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LA SETTA
(The Nameless, 1981)
RINGRAZIAMENTI
Per l'aiuto e i consigli che mi hanno dato mentre scrivevo questo roman-
zo sono particolarmente grato a Robert Aickman, Tony Beck, Arthur Cul-
limore, Phil Edwards, Kay McCauley, Christine Ruth, Tim Shackleton,
Bob Shaw (l'appassionato di fantascienza di Glasgow più che lo scrittore
di fantascienza di Lakeland), Carol Smith e John Thompson. Sono inoltre
debitore a Barry Forshaw, a Peter e Susie Straub e a Tom e Alice Tessier
per la loro impeccabile ospitalità durante le mie escursioni a Londra e rin-
grazio m modo speciale Harlan Ellison per la sua eccezionale bravura nel
ricordare.
Non occorre dire che la nursery di Otford è di mia invenzione e che al-
l'epoca in cui scrivevo non c'era nessun bancomat della Barclaybank a
Glasgow.
A Tamsin,
che mi ha aiutato senza saperlo,
con tutto il mio amore
Prologo
1940
Capitolo 1
1979
Capitolo 2
1966
Capitolo 3
1968
Capitolo 4
1970
Quando Barbara raggiunse Tottenham Court Road un uomo con un
mazzo di manifestini cercò di bloccarla, mormorando: « L'Apollo 13 era
segnato fin dall'inizio. Bisogna tener conto dei numeri ». Si rivolgeva alla
gente da sotto il Centre Point, una gabbia vuota fatta di cemento e di centi-
naia di finestre. Oggi era stata già avvicinata da un altro fanatico a Picca-
dilly; un gruppo di giovanotti rapati salmodiava ballando lungo Oxford
Street come la coda di un party, alcuni sedevano a gambe incrociate, medi-
tando, vicino ai gabinetti pubblici di Leicester Square. Se non altro il tema
del tizio dell'Apollo era relativamente attuale.
Accanto alla torre dell'ufficio postale, quindici piani di finestre verdo-
gnole come lo stelo di un bicchiere intagliato da quattro soldi, l'ufficio del-
la Melwood-Nuttall sembrava una piccola libreria. I tifosi di calcio prove-
nienti da Euston si trascinavano lungo la via, tirando calci ai rifiuti, facen-
do incursioni nei negozi, imprecando contro i pub chiusi. Davanti alla
Melwood-Nuttall un martello pneumatico sollevava pietrisco, dando il suo
piccolo contributo all'interminabile ricostruzione di Londra.
Ted Crichton era seduto dietro una marea di lettere e di dattiloscritti
spiegazzati. Il largo viso le fece un gran sorriso e il piccolo naso si arricciò
in segno di saluto. Quando si alzò, facendo cadere la giacca dalla spalliera
della sedia, la scrivania parve diventare piccola come un banco di scuola. «
È questo », disse, porgendole il romanzo che stava per pubblicare.
« Credi che potremo fare l'edizione tascabile? »
« Credo che potreste farlo benissimo. Fammi sapere al più presto, ci so-
no altri che annusano, in giro. »
Barbara infilò il dattiloscritto nella valigetta, accanto ai libri per Angela.
« Ci sono altre novità? »
« Te lo vedi un romanzo con Hitler come eroe? Questo sì che farebbe fa-
re un salto alla Melwood-Nuttall — anzi un salto dritto fuori dal paese. Ho
detto all'autore che era un tantino in anticipo sui tempi », continuò ridendo.
« Hai visto niente di veramente buono, ultimamente? »
« Sì. Credo di aver letto la migliore opera prima degli ultimi anni, di uno
che si chiama Paul Gregory. Riesce a dire in una frase più di quanto la
gran parte degli scrittori sappia dire in una pagina. Ma il "Pontefice" ha
detto che non era all'altezza e ho dovuto rimandarglielo. »
« Be', questo è quello che si paga a lavorare in una grande casa editrice.
Dovresti fare come me, solo io e la mia lista di scommesse sicure. Allora
se non altro sapresti che non puoi permetterti di correre rischi. » Visto che
lei non rideva tornò serio. « Sei rimasta molto delusa, vero? »
« Pensavo che meritasse di essere pubblicato. Sono sicura che sarebbe
andato bene. È stato molto duro dover scoraggiare uno scrittore così dota-
to. »
« Fammi avere il suo indirizzo, darò un'occhiata al manoscritto. Forse se
riesco a promettere un'edizione rilegata tu puoi convincere il tuo capo. Sai
», aggiunse tormentandosi la barba screziata di grigio, « ti ho già sentito
parlare così. A Francoforte, mi pare. Fu il momento del nostro sfogo reci-
proco. »
Si era preso cura di lei durante la sua prima fiera del libro di Francoforte,
l'aveva presentata in giro, aveva fatto in modo che non si trovasse a man-
giare da sola, le aveva dato consigli e spiegazioni. « Forse dovresti fare
l'agente », riprese. « L'energia ce l'hai certamente. Ti darebbe più libertà,
oltre che più quattrini. » Ted tacque un attimo, poi chiese: « Come va la
famiglia? »
« Oh, bene. Se pensi che io sia una persona energica, dovresti vedere
Angela. »
« È una bambina notevole. »
« Credo di sì. » Tutti si innamoravano di sua figlia a prima vista — tutti
tranne la donna con la faccia storta. Angela era, sì, speciale, ma non si
comportava mai come chi sa di esserlo. Una volta, quando Barbara aveva
tentato di chiederle qualcosa sulle chiacchierate con il padre, si era imme-
diatamente trasformata in una bambina che ha un segreto e non sa se può
rivelarlo. Barbara aveva cambiato argomento perché la figlia non pensasse
che c'era qualcosa di male. A volte le veniva la tentazione di ascoltare at-
traverso l'intercom, che era ancora istallato anche se ormai si usava rara-
mente, ma poi sentiva che sarebbe stato peggio che origliare.
Ted si era finalmente accorto che la giacca era caduta per terra e cercava
di scuoterne la polvere, per quello che serviva: poteva cominciare la gior-
nata nella forma più impeccabile, ma all'ora di pranzo era ridotto da far
pietà; ora pareva uno che avesse dormito su una panchina nel parco. « E
non ti è stata minimamente d'intralcio nella carriera », aggiunse.
« Ho avuto fortuna. Degli amici che abitano accanto me la curano, van-
no a prenderla all'asilo e così via. A volte mi sento un po' in colpa — sono
sicura che mi è più facile andare a lavorare che occuparmi di lei. Ma per-
ché », chiese, notando il suo interessamento, « tua moglie aspetta un bam-
bino? »
« Sembra. Helen ha smesso la pillola, sai con tutto quello che si sente sui
tumori. Be', immagino che potrò dedicarmi al mio famoso romanzo mai
scritto dopo che il rampollo se ne sarà andato a letto. »
« Sei contento che stai per diventare padre, no? »
« Certamente lo sarò quando il bambino sarà nato. » Si stropicciò le so-
pracciglia, abbastanza folte da nascondere uno sguardo grave. « Helen lo
vuole, e questo è l'importante. »
« Sono sicura che lo vuoi anche tu. Senti, devo andare. Il piccolo della
mia amica è ammalato e le ho promesso di rientrare presto per toglierle
Angela dai piedi. Doveri di noi genitori. Ne vale la pena, però, credimi. »
Fuori, il giorno settembrino sembrava ancora più caldo. La torre
dell’ufficio postale pareva irraggiare luce; Centre Point era fuoco in mezzo
a una colata di cemento. La ventiquattrore cominciò a sembrarle più pesan-
te. Doveva lasciare i libri da Ted? Ma aveva promesso ad Angela di por-
targlieli a casa quel giorno.
La stazione della metropolitana era zeppa di tifosi di calcio, che si spin-
gevano a vicenda sull'orlo della banchina, lanciavano lattine di birra vuote
tra i binari, scrivevano sui muri, si buttavano sulle donne sole; un gruppo
si strinse attorno a Barbara, finché lei non li mandò via con un'occhiatac-
cia. L'atmosfera era carica di sudore, e le ventate che arrivavano insieme
con i treni sembravano incapaci di rimuoverlo.
Sul treno era ancora peggio. Anche se era riuscita a occupare un posto a
sedere, Barbara si sentì sul punto di svenire. I tifosi ciondolavano dai reg-
gimano come quarti di carne, il resto della folla era incuneata tra loro; le
sciarpe puzzolenti di birra le svolazzavano sulla faccia. Il tunnel si chiuse
stretto attorno al treno, che ondeggiava avanti e indietro al ritmo di un mo-
notono sferragliare. La carrozza era affollata come il giorno in cui la donna
dalla faccia storta si era seduta vicino ad Angela.
Erano state da Hamley's in Regent Street, a comperare giocattoli. Alla
fermata di Oxford Circus la folla le aveva spinte sul treno e nei sedili. Bar-
bara stava per dire ad Angela di mettersi sulle sue ginocchia quando la
donna si era seduta accanto alla bambina, bloccandola contro il finestrino.
Sulle prime, Barbara le aveva dato solo una breve occhiata, registrando
tuttavia che aveva la pelle tutta rovinata, sebbene non dimostrasse più di
vent'anni, e che sopra un gran naso rosso e poroso come una fragola, c'era-
no due occhi posti uno più in alto e uno più in basso. Era di una bruttezza
disperante.
Poi Barbara aveva notato il modo in cui la donna guardava Angela. La
fissava come se non riuscisse a distogliere lo sguardo, e i suoi occhi erano
pieni di paura e di odio.
Barbara era stata sul punto di intervenire — non si era mai sentita così
violentemente protettiva da quando Angela aveva poche settimane —
quando il treno si era fermato a Green Park e la donna si era accorta che lei
la guardava. Improvvisamente si era fatta largo tra la folla ed era scesa dal
treno, o forse era risalita su un'altra vettura. Nella folla di Victoria Station
e per tutto il tragitto fino a casa Barbara si era sentita pedinata.
Ecco Victoria. Poté finalmente lasciarsi alle spalle i tifosi. Mentre aspet-
tava il treno per Otford diede un'occhiata ai titoli dei giornali: il processo
Manson continua, fucili mitragliatori ritrovati tra i bagagli lasciati all'Hil-
ton di Londra. Certo, Angela non poteva piacere a tutti, ma quando le tor-
nava in mente in che modo la bambina si era rinchiusa in se stessa sotto lo
sguardo cattivo di quella donna veniva riassalita da un impeto di rabbia fu-
riosa.
Sul treno per Otford lasciò cadere la valigetta vicino al suo posto e si si-
stemò con un sospiro di sollievo. Il treno vicino sembrava la vetrina di un
cappellaio: gli uomini come tanti manichini tenevano la bombetta sollevata
per asciugarsi la fronte, uno si faceva vento con la tesa, prima di rimetterla
a posto. Ben presto il suo treno superò Battersea Dogs' Home, un nome
che faceva sempre ridere Angela. A Pecknam Rye i palazzi alti comincia-
rono ad allontanarsi verso l'orizzonte, lasciando il posto ai villaggi. Sopra
il Kent il cielo cominciava a guastarsi, facendosi del colore del crepuscolo
e della pioggia.
Mentre raggiungeva Otford sentì un tuono lontano, il rumore delle colli-
ne che venivano spazzate dal vento sotto il cielo di piombo. Il treno si fer-
mò lentamente e poi nulla più si mosse nella stazione deserta, sulle colline
colpite dalla gelida luce dei lampi. Era come se l'aria si fosse mutata in re-
sina trasparente.
Era a metà del ponte pedonale quando vide che la stazione non era del
tutto deserta. Sul marciapiede per Londra c'era una donna. Si spostò sotto
il ponte mentre Barbara lo attraversava, quasi cercando di nascondersi.
Senza riuscire ad afferrare il motivo per cui lo faceva, e dandosi anzi
della paranoica, Barbara si affrettò per poter vedere la faccia della donna.
Era quasi ai piedi della scala del passaggio sopraelevato quando si rese
conto che era Jan.
Non l'aveva mai vista così preoccupata — Jan pareva addirittura rimpic-
ciolita — eppure quella mattina Nigel non aveva niente di più di un raf-
freddore. Chi stava badando ad Angela? Fece di corsa gli ultimi gradini. «
Che c'è Jan? Nigel sta peggio? »
Esitò, vedendo che Jan retrocedeva, che si stringeva il petto con le mani.
Stringendosi in quel modo non poteva non farsi male, ma pareva non sentir
nulla. « Oh, Barbara, mi dispiace », disse.
Capitolo 5
Barbara si svegliò al rumore del tuono, senza riuscire a capire che cosa
non andava. Non che il rumore fosse minaccioso, dovevano essere i passi
di Angela di sopra. Non avrebbe voluto addormentarsi in poltrona, ma a-
desso doveva proprio svegliarsi: non poteva lasciare la bambina su da sola
per troppo tempo.
Poi i passi cessarono e sentì Jan mormorare qualcosa. I passi erano quel-
li di Nigel, nella casa accanto. La voce sommessa di Jan fu come una fru-
stata sui nervi scoperti e di colpo ricordò. Erano passate settimane, ma lei
era ancora là che correva dalla stazione — solo che ora sapeva che cosa
l'aspettava una volta arrivata a casa.
Si era messa a correre prima che Jan potesse spiegare. Le case erano al
di là dei lunghi giardini, le foglie degli alberi sembravano lucidate con l'o-
lio. Tutto la serrava, l'opprimeva, tutto vicinissimo ma irreale, tutto piatto
come il cielo oscuro. Non un uccello, che cantava. Nulla si muoveva tran-
ne lei, ogni cosa cercava di trattenerla.
Jan ansimava accanto a lei balbettando: « Qualcuno è andato all'asilo.
Ha detto che era venuto lui perché io dovevo badare a Nigel. Ero in ritardo
solo di un paio di minuti ». Barbara non la sentiva quasi; ci sarebbe stato
tempo per le spiegazioni quando fosse arrivata a casa, quando avesse visto
di persona cosa era successo ad Angela. Correva incespicando lungo Pala-
ce Field, lungo il sentiero segnato dagli zoccoli dei cavalli; la ventiquattro-
re piena di libri per Angela le strisciava dolorosamente contro la coscia. Il
cielo aveva invaso le finestre della torre in rovina, aveva reso grigio come
il fango il torrente, togliendogli ogni luce.
Delle facce guardavano giù dalla casa di Jan. C'era Miss Clarke, la diret-
trice dell'asilo, una donna tarchiata di mezza età, piuttosto stupida, secondo
Barbara, ma a cui i bambini erano affezionati. C'era Keith. E c'era il gros-
so, paterno sergente della stazione di polizia. Alla vista di quest'ultimo il
cuore di Barbara ebbe un tuffo, ma se non altro c'era lui a prendere in ma-
no le cose. Ora tutto sarebbe andato certamente bene.
Il sergente uscì dalla casa nel momento in cui lei superava il cancello. Il
viso dell'uomo si distese, assunse un'aria professionalmente solenne e ras-
sicurante, mentre lei attraversava di corsa il grande giardino comune. «
Non deve preoccuparsi, Mrs. Waugh. La polizia di contea è stata avvertita.
Controlleranno tutte le macchine. »
Il cielo scuro parve precipitarsi su di lei, inondarle il cervello. « Non so
di che cosa stia parlando. »
« Ho cercato di dirglielo », disse Jan quasi supplicando, « ma non mi ha
ascoltato. Barbara, qualcuno è andato da Miss Clarke e ha portato via An-
gela. »
Barbara ora era seduta su una sedia da giardino e non riusciva a ricorda-
re come c'era arrivata; il giardino le ballava davanti agli occhi. « Chi glie-
l'ha lasciata prendere? » chiese.
« Non puoi prendertela con Miss Clarke », disse Jan con ansia. « Non
aveva alcun motivo per sospettare qualcosa. »
Non doveva farsi prendere dall'emozione, doveva sapere tutto per essere
sicura che non avessero trascurato niente, doveva parlare per non rimanere
sola con le sue sensazioni. « Quanto tempo è passato prima che avvertiste
la polizia? »
« In un primo momento non sapevo cosa era successo. Quando sono ar-
rivata Miss Clarke era già andata via. Se n'era andata dopo che tutti i bam-
bini erano usciti. L'ho cercata dappertutto facendo continuamente la spola
tra il paese e qui nel caso che Angela tornasse. Nessuno le aveva viste, né
l'una né l'altra. Ho pensato che magari erano insieme. » Pareva aver paura
di andare avanti. « Ho trovato Miss Clarke dopo un'oretta e siamo andate
direttamente alla polizia. »
Accanto a lei il sergente sembrava perfetto per confortare la gente e per
convincere i bambini a non rubare le mele, ma era in grado di riportare
Angela? « Lei ha detto che stanno controllando le macchine », disse Bar-
bara. « Avete preso la targa? »
« Non ho neppure pensato a guardare », intervenne Miss Clarke, che era
uscita anche lei, sistemandosi gli occhiali sul naso. « Sono sicura che
nemmeno lei avrebbe guardato, Mrs. Waugh. »
« Ha visto la macchina? » Quando la donna annuì Barbara si volse al
sergente, che almeno non era così irritante. « Allora se non altro sapete la
marca. »
« Be' no, veramente no. » Gli occhiali di Miss Clarke le scesero di nuovo
sul naso; un dito li rimise a posto. « Purtroppo non le distinguo. »
« Sappiamo che è nera, o blu scuro », disse il sergente, « e pensiamo che
sia una giardinetta.»
Quando Miss Clarke annuì piena di fiducia, Barbara sentì la voglia di ti-
rarle un pugno in faccia. « Come avete potuto permettergli di portarla via?
»
« Sono certa che anche lei lo avrebbe fatto se si fosse trovata al mio po-
sto, Mrs. Waugh. Era vestito benissimo e da come parlava pareva una per-
sona molto per bene. Ma se davvero era un criminale come dite tutti quan-
ti, come facevo a fermarlo, secondo voi? Sono solo una donna, sapete, e
avevo anche da badare a tutti gli altri bambini. In ogni caso », concluse
quasi trionfalmente. « non pareva assolutamente un cattivo soggetto. An-
gela è andata con lui molto volentieri. »
« Che cosa le ha detto? »
« Non saprei dire con precisione. "Ciao Angela, sto con tua zia Jan. Fai
alla svelta o mi multano per parcheggio vietato. " Be', lo sapete tutti come
è stretta, effettivamente, la strada. »
I denti di Barbara avevano cominciato a battere. « Non le è sembrato
strano che avesse bisogno di una macchina per un tragitto così breve, fino
al villaggio? »
« A me la macchina non è mai servita. E poi è facile ragionare con il
senno di poi. » Miss Clarke cominciava a indispettirsi seriamente con i
suoi occhiali. « Lei, Mrs. Waugh, l'ho vista prendere la macchina per di-
stanze anche più brevi », concluse.
Se Barbara avesse risposto l'avrebbe fatto urlando, ma il sergente stava
indicando l'auto che aveva appena lasciato la carrozzabile. « Ecco, dovreb-
be essere la polizia di contea. »
Barbara riuscì a mettersi in piedi, nonostante il tremito. Ma il poliziotto
era solo e non aveva niente di nuovo da riferire. Era giovane ed efficientis-
simo, e sembrava molto contrariato per come era stato permesso a tutti di
disporsi così disordinatamente davanti alla casa. Condusse il sergente giù
per il vialetto nel giardino per fargli delle domande, poi andò da Barbara. «
Possiamo entrare in casa, per favore? »
Appena dentro iniziò a interrogarla. Non pareva particolarmente parteci-
pe, ma probabilmente sentiva che non ce n'era il tempo. Neppure lei dove-
va perdere tempo ad avercela con lui. Viveva sola? Dov'era suo marito? Di
che si occupava quando era vivo? Aveva lasciato un'eredità consistente?
Qual era la sua occupazione? Quanto guadagnava? C'era qualcuno che po-
tesse ritenere di avere dei diritti sulla bambina? Le veniva in mente nessu-
no che corrispondesse alla descrizione del rapitore? « Nessuno », rispose
lei. « Come faceva a sapere tutti i nomi, quello della mia bambina, quello
della vicina? »
« Può darsi che lei abbia chiamato per nome sua figlia in strada. I nomi
degli adulti sono nelle liste elettorali. Sembra un lavoro fatto da un profes-
sionista. Forse hanno pensato che, vivendo in un posto come questo, lei
poteva permettersi di pagare un riscatto, o forse se ne erano accertati. »
Possibile che fosse invidioso? Ora la stava informando del tipo di tele-
fonate che probabilmente avrebbe ricevuto. Per il momento non le avreb-
bero messo l'apparecchio sotto controllo, ma se il rapitore le telefonava, lei
doveva chiamare immediatamente la polizia. Uscì per interrogare gli altri,
e per Barbara non ci fu altro da fare che aspettare, più niente che le impe-
disse di chiedersi come aveva potuto interessarsi così poco di Angela, più
niente che le bloccasse il tremito che si diffondeva per tutto il corpo.
Ma poi quel tremito si era placato, lasciandola fragile e vuota, con il pe-
ricolo costante di andare in pezzi. Forse era così che si sarebbe sentita, se
ne avesse avuto il tempo, quando era morto Arthur, ma ora c'era in più il
senso di colpa, il senso di colpa che invadeva lei e quello che aveva attor-
no, facendole apparire tutto squallido, meschino, indegno. Stava ancora
aspettando, e la cosa peggiore era che non poteva mettersi in macchina e
girare in cerca di Angela: non aveva il coraggio di lasciare la casa. Per set-
timane, ogni volta che sentiva un'auto, si irrigidiva, scattava con violenza
tutte le volte — poche — che suonava il telefono. Di là dalle finestre le
giornate serene sembravano finite. Niente era reale, tranne l'insopportabile
silenzio della casa.
Quando il giornale che teneva in grembo scivolò a terra, lo raccolse au-
tomaticamente. Le era venuta l'ossessione che il rapitore potesse mettersi
in contatto non per telefono, ma con un annuncio su uno dei giornali locali.
Se avesse accennato a qualcosa che solo lei e Angela potevano sapere? In
quel caso la polizia non avrebbe capito che era quello il messaggio. Era
terrorizzata all'idea che potessero far del male ad Angela se avessero sapu-
to che c'era di mezzo la polizia.
Ma non c'era niente del genere negli avvisi personali. E se era nascosto
in un'altra rubrica per ingannare meglio la polizia? Cercò tra gli annunci
delle case e delle macchine usate finché non si rese conto che l'unica che
stava ingannando era lei. I bambini della ferrovia, Guai con le ragazze,
Cuore di mamma... Piegò in fretta il giornale, prima di continuare a cercare
nella pagina degli spettacoli.
Rimase con gli occhi fissi sui titoli della prima pagina finché non co-
minciarono a tremolare come fiamme. Sentiva gli occhi ritirarsi dentro la
testa. A volte le pareva di vedere Arthur, sulla porta o in cima alle scale,
che cercava di rassicurarla. Era certo un sogno che la sua insonnia spinge-
va fin nelle ore di veglia, un'allucinazione, come quella della voce lontana
della bambina che chiamava « Mamma! ». Forse lui era sempre stato un'al-
lucinazione, pensò con amarezza.
Andò di sopra, nella stanza da bagno, per svegliarsi in qualche modo. I
primi tre scalini cigolarono, rammentandole che non c'era più nessuno che
si rischiava di svegliare. Desiderò che i bambini della porta accanto faces-
sero più rumore — questo almeno l'avrebbe convinta che aveva qualcuno
vicino — ma Jan li aveva tenuti tranquilli per tutte quelle settimane. Jan
era stata così di aiuto, così sollecita che ben presto Barbara si era sentita
quasi soffocare.
Sulle prime Jan e Keith avevano tentato di farla uscire di casa, almeno
per andare da loro a cena, finché non avevano rinunciato davanti alla sua
ostinazione. Poi avevano cominciato ad andare a trovarla con l'inesorabile
allegria di visitatori al capezzale di un moribondo. Alla fine era riuscita a
convincerli che voleva rimanere sola, e Jan aveva continuato a insistere so-
lo per andare a fare la spesa per lei. Era evidentissima l'ansia di Jan di farsi
perdonare, ma se Angela tornava a casa sana e salva, quando Angela fosse
tornata a casa sana e salva, Jan non avrebbe avuto niente da farsi perdona-
re.
In bagno si spruzzò acqua fredda sugli occhi. L'acqua scivolò lungo il
viso come lacrime, ma tempo per piangere non ce n'era. La comprensione
di tutti sembrava tesa a qualche scopo particolare: sentiva che tutti cerca-
vano di prepararla a qualcosa che doveva essere già successo — ma lei non
aveva nessuna intenzione di prepararsi, sarebbe stato terribile quanto desi-
derare il peggio pur di smettere di soffrire. Purché Angela fosse tornata da
lei, nient'altro aveva importanza. Avrebbe dato tutto quello che aveva.
Come se quel pensiero avesse ridato il via all'azione, sentì bussare alla por-
ta d'ingresso.
Improvvisamente si sentì lo stomaco e tutta la carne del corpo a nudo
come gli occhi. La testa le girò e temette di sentirsi male. Poi si rese conto
che non aveva udito nessuna macchina arrivare. Doveva essere un'altra do-
se di simpatia dalla porta accanto: non preoccuparti, cerca di tenere la
mente sgombra, non aiuterai Angela se ti riduci in questo stato. Solo quan-
do i colpi si ripeterono si accorse che non era il modo di bussare di Jan o di
Keith o dei bambini e allora si mise a correre.
