciare la cima, la barca ebbe un violento
scossone, sbalzandolo oltre il parapetto. Il pontile era così vicino che riuscì
a saltarci sopra e a mettersi in salvo. La barca puntò rombando verso l'am-
pia acqua oscura. « Angela! » urlò Barbara.
Angela si girò al suono del suo nome. Improvvisamente pareva più pic-
cola, una bambina che ha paura di rimanere sola al buio. Fece un passo
pieno di desiderio fuori dalla cabina, verso Barbara. Allora dovette ricor-
dare tutto quello che aveva fatto, poiché si coprì il viso con le mani. Era
un'ombra quella accanto a lei, o la figura di un uomo che le teneva una
mano sulla spalla? Comunque non poté far niente per trattenerla. Un atti-
mo dopo la ragazza si trasformò in una torcia.
Era l'ultima volta che usava il suo potere. Rimase assolutamente immo-
bile mentre le fiamme l'avvolgevano tutta. Quando Barbara corse sulla riva
del fiume e allungò impotente le mani, le fiamme avevano già raggiunto il
tetto della cabina e si levavano verso il cielo. La barca prese fuoco, scivolò
fuori dal suo campo visivo, ma lei se ne accorse a stento, anche quando e-
splose. Continuava a fissare un punto carbonizzato della sua visione, dove
aveva visto Angela per l'ultima volta.
Alla fine si accorse di Ted che le stringeva il braccio, così che non si ca-
piva se voleva rassicurare lei o se stesso. Parlò come tentando di capire, o
di credere. « Non potevano ucciderla, potevano solo corromperla. E non ci
sono riusciti, non completamente. Si è concessa un'altra possibilità. »
Barbara doveva credere che fosse così. Quando lui riuscì a prenderle le
mani, che ancora si tendevano verso l'oscurità carbonizzata, e la costrinse a
girarsi, lei vide le fiamme lontane che si levavano oltre la palude. Una vol-
ta Angela aveva visto qualcosa del genere. Il vento fischiava tra l'erba, il
fiume sciabordava tra i pali di legno, il cielo a oriente cominciava a schia-
rirsi. Si accasciarono contro un palo sul pontile e si abbracciarono, incapa-
ci di parlare. Lei guardò le fiamme che non morivano e si sforzò di crede-
re, mentre aspettava nell'aria grigia e gelida l'arrivo dell'alba.

FINE

Potrebbero piacerti anche