Capitolo 6
Quando aprì la porta si trovò di fronte Miss Clarke. Accanto a lei c'era
una donna che sembrava un'attrice: il trucco copriva le rughe del viso, su
cui spiccava una fiammata di capelli rossi come il mantello di un setter;
dalle maniche uscivano un paio di polsini di seta, giri e giri di sciarpe le
formavano un collare attorno alla gola; i braccialetti le tintinnavano ai pol-
si quando alzò le mani in un gesto di immediata partecipazione. Forse la
partecipazione era il suo lavoro.
« So che non riceve visite, Mrs. Waugh, ma mi sentivo in dovere di fare
qualcosa per lei. » Il tono di Miss Clarke era di quelli che non ammettono
repliche. « Questa signora può aiutarla. »
« Ma vai a farti fottere, maledetta imbecille. » Barbara riuscì a stento a
non dirlo, e si rese conto che stava diventando aspra in maniera ingiustifi-
cata. Non stava forse usando Jan e Miss Clarke come capri espiatori per il
suo senso di colpa? Poteva permettersi di rifiutare l'aiuto di chicchessia, di
rifiutare qualsiasi aiuto che potesse farle ritrovare Angela? « Lei è molto
gentile », disse. « Prego, accomodatevi. »
La donna piena di sciarpe la oltrepassò, togliendole il respiro con il suo
profumo, e andò direttamente nel soggiorno, la cui finestra dava sui campi.
« Eccola! » esclamò.
Quando Barbara la raggiunse, con il cuore che martellava e la bocca sec-
ca, la trovò che osservava la fotografia di Angela sul caminetto. « Oh, cara,
che splendida bambina. Si calmi adesso, la prego. Sono qui per trovarglie-
la. »
D'un tratto Barbara si fece sospettosa. « Che cosa fa, esattamente, la sua
amica? »
« E un'esperta di psicometria », spiegò Miss Clarke, come se quella pa-
rola bastasse a mettere a tacere ogni obiezione.
« Intende dire », disse Barbara sul punto di scoppiare dalla rabbia, « che
è una di quelle che pretendono di ritrovare le persone scomparse maneg-
giandone qualche oggetto personale? »
« È più di una pretesa, Mrs. Waugh. Le ho visto fare cose che non so
spiegare, e io non sono un tipo da farsi imbrogliare facilmente, no? Deve
assolutamente dare questa possibilità ad Angela. »
La psicometra si era stretta la fotografia alla fronte; sui vetri era rimasta
una macchia di trucco. « C'è un capo di abbigliamento che alla sua piccola
piace particolarmente? »
« Sì », annuì stancamente Barbara, « una o due cose. »
« Mi porti la sua preferita, svelta. » La psicometra, o l'attrice — Barbara
non era del tutto convinta che non fosse la stessa cosa — sedette alla scri-
vania di Barbara, con i pugni serrati contro le tempie. « E un atlante del
mondo », aggiunse.
« Non ne ho. »
La donna parve emergere da una leggera trance. « Non importa, sono si-
cura che è ancora in questo paese. Un atlante della Gran Bretagna andrà
benissimo. »
L'atlante stradale di Barbara ce l'aveva Keith, e non sarebbe rientrato
prima di qualche ora. « Non ho nemmeno quello. »
« Eppure Miss Clarke mi aveva detto che lei lavora nell'editoria. Altri-
menti l'avrei portato io. » Pareva che stesse dicendo: come faccio a fare il
mio lavoro se gli altri non fanno il loro? « Pazienza », disse magnanima-
mente. « Vedremo quanto ci dice il vestito. »
Sulle scale Barbara si sentì mancare il fiato. Non era soltanto l'afosa
giornata di ottobre; si sentiva addosso una sensazione di disagio fisico,
come un sudore freddo e attaccaticcio. Che altro poteva essere questa sto-
ria se non una farsa? Entrò barcollando in camera di Angela. L'aveva mes-
sa in ordine, per distrarsi, nella prima settimana in cui era stata lasciata in
pace, ma ora desiderò averla lasciata com'era, in attesa che Angela tornas-
se a casa. Poi si rese conto che la psicometra continuava a parlare di Ange-
la al presente, mentre lei era certa che Jan e gli altri pensassero a lei al pas-
sato. Trovò la tutina preferita di Angela e la portò di sotto.
La donna pareva non essersi mossa. Stava studiando la foto poggiata sul
tavolo davanti a sé come se le fosse necessario fissarsi in mente ogni mi-
nimo particolare, anche se la fotografia non era recente: ora i capelli biondi
di Angela non erano più ricci, ma le scendevano lisci sulle spalle, gli occhi
erano di un azzurro ancora più penetrante; l'immagine non poteva mostrare
come s'erano fatte lunghe le sue gambe, come fosse già aggraziata nella fi-
gura. Ma la donna era così immersa nella foto che non distolse lo sguardo
neppure quando Barbara le porse la tuta. « Sì », disse, « è proprio quello
che mi serve. »
Miss Clarke fece cenno a Barbara di sedere e stare zitta. Non appena
prese posto accanto al tavolo pensò che avrebbe fatto bene ad accendere la
luce: le nuvole, spuntando dalle colline, stavano coprendo il cielo già buio;
l'atmosfera nella stanza, caldissima e in penombra, si stava facendo irrespi-
rabile per il profumo della donna. Ma forse la luce artificiale sarebbe stata
una distrazione per la medium; ora questa aveva chiuso gli occhi e teneva
vicino a sé la tutina di Angela, con la parte inferiore in grembo. Tra la poca
luce e lo stordimento dovuto all'insonnia, Barbara credette per un attimo di
vedere la donna con un bambino vero in braccio.
« Che splendida bambina », disse la psicometra. « E ancora più bella è di
dentro. » Certo, pensò Barbara, questo avrebbe conquistato una madre più
credulona di lei. A che altro poteva servire questo, oltre che a una vaga
rassicurazione? Continuava a impedirsi di credere, come uno che non vo-
glia addormentarsi.
« Ora porta i capelli più lunghi », continuò la psicometra. « Sì, la vedo,
una bambina alta con i capelli biondi e lunghi. » Poteva benissimo esserse-
lo immaginato dalla fotografia, o poteva averglielo detto Miss Clarke. La
sua visione di Angela era stata così immediata da essere sospetta — o for-
se era Barbara ad aver paura di sperare troppo presto? « Ha qualcosa sulla
spalla », proseguì la donna.
Barbara si irrigidì, sull'orlo di una crisi di tremito. « Che cos'è? » chiese.
« Non lo distinguo bene. Sembra un distintivo — sì, una specie di distin-
tivo. Porta un distintivo sulla spalla? » Prima che Barbara potesse decidere
come rispondere la donna continuò: « Aspetti, adesso vedo meglio. È una
ferita, una ferita sulla spalla destra. »
« No », rispose Barbara stancamente. « Non ha niente sulla spalla destra.
»
« Forse era vero quando l'ha vista lei l'ultima volta. » Liquidò l'intoppo
in uno scampanellare di braccialetti. « Ma non dobbiamo preoccuparci so-
lo del suo corpo, mia cara. L'importante è l'anima. »
Se era questo il genere di cose che aveva da offrirle, per quel che riguar-
dava Barbara era meno che inutile. Il profumo era soffocante come incen-
so; la tutina di Angela ciondolava, a gambe inerti, vuota. Ma la psicometra
si drizzò a sedere, stringendola tra le mani. « Oh, cara, vorrei tanto che po-
tesse vedere la sua anima. »
Intendeva dire che lei la vedeva? Evidentemente sì, perché continuò: «
Ha così tanto da dare. Ha già un grande potere spirituale. Crescendo impa-
rerà a usarlo. »
Barbara stava per dire che ne aveva abbastanza — bastavano già gli in-
cubi che aveva da sveglia, su quello che poteva essere capitato ad Angela:
non aveva bisogno di queste idiozie per peggiorare le cose — quando la
psicometra chiese: « Le ha mai parlato di visioni? »
Angela era solo una bambina, una bambina in pericolo; quale aiuto po-
teva darle tutto ciò? Ma di tutto quello che aveva detto finora la donna,
questa era la prima cosa che sembrasse più di un elemento indovinato a ca-
so. « A volte diceva delle cose molto strane », ammise cautamente Barba-
ra.
« Non è strana, è meravigliosa. » Il tono era di rimprovero. « Ma l'avver-
to, non tutti la vedono così. La troveremo, di questo non deve preoccupar-
si, mia cara. Ma l'avverto », ripeté, fissando Barbara con gli occhi spalan-
cati, « chi l'ha presa rappresenta per lei un gravissimo pericolo. Bisogna
trovarla prima che loro distruggano quello che c'è in lei. »
« Si faccia coraggio », fece Miss Clarke. « La troverà, ne sono sicura.
Quello che le serve è soltanto una mappa. »
« Va bene », disse Barbara d'un tratto, « vado a prenderla. » Non soppor-
tava più di star seduta lì, soffocata dalla penombra, dall'inattività, da quel
profumo che dava alla testa. Forse Keith aveva lasciato a casa l'atlante, og-
gi; se no, avrebbe chiesto agli altri vicini finché non ne avesse trovato uno.
Così almeno avrebbe saputo se la psicometra aveva altro da offrire oltre a
quelle stupidaggini prive di senso.
Non appena ebbe aperto la porta d'ingresso si arrestò: un uomo grosso si
stava dirigendo verso le case districandosi a fatica nel traffico del rondò.
La scarsa luce confondeva tutto e così per un pezzo non poté essere sicura
che si trattasse del sergente di polizia. Per un momento pensò come in un
sogno che potesse dargliela lui una carta.
Quando il sergente mise piede sul sentiero le parve di uscire dal sonno:
la testa le pulsava come un dente cariato, i nervi le si contraevano. Fu tale
la cura con cui l'uomo chiuse il cancelletto prima di avvicinarsi, che seppe
con certezza che non veniva volentieri.
« La prego, Mrs. Waugh, entriamo in casa. Mi dispiace, ma devo farle
una domanda. »
Se doveva domandare, allora non c'era niente di definitivo, ma lei ebbe
paura di insistere che le parlasse subito lì fuori. Anche se le tremavano le
gambe lo precedette in fretta nel soggiorno. Lui accese la luce e la psico-
metra lo fissò a occhi sbarrati, sbattendo le palpebre come un pipistrello. «
Che sta facendo? » chiese Miss Clarke, e poi lo riconobbe.
Il sergente fece sedere Barbara e si chinò su di lei.
« Mrs. Waugh, lei ha detto che Angela portava un abito a righe bianco e
azzurro con una cintura. C'è qualcosa che ha trascurato di dirci? »
Non lo reggeva quel gioco. « Di che genere? »
« C'è qualcosa a proposito della cintura che non ci ha detto? »
La pulsazione nella testa ora era più acuta; non voleva parlare. « Aveva
perso la cintura di quel vestito e io ne ho presa una da un altro abito. Non
si vedeva quasi la differenza », gemette. « Era di una sfumatura più chiara,
questo è tutto. »
La faccia dell'uomo si rabbuiò. « Sono terribilmente desolato, Mrs.
Waugh, ma sembra che l'abbiano trovata. » C'era qualcosa che doveva ri-
cordare, qualcosa che avrebbe annullato l'orrore che la minacciava... « Il
vestito non conta », disse, sul punto di cadere in una crisi isterica. « Se non
hanno trovato la voglia sulla spalla allora non può essere sicuramente An-
gela. »
« Una voglia », esclamò la psicometra. « Certo, ecco che cos'era quello
che ho visto. »
L'uomo si accigliò, con un'occhiata interrogativa, ma poi fissò con tri-
stezza Barbara. « Ho paura che non possano identificarla da questo, Mrs.
Waugh. Le hanno sparato a bruciapelo con un fucile. »
E poi non ci fu altro che il vuoto, dentro Barbara e fuori di lei. Da qual-
che parte la psicometra stava dicendo: « Quando è stata uccisa? »
« Dev'essere stato questa mattina presto. » La donna corse da Barbara,
tentò di prenderle le mani. « Mrs. Waugh, deve ascoltarmi. Non è Angela.
Lei era ancora viva quando ho toccato il suo vestito. In questo momento lei
è viva, e in pericolo. »
Barbara si alzò di scatto, urtando la donna e facendola indietreggiare. Le
strappò di mano la tuta e la strinse forte, sentendo solo com'era vuota. « E
devo pensare », disse con una voce così piena di odio, di disgusto e di do-
lore che non sembrava quasi più la sua, « che hanno ucciso un'altra bambi-
na per farmi credere che fosse Angela. »
Il sergente intervenne, « Credo che sia meglio che vada via, Miss Clarke,
e che la sua amica spiritista venga con lei. » A Barbara non importava più;
lo sfogo sembrava averle tolto tutta la forza che le restava e poté solo la-
sciarsi cadere in una poltrona. Lui tornò subito a parlarle e dopo un po' ar-
rivarono anche Jan e Keith, ma lei non riusciva ad afferrare quello che le
stavano dicendo o facendo. Di nient'altro era consapevole che della vuo-
tezza della casa.
E questo fu tutto, per tanto tempo. Continuava a comparire gente — un
medico la visitò, Jan rimase con lei il più possibile visto che Barbara si ri-
fiutava di lasciare la casa — ma lei non si accorgeva quasi di quando arri-
vavano o se ne andavano. A volte scopriva di essere davanti a dei piatti
con dentro del cibo che qualcuno aveva cominciato a mangiare tanto tem-
po prima. Tendeva a rimanere al piano di sotto, perché il gemito dei primi
tre scalini le faceva accapponare la pelle, continuava ad addormentarsi qua
e là per la casa e a dimenticare. Sembrava non sapere più chi fosse o chi
fosse stata. Ogni volta che le veniva in mente il suo lavoro a Londra il sen-
so di colpa le toglieva il fiato. C'erano dei ricordi di Angela, ma sentiva di
non averne più diritto.
Dopo diversi giorni e diverse notti, che erano passati strisciando su per
le colline e attraverso la casa, ci fu un funerale. Pareva incapace di afferra-
re l'idea che quella piccola cassa chiusa aveva qualcosa a che fare con lei.
Mentre veniva inghiottita dal crematorio, ne immaginò le fiamme, che
sfumavano via. Quando cominciò a rabbrividire Jan le si fece più vicina,
nella speranza certo di consolarla, di scontare così un po' della sua colpa.
Ma Barbara era scesa ancora più in profondità nel vuoto di se stessa, in un
luogo inaridito dove lacrime non ce n'erano.
Era passato del tempo — dei giorni forse — e Jan stava dicendo: « Per-
dio, spero che lo prendano quel porco. Lo so io quello che gli farei ». Im-
provvisamente Barbara la trovò insopportabile: questo avrebbe in qualche
modo riportato Angela? Finalmente, proprio nel momento in cui Barbara
stava per mettersi a urlare, Jan accettò l'idea che volesse essere lasciata in
pace. Appena sola poté ammettere con se stessa che cosa aveva intenzione
di fare.
Accese l'intercom che la collegava con la camera di Angela e attese, spe-
rando, pregando incoerentemente. Il ronzio delle scariche di fondo, lontane
voci metalliche la raggiungevano per poi svanire. La casa si fece buia, il si-
lenzio più profondo, e infine si rese conto che stava seduta lì come una ca-
tatonica, sperando ciecamente nel fantasma della sua bambina assassinata.
Questo non poteva che sprofondarla ancor di più nella disperazione. A un
tratto il disgusto per se stessa fu così forte che riuscì a tirarsi indietro.
Il giorno dopo, di prima mattina, ammucchiò tutti i giocattoli, i libri e i
vestiti di Angela nella macchina e uscì da Otford. Non aveva idea di dove
stesse andando; presto si trovò a Madstone, dove l'odore del malto impri-
gionato sotto le grevi nuvole di novembre era quasi soffocante. Quando
trovò una vendita di beneficenza nel cortile di una chiesa, lasciò tutti gli
oggetti di Angela sul primo tavolo e fuggì. In aperta campagna, tra le nere
colline inzuppate di pioggia, lasciò la macchina in pieno temporale e
camminò in circolo per chilometri, singhiozzando e ricordando.
Passò dei giorni a odiarsi perché sentiva il desiderio di tornare al lavoro;
era stato quel desiderio a uccidere Angela. Ma se non tornava a lavorare
poteva tornare solo al vuoto di se stessa. Quando fu nuovamente alla sua
scrivania di Londra, si gettò con tale foga nel lavoro che per un po' parve
non avesse tempo di pensare a nient'altro. Ma invece tutto risvegliava i
suoi ricordi — le cose che la gente evitava di dire, la particolare considera-
zione con cui i suoi colleghi e Jan la trattavano, i bambini e i ragazzi che
trovava nella metà dei libri che le toccava di leggere. Non erano quelle le
sole ragioni per cui si era finalmente decisa a usare l'eredità di Arthur e il
denaro proveniente dalla vendita della casa per trasferirsi a Londra e aprire
la sua agenzia, ma il trasferimento l'aveva aiutata a guarire, ad accettare il
fatto che Angela se n'era andata per sempre. Solo che ora, a nove anni di
distanza, una voce al telefono la stava chiamando mamma.
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Pareva una cosa da poco: una casa abbandonata, finale meschino di uno
scherzo crudele. Nessuna delle finestre pareva schermata, se non dalla pol-
vere. Ma senza entrarci, come poteva essere certa che fosse vuota, anche se
tutt'e due le case adiacenti chiaramente lo erano? Non si capiva se era u-
n'ombra sottile proiettata dal portico, quella sul bordo della porta d'ingres-
so, o se la porta era socchiusa.
Alla fine attraversò la strada fino al giardino attiguo. Una poltrona fra-
cassata, che sembrava buttata giù da una finestra, aveva rotto la rete tra i
due giardini. Mentre scavalcava lanciò un'occhiata verso il mercato, sia per
un senso di colpa, sia perché sperava di scoprire chi l'aveva attirata fino al-
la casa. Una o due persone la guardavano, ma da quello che poteva vedere
da lontano, sembravano guardarla con simpatia. Forse l'avevano presa per
un'abusiva.
Scavalcata la poltrona, si diresse rapidamente verso il portico. L'erba
secca era cosparsa di rifiuti: giornali ingialliti, pagine strappate di un libro,
una bottiglia di sherry; altri rifiuti erano sul vialetto dissestato e verdastro.
Salendo gli scalini del portico calpestò pezzi di intonaco sbriciolato. Sì, la
porta era socchiusa, e la spalancò. Il pavimento dell'ingresso era coperto di
polvere, ma non c'erano impronte.
Allora di questo si trattava, ne era già quasi certa. Guardò verso la strada
dal portico, più sollevata che arrabbiata con se stessa. Forse era stata una
credulona, ma ora era finita. Stava ancora guardando fuori — il mercato
sotto il viadotto ora le pareva buffo, e anche il rumore era quasi sopporta-
bile — quando qualcosa la guardò da una delle finestre accanto al portico.
Si girò così di scatto che cadde quasi dai gradini. Si afferrò a un pilastro
e lo sentì sbriciolarsi sotto le dita. Ma la figura alla finestra non era altro
che una ragnatela, carica di polvere. Vide un lembo della massa grigia che
scivolava dietro la lastra un momento prima di sparire alla vista.
Lanciò un'occhiata alla folla sotto il ponte per rassicurarsi e le parve di
vedere una faccia che conosceva. Sì, una donna dai capelli tinti, quasi
bianchi, e vestita di nero la stava osservando dall'ombra del muro. Mentre
Barbara si dirigeva verso il varco nella siepe, la donna si dileguò tra la fol-
la.
Era troppo. Ora che ci ripensava, quel vago sorrisetto della donna le pa-
reva allusivo. Se Barbara riusciva a raggiungerla, avrebbe avuto poco da
sorridere. Ma aveva perso troppo tempo. Quando raggiunse il marciapiede
non le rimase che svoltare verso Ladbroke Grove.
Nel silenzio della metropolitana sentì la testa come svuotata, una cam-
pana arrugginita senza batacchio, che echeggiava ancora con il suo suono
metallico. Sul treno si tolse la polvere di dosso. Era avvilente che il suo
successo potesse farla odiare tanto da qualcuno che non aveva mai visto,
indulgendolo a cercare di farle del male in maniera così crudele, ma final-
mente era finita. Certamente quella donna non avrebbe avuto il coraggio di
tentare altro sapendo che Barbara l'aveva vista in faccia.
Quando raggiunse Dover Street si sentì sorprendentemente sollevata. I
taxi, neri come scarafaggi, si arrampicavano da Bond Street e Piccadilly, e
lei riuscì a superarli facilmente. Era contenta di essere tornata in ufficio. Lì
era padrona di sé, lì il gioco aveva delle regole chiare.
Louise consultò il suo blocco dei messaggi. « Fiona dice che le dispiace,
ma non possono trasferire le prenotazioni per l'Italia. »
« Che bastardi. Come sono affezionati alle loro regolette, eh? » Ma forse
lei e Ted sarebbero riusciti a trovare un'alternativa. « Che altro? »
« Paul Gregory non ritiene che gli editori dovrebbero avere la percentua-
le sui diritti cinematografici. Fine dei messaggi. La posta è sulla tua scri-
vania, soprattutto proposte respinte e un manoscritto. Ah... »
Barbara era impaziente di mettersi al lavoro, dopo la falsa partenza di
quella mattina. « Bene, vai avanti. »
« Volevo dirti se posso portare qualche volta Hannah, durante le vacan-
ze. »
« Ma certo. Perché mai non potresti? » Probabilmente, ora che aveva let-
to di Angela, Louise aveva qualche esitazione a portare la bambina in uffi-
cio, ma ovviamente non era il caso di farsi problemi. Eppure per un attimo
Barbara si chiese se non fosse troppo ansiosa di liquidare gli eventi della
mattinata, di togliersi Angela dalla testa. Non doveva cominciare a rimugi-
nare: Angela era morta nove anni prima, e lei era arrivata a farsene una ra-
gione; lasciare che il suo senso di colpa interferisse con il suo lavoro ora
sarebbe stata una falsa preoccupazione, ingiusta verso il suo ricordo di
Angela.
Arthur sorvegliava la posta sopra la scrivania. Barbara spinse la fotogra-
fia più vicino al telefono per avere più spazio. Lettere dall'America entu-
siaste di Torrente di vite, un autore che si lamentava perché un piccolo edi-
tore lo aveva plagiato subito prima di fallire per poter rientrare nell'attività
con un altro nome, un agente che cercava di vendere i diritti americani, che
lei aveva già venduto, di uno dei suoi libri. Prima apriva un ufficio in A-
merica e meglio era. Ecco poi un manoscritto restituito da uno dei maggio-
ri editori, le pagine tutte in disordine e macchiate di cerchi di caffè. Ecco
due libri di esercizi di un vicario della Cornovaglia. La sua lettera era scrit-
ta con impeccabile calligrafia: « Ho letto l'articolo su di lei nel giornale di
domenica, e mi sono chiesto se potesse avere il tempo di piazzare un li-
bretto che non è assolutamente di moda, ma, spero che sia d'accordo, tanto
meglio per lui... » Da quando era uscito l'articolo si era trovata assediata
dalle lettere di simpatia per Angela e dai manoscritti, quasi tutti battuti con
nastri grigiastri quasi illeggibili, tutti impubblicabili. La snervava pensare
a tutta la creatività frustrata che c'era al mondo.
Be', come giornata di lavoro rientrava nella media. Prima voleva chiarire
le cose con Paul. Finalmente il telefono di lui smise di suonare. « Chi è? »
chiese una voce infantile.
« Potrei parlare con Paul Gregory, per favore? Sono Barbara Waugh. »
« E Barbara nonsoché », gridò il bambino. Dopo un po' arrivò la voce di
una donna. « Veramente volevo parlare con Paul », disse Barbara, « Sono
la sua agente, Barbara Waugh. »
« In questo momento non c'è. » La moglie di Paul sembrava circospetta.
« Vuole che la faccia chiamare? »
« Sì, grazie. Gli dica che gli americani sbavano per la sua trilogia. Sa-
ranno tutti in fila quando vado a New York. »
« Di questo dovrà parlare con lui », disse Mrs. Gregory, e riattaccò di
botto. Era lei che aveva fatto cambiare idea a Paul sui diritti cinematogra-
fici? Ora che il marito stava facendo un mucchio di soldi, le pareva che
Barbara ne stesse dando via troppi? Era impaziente di chiarire l'equivoco,
ma arrivò Louise con la posta del pomeriggio — un nuovo dattiloscritto di
Cherry Newton-Brown.
Barbara lesse le pagine iniziali e si sentì subito rincuorata: se tutto il li-
bro era così interessante, allora erano a cavallo. Poteva portarsi qualche
capitolo da leggere al parco. Stava ancora leggendo quando allungò la ma-
no per prendere il telefono; voleva chiedere a Louise di farle avere un san-
dwich — il romanzo era più che interessante, era appassionante — ma im-
provvisamente sentì qualcuno che discuteva animatamente con Louise.
Barbara alzò il ricevitore non appena il telefono squillò. « C'è qui una
certa Miss Margery Turner », disse Louise. « Non ha un appuntamento, ma
insiste per vederti. »
« Cosa vuole? »
« Dice che deve dirtelo di persona. »
« Oh, una di quelle. » Un'autrice impubblicabile che tentava quel trucco
nella speranza di convincerla a proporre il suo lavoro. « Pensi che abbia
qualcosa da offrire? »
« Decisamente no, direi. »
« Dille di scriverci una lettera. Ah, e quando ti sarai liberata di lei, puoi
andare giù a prendermi un sandwich? Una cosa qualsiasi con l'insalata. »
Cercò di riprendere la lettura, ma non riuscì a concentrarsi: Miss Mar-
gery Turner stava ancora discutendo, con quella voce lenta, confusa e petu-
lante. Si trovò a rileggere sempre le stesse parole: lui non poté fare a meno,
lui non poté fare a meno. La discussione cessò improvvisamente e Louise
entrò nell'ufficio. « Non vuole andarsene », bisbigliò.
« Oh, sì che se ne andrà. Ho già avuto abbastanza idiozie per una sola
giornata. » Barbara si avviò decisa verso l'anticamera — sentiva già come
doveva essere fredda e secca la sua voce — ma si bloccò tra le due stanze,
fissando la donna con i capelli ossigenati, il suo viso tondo da adolescente,
il suo sorriso vago.
Capitolo 10
Una cosa fu subito chiara a Barbara: se quella donna avesse avuto qual-
cosa a che fare con le due telefonate, non sarebbe mai andata lì, tanto più
che anche Louise, oltre a Barbara, poteva vederla. Ma questo riapriva
troppi interrogativi che Barbara aveva creduto definitivamente chiusi. Non
sapeva cosa dire, riusciva solo a fissare Margery Turner e a sentirsi sempre
più fragile. Alla fine la donna disse: « Posso parlarle in privato? »
Barbara recuperò un po' di controllo; dopo tutto quello era il suo ufficio.
« Dipende da quello che vuole. »
« La stessa cosa che vuole lei. La stessa cosa che cerca lei. »
« Che sarebbe? »
« Lo sa benissimo. Il motivo per cui è andata in quella casa. »
« Forse non lo so. » La conversazione stava diventando assurdamente
inconsistente. « Forse può dirmelo lei. »
La donna la guardò con sospetto. « Se vuole glielo dico, ma non potrei
parlargliene a quattr'occhi? »
La cosa principale era scoprire cosa voleva, cosa sapeva; Barbara si sentì
come se lei stessa non sapesse niente di niente. « Devo uscire », disse d'un
tratto. « Se vuole può venire con me. »
Mentre prendeva la borsa le parve che gli occhi di Arthur la guardassero
come per metterla in guardia, ma doveva essere un riflesso del sole sul ve-
tro. « Torno tra un'oretta », annunciò a Louise e si affrettò a uscire, per non
darsi la possibilità di chiedersi che cosa si stava attirando addosso.
Sulle scale Margery Turner spiegò : « Non volevo parlare davanti a
quella. Non mi piace la gente che ti tratta come un criminale. Quando ho
detto che cercavo la stessa cosa che cerca lei, intendevo dire le persone di
quella casa che hanno rapito mia figlia, come la sua. »
Barbara riuscì a non reagire. Non doveva mostrare niente finché non a-
vesse saputo qual era il gioco della donna. Forse c'era un modo per far par-
lare più liberamente la donna. « Perché non ne discutiamo a pranzo? »
propose.
Arrivarono in fretta a Mayfair, giù per Hay Hill e in fondo a Lansdowne
Row, dove il canaletto che separava il marciapiede dalla strada sembrava
una crepa aperta dal calore. Camminando per Curzon Street, tra gli edifici
bicolori di mattoni rossi e crema, a Barbara parve di entrare in una fornace;
sentiva le pareti bruciare. Accanto alla chiesa della Christian Science, la
bottega di un barbiere alitava dopobarba. Su un monticello, nella vetrina,
erano piantati dozzine di pennelli da barba, come anemoni disseccati.
Per tutta la strada fino al ristorante Barbara non riuscì a parlare, ma le
parve una strategia sbagliata e pericolosa rimanere in silenzio. « Che cosa
ne sa delle persone di quella casa? » chiese, e la domanda le parve suffi-
cientemente vaga per non tradire la sua ignoranza. « Dove sono adesso? »
« Le mostrerò la lettera quando saremo sedute. » La voce della donna
era lenta come il suo grosso corpo. « Probabilmente si starà domandando
come ho fatto a entrare in contatto con lei. »
« Be', sì », ammise Barbara.
« Devo confessare che l'ho seguita allo studio. Non mi piace la gente che
fa queste cose, ma sentivo che non potevo fare altrimenti. Vede, l'ho rico-
nosciuta dalla fotografia quando è venuta nella mia strada — ho letto di lei
in biblioteca. E così quando ho visto che andava in quella casa ho capito
che cosa stava cercando. »
Questo non aveva senso. « Che cosa pensa che stessi cercando? »
« La sua bambina, è chiaro. » Anche se il sorrisetto non era scomparso
neppure per un momento, i suoi occhi apparivano impauriti, sospettosi. «
Non mi ricordo come si chiama », aggiunse.
« Si chiama Angela, ma perché mai pensava che la stessi cercando, se è
morta nove anni fa? »
« Come sarebbe a dire? » La donna sembrava offesa. « Chi lo ha detto?
»
« Uno di quelli che lo hanno detto », rispose Barbara, con una specie di
trionfo amaro, « è l'autore dell'articolo che lei ha letto. »
Per un attimo fu di nuovo sicura che fosse stata Margery Turner a fare le
telefonate, finché non vide quanto la donna era perplessa. « Quella parte
non l'ho letta, ho letto solo di Angela. Non avevo nessuna ragione per inte-
ressarmi a lei, no? » continuò in tono insistente. « Quelli della biblioteca ti
trattano come se andassi lì a rubare i libri, ci credo che mi è sfuggita quella
parte. »
Era troppo goffa per essere una bugia. « E comunque non può credere
che sia morta, altrimenti non sarebbe andata in quella casa. »
« Di questo ora non desidero parlare », disse Barbara in mancanza di una
risposta migliore, e le fece strada attraverso l'arcata poco più grande di un
portone, che dava nello Shepherd Market. Al centro del piccolo cortile pia-
strellato una prostituta con una corta pelliccia stava accanto a una fila di
cabine telefoniche, rosse come il suo rossetto.
« Pensavo che potessimo darci una mano a vicenda », spiegò Margery
Turner.
La cosa aveva un suono sinistro. « Certamente la polizia può fare più di
me. »
« La polizia? » Il sorriso della donna si fece incerto. « Non faranno nien-
te, perché Susan ha più di diciassette anni. Loro dicono che non la credono
in pericolo, ma vogliono soltanto tenerla lontana da me. Lei sa come tratta-
no le ragazze madri. Adesso non so più a chi rivolgermi. »
« Be', comunque può dirmi di che si tratta », disse Barbara con cautela,
entrando nel locale.
Fotografie di pugili gialle come pelle vecchia tappezzavano la parete so-
pra la scala di ingresso. Solo dopo il tramonto quell'atmosfera fioca color
arancio poteva essere percepita come luce. Mentre si faceva strada verso
un tavolino Barbara provò la sensazione di avanzare in mezzo a gelatina.
Subito un cameriere si avvicinò al tavolo. Margery lo guardò fisso, sfi-
dandolo a buttarla fuori. « Quello che prende lei », disse a Barbara quando
questa le chiese di ordinare.
Presto arrivò il vino. Margery sembrava riluttante a parlare: aveva conti-
nuato a lanciare occhiate agli avventori vicini, alle giacche buttate sulle
spalliere delle sedie. Ora aveva quasi vuotato il suo bicchiere e si sporse in
avanti. « Voglio essere franca con lei », disse. « Non hanno rapito Susan
nel modo in cui hanno rapito la sua bambina. Susan è scappata di casa. »
Barbara poté soltanto annuire.
« Non sopportava la gente che stava dove abitavamo noi », continuò
Margery. « Non erano più anziani di lei o di me, ma parevano dei vittoria-
ni. Se una faceva uno sbaglio e poi non poteva sposarsi, la trattavano come
si tratta un lebbroso. Susan diceva sempre che non osavano neppure pensa-
re che esistesse qualcosa di degno al di fuori di loro stessi. »
Scostò il piatto di salsicce e si tirò vicino il bicchiere, che Barbara riem-
pì. « Susan aveva un temperamento artistico, sa. Era brillante, ma non ha
mai combinato niente. Io continuavo a tormentarla con la scuola d'arte —
oh, devo averla tormentata per un anno di seguito, anche più. Vede, io non
sono mai stata troppo brava a scuola, non volevo che finisse come me.
Quando è scappata di casa ho pensato che forse era andata alla scuola d'ar-
te, finché non ho avuto la sua lettera. Allora ho capito che se n'era andata
per via dei vicini, anche se non lo diceva. I tipi artistici non sopportano la
gente falsa. »
« Voleva mostrarmi quella lettera », le ricordò Barbara.
« No, non quella. Quella era solo per farmi sapere che stava bene — al-
meno lei diceva così, ma se non c'era niente da nascondere non mi avrebbe
nascosto l'indirizzo, no? L'ho fatta vedere alla polizia, ma loro non hanno
voluto far niente. Oggi dovremmo avere l'uguaglianza, ma ci trattano da
mezze calzette se non siamo la regina o il primo ministro. »
Frugò nella borsa nera. « È questa la lettera che intendevo. Ha sbagliato
l'indirizzo, si era dimenticata dove abitavo. L'hanno consegnata all'altro
capo della strada e quelli non è che me l'hanno portata, no, hanno cancella-
to l'indirizzo e l'hanno impostata di nuovo. Questo è il genere di cose che
devo sopportare. Se me l'avessero portata potevo trovare Susan mentre era
ancora in quella casa. »
Era solo l'ultimo foglio della lettera, con qualcosa disegnato sul retro. La
scrittura grande e piuttosto infantile se non altro si leggeva facilmente in
quella luce color marmellata. Margery rimase attentissima mentre Barbara
leggeva, pronta a riprendergliela quando avesse finito.
Capitolo 11
Seduta sul letto, Margery guardava dalla finestra. Sopra le case scrostate
e scolorite, l'azzurro sbiadiva nel cielo; da qualche parte nelle vicinanze un
uomo e una donna litigavano. Margery stava leggendo un romanzo: una
brillante attrice che usava il suo talento per rubare, sedurre, ricattare e per
farsi strada nell'alta società internazionale. L'autore aveva dedicato il libro
al suo agente, Barbara Waugh.
Dov'era Barbara? A giudicare dal cielo, doveva essersi fatto tardi. Mar-
gery si affacciò alla finestra. Le case bianche erano come lenzuola appese,
piene di buchi, sopra i grigi marciapiedi; l'uomo aveva smesso di gridare,
la donna ora urlava; due uomini passarono tranquilli, ignorando quelle ur-
la. A Margery piaceva la gente che si faceva gli affari suoi, ma a volte le
pareva che in quei paraggi si esagerasse.
Infilò il libro sotto il letto insieme agli altri. Ne aveva abbastanza, abba-
stanza di bugie. Susan occhieggiava dallo stretto scaffale sopra il letto. Il
sole non ci arrivava mai, e pareva che il suo sguardo arrivasse attraverso la
nebbia anziché attraverso il vetro, su in mezzo alle ombre e alle macchie di
umidità che si raccoglievano sotto il soffitto. Se Margery accendeva la lu-
ce, le macchie scure erano ancora lì, e Susan veniva cancellata da una lama
di luce sopra il vetro.
Susan reggeva un libro di opere di Picasso, che aveva scelto come pre-
mio a scuola. A Margery non piaceva quasi nessuno di quei quadri, che pa-
revano disegni di vandali fatti sul muro, ma d'altra parte non aveva mai
preteso di capire niente di arte; se quelle cose aiutavano Susan, quello era
l'importante.
Magari avesse continuato su quella strada! Margery aveva cercato di in-
coraggiarla a migliorare il suo aspetto, ma Susan guardava appena le cose
che lei le portava a casa in regalo. Prima di lasciare la scuola aveva comin-
ciato a rivoltarsi contro tutto quello che la madre avrebbe voluto per lei.
Troppo tardi Margery aveva capito che doveva esserci qualcuno che gliela
metteva contro, ricordandole tutti gli sbagli della madre. E questo era stato
confermato dal fatto che tanti — i vicini, la polizia — erano stati conten-
tissimi quando Susan l'aveva lasciata.
E chi sa che Barbara Waugh non fosse uguale a loro. Era sembrata gene-
rosa quando aveva bevuto con Margery, ma forse il vino doveva servire a
non farle fare tante domande. Possibile che sapesse così poco delle persone
che vivevano nella casa abbandonata, se poi ne sapeva abbastanza da anda-
re a cercare lì la piccola Angela? Che aveva voluto dire affermando che
Angela era stata uccisa? Forse aveva solo fatto finta di essere comprensiva,
perché Margery non insistesse e lasciasse senza spiegazione queste cose.
Quel giorno era andata alla biblioteca per guardare l'articolo su Barbara
Waugh, per vedere se veramente diceva che Angela era stata uccisa, ma
quando aveva detto che non sapeva la data di pubblicazione l'impiegato
l'aveva trattata come se fosse un'analfabeta. Le avevano detto, senza nem-
meno controllare, che l'articolo non c'era. Era contenta di avergli rubato la
copia del libro che aveva notato nell'ufficio di Barbara — loro non gliel'a-
vrebbero mai dato in prestito — ma non le era stato di nessun aiuto per ca-
pire meglio Barbara Waugh. Come poteva essere sicura di quella donna?
Ma sarebbe poi venuta?
La sigla di « Charlie's Angels » strepitava nell'appartamento a fianco.
Nei giorni in cui poteva permettersi di noleggiare un televisore, guardava
sempre le « Angels » con un certo disprezzo — erano così impeccabili, in-
trepide e irreali — ma dentro di sé avrebbe voluto essere capace di risolve-
re i problemi con la loro abilità. Certo loro non dovevano affrontare la vita
reale, troppo squallida e piena di delusioni. E ora le ricordavano appunto
quanto fosse piena di delusioni, perché la loro sigla significava che erano
le otto e che Barbara non sarebbe venuta.
E così la serata era buttata via. Se c'era qualcosa da scoprire nella casa
accanto al cavalcavia, sarebbe rimasto nascosto mentre loro portavano Su-
san ancora più lontano. Margery era una porcheria di madre, non sapeva
far nulla per salvare la sua bambina.
Improvvisamente si riprese. Ce l'avevano quasi fatta, ma lei era l'unica
persona che quelli non potevano mettere contro Margery Turner. Erano
quasi riusciti a farla diventare quello che tutti volevano che fosse, ma lei
non la si vinceva così facilmente, no, e proprio quando Susan era in peri-
colo. Il mercato era chiuso adesso, non doveva esserci nessuno a chiedersi
che cosa ci facesse lei nella casa vuota. Che l'arrestassero pure, aveva la
seconda lettera di Susan per spiegare perché era lì. Poteva farcela benissi-
mo da sola, non c'era bisogno di nessuna Barbara Waugh.
E, perdio, Barbara Waugh l'avrebbe aiutata se fosse stato necessario. Po-
teva garantire per Margery; dopo tutto anche lei era entrata abusivamente
in quella casa, se quello era entrare abusivamente. Forse aveva pensato che
poteva liberarsi di Margery mentendole, ma da come si era comportata da-
vanti alla segretaria si capiva che aveva qualcosa da nascondere; even-
tualmente Margery poteva giocare su quello. Sorridendosi allo specchio
sopra il lavandino, si truccò gli occhi e uscì.
A parte il rumore del traffico sul cavalcavia, le strade erano più silenzio-
se che durante il giorno. Ora che la luce era più fioca, chiunque aveva la
possibilità di essere se stesso e lei riuscì a guardare direttamente le case
bianche. Poteva distinguere ogni tratto di calce sui fregi dai bordi acuti dei
comignoli. Mentre passava accanto alle finestre aperte, le « Charlie's An-
gels » correvano di casa in casa.
Portobello Road, ora che il mercato era stato tolto, sembrava molto più
larga. Le vetrine erano silenziose come bacheche di musei, ma più polve-
rose. Si arrestò sotto il ponte, in mezzo ai rifiuti, e fissò la casa con il can-
cello murato. Non doveva perdere il coraggio. Forse non c'era niente, là
dentro, da trovare, ma avrebbe comunque dimostrato che era in grado di
affrontare le cose da sola, che non aveva bisogno di appoggiarsi ad altri,
visto che erano tutti così inaffidabili. Fissò la mente su questo pensiero e si
costrinse a uscire dall'arcata del ponte.
Il rumore le inchiodò all'improvviso i pensieri. Aveva già fatto un po' di
strada prima che diventasse proprio doloroso, altrimenti sarebbe tornata
indietro. Sentiva il rumore come se le nascesse nella testa e sgorgasse ver-
so l'esterno. Scavalcò a fatica la poltrona che aveva spezzato la recinzione
tra i giardini e avanzò barcollando fino al portico, per trovare rifugio dal
rumore. Non le importava più che qualcuno la vedesse.
Esitò quando si accorse che la porta d'ingresso era chiusa; ricordava be-
nissimo che Barbara Waugh l'aveva lasciata spalancata. Ma si aprì facil-
mente, rivelando un corridoio che portava, lungo la scala, fino alla cucina.
Attraverso la porta della cucina si vedeva una finestra, oltre la quale era
ammucchiata della spazzatura. C'era una porta aperta su ciascuno dei due
lati del corridoio. Il pavimento, il tappeto troppo stretto e troppo corto per
le scale, le scale stesse, tutto era bianco di polvere.
A ogni passo, il rumore l'accompagnava. Avvertiva la polvere scricchio-
lare sotto i piedi, ma non ne sentiva alcun suono. Guardando indietro, vide
le sue impronte che la seguivano. Nella polvere davanti a lei non c'era al-
cuna traccia. Contenta di riuscire a ragionare nonostante il rumore, chiuse
la porta d'ingresso e si affrettò lungo il corridoio.
La cucina era piena di porte chiuse: armadietti pensili, un frigorifero
malconcio, una stufa scheggiata strappata dal muro con i fili pendenti. La
stufa era vuota, mentre in fondo al frigorifero c'era un oggetto marcito non
identificabile. Quando riuscì ad aprire gli armadietti, con le loro porte scor-
revoli intasate dalla polvere, trovò diversi barattoli che parvero ricoperti di
pelo grigio.
Tornò in corridoio. Il rumore era insistente e continuo, una sostanza
fluida in cui la casa annegava. Aveva lanciato un'occhiata nelle stanze ai
lati del corridoio mentre andava in cucina — stanze lunghe quanto la casa,
nude salvo che per la polvere — perciò ora si fermò, con il cuore che le
batteva fino a farle male. Ma la massa grigia appena dentro la porta di de-
stra era un mucchio di ragnatele e di polvere, o di imbottitura di una pol-
trona, non un animale. Scansandola, entrò nella stanza.
Non c'era niente dove cercare. A parte un caminetto che un tempo era
stato bianco, la stanza era assolutamente vuota. Una cenere nera e untuosa
le volò incontro mentre si chinava sulla grata. Ritornò velocemente nel
corridoio, senza curarsi dello svolazzare della fitta massa di ragnatele.
Anche la stanza di fronte era vuota. Il telaio della finestra che dava sul
retro giaceva rotto sul pavimento. Se tutta la casa era così, che senso aveva
cercare? Ma non poteva saperlo finché non avesse guardato. Perché dove-
va aver paura di andare al piano di sopra? Che importava trovarsi più o
meno vicini alla porta d'ingresso, visto che la casa era così evidentemente
disabitata?
Eppure, salendo le scale, aveva la sensazione di qualcuno assolutamente
immobile, non poteva dire dove, che la guardava. Il genere di sensazione
che può avvertire chiunque in una casa deserta. L'odore della polvere si
raccoglieva nelle narici, l'aria appariva grigia, buia e agitata. Sopra le scale
una tela di ragno gonfia di polvere scura si mosse quasi impercet-
tibilmente.
Tutte le porte del primo piano erano aperte. La stanza da bagno contene-
va un gabinetto senz'acqua in cui stava strisciando un ragno; una macchia
oblunga sul pavimento mostrava il punto dove un tempo era stata la vasca.
Le due stanze granai erano completamente vuote. Ragnatele lacere pende-
vano dal soffitto, ricadendo mollemente lungo le pareti.
Fu contenta di non dover rimanere a lungo nelle stanze: non vedere le
scale la metteva in agitazione. Ma le uniche impronte che andavano verso
di lei erano le sue, e sulle scale davanti a lei non ce n'erano. Cominciava a
sentirsi irritata: era possibile che Barbara l'avesse imbrogliata per farla an-
dare da sola, per farle capire di non seccarla più? Stava solo cercando una
scusa per non andare al piano di sopra; era il nervosismo che la rendeva ir-
ritabile. Fece la faccia cattiva, al nulla, come se questo potesse spaventare
e mandar via il suo nervosismo, e salì in fretta la rampa.
Quelle scale erano più buie del resto della casa. Pareva che il caldo e la
polvere si fossero accumulati tutti lassù, come una oscura opprimente pre-
senza sotto il tetto. Salendo respirava a brevi boccate, ma sentiva il naso
intasato. Improvvisamente si ricordò di una cosa che aveva visto dall'e-
sterno: la finestra di sinistra dell'ultimo piano era murata. Non c'era da stu-
pirsi che fosse così buio. Desiderò non dover entrare in quella stanza.
Ma invece doveva entrarci, anche se dalla porta poteva vedere che lì
dentro era ancora più buio del previsto. La finestra sul davanti era murata,
ma perché non veniva nessuna luce dal retro? Lanciò un'occhiata, a disa-
gio, alla rampa semibuia — nient'altro che le sue impronte — poi si fece
forza ed entrò.
Oltre la porta c'era un passaggio non più largo di una cabina telefonica.
Sulle prime pensò che quello fosse il motivo del buio, poi riuscì a distin-
guere la stanza al di là di una porta aperta in fondo al breve passaggio. La
stanza era ancora più buia. Si spinse avanti e si rese conto del perché. Non
solo la finestra sul davanti, ma anche quella sul retro era stata murata.
Stava muovendo la mano a tastoni nel buio in cerca di un interruttore —
se quella stronza della Waugh non le avesse fatto il bidone ora non avrebbe
avuto tanta paura — quando la raggiunse quell'odore. Era troppo lieve per
poterlo identificare, ma era assolutamente tremendo. Per un attimo pensò
di essere in trappola, che la porta che dava sul pianerottolo si sarebbe chiu-
sa, bloccandola lì dentro nel buio e nel fetore. Nessuno avrebbe sentito le
sue grida. Allora si precipitò fuori sul pianerottolo e sbatté la porta così
forte che il tonfo risuonò al di sopra dell'onnipresente rumore, per tutta la
casa.
Susan aveva vissuto in quella casa. L'avvilimento di Margery era così in-
tenso, anche vago, che temette di sentirsi male. Fu l'avvilimento che la co-
strinse a entrare nell'ultima stanza vuota, anche se poteva vedere che non
c'era niente da trovare. D'impulso gettò un'occhiata dalla finestra posterio-
re. Dietro la casa c'era una vasca da bagno semisepolta sotto un mucchio di
spazzatura che pareva provenire da tutte le case. Se c'era qualcosa da tro-
vare, forse era in quel mucchio.
Si stava affrettando verso il pianerottolo — si era resa conto che se la
porta della camera murata si fosse riaperta lei non l'avrebbe sentita, anche
se non sapeva bene perché questo dovesse renderla nervosa — quando u-
n'asse del pavimento si smosse sotto i suoi piedi. Il pavimento rovinato
stava per cedere sotto il suo peso? Fu sul punto di cadere e fu così che notò
il pezzo di carta che spuntava dalla tavola fuori posto.
L'eccitazione svanì quando vide di che si trattava: una pagina accartoc-
ciata strappata da un libro, come le pagine che aveva visto sparse per il
giardino davanti al portico. Ugualmente tirò fuori la pagina da sotto la ta-
vola e la lisciò sul pavimento. Era di un libro intitolato I filosofi della ca-
mera da letto e descriveva le torture di una madre. Sul retro c'era un'illu-
strazione, ma se era disgustosa come il testo, Margery non voleva guardar-
la. Eppure, non faceva parte della vita che aveva condotto Susan? Riluttan-
te, girò la pagina.
Il disegno non illustrava il testo. Era un ritratto fatto da Susan. Lesse
quello che Susan aveva scarabocchiato sotto, poi guardò lo schizzo del vi-
so. Era più di quanto avesse sperato. Ora Barbara Waugh non poteva più
rifiutare di aiutarla.
Improvvisamente ebbe paura. Senza motivo, ebbe la certezza che non
doveva portare via il disegno dalla casa, che già si era messa in pericolo
trovandolo. Tutte le paure indistinte che aveva avvertito da quando era en-
trata nella casa la stavano aspettando sul pianerottolo. Vi si precipitò prima
di essere troppo terrorizzata per farlo.
La porta della stanza murata era ancora chiusa. Corse di sotto, spaventa-
ta dal rumore dei suoi stessi passi; non poteva sentire altro per il frastuono
del traffico sul cavalcavia, ma se avesse potuto sentire? Pareva che attorno
a lei incombesse qualcosa di più che il calore e la polvere.
All'altro pianerottolo si bloccò, con gli occhi sbarrati. Le sue impronte
nella polvere scendevano al pianterreno è pareva facile ripercorrerle, ma
erano confuse, come se ci avessero trascinato qualcosa sopra. Forse la cor-
rente le aveva semi cancellate, o forse, pensò disperatamente, erano già
prima così. Ma il tempo stringeva. Ci avrebbe pensato una volta fuori dalla
casa.
Scese ancora incespicando fino al ballatoio successivo, afferrandosi alla
ringhiera — una scheggia le si piantò nel palmo — ma lì dovette fermarsi.
I polmoni le scoppiavano; la polvere pareva non aver lasciato spazio per
l'aria. Solo un'altra rampa e avrebbe visto la porta d'ingresso sotto di lei.
Ma da lì poteva già vedere il punto dove s'era raccolta la massa di ragnate-
le, e la massa di ragnatele non c'era più.
Non sapeva cosa l'avesse fatta voltare, stringendo tra le dita la pagina
strappata: certamente non un rumore. Chiaramente un colpo di vento pote-
va aver spostato la massa grigia della porta e forse un colpo di vento stava
facendo arrivare quella massa, o un'altra come quella, verso di lei, saltel-
lando giù per le scale. Nella stanza a pianterreno le era venuto in mente un
animale, ma questo appariva un essere informe, un feto coperto di ragnate-
le e polvere, o di ragnatele e polvere composto. Era così veloce che si era
arrampicato lungo il suo corpo ed era arrivato quasi alla faccia prima che si
mettesse a urlare.
Capitolo 12
Capitolo 13
« Temo proprio che lei sia rimasta vittima di un brutto scherzo », disse
l'ispettore.
Le pareti del suo ufficio erano di un colore che ricordava la trippa, inna-
turalmente vivide sotto i tubi fluorescenti. Chiazze di luce si raccoglievano
sulla scrivania, sulla plastica delle poltrone, sulla coppa della sottile lam-
pada da tavolo; una macchia galleggiava come latte sulla superficie della
tazza di tè, intatta, di Barbara. Tutto sembrava piatto come una pagina, sul-
la quale lei poteva vedere il disegno del viso di Angela.
Doveva rimanere calma, per quanto agitata si sentisse, altrimenti avreb-
be potuto dire troppo. « No, non credo. Sono sicura che questa setta esiste.
» Cominciava a sentirsi confusa: Margery aveva detto che si trattava di una
setta? Aveva dovuto raccontare che secondo Margery Susan era stata coin-
volta nel culto, e anche così le sembrava di tradire la promessa di segretez-
za che aveva fatto alla voce al telefono. Ora era ansiosa di mantenerla,
quella promessa, ma a quanto di tutta quella faccenda lei stessa credeva? «
Non capisco perché pensa che si tratti di uno scherzo. »
« Be', per esempio, se la morta era così preoccupata che sua figlia si fos-
se aggregata a questa setta, perché non è venuta da noi, invece che da lei?
»
« Pensavo che lo avesse fatto. » Margery non le aveva detto che non a-
vevano voluto aiutarla perché Susan aveva più di diciassette anni? « In ef-
fetti mi pare proprio che mi abbia detto così. »
« Deve aver capito male, Mrs. Waugh. Forse intendeva che si è rivolta a
noi quando Susan per la prima volta se n'è andata di casa. » L'ispettore era
gentile con lei — la sua faccia placida e tonda con quei baffi macchiati di
pipa la facevano pensare a un vecchio zio affettuoso — ma sentiva che
stava preparando qualcosa. « Torniamo allo scherzo. Mi diceva che la Tur-
ner si è messa in contatto con lei e l'ha convinta che sua figlia Angela era
coinvolta in qualche specie di setta. Non riesco a capire come avrebbe po-
tuto saperlo, ma per il momento ammettiamolo », disse, con sollievo di
Barbara. « Stasera lei doveva incontrarla a casa sua ma, visto che non c'e-
ra, è andata alla casa che le aveva descritto. Non le è parso curioso che vi-
vesse così vicino a quella casa? »
« No, no, per niente. Si era trasferita lì nella speranza di trovare la figlia.
»
« Questa è la spiegazione che ha dato a lei. »
Improvvisamente l'ispettore era così gentile che lei si fece più nervosa. «
Sì, e poi non le piaceva la gente, dove abitava prima. Era stata contenta di
cambiare casa. »
« Sono sicuro che è vero, ma il perché glielo ha detto? »
« Non me lo ha detto esplicitamente, ma io ho capito che non si fidava di
loro. »
« Ho paura che sia il contrario. Era contenta di andare ad abitare in un
posto dove non la conoscevano. Vede, quella donna aveva scontato una
condanna in penitenziario. »
Non aveva importanza quello che Margery era stata, non poteva modifi-
care la realtà del disegno di Angela. Eppure, la stanza, così vivida, comin-
ciò ad appiattirsi, a perdere prospettiva. « Cosa aveva fatto? »
« Era una ladra. Un tempo era stata anche curata per questo, ma a quanto
pare non era servito a molto. Posso pensare che quando ci venne a dire che
la figlia era andata via di casa noi non fossimo proprio ansiosi di riunirle,
date le circostanze. Deve essere stata un'ottima cosa che la figlia si sia fatta
una vita per conto suo, non crede? Mi scusi », disse, sentendo che qualcu-
no bussava alla porta.
Mentre lui e un altro poliziotto mormoravano fuori dall'ufficio, una sce-
na si ripeteva incessante davanti agli occhi di Barbara: Margery che in-
ciampava su per le scale del ristorante, si afferrava alla giacca di qualcuno,
si allontanava in tutta fretta. Che cosa aveva fatto la mano sinistra dopo
aver preso la giacca? Si era aggrappata alla ringhiera per aiutarla a salire o
era corsa alla borsetta? Ma c'era qualcosa di più importante che Barbara
doveva ricordare.
Prima di poterlo fare, l'ispettore tornò alla sua scrivania. « La Turner le
ha mai chiesto soldi? »
« No, assolutamente mai », rispose lei, e poi le vennero in mente le ulti-
me parole che aveva sentito da Margery: « Non potrei pagare molto per i
viaggi ». Che altro sarebbe venuto fuori su di lei, ripensandoci? « Almeno
», aggiunse a malincuore, « non esplicitamente. »
« Bene, vede che ci siamo arrivati. In realtà la condanna la ebbe per es-
sersi procurata del denaro con delle storie inventate. Dio solo sa che altro
può aver organizzato. In questo momento stiamo controllando il contenuto
del suo appartamento. »
Improvvisamente Barbara capì che cosa stava cercando di ricordare. « E
anche la sua borsa? »
« Sì, naturalmente. Perché me lo chiede? »
« Lei pensa che si era inventata quella setta per estorcermi del denaro,
ma io posso dimostrarle che ha torto. Tra le sue cose troverete una lettera
di sua figlia che prova che quella cosa esiste. »
Lui parve voler obiettare qualcosa, poi ci ripensò. « Tutte le sue cose so-
no qui. Me la mostri lei. »
La condusse in un locale sotterraneo. Non c'erano finestre: la luce al ne-
on congelava le pareti. Una giovane agente, con il viso rigido e senza truc-
co, stava sistemando degli oggetti su un tavolo. « Mi faccia il piacere di
tenerli in ordine », disse a Barbara.
C'erano i libri della biblioteca, un rotolo di banconote che parevano ve-
nire da un portafogli, un certo numero di abiti che avevano l'aria di non es-
sere stati mai indossati, diversi gioielli. La vista di tutto ciò, esposto sotto
la luce impietosa, fece sentire Barbara a disagio: c'era nulla lì che apparte-
nesse a Margery, una traccia qualsiasi di lei? Sì, c'era la fotografia di una
ragazza con un libro, e c'erano i libri di scuola con « Susan Turner » scritto
sulla copertina con una grafia che si faceva sempre più sicura fino a essere
esattamente uguale a quella della lettera che aveva visto Barbara.
Ma la lettera non c'era. Scosse i vestiti e i libri della biblioteca, mentre la
poliziotta si mostrava sempre più contrariata e la luce pareva farsi sempre
più intensa. « Dev'essere rimasta nella casa vicino al cavalcavia. »
« Ma lei lì ha già cercato, Mrs. Waugh. L'agente ha detto che lei ha con-
trollato tutti i fogli in giardino. Era la lettera quello che cercava, no? »
Poteva raccontargli dello schizzo? Sembrava la stessa cosa che rompere
il giuramento. Aveva assoluto bisogno di dirlo a qualcuno, a qualcuno che
sapesse cosa fare, e avrebbe ceduto alla tentazione se lui non avesse ag-
giunto: « Secondo me lei deve guardare i fatti in faccia, Mrs. Waugh. La
Turner ha letto di lei sul giornale e ha deciso di vedere quanto poteva spil-
larle ».
Le ci volle un momento per capire che era stata imbrogliata, ma non da
Margery. « Lei dal primo momento sapeva chi sono. Lei pensa che mia fi-
glia sia morta nove anni fa, e così nulla di quello che le ho detto può essere
vero. »
« Sono sicuro che nessuno potrebbe dimenticare che cosa successe a sua
figlia, Mrs. Waugh. Stia tranquilla, il caso non è chiuso. Un giorno forse
riusciremo ad assicurare i colpevoli alla giustizia. Ma lei deve rendersi
conto », disse, accompagnandola via dalla poliziotta che riordinava con a-
ria sprezzante gli abiti di Margery, « che questa è l'unica speranza che ab-
biamo ora. Non deve permettere che gente come la Turner le dia delle false
speranze. Quelli del suo genere prosperano sulle sventure altrui. »
« No, lei non era così. Non è per questo che è venuta da me. Posso am-
mettere che fosse una ladra, ma era sinceramente preoccupata per sua fi-
glia. » Ora era decisa a difenderla, ora che Margery non poteva farlo per-
sonalmente. « Senta, se fosse stato tutto un trucco, perché sarebbe andata
in quella casa? Di cosa mi avrebbe convinto? Stava sicuramente cercando
qualcosa. »
Lui chiuse dietro di lei la porta dell'ufficio. « Mrs. Waugh, adesso mi di-
rà che sono stati quelli della setta a spingerla giù per le scale per chiuderle
la bocca. »
Lei non aveva pensato niente del genere, ma il suggerimento la mise a
disagio. « No, sono sicura che ha perso l'equilibrio ed è precipitata. Ma po-
trebbe essere successo perché era agitata per qualcosa che aveva trovato. »
Sentì un brivido, ricordando quello che aveva trovato.
A un tratto lui si fece meno gentile: era un poliziotto, e ai poliziotti non
piace aver torto; sembrava seccato dal suo tentativo di giocare alla detecti-
ve. « Tutte le prove suggeriscono che la Turner si sia inventata questa co-
siddetta setta e abbia scritto anche la lettera. Se la lettera fosse stata con-
vincente come lei vuole farmi credere, avrebbe potuto portarla a noi. »
Prese il silenzio di Barbara per consenso e tornò gentile. « Non ha bevu-
to il suo tè. Ne vuole una tazza nuova? »
« Se non ha altre domande vorrei andare a casa. » Aveva bisogno di un
po' di tempo per riflettere indisturbata, ma improvvisamente quell'idea
l'avvilì: sarebbe rimasta sola con l'immagine della schizzo di Angela.
« Certamente. » Mentre le apriva la porta aggiunse: « Lo so, è difficile
credere che qualcuno possa fare uno scherzo così crudele, ma non c'è pro-
prio altro da credere, non le pare? Lei sa che sua figlia è morta, ha avuto il
coraggio di affrontarlo. Molti non ce l'avrebbero fatta a ricostruirsi una vita
come ha fatto lei ».
Fuori, l'aspettava il frastuono del traffico. Un'auto sportiva tutta sporca
le passò davanti vomitando fumo del colore del cielo. Nella semioscurità le
case bianche di Ladbroke Grove tremolavano. C'erano tante ombre dove
qualcuno poteva nascondersi per spiare, tanti giardini resi bui dai portici
sporgenti. Si affrettò verso Holland Park Avenue, sul tappeto di luci da-
vanti ai negozi, e poi giù nella metropolitana.
I corridoi piastrellati erano deserti. Le scale mobili sfogliavano i loro
gradini e li mandavano a strisciare sottoterra, e poi di nuovo in alto. Men-
tre la portavano verso il basso, le salivano incontro le facce con gli occhi
sporgenti scarabocchiate sui muri. Non c'era nessuno sulla banchina, nes-
suno che la guardasse tranne Roddy McDowall schiacciato come una fale-
na contro la parete, e non le importava anche se c'era qualcuno: lei la sua
promessa l'aveva mantenuta.
Al Barbican i marciapiedi erano bui e minacciosi come strade deserte e
sconosciute; ogni pilastro poteva nascondere un intero gruppo di persone. I
lampioni si riflettevano nel lago, sotto la chiesa che oscillava nel riflesso. I
suoi pensieri le parlavano più forte del rumore del treno: se Angela era an-
cora viva — e sembrava non ci fosse altro modo di interpretare il disegno
— dov'era adesso? E con chi? Erano loro quelli che Gerry Martin cercava
di rintracciare?
Anche quando si chiuse in casa, Barbara si sentì osservata. Aveva la te-
sta vuota, i nervi scoperti, c'era una sola ragione per cui non si sentiva
completamente impotente: doveva trovare Gerry Martin. Ma così facendo,
non avrebbe infranto il giuramento? D'un tratto la tensione aumentò, e con
essa il malessere. Lo scetticismo della polizia le aveva permesso di mante-
nere il suo segreto, ma se qualcuno di quelli l'aveva vista andare dalla casa
vuota alla stazione di polizia poteva essere la stessa cosa che aver rotto il
giuramento.
Capitolo 14
Il ricevitore del telefono era solido e reale nella sua mano, il segnale ar-
rivava sonoro al suo orecchio, ma non appena le cadde l'occhio sulla foto-
grafia di Arthur, si ritrovò sulla scala mobile. La penombra si attaccava a
tutto come fuliggine; poteva sentirsela addosso. Forse si era infilata fin
dentro i meccanismi, forse era per questo che le scale continuavano a sob-
balzare e a scattare, e sentiva che non sarebbe mai riuscita a raggiungere la
fine del ripido tunnel. Il tunnel era una massa di buio alta sopra di lei, op-
pure era solo un punto più scuro, reso più profondo dalla distanza? Gli oc-
chi dei manifesti incorniciati la fissavano dalle pareti. Ogni volta che ten-
tava di salire, le scale riprendevano a scivolare all'indietro.
Arthur veniva giù per la scala mobile in discesa e lei ebbe l'impressione
che volesse dirle qualcosa. Non poteva, era solo una sua fotografia, inca-
pace di parlare e di muoversi. Lo vide svanire nel buio dove passavano i
treni. Quando guardò avanti, era quasi arrivata in cima, e lì c'era Angela.
Dietro di lei non c'era altro che l'oscurità, un'oscurità che pareva muo-
versi, ma l'aveva quasi raggiunta. Fu solo quando Barbara cercò di correrle
incontro che lei prese a indietreggiare. Le scale scendevano troppo in fretta
perché Barbara riuscisse a salire, e qualcosa stava succedendo al viso di
Angela. Ma non era Angela, era un suo ritratto, e lei si sentì riprecipitare
nel buio... Barbara tornò alla realtà avvertendo un profondo malessere.
Aveva dimenticato per quale motivo la faccia di Angela l'aveva fatta senti-
re così disperata, ma la sensazione era ancora così viva che quando una
voce disse: « Pronto », le ci volle un momento per ricordarsi cosa stava fa-
cendo.
« Pronto, la biblioteca? » Ora ricordava, ed era urgente. « Può dirmi qua-
li giornali comperate? »
Annotò i nomi mentre la voce li elencava: Times, Telegraph, Guardian...
Doveva essere sicura. « È giusta la mia informazione che una certa Mar-
gery Turner aveva l'abitudine di venire a leggere i vostri giornali? »
« Sì, è giusta. » La voce, di un flebile tono tenorile, si era indurita. « E
questo è tutto quello che faceva. Posso chiedere con chi sto parlando? »
Barbara si sentì in trappola. « Solo un'amica », rispose, e riattaccò.
L'altro telefono squillò immediatamente. La bocca le si fece amara e
secca, il cuore le saltò come in un singhiozzo. C'era una sola voce che a-
vrebbe voluto sentire, invece era Louise. « Paul Gregory è qui. »
« Lo ricevo tra qualche minuto. Puoi vedere se una giornalista che si
chiama Gerry Martin lavora per uno di questi giornali? » Quando le ebbe
dato l'elenco si sentì un po' meno impotente. « Va bene, adesso fallo entra-
re », disse.
Paul portava una camicia di seta blu con una cravatta in tinta e un paio di
costosi jeans stinti. « Allora, Paul », esordì lei.
« Allora », ribatté lui, venendo al punto con una disinvoltura che gli era
nuova. « Mi chiedevo come la prenderesti se qualcun altro si occupasse dei
miei diritti in America. »
« Qualcuno tipo Howard Eastwood. »
« An, lo sai già che mi ha contattato? » Doveva averlo preso alla sprov-
vista, ma lui non lo mostrò. Il successo gli aveva dato una sicurezza che
prima non aveva.
« Editori e agenti fanno parte della stessa comunità, Paul. Le notizie
viaggiano. Ovviamente sta esclusivamente a te decidere chi deve rappre-
sentarti. » Per la prima volta quel giorno si sentì sicura di sé, in grado di
dimenticare le sue preoccupazioni e di affrontare il momento. « Sto riscuo-
tendo un bel po' di interesse in America per Torrenti. Vuoi che ritiri i libri
così che possa ripresentarli Eastwood? »
« Puoi farlo? Voglio dire, questo potrebbe indebolire l'interesse degli
americani? »
« Be', sì, ho paura di sì. »
« Oh, allora non devi farlo. » La sua sicurezza cominciava a vacillare. «
Ma non potresti, non so, come... »
« Passare la contrattazione a Eastwood? No, Paul, questo non lo faccio.
A parte il fatto che è stata una scorrettezza enorme da parte sua invitarti a
pranzo, non ho nessuna stima per lui. Sanno tutti che ha l'abitudine di ven-
dere diritti che non è autorizzato a trattare. Francamente, se decidi di far
gestire a lui i tuoi diritti negli Stati Uniti, non mi sentirò a mio agio nel ge-
stire quelli inglesi. »
« Oh, ma non mi sono impegnato assolutamente in niente. » Il suo viso
cercava di rimanere calmo, ma si strofinava la fronte, che ora era coperta
di un velo di sudore. « Per quanto mi riguarda si trattava solo di un sempli-
ce pranzo. »
« Non eri tenuto a saperlo. » Mentre si risistemava sulla poltrona, gli oc-
chi di Arthur le mandarono uno sguardo. « Ma credimi pure, un agente che
tenta di rubare il cliente di un collega non merita nessuna fiducia. »
Paul era chiaramente sollevato che gliel'avesse lasciata passare così li-
scia. « Comunque », disse, « volevo parlarti dell'idea che ho per il soggetto
del prossimo romanzo. » Sembrava interessante — un uomo che dona il
suo sperma per la fecondazione artificiale e poi anni dopo viene a sapere
un terribile segreto sul suo patrimonio genetico e deve rintracciare il figlio
e decidere cosa fare — ma lei si sentiva depressa e non vedeva l'ora di ave-
re notizie da Louise.
Poco dopo Louise comparve, con il caffè e la brutta notizia: « Non rie-
sco a rintracciare Gerry Martin ».
« Gerry Martin? Dove l'ho sentito questo nome? » Paul aggrottò la fron-
te e sorseggiò lentamente il caffè, come aspettandosi che questo gli stimo-
lasse la memoria. Alla fine si strinse nelle spalle. « Forse ho in mente
qualcun altro. »
Barbara ebbe il sospetto che di Gerry Martin non ne avesse mai sentito
parlare, ma che volesse semplicemente mostrarsi disposto a dare una mano
per cancellare la storia di Eastwood. « Puoi vedere se ha scritto qualche li-
bro? » chiese a Louise, e riuscì a nascondere la propria ansia.
Congedò Paul appena possibile e si dedicò alla correzione di alcuni con-
tratti. Arthur la fissava; quegli occhi fermi erano pieni di una domanda a
cui lei non poteva dare risposta e alla fine girò la fotografia da un'altra par-
te. Doveva telefonare delle modifiche contrattuali a Cape, a Gollancz e alla
New English Library, e continuava a pensare che questo avrebbe occupato
una linea. Ma l'altro telefono era libero; Angela poteva raggiungerla. Per-
ché aveva bisogno dell'assicurazione di una telefonata? Non c'era ragione
di temere che qualcuno stesse a guardare la casa vuota accanto al cavalca-
via, che qualcuno l'avesse vista con il poliziotto lì vicino. Forse aveva an-
che meno da preoccuparsi, forse era stata Margery a fare la telefonata, a-
veva architettato la lettera e poi era andata nella casa per metterci il ritrat-
to; Barbara aveva solo la sua parola per pensare che non sapesse disegnare.
La cosa peggiore era che non poteva essere sicura di niente.
Louise entrò a ricordarle che aveva un pranzo con un redattore di Fonta-
na. « Mi dispiace », aggiunse. « A quanto sembra Gerry Martin non ha
scritto alcun libro. Che cosa sai di lei? Magari c'è qualche altro modo per
rintracciarla. »
« Non ne so niente, Louise. Lascia perdere, non importa. » Forse Mar-
gery aveva inventato anche Gerry Martin.
Desiderò non aver organizzato l'incontro con il redattore proprio in quel
ristorante. Chiese al cameriere se erano stati rubati dei soldi, quel lunedì, e
lui parve guardarla quasi come una complice di Margery, anche quando lei
gli disse a quale stazione di polizia rivolgersi. Il redattore di Fontana tentò
di metterla a suo agio e fece delle offerte per due promettenti opere prime
che lei aveva proposto, ma la sua mente continuò ad andare per conto suo
per tutto il pranzo; dove altro poteva cercare Gerry Martin? A chi poteva
chiedere? Non le veniva in mente nessuno, ma quando lasciò il redattore
una cosa le era chiara: doveva raccontare a qualcuno che cosa le stava ca-
pitando.
Appena arrivata in ufficio telefonò a Ted. « Posso venirti a trovare oggi?
Solo una visita amichevole, o per meglio dire un grido di aiuto. »
« Sono contento di vederti in qualsiasi momento. Vieni adesso. » Sem-
brava che avesse voglia di uno scambio di confidenze. « Stasera devo tene-
re una conferenza sull'editoria alla biblioteca di zona. »
« Arrivo tra un'oretta. Prepara da bere. »
Sfogliò in fretta la corrispondenza e trovò la conferma alla prenotazione
dell'albergo di New York.
Ma come faceva a lasciare Londra anche per pochi giorni se c'era anche
la più remota possibilità che il ritratto di Angela non fosse un imbroglio?
Eppure a New York doveva assolutamente andarci per fare l'asta del libro
di Gregory. Aveva quasi finito di sbrigare la corrispondenza quando chia-
mò Louise. « C'è Paul Gregory al telefono. »
Ne aveva avuto abbastanza di lui per quel giorno. « Veditela tu, Louise,
digli che non ci sono. »
Buttò giù l'ultima delle minute e le portò a Louise perché le scrivesse a
macchina. « Devo andare alla Melwood-Nuttall per un paio d'ore. Chia-
mami se hai bisogno di me. »
Era sulla porta quando Louise disse.: « An, Paul Gregory... »
« Cosa vuole? » Barbara non avrebbe voluto parlare così bruscamente,
ma l'impegno del lavoro le aveva teso i nervi ancora di più. « Non può a-
spettare? » aggiunse in tono più gentile.
« Penso di sì. Solo che si era ricordato di Gerry Martin. »
La stanza cominciò a girare intorno a Barbara.
« Ricordato cosa? »
« Dove gli era capitato di sentire il suo nome. A quanto pare scrive per
un giornale underground, l'Other News. »
« Buon Dio. » E chiaro che la biblioteca non comperava quella rivista:
dovevano essere delle copie omaggio. « Digli che sono dovuta uscire di
nuovo, ma che gli sono molto grata. »
Era così eccitata per essere uscita da quella sensazione di impotenza che
era arrivata quasi alla Melwood-Nuttall — Piccadilly, Shaftesbury Ave-
nue, Charing Cross Road erano un unico miscuglio di sole e di facce —
prima che le venisse in mente di cercare l'Other News. Ne trovò diversi
numeri da Words & Music: a quanto pareva la rivista faceva il possibile
per essere un mensile. Un titolo su una delle copertine rosse e bianche la
portò a un servizio a quattro pagine all'interno: La trappola di Dio, di
Gerry Martin.
Si appoggiò al palo del semaforo vicino al passaggio pedonale e diede
una scorsa all'articolo, che parlava di diversi gruppi religiosi che pretende-
vano dai loro membri la fede totale e tutti i soldi. Fin dalle prime frasi capì
che la ricerca per il servizio era documentatissima.
Pur sentendosi in colpa, sapeva cosa doveva fare, adesso. Sarebbe stata
solo una perdita di tempo cercare di spiegare tutto a Ted, quando Gerry
Martin, chiunque fosse, era già al corrente di quelle sette e forse sapeva
cose che avrebbe dovuto sapere anche Barbara. Si diresse in fretta verso il
suo ufficio.
Louise parve sorpresa. « Ho telefonato a Paul Gregory da parte tua. Ti
vorrebbe a cena con lui e sua moglie. »
« Grazie Louise. » Il servizio informazioni del telefono le diede il nume-
ro dell'Other News, ma non rispose nessuno. Telefonò a Ted per scusarsi. «
Non ti dispiace, vero? »
« Se tu stai bene », rispose lui, e di nuovo Barbara si sentì in colpa; se i
suoi problemi riguardavano la ex moglie lei si sentiva disposta, potendo,
ad aiutarlo, a consolarlo almeno. « Non dovevo dirti niente che non possa
aspettare », aggiunse lui.
Chiamò Paul per accettare il suo invito per la fine della settimana suc-
cessiva, poi continuò a fare il numero dell'Other News, di tanto in tanto,
per tutto il pomeriggio, ma senza risultato. Riuscì a lavorare, ma la sua ec-
citazione calava un po' ogni volta che metteva giù il telefono. Gerry Martin
esisteva; forse questo significava che era vero anche tutto il resto? Angela
era da qualche parte, ragazzina di tredici anni e in potere di qualcuno? I
suoi sentimenti erano come in tanti pezzi, che non riuscivano a rimettersi
insieme. Se Angela è ancora viva, pensò amaramente, allora i suoi rapitori
hanno avuto cura di lei meglio di me.
Lungo la strada verso casa si fermò a un'autofficina; conosceva il pro-
prietario e gli chiese di ripararle l'auto. Lui la accompagnò al parcheggio
sotto il Barbican e portò via la macchina. Il soffitto basso incombeva come
una nuvola temporalesca, il tubo al neon sulla sua testa tremolava come un
lampo. Mentre si dirigeva verso casa, per riprendere i tentativi di mettersi
in contatto con l'Other News, si chiese distrattamente se qualcuno avesse
mai ripulito il parcheggio: uno degli angoli bui sembrava pieno di ragnate-
le.
Capitolo 15
Gerry Martin era molto più alla buona del suo articolo. Al telefono era
sembrata sbrigativa, al limite dell'impazienza, e più giovane di quanto
Barbara avesse immaginato. Certo, si disse, i giornalisti risultano spesso
una delusione quando li si conosce, esattamente come gli scrittori. « Do-
mani sera devo essere al giornale », aveva brontolato la giornalista. « Pen-
so che potrei vederla lì. »
« Domani sera » era arrivato, e Barbara era di nuovo a Hornsey. Le vie
si arrampicavano fino a un'arteria importante che ricadeva improvvisamen-
te verso Crouch End. Quando raggiunse la strada era senza fiato, sentiva la
testa leggera e pulsante come il cuore. Attraversò e discese dall'altra china,
dove la fila di case digradava come canne d'organo.
La sede dell'Other News era una costruzione terrazzata uguale alle altre
della via, di fronte alla gabbia vuota del giardino di una scuola. Una siepe
di ligustro seguiva la strada, pendendo verso il marciapiede, e nascondeva
quasi interamente il piccolo giardino. Passando vicino sentì il pulsare della
macchina da stampa, il cuore rivelatore della casa.
Suonò il campanello e attese. Il crepuscolo cominciava a scendere sulle
colline, che apparivano rappezzate di panno verde; l'antenna di una radio
era uno spillo puntato su un cuscino. Un giovane dai capelli lunghi, con
una canottiera arancione senza maniche, le mani macchiate di inchiostro,
aprì la porta. « Gerry Martin mi sta aspettando », disse lei.
« Non c'è. Vuole parlare con il direttore? » Le voltò le spalle di scatto e
rientrò in casa.
Lei lo seguì. Il pianterreno era stato trasformato in un unico locale. Al-
cuni giovani stavano facendo gli ultimi controlli del prossimo numero del
giornale su due lunghi tavoli a cavalletti, sotto un gran numero di lampade.
Quattro poltrone, tutte diverse, occupavano lo spazio rimasto. Un ragazzo
di una ventina d'anni salì di corsa dallo scantinato, portando alcune pagine
e un odore penetrante di petrolio e di inchiostro. Barbara sedette in una
delle poltrone cercando di evitare le molle rotte.
Finalmente il direttore discese dal piano di sopra. I calzoni e la camicia
di tela dovevano essere gli stessi che indossava una settimana prima. Era
un tipo robusto, sui trent'anni, con una pronuncia blesa quasi oxfordiana,
un vago sorrisetto di superiorità. La settimana prima, quando lei aveva ten-
tato disperatamente di raggiungere Gerry per telefono, lui l'aveva sottopo-
sta a un interrogatorio serratissimo, ma lei aveva detto solo che era stata
Margery a metterla in contatto.
Ora la fissava. « Ah, sì », disse alla fine. « Gerry è fuori per un incarico.
Aspetti pure se vuole, ma io non ci spererei troppo. »
Una volta andato via, lei si trasferì su una poltrona lievemente più co-
moda e si guadagnò un sorriso di comprensione da parte di uno dei giova-
ni, un ragazzo con l'orecchino, che lavoravano al tavolo. Quando fece il
caffè lo portò anche a lei in una tazza scheggiata decorata con una figura di
Paperino. Il caffè era schifoso, ma si costrinse a sorseggiarlo mentre giron-
zolava per la stanza, leggendo i fogli fissati alla parete: un rapporto sulle
polizie private, il Race Relations Act, come comportarsi in caso di arresto.
Lesse il più lentamente possibile, poiché era decisissima a non andarsene
prima di aver parlato con Gerry Martin. Era lì ormai da quasi un'ora.
Quando la porta d'ingresso si spalancò, rumorosamente, lei si girò di
scatto, ma era una ragazzina in jeans e un maglione stinto e informe con
dei buchi ai gomiti. La ragazza salì le scale di corsa, con i sandali che cia-
battavano, i capelli lisci legati con gli elastici in due code saltellanti. «
Quei porci stanno tormentando gli zingari », Barbara sentì dire. « E qual-
cuno ha messo dei cocci di bottiglia tutt'attorno a uno dei campi. Sono riu-
scita a far parlare qualcuno dei nomadi. »
Il direttore mormorò qualcosa. « È ancora qui? » chiese la ragazza, e
scese in fretta giù da Barbara. « Barbara Waugh? Non l'avevo vista. »
Era meno giovane di quanto sembrava a una prima occhiata — qualche
anno più di venti, valutò Barbara — e aveva un paio di occhi pronti e acu-
ti. Ma Barbara dovette sembrare ugualmente insoddisfatta. « Non si lasci
ingannare dal mio aspetto trasandato », disse la giornalista. « Oggi dovevo
essere poco appariscente. Che cosa voleva dirmi? »
« Speravo piuttosto che fosse lei in grado di dire qualcosa a me. »
« Bene, prima devo sapere che cosa le interessa. Sta cercando quelli che
hanno ucciso sua figlia? »
Per un attimo Barbara si sentì mancare, poi si rese conto che evidente-
mente la giornalista — come tutti quelli che Barbara incontrava, a quanto
pareva — aveva letto l'articolo che parlava di lei. « Voglio dire », continuò
Gerry Martin, « nove anni sono un bel po' di tempo, a meno che non si ab-
bia una solida traccia. »
« Non sono sicura che sia morta. » Barbara avvertì con un senso di disa-
gio la presenza delle altre persone attorno ai tavoli. « C'è un posto dove
possiamo parlare in privato? » chiese ansiosamente.
Gerry Martin le fece strada su per le scale fino a una piccola stanza di
fronte a quella del direttore, che le guardò con cipiglio mentre passavano.
La stanza conteneva uno schedario arrugginito, tre sedie da ufficio tutte
graffiate e due scrivanie; non c'era molto spazio per altro. Su una scrivania
una tazza sporca di caffè fungeva da fermacarte accanto a un posacenere
ricolmo di mozziconi. Gerry Martin si infilò a fatica dietro l'altra scrivania
e fece cenno a Barbara di sedere sulla terza sedia. « Perché pensa che sua
figlia sia ancora viva? »
Barbara le raccontò tutto. Non importa che la giornalista avesse un'aria
così anonima — era certo una caratteristica positiva nel giornalismo inve-
stigativo; Barbara era così sollevata nel trasmettere a qualcuno il suo rac-
conto che le pareva quasi di aver affrontato un parto. Nonostante la pro-
messa, raccontò alla giornalista ogni cosa.
« Sì, ho pensato che era una cosa strana, quando ho sentito di Margery
Turner », riflette la giornalista. « Non si muoveva troppo bene, vero? Il
genere di persona da cui ci si può aspettare che cada dalle scale. E così lei
non è mai andata a ispezionare la Casa. »
« No, non ancora, comunque. E lei? »
« Volevo farlo, ma sono stata piena di lavoro. Ora è troppo tardi. Dev'es-
sere bruciata completamente poco dopo che lei è andata via. »
Barbara la guardò fisso. « Non ne sapevo niente. C'era un fuoco dietro la
casa. Evidentemente deve essersi propagato. Ma non le sembra strano che
la casa sia andata distrutta non appena qualcuno ha cercato di ispezionarla?
»
« Forse. » Gerry Martin si strinse nelle spalle. « Ma mi ascolti, c'è una
cosa che mi deve spiegare. Se era davvero sua figlia al telefono, perché
l'avrebbe mandata in una casa che era vuota da settimane? »
Questo Barbara se l'era già domandato; era una forma di assicurazione
che aveva conservato nel fondo della mente, un motivo per credere che
non poteva essere stata Angela al telefono. « Be', forse una spiegazione c'è
», continuò la giornalista. « Se è rimasta nelle mani di quella setta per nove
anni, forse è in grado di pensare solo ai luoghi dove ha vissuto. Se aveva
paura di incontrarsi con lei vicino a dove si trova adesso, potrebbe aver
pensato all'abitazione precedente. »
Le vibrazioni della macchina da stampa risuonavano leggermente attra-
verso la casa; Barbara non avrebbe saputo dire se stava anche tremando, e
dovette chiudere gli occhi. « Mi scusi, Miss Martin, starò bene tra un atti-
mo. »
« Diamoci del tu. » Ora sembrava preoccupata. « Non voglio sconvol-
gerti, Barbara, ma stai pensando che l'assassinio di tua figlia sia stato in-
scenato deliberatamente? »
« Può darsi. » Ora la voce di Barbara tremava.
« Anche secondo me è possibile. Supponiamo che una delle loro donne
volesse la tua bambina perché non poteva avere figli — sono proprio quel
genere di menti fottute che vengono irretite da queste cosiddette religioni.
È abbastanza raro che rapiscano dei bambini dell'età che aveva tua figlia,
ma succede. La cosa in effetti potrebbe spiegarsi più così che non con un
rapimento a scopo di riscatto. Se volevano dei soldi perché non si sono mai
messi in contatto con te? » Stava pensando ad alta voce e pareva si fosse
dimenticata della presenza di Barbara. « D'accordo, vediamo. Magari han-
no pensato che avrebbero attirato meno l'attenzione tenendosi tua figlia
piuttosto che facendo qualsiasi altra cosa. E così dovevano mettere fuori
gioco la polizia. Prendono un'altra bambina, le mettono i vestiti di tua fi-
glia, e l'uccidono. La questione è: da dove è venuta fuori questa bambina?
E come mai non è stata denunciata la sua scomparsa? Non è un'idea alle-
gra, ma magari poteva essere una dei loro » concluse la giornalista.
Barbara sentì che la assaliva la nausea. « Certo non puoi credere una co-
sa del genere. »
« C'era una quantità di cose a cui non credevo finché non ho cominciato
le ricerche per La trappola di Dio. » Cercò di mostrarsi, sia pure in ritardo,
rassicurante. « Ma è chiaro che tutto quello che dico è un'ipotesi. La cosa
importante è che tu pensi che tua figlia sia ancora viva, e io tendo a darti
ragione, per il disegno che hai visto. Voglio dire, Margery Turner non era
proprio quello che definirei una personalità artistica. »
Ormai il fatto che fosse d'accordo era più inquietante che tranquillizzan-
te. « Ma che cosa è questa setta? Sai dove si trova? »
« No, non lo so. Ho avuto un'indicazione, ma non l'ho seguita. L'ho avu-
ta da qualcuno che poteva essere uno di loro. Ho messo insieme un po' di
notizie sul gruppo. »
« Quali notizie? » domandò Barbara, temendo di sentire la risposta.
« Innanzitutto la loro segretezza. » Aprì il cassetto della scrivania e pe-
scò un blocco di appunti. « Mentre facevo le ricerche sulle sette continua-
vo a imbattermi in vaghe notizie su delle persone che non hanno nome. Le
voci più antiche che sono riuscita a rintracciare circolavano a Londra alla
fine degli Anni Quaranta. Poi queste voci si spostano a Dartmoor, Man-
chester, Inverness, Liverpool, di nuovo Londra, Newcastle, Birmingham,
Sheffield, e nuovamente qui a Londra. Come vedi non c'è un disegno geo-
grafico preciso, e fin dove sono riuscita a risalire tra i periodi non c'è mai
continuità. Ci sono dei vuoti che non riuscivo a spiegare, e ho finito per in-
terpretarli come periodi in cui sono rimasti nascosti con successo. Sembre-
rebbero costretti a spostarsi continuamente così che nessuno possa scoprire
troppo su di loro. »
« Non potrebbero essere solo delle voci che si spostano? Non sono una
prova che esistano davvero. »
« In qualche luogo c'era qualcosa di più che delle voci. A Londra verso
il 1970 e a Manchester alla metà degli Anni Cinquanta, dei ragazzetti furo-
no invitati da altri ragazzi, che dicevano di non avere nome, a conoscere i
loro genitori, anch'essi privi di nome. Per fortuna i ragazzi si spaventarono
e non andarono. E in qualcuna delle altre città che ti ho detto l'Esercito del-
la Salvezza diede l'allarme sulla presenza del gruppo. Non riuscirono mai a
rintracciarli e non riuscirono a scoprire molto su di loro, ma la loro impres-
sione nel complesso era che fossero seriamente pericolosi. »
Chiuse il blocco di appunti. « Questo è tutto? » disse Barbara, incredula.
« Più quello che ha detto Margery Turner. La lettera di sua figlia mi ha
permesso di iniziare a mettere insieme un po' di dati che avevo raccolto, e
ho fatto altre ricerche. In effetti c'era una cosa che mi aveva già spinto a ri-
flettere in quella direzione. Ricorderai certamente il processo Manson. Una
delle sue donne disse qualcosa come: "Forse la gente pensa che la Famiglia
sia cattiva, ma c'è un gruppo che la fa sembrare Disneyland, al confronto.
Erano gente senza nome invischiata in faccende in cui neppure Manson a-
vrebbe voluto mettere un dito". »
Quando vide gli occhi di Barbara, si affrettò ad aggiungere: « Non vo-
glio dire che sia lo stesso gruppo, è chiaro. La gente in California è più
sballata. Quel genere di cose non viaggia. Ma in ogni modo il gruppo che
tu stai cercando deve essere trovato. Tu hai visto la lettera che aveva Mar-
gery Turner, sai che intendo dire. Non diffondono materiale scritto, ed è
una cosa sospetta per un gruppo che è sopravvissuto per tanto tempo, e a
quanto pare non hanno neppure denaro. Tutto ciò che è così segreto deve
avere qualcosa di piuttosto brutto. Se sai come cercare, puoi trovare tutto
sulla Massoneria, ma prova a scoprire qualcosa sulla CIA. »
Barbara pensò che alcuni degli anelli di quel ragionamento erano piutto-
sto deboli, ma non c'era tempo per sottilizzare. « Hai detto che hai rintrac-
ciato un membro della setta », disse.
« Esatto. » Gerry aprì un cassetto dello schedario e tirò fuori un ritaglio.
RAGAZZA SENZA NOME TORNA A CASA DAI GENITORI, diceva il
titolo. Secondo l'articolo era fuggita da un'oscura setta religiosa. « Conti-
nuiamo a chiamarla Iris, nella speranza che ricordi », dice la madre in la-
crime al giornalista.
« Ho controllato attraverso il mio contatto stampa sul posto », spiegò
Gerry. « Sembra proprio il gruppo che stai cercando tu. »
Una cosa era chiara a Barbara: la ragazza, Iris, poteva confermare se
Angela era o no nelle mani della setta, e anzi se era viva. « Sei già andata a
trovarla? Posso venire con te? Potrebbe essere più disposta a parlare se le
dico di Angela. »
Gerry pareva dubbiosa, ma non aveva ancora risposto che entrò il diret-
tore. « La roba sui nomadi è buona », disse, mettendosi davanti a Barbara
come se lei non ci fosse. « Ora voglio che tu veda che cosa puoi scoprire
su quei prestiti rhodesiani. Ho annusato qualcosa di grosso, e che puzza.
Occorreranno un sacco di ricerche. »
« Me lo dai proprio adesso l'incarico? Volevo andare avanti con quel
gruppo che ti dicevo, quelli che abbandonano il nome. »
« Quello è roba da giornali popolari della domenica, roba da stampa
borghese. Poco, per noi. Troppo vago. »
« Ho un'indicazione che sembra molto promettente. »
« Non per noi. Comunque non credo che ti avanzerà tempo mentre farai
ricerche su quei prestiti. » Visto che lei non rispondeva, continuò: « Sono
affari tuoi se vuoi passare alla grande stampa. Basta che me lo fai sapere in
tempo quando sei stufa di star qui ».
« Be', ci ho provato », disse Gerry, quando lui se ne fu andato. « È la
stessa cosa in tutti i giornali. Devi fare quello che ti dice il padrone, per
imbecille che sia. Mi dispiace di non poter essere di maggior aiuto. Per es-
sere sincera, ho praticamente abbandonato la storia quando ho sentito che
Margery Turner era morta. »
Barbara si alzò di scatto e chiuse la porta. « E se io fossi in grado di
vendere il tuo rapporto a un giornale a grande diffusione? Se tu scrivi
qualcosa di forte come l'articolo che ho letto, lo vendiamo senza nessuna
difficoltà. Magari potrebbe essere una serie di articoli. Non ti farei pagare
la commissione », aggiunse, e si pentì subito di averlo fatto, perché scopri-
va tutta la sua disperazione.
Gerry rimase per un po' a fissare il suo blocco. Finalmente alzò lo sguar-
do. « Va bene, vengo con te a trovare questa ragazza a Hemel Hempstead.
Probabilmente sono in grado di tirarle fuori più di quanto faresti tu. Dopo
di che, vedremo. Quando vuoi andare? »
« Appena possibile. Domani. »
« Be', prima devo fissare l'incontro. Non possiamo piombare lì senza
preavviso, in un caso come questo. Ti telefono non appena ho preso con-
tatto, va bene? Te lo prometto. »
Quando Barbara raggiunse la strada, il marciapiede pareva tremolare.
Mentre si avviava verso la stazione sotto la luce biancastra dei lampioni,
dovette appoggiarsi a un muro. Ma perché mai doveva sentirsi così mal-
ferma? La giornalista pensava che Margery non potesse aver fatto lei il di-
segno, ma questo non significava molto. Le vennero in mente le ultime pa-
role che le aveva detto Angela a Otford: « Mi porti qualche altro libro che
posso leggere? » E poi, in modo più vivido e anche più doloroso, vide An-
gela che alzava lo sguardo dal libro e le diceva, ansiosa di farsi ammirare:
« Vuoi che ti legga? » « Un'altra volta, amore », le aveva risposto Barbara,
occupata con un manoscritto; ma non c'era stata un'altra volta. Si sentiva
bloccata in un limbo tra le sue memorie e il suo corpo affaticato; tutto era
lontano, irraggiungibile. Forse c'era pioggia nell'aria, o forse stava pian-
gendo.
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Mentre attraversava Regent's Park il cielo si fece nero. Gerry era troppo
lontana dallo zoo per rifugiarsi lì. Corse sotto una quercia, con la borsa di
canapa sdrucita che le batteva sull'anca, quando i primi goccioloni comin-
ciarono a cadere. Non appena si appoggiò al tronco le si chiusero gli occhi:
una nuvola di sonno le si raccolse attorno, assorbendo i suoni, attenuando
la sensazione di ruvido della corteccia e il mal di piedi. Si appisolò addos-
sata all'albero e attese che lo scroscio passasse.
Ma era un temporale. Quando si svegliò per la seconda o terza volta, le
parve di trovarsi su un'isola nel mezzo di un lago in tempesta. L'aria era
una massa di acqua grigia che l'inzuppava da qualsiasi lato dell'albero si
mettesse. La pioggia le cadeva addosso dagli strati di foglie, trovandosi
mille passaggi. Tutt'attorno a lei l'erba si agitava come sul punto di anne-
gare.
Poteva andare peggio, pensò acidamente; poteva ancora trovarsi a lavo-
rare per un giornale locale, cercando di arrampicarsi su montagne di noti-
zie — matrimoni, infrazioni stradali, conferenze nei locali della chiesa —
per fare un altro passo sulla strada del giornalismo autentico. Oppure pote-
va star scrivendo per l'Other News, che era un altro vicolo cieco: La trap-
pola di Dio poteva essere buono quanto si voleva, ma quel numero non a-
veva venduto molte copie in più. Più piccolo è il giornale, meno opportuni-
tà si hanno di farsi un nome. Be', eccola qui, giornalista investigativa indi-
pendente, finalmente, e quello si presentava come il più bagnato e squalli-
do lavoro possibile su questa costa del Mare del Nord. Stava diventando
davvero la vagabonda per cui voleva farsi passare, e poteva solo sperare
che infradiciarsi in quel modo la rendesse ancor più convincente.
Finalmente la pioggia cominciò ad attenuarsi. Il viso tondo del sole fece
uno strappo nelle nuvole. Gerry tirò fuori dalla borsa il suo secondo paio di
scarpe, poi si incamminò tra il fango e l'erba scivolosa verso Euston Road.
Tutti gli edifici sembravano come lavati e messi ad asciugare; i tetti delle
auto fumavano come barre di ghiaccio. Si affrettò verso la stazione, dove
ormai cominciava a sentirsi come a casa sua.
L'alta, spaziosa, anonima sala d'attesa di Euston era affollata di gente in
coda che usciva dal varco di controllo dei biglietti. Qui c'erano una dozzi-
na di ragazzini con lo zaino, là degli scozzesi con delle ginocchia che pa-
revano ustionate, là un cieco che seguiva il suo cane nel dedalo di valigie e
carrelli.
Gerry si chiuse in un gabinetto della toilette per signore, si spogliò com-
pletamente e si asciugò con l'asciugamani che aveva nella borsa. Si era
portata un cambio di biancheria, ma per altri vestiti non c'era spazio. Men-
tre la maglietta e i jeans sgocciolavano appesi alla porta lei sedette sul bor-
do della tazza, ciondolando la testa in cerca del sonno perduto di una set-
timana. Era una settimana ormai che faceva la vagabonda, e non aveva
concluso niente. Possibile che fosse sulla pista sbagliata?
Tutte le informazioni che aveva avuto sembravano combaciare perfetta-
mente. Si era sentito parlare della gente senza nome anche a Londra, il che
confermava le sue deduzioni: se Angela era nelle mani della setta non a-
vrebbe osato avventurarsi lontano da loro per incontrarsi con la madre. Da-
to che le aveva promesso di incontrarla vicino a Portobello Road questo
significava che erano da qualche parte in città. La giovane Iris aveva detto
che doveva svegliare qualcuno a New Street: non poteva significare altro
che la stazione di Birmingham, sede del gruppo subito prima di Sheffield.
L'Esercito della Salvezza a Manchester aveva sentito di vagabondi avvici-
nati da persone che rifiutavano di dire il loro nome o quello della loro or-
ganizzazione. Doveva essere in questo modo che reclutavano i loro mem-
bri, e così Gerry si era trasformata in vagabonda nella speranza di farsi av-
vicinare.
Si appoggiò oscillando alla canna dell'acqua e sobbalzò, tremando. Un
conto era congratularsi con se stessa per essere riuscita a mettere insieme
gli indizi, tutta un'altra cosa era trame delle conclusioni. L'ultima settimana
le era parsa interminabile — fingere di dormire a Euston, e qualche volta
senza fingere neppure, sonnecchiare durante il giorno sulle panchine di un
parco — ma perché si era aspettata di poter stabilire il contatto così presto?
Non aveva idea di quanto fosse ampio il gruppo, della frequenza con cui
reclutava nuova gente. Se solo fosse stata in grado di interrogare Iris ora
sarebbe stata più preparata.
Non doveva esitare. Doveva impedire a tutti i costi alla bambina della
foto di Barbara di diventare come Iris. Nonostante quello che aveva detto
per non alimentare troppo le speranze di Barbara, riteneva probabilissimo
che Angela fosse viva. E poi, con questa indagine si sarebbe fatta un nome.
Con un'improvvisa apprensione, afferrò il blocchetto dalla borsa, ma la bu-
sta di plastica all'interno della borsa aveva impedito alla pioggia di rag-
giungere il quaderno; stava imparando i piccoli trucchi della miseria. Le
sue note parevano scarse per una settimana di lavoro, ma dovevano servire
solo a rinfrescarle la memoria quando si fosse messa a scrivere gli articoli.
Quando di nuovo si trovò appoggiata alla tubatura si decise a rivestirsi.
Gli abiti erano ancora tutti bagnati, le ginocchia dei jeans ancora zuppe,
ma una passeggiata al sole li avrebbe asciugati. Attraversò il salone di Eu-
ston, passando accanto a un giovane pallido che sembrava un monaco, un
morto di fame, con la tonsura più lunga da un lato, e per un momento sentì
che non ce la faceva: la folla era troppo rapida e caotica, il rumore enorme,
incomprensibile, terrificante. Se solo avesse potuto introdursi di nascosto
in casa per un giorno e recuperare un po' di sonno! Ma quello poteva esse-
re proprio il giorno in cui il gruppo cercava reclute. Doveva rimanere pron-
ta.
Per quanto irrazionale fosse la cosa, stava cominciando a sentirsi senza
casa e senza amici proprio come sembrava. Fu tentata di chiamare Barbara
Waugh, ma non aveva niente da dirle. No, c'era qualcosa di meglio che po-
teva fare per sentirsi meno vulnerabile.
Fuori dalla stazione infilò la tessera del bancomat nella cassa automatica
sul muro e batté il suo numero di codice. Quando si fu infilata venti sterli-
ne in tasca si sentì più sicura, finché si rese conto che se un membro del
gruppo l'aveva vista, la sua copertura era rovinata. Si guardò furtivamente
attorno, ma quelli che la guardavano si stavano chiaramente domandando
se avesse rubato la carta. Era incoraggiante.
In cinque minuti fu in Tottenham Court Road e starnutì alla luce del so-
le. Un pranzo messicano avrebbe dovuto aiutarla a liberarsi del raffreddo-
re, se ce n'era uno in arrivo. Ma da Viva Tacos non la lasciarono entrare. «
I tavoli sono tutti prenotati », le disse senza espressione il cameriere. Stava
vivendo tutte le conseguenze del suo travestimento.
Finalmente trovò uno snack bar dove le avrebbero servito il suo san-
dwich attraverso un finestrino. Sedette su una panca di fronte a un negozio
di televisori, dove la faccia di un uomo in vari colori e dimensioni stava
muovendo la bocca. Gli occhi continuavano a chiudersi mentre mangiava.
Si trattenne dal tornare subito a Euston e avanzò a fatica, in mezzo ai
nugoli di turisti, per Oxford Street, per un po'. Di tanto in tanto trovava ri-
fugio in qualche grande magazzino — alcuni erano più freschi — ma il
personale di sicurezza la seguiva finché lei non ne usciva. Era ben contenta
di essere così convincente, ma non poteva permettersi di farsi arrestare.
Al Marble Arch svoltò per Park Lane. Le limousine argentate passavano
silenziose, portieri in uniforme la guardavano con il cipiglio nel caso pen-
sasse di avvicinarsi ai loro alberghi. Riuscì a dormire un'oretta in Hyde
Park, ma si svegliò tremando nonostante il sole. In una farmacia comprò
della vitamina C — avrebbe dovuto farlo prima — e convinse la commes-
sa a darle un bicchiere di acqua calda per sciogliervi una di quelle bustine
dal gusto di limone.
Gironzolò per Piccadilly fino a Leicester Square. Al di sopra dei tetti le
gru sembravano brancolare nel cielo. Ebbe la sensazione che la sua mente
fosse lassù con loro, e cercasse di far presa su qualcosa, probabilmente il
suo corpo. Dopo essere rimasta seduta per un po' in Leicester Square andò
al cinema. Se non altro là dentro sarebbe stato meno umido.
Si addormentò prima ancora che il film iniziasse, e quando il suo russare
la fece svegliare di scatto, un uomo stava sbudellando un bambino deforme
con un paio di forbici. Chiuse gli occhi in fretta, finché le grida del bambi-
no la svegliarono di nuovo nel mezzo dell'identica scena. Un grumo di o-
scurità con gli occhi color lumaca la stava fissando da sopra la sua spalla.
Uscì dal cinema prima che le chiedessero di andarsene, e fu sorpresa di
scoprire che il giorno era finito. Era entrata nel cinema con la luce piena e
ora era buio, tranne che per i fari delle macchine che fendevano la strada
bagnata. Aveva dormito per due spettacoli di seguito.
Si affrettò a risalire lungo Charing Cross Road, sui marciapiedi chiazzati
di neon. Tottenham Court Road le parve un film dell'inizio della sua pas-
seggiata pomeridiana, un film proiettato a scatti a ritroso. La fretta le face-
va sentire il corpo infocato, e ora cominciava anche a pungerle dappertutto.
Prima di raggiungere Euston Road dovette reggersi a un lampione temendo
di sentirsi male.
Quando arrivò nell'atrio di Euston rallentò, ansimando. Il rumore del suo
respiro era sottile e irreale, troppo esile anche per provocare un'eco. Una
voce rimbombava dall'alto, annunciando i treni. C'erano poche persone in
giro, che l'atrio e la voce facevano sembrare minuscole. Andò a cercarsi un
sedile, con le gambe che le tremavano.
I pochi sedili — panche strette fatte chiaramente apposta per scoraggiare
i vagabondi dal dormirci — erano tutti occupati. Sui marciapiedi dei binari
c'erano panchine? Se comperava un biglietto di ingresso, il controllore l'a-
vrebbe lasciata entrare? Ma in quel caso sarebbe stata fuori di vista per
qualcuno che andasse in cerca di vagabondi. Stava indugiando presso le
transenne quando vide un giornalista che conosceva che si avvicinava a
grandi passi.
Era sul punto di salutarlo quando si rese conto di quello che stava facen-
do. Allora si infilò nella toilette, con una sensazione assurda di clandestini-
tà. Certamente non sarebbero mancate altre occasioni di sentirsi assurda,
prima che la ricerca fosse terminata.
L'anziana incaricata della toilette delle donne le diede un bicchiere di
acqua calda con cui prese un'altra bustina di vitamina C. « Sta bene, cara?
» le chiese la donna premurosamente, e Gerry dovette spiegarle che era so-
lo un po' di raffreddore. Nello specchio vide quello che vedeva la donna: i
foruncoli le erano peggiorati, accentuati da un pallore malato; i capelli pa-
revano spago fangoso. Più ancora che di dormire, quando questa faccenda
fosse finita, aveva bisogno di passare delle ore dentro un bagno caldo.
Ora doveva tornare nella sala della stazione. Si era quasi abituata a dor-
mire in piedi — in quel modo era meno probabile che la mandassero via
— ma quella sera aveva paura di non averne la forza. Tutto la svegliava, i
pacchi dei giornali buttati a terra, le voci amplificate che davano le comu-
nicazioni del personale, gli ubriachi che le alitavano in faccia, i poliziotti
che erano lì quando apriva gli occhi come se fossero in attesa di arrestarla.
Le sole persone da cui avrebbe voluto essere svegliata non avevano nome.
Finalmente trovò un pilastro a cui appoggiarsi, nel mezzo della sala. Si
assicurò che il libro di von Daniken sporgesse dalla borsa tra i suoi piedi
— voleva che la prendessero per una credulona in cerca di qualche vago
mistico segreto — poi chiuse gli occhi. Forse delirava, poiché le sembrò di
sprofondare improvvisamente in un bozzolo; il pilastro dietro le sue spalle
si fece soffice e orizzontale. La calda luce dietro le palpebre l'attirò dentro
di sé.
« Ho detto, vuoi venire da noi per la notte? » Era un ufficiale dell'Eserci-
to della Salvezza, che mantenne la sua aria paziente quando lei lo fissò con
uno sguardo assente, e anche quando mormorò malamente qualcosa. Non
poteva essere certa che non fosse un sogno, uscito dalla sua ricerca sull'E-
sercito della Salvezza. Pareva tutto poco convincente, come l'orologio che
le diceva che aveva dormito per un'ora.
Ora che si era svegliata non riusciva più a riaddormentarsi, e il raffred-
dore era peggiorato. Il pilastro ondeggiava, il pavimento era il ponte di una
nave durante una tempesta, il comandante era un gigante che si chinava
verso di lei, che urlava informazioni sui treni. Sì, era in una stazione, la
stazione di Euston, e c'era gente che girava ascoltando la radio, oppure
quelle erano le voci delle persone? Era impossibile dirlo, erano tutti piccoli
e confusi. Una cosa sembrava chiara: se avesse avuto adesso l'occasione di
infiltrarsi nel gruppo, ne avrebbe potuto fare un ben scarso uso.
Non aveva scelta. Doveva andare a casa per quella notte e cercare di
smaltire dormendo il raffreddore, sperando di non aver perso l'occasione
buona. Certo una sola notte non poteva aver importanza. Quando fosse
tornata a Euston si sarebbe attrezzata meglio per far fronte ai cambiamenti
meteorologici.
Si girò, sempre appoggiata al pilastro, e guardò l'orologio, che aveva
guadagnato una mezz'ora. Come faceva ad arrivare a casa ora che i treni
erano fermi per la notte? A volte i taxi l'avevano ignorata anche quando
era in condizioni migliori. Forse, se si. metteva in coda al parcheggio di
Euston, e se era pronta a mostrare i soldi, un taxi l'avrebbe caricata. Si co-
strinse ad aprire gli occhi e pensò di aver visto male l'ora. Come potevano
essere passati dieci minuti dall'ultima volta che aveva guardato l'orologio,
un paio di pensieri fa? Eppure era così, e una giovane donna malconcia,
con i capelli che parevano pece pettinata, la stava fissando. « Ti serve un
letto? »
Gerry stava per rifiutare quando si rese conto di quanto stesse male: la
giovane donna dal lungo viso, la stazione, il suo corpo stesso, era tutto di-
stante e inafferrabile come ghiaccio. Non ce la faceva ad affrontare una di-
scussione con un tassista. « Da dove vieni? » chiese.
« Dal London Refuge. Abbiamo un furgoncino, fuori. Non importa se
non hai soldi. »
Chiaramente questo significava che il letto era quanto di peggio, ma l'of-
ferta era irresistibile. Se c'era altra gente a dormire al London Refuge, ma-
gari potevano dirle qualcosa sui senzanome; i barboni erano l'unico gruppo
che non aveva interrogato, e potevano essere proprio quelli che ne sapeva-
no di più. Seguì la donna nella notte rigida.
Quando raggiunsero il furgoncino in una strada laterale comparve dietro
di lei un giovane, con una tonsura da monaco. Non si era accorta che le
stava seguendo. « Tu viaggi dietro », disse, aprendo gli sportelli.
Gerry pensò che sul sedile anteriore c'era posto per tre, ma non aveva
voglia di discutere, neppure quando vide la confusione nel retro, scatole,
attrezzi arrugginiti e mattoni, così lerci che sembravano saldati tra loro. Si
sistemò nello spazio libero e lo sportello fu richiuso immediatamente die-
tro di lei.
Si era appena seduta che il furgone partì con un sobbalzo. Il divisorio
dietro il guidatore non aveva aperture, e dal finestrino posteriore non pote-
va vedere molto, salvo i lampioni che scorrevano nella notte. Riuscì ad ap-
poggiarsi alla parete del furgone e tentò di ricordarsi se avesse mai visto
prima il giovane e la donna. Non li aveva già scorti diverse volte a Euston?
Mentre andavano verso il furgone aveva notato dei capelli bianchi tra quel-
li tinti della donna.
Ogni volta che il veicolo rallentava Gerry si sporgeva verso il finestrino,
e così quando giunsero a destinazione vide dove si trovavano: Earls Court,
appena dietro Cromwell Road. L'avrebbe forse riconosciuta solo dal rumo-
re.
Quando il giovane aprì la porta, lei vide che si trovavano su un vialetto
sotto un folto gruppo di alberi, di fronte a una casa a tre piani. Tutt'attorno
al portico il terreno sembrava incrostato di vernice. Forse gli alberi aiuta-
vano a bloccare il rumore, ma qui sembrava ancora più forte. Il fogliame
ondeggiante risuonava come i camion che correvano ruggendo verso l'au-
tostrada. Si sentiva intasata di rumore e di catarro.
Quando alzò gli occhi verso la casa, da una finestra in alto Barbara
Waugh la fissava.
Per un attimo pensò che il delirio fosse peggiorato, poi si rese conto che
era una ragazza magra che assomigliava a Barbara. Non poteva essere che
Angela, e annaspò — ma aveva urtato contro lo spigolo del furgone, e i
suoi accompagnatori dovettero pensare che era per quello che aveva fatto
quel verso soffocato. « Sei stanca », disse la giovane donna con aria indif-
ferente, mentre l'accompagnavano verso la casa.
Gerry guardò in alto, senza alzare la testa, prima che raggiungessero il
portico. Angela si stava ritirando nella stanza semibuia e pareva circondata
da diverse figure; la stavano invitando o costringendo ad allontanarsi dalla
finestra? La donna di Euston aprì la porta scrostata mentre Gerry saliva i
gradini cigolanti. Oltre la porta, l'ingresso e le lampadine non schermate
erano di un colore bruno sporco. In fretta, perché non si chiedessero come
mai esitava, entrò nella casa.
Capitolo 19
QUANDO la porta si chiuse dietro di lei ebbe paura che non sarebbe
riuscita a comportarsi con naturalezza, era troppo stanca e troppo malata
per sostenere la finzione. Per fortuna doveva solo comportarsi come uno
che è stanco, e questo non era un problema. Anzi, le cadde quasi la borsa,
avendo dimenticato che la teneva in mano, mentre la donna la conduceva
di sopra.
Dentro la casa il rumore del traffico era attutito, un'ottusa massa confusa
di suono che sembrava fondersi con la luce sporca in un unico elemento
soffocante. Forse la carta da parati era marrone, forse le macchie sul tappe-
to delle scale avevano un disegno e un colore. C'erano delle voci che mor-
moravano dietro la porta della stanza dove aveva visto Angela? Non pote-
va dirlo con certezza.
C'erano tre porte sul primo pianerottolo e tre all'ultimo piano, dove la
donna accompagnò Gerry. Accanto alla lampadina grigiastra c'era un lu-
cernario chiuso con delle assi. La donna aprì una porta e fece scattare un
interruttore, ma la stanza rimase al buio. « Non funziona », disse piatta-
mente. « Il tuo letto è vicino alla porta. »
Quando Gerry avanzò poté distinguere due file di materassi contro la pa-
rete, tre letti per ogni fila. La luce proveniente dalla finestra aperta rag-
giungeva a stento quello che era stato assegnato a lei; delle forme oscure
erano ammucchiate sopra gli altri. La donna attese finché Gerry non si fu
spogliata, rimanendo in slip, poi le tirò addosso la coperta e chiuse la por-
ta.
Per un attimo Gerry temette che la chiudessero a chiave, ma la donna
andò subito di sotto; il cigolio degli scalini si distingueva nel frastuono del
traffico. Gerry rimase sdraiata, incastrata dagli altri letti e dal buio che a-
veva un odore di umido anche attraverso il raffreddore. Era riuscita a infil-
trarsi nel gruppo. Era stato facile.
Senza dubbio avrebbero cercato di tirarla dentro, probabilmente la mat-
tina dopo appena sveglia; le sette devono acchiapparti quando e dove sei
più vulnerabile. Ora era meno ansiosa e sentì di delirare meno. Potevano
fare ogni sforzo per farle il lavaggio del cervello, non sarebbero mai riusci-
ti a ridurla come Iris. Quel genere di cose funzionava solo con personalità
meno solide della sua.
Aveva bisogno di dormire per essere pronta per loro, ma ci sarebbe riu-
scita? Dormire in una stanza, insieme con gente che non aveva mai visto la
rendeva oscuramente agitata, e poi c'era il rumore. Probabilmente il gruppo
sceglieva di vivere in case di quel tipo perché il rumore abbassava gli affit-
ti, se pure non ci si insediavano abusivamente, come a quanto pareva ave-
vano fatto vicino a Portobello Road. Si stava chiedendo se sarebbe riuscita
a sonnecchiare quando cadde profondamente addormentata.
Si svegliò che era ancora buio, ma si sentiva più fresca e completamente
libera dalla sensazione di delirio. Aveva solo un mal di gola così forte che
fu contenta di non dover parlare. Rimase sdraiata aspettando che gli occhi
si adattassero all'oscurità. La finestra era priva di tende, ma gli alberi erano
efficaci quanto le imposte; i bagliori della pioggia scintillavano sopra le
foglie. Il frastuono del traffico aveva raggiunto il tono di un lamento acu-
tissimo. A parte quello, riusciva a sentire solo il suo respiro congestionato.
Non sentiva il respiro dagli altri letti.
Certo, il rombo del traffico poteva coprire ogni altro rumore, ma im-
provvisamente si sentì agitata. Sedette sul letto e si sporse verso quello vi-
cino. Dalla figura raggomitolata pareva non giungesse alcun rumore. Gerry
si tenne al bordo del materasso e si sporse ancora di più, ma la sua presa
era più debole di quanto pensasse e perse l'equilibrio. La mano libera le fi-
nì dentro la forma nel letto accanto — si infilò in profondità in quella for-
ma.
Riuscì a trattenere un grido, rendendosi conto che non c'era una persona,
solo un cuscino avvolto tra le coperte. Non aveva svegliato gli occupanti
degli altri letti con il rumore della caduta? Si costrinse a fare un giro di ri-
cognizione, nonostante l'agitazione le desse l'idea che uno di loro la stava
guardando nel buio. Tutte le figure erano letti disfatti.
Rimase ritta accanto alla finestra, dove c'era un po' più di luce. Ora an-
che nel suo letto pareva ci fosse qualcuno. Non riusciva a trovare un moti-
vo per cui dovesse sentirsi a disagio — probabilmente la gente che dormi-
va in quella stanza ora era altrove — ma continuava a cercarne uno. Im-
provvisamente capì che cosa non andava: ora che era più vicina al traffico,
quel tono acuto si era allontanato. Non aveva niente a che fare con il traffi-
co. Era il pianto di un bambino all'interno della casa.
Bene, lei sapeva che nel gruppo c'erano dei bambini, e si sa che i bambi-
ni a volte piangono. Dopo un po' tornò al suo materasso, ma invece di
stendersi si accovacciò, cercando di localizzare il pianto del bambino. Fuo-
ri dalla finestra i rami sgocciolavano e ondeggiavano. Che c'era che non
andava in quel pianto? Perché sembrava così soffocato?
Finalmente, riluttante, si alzò e socchiuse la porta. Per quanto la girasse
lentamente, la maniglia cigolò. Uscì in punta di piedi sul pianerottolo de-
serto, tra due porte chiuse. Il pianto veniva dal basso, e ora capì che cosa
non andava. Non era soltanto soffocato, sembrava anche imbavagliato.
Doveva ignorarlo. Se si tradiva adesso il gruppo poteva fuggire prima di
essere fermato — ma come poteva ignorarlo? E se era la figlia di Barbara?
Non aveva importanza chi fosse, Gerry doveva scoprire cosa stavano fa-
cendo al piccolo. Si vestì in fretta, poi prese la borsa, nel caso qualcuno
trovasse il suo quaderno, e scese furtivamente le scale.
Mettendo i piedi sul bordo dei gradini riuscì a evitare che scricchiolasse-
ro, ma il corrimano era instabile. A metà strada perse l'equilibrio e dovette
reggersi: appena lo afferrò quello cedette di schianto. Per un momento
pensò che sarebbe andato giù, facendola precipitare nella tromba delle sca-
le. Vi rimase attaccata per un po' trattenendo il fiato e chiedendosi se qual-
cuno avesse sentito.
Finalmente raggiunse il piano inferiore. Nella luce marroncina le tre por-
te avevano un aspetto irreale, come disegnate e dipinte su un muro. Al di là
della porta centrale, nella stanza dove aveva visto Angela alla finestra, fu
sicura di sentire delle voci che mormoravano. Il rumore del traffico doveva
aver impedito a quelli che erano dentro di sentire la ringhiera che aveva
ceduto. Questo significava che se c'era qualcuno che la seguiva non ne a-
vrebbe sentito i passi?
Il pianto era ancora sotto di lei. Sembrava più lontano che mai. Superò le
porte in punta di piedi e scese l'altra rampa. L'ingresso appariva immerso
in quella luce cremosa che saliva verso di lei. Improvvisamente il pianto
cessò e lei si bloccò, a metà dell'ultima rampa. Da là poteva vedere la porta
d'ingresso e si rese conto che era chiusa con un catenaccio. Qualunque co-
sa scoprisse, da quella parte non sarebbe stata certamente in grado di trova-
re alcuna via d'uscita.
Ma doveva rimanere finché non avesse scoperto tutto sul gruppo. No,
non si stava esponendo, certamente chiunque sarebbe sceso per andare in
aiuto al bambino — chiunque, non solo una spia. Forse il bambino ora sta-
va bene, ma doveva accertarsene.
Quando raggiunse l'ingresso guardò su, inquieta, verso le scale deserte,
poi si costrinse a girarsi con le spalle alla porta chiusa dell'ingresso. C'era-
no quattro porte che davano sull'atrio, compresa una sotto le scale; proba-
bilmente quella portava in cantina. In fondo all'atrio luccicavano nella cu-
cina gli attrezzi metallici. Così rimanevano due stanze. Andò alla prima,
tra le scale e la porta d'ingresso.
Quando spinse la porta all'interno cadde un indumento. Lo sentì cadere e
sentì il morbido ostacolo mentre continuava a spingere. Temeva che l'in-
dumento si incastrasse sotto la porta rendendola più rumorosa, ma ci fu so-
lo un lieve fruscio. Dopo un po' la porta fu socchiusa abbastanza da per-
metterle di guardare dentro.
La stanza era meno buia di quella all'ultimo piano: attraverso i tronchi
passava più luce che tra il fogliame. Tuttavia passò qualche momento pri-
ma che fosse in grado di vedere. Fissò gli occhi sulla finestra senza tende e
ignorò l'impressione di movimento accanto a lei. Quando riuscì a vedere
meglio, si accorse che la stanza era completamente vuota. Non c'era nulla
dietro la porta, neppure un gancio da cui potesse essere caduto un indu-
mento.
D'un tratto si sentì così terrorizzata che non fu sicura di potersi muovere.
Era lì, sporta in avanti, mezza dentro e mezza fuori dalla stanza, le mani
aggrappate alla cornice della porta una sopra l'altra, incapace di mollare la
presa. Soprattutto aveva paura di alzare lo sguardo. Non ce n'era bisogno,
poteva vedere che il bambino non era lì, poteva lasciarsi, spingersi via dal-
la cornice della porta, fuori dalla stanza. Ricadde nell'ingresso e a stento
riuscì a non sbattere la porta chiudendola.
C'era un'altra porta chiusa, verso la cantina e la cucina. Doveva andare
avanti, non poteva uscire dalla casa. Andò comunque prima in cucina, la
cui porta aperta la rendeva meno minacciosa. Nella penombra distinse il
contorno di un lavandino, un fornello, una tavola con delle sedie attorno.
Non c'era altro da vedere.
Non poteva perdere altro tempo. Quello che c'era da scoprire, qualunque
cosa fosse, si trovava nell'ultima stanza. Strisciò verso la sua porta, appog-
giandosi con una mano alla parete umidiccia. La maniglia era fredda, ap-
piccicosa. La sua ombra, un ammasso nero con una forma completamente
diversa dalla sua figura, si acquattò.
Quando ebbe socchiuso la porta scoprì che la stanza era buia. Dovette
tastare alla cieca la parete invisibile in cerca dell'interruttore. Ecco qualco-
sa di rotondo, una sporgenza in cui si imbatterono le dita. Era effettiva-
mente l'interruttore, con la levetta spezzata. Abbassò il mozzicone rimasto.
Non c'erano bambini nella stanza. Sotto la lampadina non schermata c'e-
ra una sedia di legno e un tavolo zoppo, uno schedario, una scansia piena
di libri messi a casaccio. Una tenda nera, spessa come una coperta, era in-
chiodata alla finestra. Fece d'impulso un passo avanti e si chiuse piano la
porta alle spalle. Forse questa stanza le avrebbe dato un'idea degli scopi
del gruppo.
Se i libri erano in disordine, il loro tema era fin troppo preciso. Enciclo-
pedia del delitto, Storia della tortura, Cannibalismo e sacrificio umano, Il
flagello della svastica — l'ossessione al sadismo era quasi soffocante. Qui
c'era un'edizione illustrata di de Sade, poi un libro intitolato Il mandala
Manson. Uno degli scaffali era pieno di libri con la copertina senza titolo,
che per il momento preferì non aprire: gli interessi del gruppo erano già
sufficientemente chiari.
Non era l'influenza che la faceva star male, ora. Le era tornato in mente
il tono di angosciato disgusto di Iris mentre diceva: « Ci facevano fare del-
le cose. Mi piace ripensarci ». Pensò ad Angela, al pianto del bambino.
Perché era cessato? Evidentemente andando allo schedario, stava tentando
di ritardare la sua ricerca perché era certa che i cassetti li avrebbe trovati
chiusi a chiave.
Quando tirò il cassetto superiore, questo uscì sferragliando, così forte in
mezzo al rumore soffocato del traffico che la lasciò senza fiato. Conteneva
nastri, cassette e bobine di film in scatole contrassegnate solo con dei nu-
meri, e si sentì nonostante tutto sollevata dal fatto di non essere in grado di
dire cosa contenessero. Ma anche il secondo cassetto era aperto, e questo
era pieno di fotografie.
Ne pescò una manciata e le portò sulla scrivania sotto la lampada. Do-
vette sollevare una foto per eliminare il riflesso, ma non appena realizzò
quello che raffigurava senti l'impulso di buttarla via. Si costrinse invece a
guardare meglio, nella disperata speranza che vista più attentamente si ri-
velasse un fotomontaggio.
La foto era stata scattata in una foresta. Riconobbe immediatamente gli
alberi giganteschi: sequoie, in California. Inchiodato a uno dei tronchi c'era
un corpo nudo. Benché fosse nitido in modo abominevole, non avrebbe
potuto dire né il suo sesso né la sua età. Troppa roba ne era stata asportata.
Sfogliò la manciata di foto mentre tutto il suo corpo si rivoltava, dispera-
tamente ansioso di andar via. Il resto delle immagini era ancora peggio.
Molte erano state fatte in California. Le tornò in mente il riferimento a un
gruppo che una delle donne di Manson aveva definito peggio della Fami-
glia; forse, dopo tutto, c'era una connessione.
La gran parte delle foto erano state scattate in case molto simili a quella
in cui ora si trovava rinchiusa Gerry. Gli interni erano tipicamente inglesi;
qualcuno di essi poteva essere proprio di quella casa? Le mani non le ri-
spondevano più, era incapace di smettere di sfogliare le fotografie. Ormai
sapeva che le foto non erano false; erano troppo fredde, piatte come reperti
di polizia, spaventose nell'indifferenza per quanto andavano mostrando.
Forse aveva sbagliato a supporre che il gruppo scegliesse le sue case in
zone rumorose perché più economiche; probabilmente il rumore doveva
servire a soffocare i suoni provenienti dall'interno della casa.
Stava inconsciamente raccogliendo le foto, rendendosi conto di quanto
altro poteva esserci nello schedario — cosa potevano aver registrato quei
nastri, quei film? — quando il pianto riprese. Non aveva ancora guardato
in cantina. Per un attimo si sentì ondeggiare sulla sedia e temette di essere
sul punto di svenire, ma un momento dopo si trovò a correre verso la porta,
dimenticando Barbara Waugh, il suo travestimento, la sua missione. Sape-
va solo che doveva salvare il bambino.
Corse in punta di piedi in cucina e sotto l'acquaio trovò un coltello da
macellaio in un cassetto. Rabbrividì quando la lama le tagliò la pelle del
pollice, ma così affilato la rassicurava. Nonostante il tremito alle gambe, si
diresse a grandi passi verso la porta della cantina e la spalancò, tenendo
basso il coltello.
Un passaggio ingombro portava a una rampa di scale che davano su una
seconda porta. La luce stagnante dell'ingresso si raccoglieva attenuata nel
passaggio e luccicava su un interruttore di fondo. Il pianto era cessato già
quando lei era in cucina, ma doveva venire da laggiù. Scendendo aveva la
sensazione che la curvatura del soffitto la spingesse verso il basso. Quando
aprì la porta con un calcio e vi trovò il buio dietro, immediatamente abbas-
sò l'interruttore.
La cantina era ampia, con i muri di mattoni non intonacati, e pareva
completamente vuota. L'unica nuda lampadina lasciava gli angoli in om-
bra, ma in nessuno di essi poteva esserci un bambino. Sbigottita, si fece
avanti. D'un tratto sbucò fuori, sopra di lei, qualcosa della grandezza di un
bambino, lungo il soffitto.
Fece un sobbalzo così violento che lasciò cadere il coltello, che tintinnò
sul pavimento di cemento. Ma non c'era nulla sopra di lei tranne lei stessa:
il soffitto era coperto di piastrelle di specchio. Si fissò nervosamente là in
alto, pendere capovolta, rimpicciolita e impotente. Aveva appena co-
minciato a chiedersi se quelle piastrelle di specchio erano state messe lì in
modo che la vittima del gruppo potesse vedere quello che le stavano fa-
cendo, quando sentì dei passi che scendevano verso la cantina.
Raccolse il coltello e indietreggiò, desiderando subito di essersi nascosta
piuttosto dietro la porta. Le sarebbe servito a poco: sugli scalini c'erano
quattro uomini. Entrarono nel locale e la fissarono, con visi inespressivi.
Chiusero subito, mettendosi tra lei e la porta.
Non l'avevano ancora raggiunta quando qualcun altro arrivò giù dalle
scale correndo leggero. Era una bambina sui sei anni, con un pigiama rosa
a coniglietti azzurri. Sorridendo a Gerry, si mise due dita in bocca ed emi-
se un monotono lamento. Era quello il pianto soffocato .che aveva sentito
Gerry.
Gerry era stata attirata laggiù come una bestia al macello, e comprese
una cosa che avrebbe dovuto immaginare molto prima: il gruppo non cer-
cava reclute, tra i vagabondi, cercava vittime. La bambina ridacchiava e
sembrava innocentemente contenta di sé. Gerry levò il coltello e lo strinse
per il manico, scivoloso per il sudore. « State indietro », disse agli uomini.
Loro si fecero avanti, fissandola negli occhi. Ora si stavano allargando;
il coltello non ce l'avrebbe mai fatta a tenerli a bada tutti. « Non provateci
», avvertì, con la voce che le grattava la gola. « Sono una giornalista. Sono
stata mandata qui a fare indagini su di voi. »
L'uomo sulla sinistra fece un sorriso cattivo, scoprendo pochi denti mar-
ci e giallastri dietro le labbra spesse. « Sì, come no », disse.
« Lo sono. Guardate questo se non ci credete. » Riuscì a tirar fuori il
quaderno dalla borsa che teneva sotto il braccio sinistro e lo lanciò all'uo-
mo. « Al giornale sanno che sono qui. »
Lui prese al volo il quaderno e lo strappò a metà senza neppure guardar-
lo. La bambina squittiva di gioia. Gli uomini, inarrestabili come robot, e-
rano quasi arrivati a Gerry; sopra di lei la sua figura pendeva per i piedi
mentre i quattro la serravano in mezzo. Era quasi contro la parete. « Barba-
ra Waugh sa che sono qui », disse, e si rese conto che loro sapevano che
stava mentendo; non poteva sapere dove l'avrebbero portata. « La madre di
Angela », continuò disperata.
« Qui i nomi non contano », ribatté l'uomo sulla sinistra, mentre quello
sulla destra allungava la mano e le torceva il braccio finché lei non lasciò
cadere il coltello. Quello con le labbra spesse lo raccolse. La bambina
guardava affascinata mentre gli altri uomini la tenevano e lui le tagliava i
tendini delle braccia e delle gambe.
Capitolo 20
L'East Anglia era una verde pianura che terminava in scogliere frasta-
gliate. I gabbiani planavano lungo le spiagge, sfiorando la cresta delle on-
de. Il Mare del Nord aveva il suono di un'immensa foresta tempestosa; le
ondate esplodevano contro le rocce dell'insenatura sopra la quale stava
Ted. « La mamma ha detto che sarebbe bello se una volta potessimo uscire
tutti insieme per un giro in macchina », disse Judy.
Il vento sulla cresta gli faceva svolazzare la barba spingendone la voce
dietro le spalle. « Ma sei sicura che è proprio quello che ha detto? »
« Sì, perché ha detto che se potevamo permetterci una macchina pote-
vamo andare in posti nuovi in vacanza. »
Era proprio tipico di Helen, e certamente aveva sperato che Judy glielo
dicesse. « Le parlerò io », promise.
Nel viaggio verso casa, la linea dell'orizzonte sulla campagna piatta era
tanto vicina da parere irreale; a un certo punto Judy chiese: « Sei proprio
certo che la settimana prossima sei via? »
« Sì, amore, devo proprio. » Aveva la possibilità di fare un viaggio in I-
talia che più o meno coincideva con quello di Barbara. Ora Barbara pensa-
va di non riuscire ad andarci, ma era evidente che aveva un gran bisogno di
una vacanza. « Visto che stai leggendo di re Artù, non appena ritorno ti
porto a Glastonbury. »
« Pensavamo che se non andavi potevi venire con noi. »
Era certo che Helen non aveva pensato niente del genere, qualsiasi cosa
potesse aver detto a Judy. « Ho paura di essere già impegnato. »
« Vai via con Barbara? »
« Cosa? » Il tono accusatorio nella sua voce fu un colpo spiacevole, ma
lui sapeva chi ce l'aveva messo. « Che ne sai di Barbara? » Lui non gliel'a-
veva mai neppure nominata.
« Era la signora che andavi a trovare quando eravamo nel vecchio appar-
tamento. »
Questo non poteva saperlo, a quel tempo, era troppo piccola. « Sì, Judy,
vado via con lei. Proprio come tu e tua madre andavate via con tuo zio
Steve. »
Quel punto segnato non gli diede nessuna soddisfazione. Scopo del di-
vorzio era stato evitare a Judy quel genere di ostilità. Stava per domandarle
se c'era qualcuno nuovo — chiamarli zii gli pareva una cosa infantile, ma
come doveva chiamarli? — quando Judy disse: « Mamma dice che tu pre-
ferisci Barbara a noi ».
« Non a te, Judy. » Si trattenne dal dire altro, anche se si sentiva sempre
più arrabbiato. Tuttavia, quando riportò Judy a casa e lei andò in bagno a
lavarsi, poté affrontare l'argomento con calma; non avrebbe ottenuto niente
perdendo le staffe. « Helen, credo che non sia di grande utilità parlarle di
Barbara Waugh. »
« Che fastidio può darti? » Helen stava riducendo un vecchio vestito in
strofinacci per la polvere, certo per mostrare fino a che punto le toccava fa-
re economie. « Ti fa sentire in colpa? » chiese, senza alzare lo sguardo.
« Sì, naturalmente. Tutto quello che le racconti di me mira a questo. Vo-
glio dire, dirle che potevamo andar via insieme — davvero lo avresti volu-
to? »
« È evidente che tu non avresti voluto. Già le lesini quell'unico giorno
alla settimana. »
« Chi ti ha messo in testa questa idea, in nome di Cristo? »
Lo fissò dura. « Non farmi ridere. Non sei cambiato tanto, è inutile che
cerchi di farmelo credere. La tua Barbara Waugh ti ha mai visto quando
hai la luna? Probabilmente con lei ci stai più attento. Lei non dipende da te
come noi un tempo. Può sempre piantarti quando ne ha abbastanza. »
Sapeva quello che sarebbe seguito — allusioni, silenzi accusatori,
sguardi che sottintendevano che avrebbe dovuto sapere quello che lei stava
pensando, e se no era ancora più nel torto — ma non riuscì a fermarsi a
questo punto; non ne era mai stato capace. « Che luna? » domandò.
« Be', quella di adesso è un discreto esempio. Non dirmi che hai dimen-
ticato gli anni in cui ti sentivi il capo di casa. Per quanto ne so sei esatta-
mente lo stesso ora, quando porti fuori Judith. Lei dice di no, ma io spero
solo, per il tuo bene, che sia vero. » Lo fissò mentre le forbici attaccavano
l'ultimo pezzo di stoffa. « Lo sai che tutte le notti, prima che tu venga a
prenderla, ha gli incubi? »
« Non mi meraviglia. »
« Se questo vuole significare qualcosa, certamente non significa niente
per me. »
Questa era sempre la via sicura per fargli perdere la pazienza. « Voglio
dire che la metti in uno stato tale che non sa più che pensare. Mi piacereb-
be sapere che razza di stronzate le fai ingozzare sul mio conto. »
« Sei ignobile come certi libri che pubblichi. Questa è un'altra cosa che
potresti insegnarle, solo che non te lo lascerò fare. Ricordati che in custo-
dia ce l'ho io. Dammi solo un pretesto e ci penso io a non fartela vedere
più. »
« Forse non te la darebbero più, la custodia, se la contestassi adesso. » Si
era intrappolato in una discussione che non voleva neppure vincere. « Ti
toccherà mostrare al tribunale ben altro che questa specie di isteria, per te-
nermi lontano da Judy. »
« Secondo te loro ci credono che tu tieni a lei? No, se io gli dico quanto
sei legato a una donna che non è riuscita neppure a badare a sua figlia. Non
c'è da meravigliarsi che te la prendessi con Judith. Non sono gli altri che ti
fanno sentire in colpa, sei tu stesso. »
Aveva quasi ragione, ma per caso: quando era tornato a casa, la prima
volta che era stato a letto con Barbara, aveva dovuto controllarsi per non
apparire troppo felice. Ma Helen sospettava già da mesi una relazione con
Barbara, e aver dato fondamento ai suoi sospetti lo aveva sollevato dal
senso di colpa, lo aveva fatto sentire libero quanto non era mai stato in vita
sua. Forse Barbara aveva contribuito a mettere fine al matrimonio, ma non
proprio come intendeva Helen.
« Scusami Helen, non ho intenzione di discutere di Barbara. » Bussò alla
stanza da bagno mentre lei lo guardava con freddezza. « Sto andando via,
Judy. La prossima volta ti porto a Glastonbury. »
In Upper Street un tappeto arrotolato era appoggiato a una vetrina; ac-
canto al tappeto uno straccione si drizzò e avanzò barcollando verso Ted,
ma la bottiglia di vino vuota lo mancò. Non mi meraviglia che Helen sia
depressa, pensò Ted costeggiando gli squallidi negozietti. La discussione
era stata nel complesso troppo familiare per fargli del male ed era certo che
Helen non intendesse seriamente separarlo da Judy. Davvero aveva una
così scarsa opinione dei libri che lui pubblicava? Avrebbe dovuto chiederle
per quali libri lo stava accusando, ma lei comunque non gli avrebbe rispo-
sto; era troppo tortuosa per questo. Era tortuosa come sarebbe stata l'inve-
stigatrice privata protagonista del suo libro.
Perdio, certo che lo sarebbe stata. Schiacciò il clacson, che strillò a una
strada vuota. Certo, in questo modo l'investigatrice avrebbe affrontato il
suo lavoro, non come un Philip Marlowe in gonnella. Arrivò a casa in fret-
ta, riscrivendo capitoli dentro di sé.
Appena a casa si mise a scrivere, cancellando interi paragrafi scribac-
chiando tra una riga e l'altra. Improvvisamente tutto quello che andava ma-
le nelle pagine che aveva scritto sembrava chiaro e sistemabile. Rielaborò
tre capitoli in due ore, e l'energia che aveva accumulato lo spinse a iniziar-
ne uno nuovo. E lì si trovò arenato a metà pagina. La detective era auto-
noma, ora, non aveva nulla dell'amarezza adolescenziale di Philip Marlo-
we perché il mondo era meno romanticamente perfetto di come lo avrebbe
voluto lui, ma il racconto esigeva un tradimento, dopo, un test per verifica-
re la sua compassione. Quale poteva essere?
Barbara poteva aiutarlo. Quando guardò di là dal lago vide che la sua fi-
nestra era accesa; dietro il tetto di casa sua il ruvido tramonto si stava o-
scurando. Rispose al telefono prima che lui sentisse lo squillo. « Sì? » dis-
se con ansia.
« Ciao, Barbara, sono Ted. » Pensò che avrebbe dovuto dire: « Sono so-
lo io ».
« Ciao Ted. » Faceva del suo meglio per non far trasparire la sua delu-
sione. « Cosa c'è? »
« Ho fatto un po' di lavoro sul romanzo, ma ora sono arrivato a un punto
morto. Ti andrebbe un drink? »
« Sì, vieni da me e te ne offro quanti ne vuoi. Dammi solo qualche mi-
nuto. »
Lui aveva pensato a un pub; ma in ogni modo sarebbe riuscito a parlarle:
erano settimane che non parlavano a lungo. Lei gli era sembrata sempre
troppo esausta o nervosa per starla a seccare con il suo romanzo. Si era
concentrato nel tentativo di convincerla ad andare in vacanza, con o senza
di lui. Era chiaro che aveva bisogno di uno stacco.
Mise un disco di Charlie Parker per darle un po' di tempo, cercò un pez-
zo da inserire nel puzzle di Playboy, poi si avvio verso casa di Barbara, co-
steggiando il laghetto rosato. Sotto la chiesa di St. Giles stringhe bianche
di luce si agitavano come vermi. Un giovane magro, pallido, con una ton-
sura da monaco, stava accanto al salice sulla piattaforma di mattoni rossi e
osservò Ted mentre suonava al campanello.
Ted riuscì, stringendosi i pugni in tasca, a nascondere la sua costerna-
zione quando Barbara aprì la porta. Aveva un'aria ancora peggio che so-
vraffaticata; la sua faccia era devastata, quasi incolore sotto il trucco; gli
occhi sembravano non vedere più. Era successo qualcosa da quando lui
aveva chiamato.
« Entra e mettiti seduto. » Stava facendo del suo meglio per apparire pa-
drona della situazione, ma si vedeva quanto si stava sforzando. « Devo dir-
ti una cosa. »
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Quando fu certo che Barbara dormisse, Ted andò nella sua camera, che
era adiacente, telefonò in portineria per assicurarsi che non la disturbasse-
ro. Rimase accanto alla finestra e si sforzò di riflettere. La pioggia esegui-
va una sua danza frastagliata nella strada; le finestre illuminate si sovrap-
ponevano sopra il Clyde, fluttuavano lungo il fiume buio verso il mare.
L'anonima gaiezza della stanza sembrava rallentare i suoi pensieri. Andò
di sotto.
Disse alla giovane donna al bureau di informarlo se Barbara chiamava la
sua camera, poi ordinò un caffè. Nella saletta il televisore spento mostrava
il riflesso rigonfio delle poltrone; un leggero odore di fumo di pipa e di tal-
co aleggiava tra gli scaffali semivuoti e i tavoli cosparsi di riviste scompa-
ginate. Sedette in una poltrona che odorava di tabacco e si mise a pensare a
Barbara.
Andava male. Capiva che se ne accorgeva lei stessa. Evidentemente si
era sentita osservata per settimane, e l'incontro di quella sera con la donna
sotto il ponte l'aveva convinta di aver ragione. Poteva non essere solo ma-
nia di persecuzione — un motivo per fuggire la donna doveva averlo —
ma era magari banale, ragionevole addirittura, rispetto alle cose che Barba-
ra fantasticava su Angela.
Quelle cose sembravano riandare tutte al rapimento, alle affermazioni di
una cosiddetta medium, e questo decisamente dimostrava la precarietà del
suo stato mentale; poteva essere davvero questa la stessa Barbara Waugh
che un tempo definiva i libri di occultismo trappole per imbecilli? Quella
Barbara non si sarebbe neppure avvicinata a una montatura come la Luce
Immortale, mentre ora era convinta che Angela avesse poteri psichici che i
rapitori stavano tentando di distruggere, che aveva visto suo padre e dopo
che era morto ci parlava, che emanava un alone di pace che dava serenità a
chiunque si trovasse accanto a lei. A chiunque tranne ai killer, a quanto pa-
reva: loro erano gente senza nome, gente convinta che lei rappresentasse
una forma di minaccia; la donna dal viso storto era una di loro, e aveva av-
vertito i suoi poteri il giorno che le si era seduta accanto sul treno. Per que-
sto ce l'avevano messa tutta per portar via Angela. La Luce Immortale a-
veva spiegato perché i senzanome non potevano semplicemente ucciderla:
la minaccia che costituiva per loro sarebbe subito rinata.
Ted non poteva dire a quanto di tutto ciò Barbara credesse, forse neppu-
re lei era convinta. Forse lei intendeva dire solo che la setta riteneva Ange-
la insopprimibile. Lui comunque aveva tentato di razionalizzare i suoi pen-
sieri: udire il marito subito dopo la morte e credere che Angela lo avesse
visto poteva essere la proiezione fantastica di un desiderio; niente esclude-
va che Angela avesse la capacità di pacificare chi le stava attorno, senza
per questo cessare di essere una bambina normale. Ma alla fine si era ac-
corto che non faceva altro che renderla ancora più tesa. Aveva dovuto insi-
stere per farle prendere un paio di sonniferi, poi aveva dovuto rassicurarla
che qualsiasi cosa potesse aver detto, l'avrebbe comunque aiutata. Certo
che l'avrebbe aiutata, ma in che modo?
Quando il fattorino si fu allontanato, lui bevve il suo caffè, dolce e bol-
lente, nella speranza che gli acuisse la mente. Continuava a pensare che la
ricerca non avrebbe condotto a nulla — uno dei motivi per cui aveva volu-
to accompagnarla era il sostegno che poteva darle qualora lei avesse cedu-
to alla disperazione — ma forse non era lucido e obiettivo come gli piace-
va credere. Forse intimamente la sua speranza era che lei non trovasse An-
gela, che la bambina fosse davvero morta nove anni prima? Il fatto che
Barbara non aveva figli non faceva forse parte di ciò che lo attraeva in lei?
Forse sì, ma ora era ingiusto con se stesso; il suo interesse per lei non era
poi così egoistico. Se questa gente senza nome aveva davvero Angela, se
Barbara fosse riuscita a riaverla, come sarebbe stata la bambina dopo nove
anni? Probabilmente Barbara non osava neppure chiederselo.
La sua logica cominciava a impaniarsi. Non era il caso di seguire questo
filo di ragionamento. Lui era ancora convinto che Angela fosse morta e
che Barbara fosse vittima di un'estorsione: certamente questa era la spiega-
zione più semplice. La donna con il viso storto probabilmente la stava se-
guendo per controllare se le false tracce l'avevano ammorbidita. Il suo de-
siderio era solo mettere le mani su di lei, su uno qualsiasi dei bastardi che
stavano facendo tutto questo a Barbara.
E, perdio, forse ci sarebbe riuscito — forse c'era un modo per aiutare,
comunque. Rimise giù rumorosamente la tazza sul vassoio. Ora che sape-
vano che aspetto aveva uno dei persecutori, dovevano rivolgersi alla poli-
zia. Doveva convincere Barbara che Angela non ne avrebbe ricevuto nes-
sun danno.
D'un tratto si sentì molto più utile. Finì in fretta il caffè, poi andò per un
po' sotto il tendone all'ingresso dell'albergo. Profumi di cucina greca e in-
diana aleggiavano in mezzo alla pioggia, i manichini nelle vetrine palpita-
vano dietro cortine d'acqua, i riflessi nuotavano sotto le automobili. Era lì
quando arrivò un fattorino. « Mrs. Waugh », disse.
« È sveglia? » Aveva sperato che dormisse fino al mattino. « Va bene,
vado su. »
« No, è qualcuno che le vuole parlare. Lei aveva detto che non bisogna-
va disturbarla. »
Era mezzanotte passata. Poteva essere la ragazza che si faceva passare
per Angela? Se solo l'avesse incontrata a faccia a faccia... Ma quando ri-
spose al telefono nel foyer, la voce della ragazza sembrava troppo adulta. «
Voglio parlare con Mrs. Waugh », disse.
« Sta dormendo. Ha avuto una giornata faticosissima. Posso fare qualco-
sa? Io sto con lei. »
« Posso parlare solo con Mrs. Waugh. »
Chi poteva telefonare a quell'ora e con quell'aria di segretezza? « Mi
chiamo Ted Crichton. Barbara mi ha chiesto di parlare con chiunque aves-
se chiamato mentre lei dormiva » Prima ancora di essere sicuro se faceva
bene a dirlo, aggiunse: « Compresa sua figlia ».
Ci fu una pausa. Aveva rivelato il segreto di Barbara e non sapeva nep-
pure a chi. Allora la voce disse: « Lei sa chi sono io? »
« Sì, credo di sì. » Non era neppure sicuro di chi lei voleva far credere di
essere. « Cosa vuole? »
« Volevo vedere la mia mamma. »
Se lo scopo era di convincerlo, il risultato fu l'opposto: la voce suonava
imbarazzata in maniera grottesca, un'attrice che poteva convincere una
madre distrutta, ma non lui. Sentì crescersi dentro una rabbia gelida. « Se
viene qui posso accompagnarla da lei. »
« Non posso. Volevo vederla in un posto. »
« Allora magari è meglio che veda me. »
Stavolta il silenzio fu molto più lungo. Non doveva essere apparso suffi-
cientemente convinto da questa voce che cercava di farsi passare per quella
di una tredicenne. Forse era la donna con il viso storto, che non aveva pre-
so nessun treno, ma era sgusciata da un'altra uscita della stazione. Stava
imprecando con se stesso — l'aveva avuta quasi a tiro... Se solo non si fos-
se mostrato così ansioso — quando lei disse: « Sta bene ».
« Vuole vedermi? Adesso? »
« Non appena può arrivare dove le dirò. Venga il più presto possibile. »
Gli diede le indicazioni; non pareva troppo lontano. « Deve venire da solo
», aggiunse, « e non dica a nessuno che sta venendo. »
« Non si preoccupi. »
Mise giù immediatamente. Con un sorriso tirato, si precipitò di sopra a
prendere il cappotto. Esitò un attimo solo, davanti alla porta di Barbara,
prima di scendere. Anche se fosse stata sveglia, sarebbe stata l'ultima per-
sona a cui avrebbe detto dove stava andando. Finalmente aveva la possibi-
lità di scoprire personalmente che razza di gioco stavano giocando i suoi
persecutori.
Capitolo 25
Capitolo 26
Barbara non sapeva se stava sognando. La luce del sole filtrava tra le
tende e illuminava il suo letto vuoto e disfatto, oppure c'era dentro lei, in-
visibile a se stessa, e sognava di guardarsi dall'alto? E se no, Arthur era
davvero così vicino a lei?
Lui c'era, ma si andava rimpicciolendo. Se non lo avesse trovato in fretta
sarebbe svanito, e lei sentiva quanto era ansioso. Barbara si affrettò alla fi-
nestra, ma nessuna delle teste che avanzavano oscillando in strada era la
sua. Si stava dirigendo verso il bagno quando realizzò l'assurdità del suo
comportamento. La sensazione della presenza dell'uomo svanì improvvi-
samente: la faccia si ritirò nel buio della sua mente, si fece più piccola di
un atomo, e lei si trovò completamente sveglia.
E non c'era nulla che la distraesse dalle sue paure — dalle peggiori delle
sue paure, quelle che non aveva rivelato a Ted temendo di ammetterle an-
che con se stessa. Se la setta aveva rapito Angela perché aveva paura dei
suoi poteri, questo significava che erano poteri troppo forti per loro; le te-
lefonate di Angela dimostravano che era ancora in possesso di un forte
senso della sua persona — ma cosa potevano averle fatto, o cosa contava-
no di farle, per piegarla?
Niente di tanto terribile, a giudicare dal tono delle sue telefonate — o la
ragazza era troppo ingenua e fiduciosa per rendersi conto di quello che
stava facendo? Improvvisamente Barbara non volle più essere sola. Si infi-
lò i vestiti e andò in fretta a bussare alla porta di Ted. Nessuna risposta.
Bussò più forte e scrutò lungo il corridoio. Su un vassoio davanti a una
porta una tazza di caffè stava goffamente in bilico su un'altra. Le radio nel-
le camere trasmettevano senza posa allegri motivetti. Quando un carrello
pieno di biancheria si affacciò alla porta delle scale di servizio lei chiamò
forte la cameriera. « Che ora è? »
« Quasi le dieci. »
Allora il suo orologio non andava male. Lui le aveva detto che si sareb-
bero rivisti a colazione, ma poi doveva aver deciso di lasciarla dormire. Si
lavò in fretta e scese di sotto. C'era ancora qualcuno nella spaziosa sala da
pranzo, sotto i lampadari ingialliti; un'anziana signora aspettava che qual-
cuno la spingesse via nella sua sedia a rotelle, un uomo dai baffi argentati
abbassò il giornale e accennò un saluto a Barbara. Il rumore più forte era il
tintinnio di un cucchiaio su una tazza, il grattare di un coltello su un toast.
Nessuno dei clienti seduti a far colazione era Ted.
Uno dei camerieri disse che gli pareva che Mr. Crichton avesse fatto co-
lazione, ma chiaramente non ne era certo. Barbara ordinò il breakfast e
cercò di mantenere la calma: sicuramente era uscito a fare due passi. O
forse si era messo in cerca per conto suo? Gli ultimi occupanti dei tavoli
andarono via, i camerieri cominciarono ad apparecchiare per il pranzo.
Improvvisamente sentì che i suoi nervi non ce la facevano più a sopportare
quei rumori attutiti e andò in fretta al bancone della portineria per vedere
se Ted le aveva lasciato un messaggio.
Non c'era nessun messaggio, disse la ragazza, ma la sua chiave era in
portineria. Barbara le chiese quando aveva lasciato la chiave. « Non saprei
», rispose la ragazza. « Certo, prima che io prendessi servizio. »
« A che ora, cioè? »
« Le sei e mezzo. »
Dove mai poteva essere andato così presto? Anche ammesso che non
riuscisse a dormire — a volte gli capitava — non le avrebbe lasciato un bi-
glietto? A meno che non contasse di rientrare prima del suo risveglio. « È
assolutamente certa che Mr. Crichton non ha lasciato nessun messaggio? »
« Be', anche se lo ha fatto, sicuramente qui non c'è. »
Era possibile che si fosse perduto? Forse quella era una possibilità rassi-
curante, ma non al punto da lasciarla fare colazione. « Mi dispiace », disse
al cameriere, « ho avuto delle brutte notizie. » E immediatamente desiderò
non aver trovato proprio quella scusa.
Per un po' attese nel foyer. Gli ospiti passavano come al rallentatore, bat-
tendo i bastoni da passeggio, scrutandola dalle sedie a rotelle. Il balenare
delle porte girevoli sfocava le immagini, la costringeva continuamente a
guardare fisso per assicurarsi che non fosse Ted. Avrebbe dovuto farle pia-
cere vedere che lui non si sentiva legato, che si sentiva libero di uscire per
una passeggiata. Evidentemente le aveva lasciato un messaggio che era
andato perduto.
Alla fine si fece strada attraverso la porta girevole e si mise ad aspettare
davanti all'albergo. Di tanto in tanto una testa spiccava al di sopra del caos
delle facce, ma non era mai quella di Ted. Non bastava che non riuscisse a
trovare Angela? Avrebbe voluto mettersi a cercarlo, ma non aveva idea da
dove cominciare. E se fosse ritornato mentre lei lo stava cercando, sarebbe
stato lui a non sapere più dov'era lei.
Si avventurò fino al marciapiede di fronte e lasciò correre lo sguardo
lungo Sauchiehall Street. Da un lato si vedeva l'Inner Ring Road, dove le
costruzioni parevano grigie come fumo. All'estremità opposta c'era un'area
pedonale. La gente si fermava davanti ai negozi, degli operai si issavano su
un'impalcatura come ragni che ricostruissero una tela, un cartellone davan-
ti a una porta annunciava un'esposizione di libri prima della vendita all'a-
sta. Ted si era chiesto che libri potessero essere.
Prima di rendersi conto della sua intenzione, si trovò diretta alla sala d'a-
ste. Poteva arrivarci e tornare in dieci minuti, anche meno. Non importava
dov'era stato, solo dov'era adesso, solo che fosse al sicuro. Ma certo che lo
era, perché non avrebbe dovuto? Lei lo sapeva quanto potevano assorbirlo
i libri. Non si sarebbe sorpresa se avesse scoperto che era stato un'ora e più
a sfogliare vecchi volumi senza accorgersi del trascorrere del tempo.
Passando veloce accanto a un centro commerciale sentì una fanfara che
suonava. Un orologio a pendolo che pareva un castello-giocattolo dipinto
d'oro aprì le sue porte per far uscire i cavalieri e batté sei colpi. Lo fissò, al
di là di un poliziotto con le maniche corte e un tatuaggio sull'avambraccio,
ma il quadrante diceva undici. Si fece largo tra la folla e salì di corsa i gra-
dini che conducevano alla casa d'aste.
In cima alla seconda rampa c'era una lunga sala vuota, grande come un
bungalow. File di sedie attendevano la vendita all'asta davanti a un podio.
Gli scaffali e i tavoli da esposizione, rimpiccioliti dalla vastità del salone,
erano carichi di libri. Librai forniti di blocchetti per appunti studiavano le
rilegature, una coppia di mezza età con un'abbronzatura da gente ricca gi-
ronzolava adocchiando le illustrazioni. Vide subito che Ted non c'era.
Si scostò per lasciar passare due uomini che portavano una cassa piena
di libri. Non c'era neppure un nome di autore che conoscesse. Un dorso di-
ceva Il flusso psichico, ma lei ne aveva più che abbastanza dell'argomento.
Se ne tornò avvilita verso l'albergo.
L'aroma di pane appena sfornato le fece alzare lo sguardo verso il centro
commerciale. Le figure uscite dal castello mentre scoccavano le sei si era-
no ritirate. Gli uomini del servizio di sicurezza si aggiravano per la zona,
comunicando l'un l'altro con i walkie-talkie. In fondo alla galleria di nego-
zi, dietro un carretto rosso e giallo riempito di piante grasse, c'era Ted.
O forse qualcuno che gli somigliava. Era in piedi davanti alla cassa della
panetteria, e lei poteva vederlo solo di schiena. Corse giù per la galleria
sotto le luci fluorescenti, verdi, viola, rosa, gialle, azzurre. Il pavimento
scintillante sembrava ricoperto di lurex. Dai negozi venivano motivi di
canzonette, qualcuno così debole che poteva essere un'allucinazione. Nien-
te era reale, salvo l'odore del pane — ma quando raggiunse Ted anche lui
pareva sufficientemente reale.
Si sentì così sollevata che dovette sedersi su una poltroncina scivolosa di
plastica color cioccolato. Non appena ebbe modo di guardarlo più attenta-
mente, esclamò: « Ti sei fatto male ».
Lui si guardò le nocche escoriate come se non fossero sue. « Non è nul-
la. Solo un gatto che non era particolarmente cordiale. »
Perfino lui non aveva mai avuto un'aria così arruffata; evidentemente
doveva proprio essersi alzato prestissimo. « Dove sei stato? »
« Ho cercato la Luce Immortale per te. Sono solo uno dei mille gruppu-
scoli religiosi, uguali a tutti gli altri. Non sanno niente di quello che ti inte-
ressa. Ne sarebbero terrorizzati. »
Il suo umore era strano, quasi esultante; forse dipendeva dall'insonnia.
Nonostante il sollievo, Barbara non riusciva a condividere il suo stato d'a-
nimo; ma almeno ora lui pareva crederle, più della sera prima. « Che pos-
siamo fare adesso? » chiese.
« Be', non dobbiamo dire alla polizia della donna che abbiamo visto. Ora
che l'abbiamo scoperta, i senzanome saranno più all'erta che mai. »
Lei questo lo aveva già pensato, ma sentirselo confermare la rese ancor
più apprensiva. « Pensi che faranno qualcosa ad Angela? »
« No, non credo. Non ne hanno motivo. »
« E allora tutto quello che possiamo fare », concluse lei disperata, « è
sperare che Gerry sia riuscita a trovarli. »
« Non mi stupirebbe se si facesse sentire presto. Ma no, credo che pos-
siamo fare qualcosa di più che sperare. Ieri sera pensavo che la donna po-
tesse essere entrata nella stazione per metterci fuori strada, ma quando ci
ho ripensato mi è venuto in mente che aveva un biglietto in mano. »
« Non me n'ero accorta. Sei certo? »
« Lo vedo chiaro come vedo te adesso. »
« E allora siamo di nuovo al punto di partenza. Possono essere dovun-
que. »
« Be', non esattamente. Ho controllato i treni che sono partiti poco dopo
che l'abbiamo vista. Ho un elenco delle loro destinazioni. È lì che dobbia-
mo cercare. »
Non pareva un gran che come traccia, ma la sua foga era contagiosa. «
Potremmo cominciare dalla più grande », continuò. « Dovrebbe essere E-
dimburgo. Dovremmo cominciare immediatamente. »
Si alzò in fretta, e pareva impaziente che lei lo seguisse. Era un sollievo
per lei essere guidata, una volta tanto; si sentiva troppo esausta per prende-
re l'iniziativa. L'odore del pane svanì, un torrente di facce che a stento vide
la portò via. « Di una cosa sono certo », concluse Ted. « A Glasgow non
troverai niente. »
Capitolo 27
Capitolo 28
Quando Iris guardò nello specchio del tavolino da toletta, le parve di ve-
dere il riflesso di un movimento nel letto illuminato dalla luce del sole, un
dimenarsi sotto le lenzuola. Il movimento stava per spostare il lenzuolo, e
così lei avrebbe visto com'era. Per un momento si sentì come si era sentita
il giorno prima — le braccia volevano stringersi così forte al suo corpo che
si sarebbe fatta troppo piccola perché qualunque cosa potesse raggiungerla
— ma poi si accorse che a muoversi era solo l'ombra delle tendine. Era a
casa ormai. Niente poteva farle del male. Il male non c'era, lì, anche se era
andato a farle visita.
Quando toccò il cassetto in alto la sua mano esitò. Nella strada un bam-
bino cantava una canzoncina; giù per la collina qualcuno potava una siepe
e il rumore era più tagliente delle cesoie; dentro la sua stanza il sole teneva
tutto immobile, ma il suo timore era che non potesse farlo ancora per mol-
to, ora che il male aveva visto dov'era lei.
Ma proprio per questo doveva cercare. Il pensiero la spinse ad agire, le
fece aprire il cassetto. Non c'era altro che la biancheria del padre, niente
che se ne stesse nascosto in agguato mentre lei vi trafficava dentro in fret-
ta. Sicuramente l'indirizzo non era lì: la donna lo aveva dato a sua madre.
Si inginocchiò e aprì il secondo cassetto. Doveva fare in fretta, prima che
sua madre scoprisse quello che stava facendo. Non glielo avrebbe lasciato
fare, se avesse saputo.
Forse a volte la madre aveva ragione. Il giorno prima le aveva detto di
rimanere di sopra finché i due visitatori non fossero andati via. Iris era sce-
sa in silenzio — non era una bambina a cui si poteva dire di rimanere in
camera sua; si sentiva come se non lo fosse mai stata, si stava ricostruendo
nel presente, avendo dimenticato praticamente tutto il suo passato — ed
ecco che la porta si era aperta, e lì c'era quell'enorme uomo con la barba.
Appena visti quegli occhi aveva capito che cos'era. Tutti i senzanome
avevano quell'impronta nascosta che nessun altro era capace di riconosce-
re, quella fisionomia come se qualcosa li avesse mangiati all'interno fino a
renderli gusci vuoti. Aveva cominciato immediatamente a richiudersi in se
stessa. La cosa peggiore era che lui l'aveva chiamata per nome, nome che
lei aveva appena cominciato a credere suo. I senzanome non le lasciavano
neppure avere un nome a cui aggrapparsi per sfuggire al loro potere.
Doveva farlo sapere alla donna, alla donna che cercava sua figlia. Non le
veniva in mente nessun altro a cui dirlo: certamente sua madre non avreb-
be voluto saperlo. « Ormai sei a casa tua, Iris. Non pensare a quelle cose. »
Voleva credere che Iris aveva dimenticato; e forse un giorno ci sarebbe
riuscita.
Possibile che la madre avesse buttato via l'indirizzo di quella donna?
Non si era presa la briga di riportarlo nella sua rubrica. Ma il giorno prima
aveva detto che ce l'aveva ancora, e sua madre non avrebbe mentito. Do-
veva essere da qualche parte là dentro.
Forse era in uno dei vestiti di sua madre nell'armadio. Stava attraversan-
do in fretta la stanza, rasentando il letto dove quel grasso rigonfio tremo-
lante non era altro che un cuscino turbato dall'ombra, quando sentì la voce
della madre sulle scale. « Iris, dove sei? »
« Sono qui. » Ora riusciva a parlare abbastanza facilmente; solo quando
l'argomento cadeva su cose che non voleva ricordare le sue labbra comin-
ciavano a torcersi come vermi. Doveva trovare una scusa logica per trovar-
si in camera della madre. Prese l'album di fotografie e si mise seduta sul
letto.
« Benissimo, Iris, stai pure qui se ti fa piacere. » Non appena si fu assi-
curata che Iris stesse bene, tornò di sotto. Iris aveva la sensazione che la
madre fosse sempre stata così, sempre ansiosa di credere che nulla turbasse
la figlia, sempre lì a controllarla, ma senza averne l'aria. Per un momento,
guardando una foto di sé con i genitori, Iris fu sul punto di ricordare — ma
doveva trovare l'indirizzo. Si alzò in piedi, cautamente per non disturbare
il rigonfio sotto il lenzuolo, e andò all'armadio.
Il biglietto da visita era nel terzo vestito in cui guardò. BARBARA
WAUGH - AGENTE LETTERARIO, diceva. Doveva essere stato lavato
insieme con il vestito, poiché la scritta a penna sul retro quasi non si leg-
geva più: riuscì a stento a decifrare l'indirizzo nel Barbican. Chiuse in fret-
ta l'armadio: stava per venirle in mente la stanza buia dove l'oggetto appe-
so nell'armadio non era un vestito, ma qualcosa che guizzava come un
verme su un amo. Forse era solo un incubo che le pareva un ricordo, dato
che di ricordi ne aveva così pochi. Corse in camera sua.
Ora doveva sbrigarsi. Tirò fuori la sua carta da lettere. Dall'odore pareva
vecchia di anni, e lo era. Francobolli non ne aveva, ma pensava di procu-
rarsene uno. Un orologio batté le cinque. Suo padre sarebbe arrivato in sta-
zione alle sei. Se non riusciva a essere lì prima di quell'ora il suo piano sa-
rebbe fallito.
Non appena la prese in mano, la penna le sfuggì via. Non le riusciva di
scrivere dei senzanome più di quanto le riuscisse di parlarne. Quella trac-
cia di male era rimasta dentro di lei. Stava per ricordare cose che aveva
aiutato a fare, stava per ricordare quella volta che era caduta nel buio di
una delle stanze dalle finestre murate e aveva cercato di dirsi che ciò che
aveva toccato era solo un rotolo di fune viscida. Il rischio di ricordare le
vuotò immediatamente la mente, con suo grande sollievo. Se non altro i ri-
cordi non erano più tentatori.
Poteva scrivere dell'uomo con la barba. Era arrivato più tardi dei suoi ri-
cordi; i senzanome non potevano impedirle di scrivere di lui. Doveva dirlo
a qualcuno, in modo che potessero prendere i senzanome prima che i sen-
zanome riprendessero lei. Poteva scrivere, anche se la sua mano tremava.
Ma l'orologio stava battendo il quarto, e non aveva ancora scritto nulla.
Improvvisamente seppe con precisione cosa fare. Scrisse l'indirizzo sulla
busta. Dovette scrivere tutto l'indirizzo in stampatello grande, poiché la sua
mano tremava tanto che scrivendo in un altro modo la sua grafia sarebbe
stata illeggibile; rimase appena lo spazio per il francobollo. Poi, senza in-
terruzione, scrisse: L'UOMO CHE HA PORTATO A CASA MIA È UN
SENZANOME. POSSONO FARGLI FARE TUTTO QUELLO CHE
VOGLIONO. IRIS. Infilò il foglio nella busta. Leccò il lembo così in fret-
ta che si fece un taglio sulla lingua, poi scese senza perdere tempo al piano
di sotto nascondendo la lettera in una tasca del vestito. Aveva paura che le
sue mani, contro la sua volontà, tirassero fuori la lettera e la facessero a
pezzi. « Andiamo a prendere papà? » propose.
« Sì, certo, se ti fa piacere. » Almeno questa parte del suo piano era
semplice; sua madre si mostrò sorpresa e compiaciuta. A volte portavano
Iris a fare una passeggiata serale, quando c'era meno traffico. Doveva ap-
parire come un passo avanti della ragazza.
Sua madre impiegò un po' di tempo per prepararsi, ma per quanto ne sa-
peva lei non c'era alcun bisogno di affrettarsi. Sarebbe anche scesa con tut-
to comodo giù per la collina, fino alla strada, se Iris non le avesse fatto
fretta. Ma certamente la madre doveva essere contenta che Iris non rima-
nesse indietro intimorita dal traffico.
Sulla strada lungo il canale, il rumore del traffico era un muro invisibile.
Iris si fece forza per oltrepassarlo, ma ogni secondo si faceva più intenso,
scuotendole i nervi. Cercò uno spazio nella colonna di macchine e la ma-
dre la fece attraversare fino al sentiero che portava giù al canale.
Vicino all'acqua c'era molto meno rumore. I riflessi degli alberi ondeg-
giavano come alghe. Nel campo di calcio sulla riva opposta cavalli e muc-
che brucavano l'erba tra le due reti. Una chiatta aspettava che la chiusa si
riempisse; alcuni giovani a torso nudo seguirono con lo sguardo Iris men-
tre passava. Sicuramente erano lì per una gita sul canale, non avevano
niente a che fare con i senzanome.
Quando l'orologio batté la mezz'ora la ragazza si sforzò di affrettare il
passo, anche se erano ormai all'altezza del ponte stradale. Dalle due parti
del canale il rumore del traffico era schermato dal terrapieno erboso, salvo
dove il ponte incrociava il canale. Mentre ci passava sotto, veloce, l'acqua
si faceva oscura, metallica; si trovò presa in quella trappola di cemento dal
frastuono che bloccava entrambe le estremità, ma riuscì a farsi strada at-
traverso il rumore e spinse il cancello cigolante che dava sul viale.
Ora niente poteva fermarla. Gli ippocastani coprivano il sentiero e lei
raccolse una castagna d'india, con un gesto da bambina. Denti d'acciaio
circondavano i tronchi per scoraggiare le arrampicate. Nell'erba alta lungo
il canale, dei cavalli erano ritti vicino ai loro puledri sdraiati. Non erano
ancora le sei meno un quarto quando le due donne raggiunsero il pub ac-
canto alla stazione e Iris disse: « Devo andare in bagno. Non occorre che tu
venga con me. Non ci metto molto ».
« Va bene, cara. » La madre parve un po' ansiosa, ma anche contenta che
Iris si sentisse in grado di avventurarsi da sola nel pub.
Qualche avventore, pochi per via dell'ora, era appoggiato al bancone.
Sopra una porta un cartello indicava la toilette, ma non era quello ciò che
lei cercava. Andò direttamente dalla donna dietro il banco. « Devo imbuca-
re una lettera con urgenza », disse: si era esercitata in silenzio per ore per
dirlo bene. « Mi può vendere un francobollo? »
« Un minuto, vedo. » Trafficò nella sua borsa per più di un minuto; il
rintocco del quarto rieccheggiò attraverso la finestra. La madre di Iris pro-
babilmente si stava chiedendo cosa le fosse successo: e se fosse entrata a
controllare che Iris non fosse sgusciata lì dentro per farsi un drink di na-
scosto?
La donna alzò gli occhi dalla borsa. « No, mi dispiace. Pensavo di aver-
lo. »
Quando Iris si volse con aria abbattuta dal bancone — era assolutamente
impreparata all'eventualità che il piano fallisse — vide una piccola faccia
piena di lentiggini e di venuzze rosse che la fissava. Si strinse forte, ma era
solo un anziano pensionato più basso di lei di tutta la testa. « Era tanto ur-
gente? » chiese.
« Sì. » Non riuscì a dire altro, si sentiva le labbra gonfie.
« Lo conservavo perché mi piaceva la figura. » Le porse un francobollo
su cui Peter Rabbit torreggiava sopra la testa senza corpo della regina Eli-
sabetta. « Non dovrebbe essere difficile procurarmene un altro », concluse
speranzoso.
Lei incollò il francobollo sulla busta prima che l'uomo potesse ripensar-
ci. Non appena gli ebbe dato i soldi corse fuori, nascondendo la lettera. La
madre si avviò immediatamente su per la rampa che conduceva alla stazio-
ne.
Sul muro appena fuori dalla stazione c'era una cassetta per le lettere.
Approfittando del fatto che la madre la precedeva e guardava avanti, Iris si
fece forza, tirò fuori la lettera e la infilò nel buio della finestra. Per un
momento si sentì agitatissima, ma come altro poteva proteggersi? Si affret-
tò a raggiungere la madre.
Un treno passò con un ruggito lacerante. Una faccia immobile la fissò at-
traverso lo sportello dei biglietti. Tutto sembrava ritirarsi davanti a lei: la
piccola stazione a due marciapiedi, la luce del sole così fissa da parere ir-
reale. La lettera era ormai al sicuro. Niente avrebbe potuto fermarla, ormai.
Dopo poco un treno portò il padre. Lui non parve del tutto contento di
vederla e guardò male la madre, a cui non aveva ancora perdonato di aver
fatto entrare Barbara Waugh il giorno prima. « Stai meglio, oggi? » chiese
a Iris.
« Sì. » Ora c'erano tutti e due i genitori a proteggerla, niente poteva farle
del male. Poi vide il furgone postale che si allontanava dalla buca, si im-
metteva sulla via principale e scompariva in fretta, e di colpo si sentì terro-
rizzata. Era stata così occupata a eludere sua madre che non si era resa
conto di quello che stava facendo. Sarebbe stata al sicuro se non avesse
scritto la lettera — l'uomo con la barba aveva visto che lei non costituiva
una minaccia. Ora aveva tradito i senzanome, e sentiva che loro lo sapeva-
no.
Improvvisamente le tornò in mente il giorno in cui li aveva lasciati, il
giorno in cui si era sentita così stordita da quello che aveva appena aiutato
a fare che era uscita di casa senza pensare. Era così fuori di sé che forse lo-
ro, con tutto il loro potere, non si erano neppure accorti che se ne andava.
In qualche modo aveva preso un treno per casa, ed era già a metà strada
quando l'avevano trovata nello scompartimento deserto e assolato. Dopo di
che non ricordava nulla per settimane, fino al giorno in cui si era ritrovata
nella sua camera a casa, apparentemente al sicuro — al sicuro fino a quel
momento.
Seguì i genitori al sole, come se questo potesse esserle d'aiuto. Ora si
stavano dirigendo verso il viale. Non si accorgevano di com'era buio sotto
gli alberi, di come scintillavano quei denti metallici? Non si rendevano
conto che qualsiasi cosa poteva piombare giù dal basso fogliame o striscia-
re su dall'erba alta? I senzanome una volta le avevano detto che non sareb-
be mai riuscita a tradirli; ma che se solo ci avesse provato loro lo avrebbe-
ro saputo. Ora se lo ricordava, troppo tardi. Per tutta la strada lungo il via-
le, un cavallo le camminò a fianco, fissandola. Quando i genitori videro
che la cosa la turbava tentarono di scacciarlo.
Il cancello cigolò e si fermarono ad aspettare che li raggiungesse sotto il
ponte. La madre era davanti a lei, il padre dietro, ma non potevano impedi-
re al rumore di circondarla. Ora ricordava perché la spaventava tanto: era
uguale al rumore in quelle case decrepite in cui l'avevano costretta a vive-
re. Possibile che il male fosse anche là dentro? I senzanome ora dovevano
essere più potenti. Sentivano di essere vicini al loro scopo, quale che fosse;
le cose che facevano — le cose che lei aveva aiutato a fare — li avevano
portati ancora più vicini.
« Forza Iris », disse il padre, impaziente. Aveva tanta paura che potesse
spingerla che immediatamente si fece avanti. Non appena si trovò sotto il
ponte il rumore creò un muro dalle due parti: l'acqua rallentò, congelandosi
in una grigia striscia corrugata. Il rumore le si chiudeva attorno, spessa at-
mosfera semibuia, impalpabile ma impenetrabile. Sentì rallentarsi tutti i
movimenti.
I genitori non se ne accorsero. Loro camminavano avanti, portandola
con loro, e in qualche modo riuscì a trovarsi fuori dalla trappola del ponte.
Il sole l'agguantò, ma almeno quello era neutrale. Gli alberi stavano a testa
in giù nell'acqua, annegando. Di là dal canale una palla batté rumorosa-
mente contro un bastone da cricket. Un treno sferragliò lungo la linea lon-
tana, stridendo come un'unghia su una lavagna. Per lo meno adesso si tro-
vava all'aperto, e più vicina a casa, ma quanto al sicuro sarebbe stata in ca-
sa? Non c'era in vista nulla che potesse farle del male; nulla si muoveva
tranne la piccola forma sopra di lei. Alzò gli occhi.
Era un uccello, e improvvisamente precipitò. Lei si ritrasse, ma non sta-
va attaccando lei. Cadde sul sentiero ai suoi piedi. Continuava a muoversi,
ma era tutto coperto di sangue.
« Dio mio », mormorò suo padre, e le impedì di vedere mentre lo supe-
ravano in fretta.
Le stavano dicendo che sapevano cosa aveva fatto, che potevano fare
tutto quello che volevano. Non sarebbe stata più al sicuro a casa. Ricordò
l'agitarsi sotto le lenzuola, e che altro poteva esserci ad aspettarla? Sedette
sulla riva del canale. L'erba secca le pungeva le gambe e le braccia, i suoi
genitori la chiamavano, e poi la chiamavano più forte, ma queste distrazio-
ni esterne già cominciavano a sfumare. Gambe e braccia le si erano strette
forte contro il corpo, spingendola giù nel buio dentro di sé, dove nulla po-
teva raggiungerla.
Capitolo 29
Capitolo 30
L'asta del libro di Gregory durò due giorni e quando fu terminata Barba-
ra si sentì come se al mondo non esistesse nient'altro che la sua suite al-
l'Algonquin e la veduta monocroma della Quarantaquattresima ovest attra-
verso l'alto finestrone vittoriano. Chiamò Paul per dirgli che la vendita si
era conclusa con una cifra di milioni; le rispose Sybil, che dovette mostrar-
si sia pure a malincuore entusiasta.
Dopo l'asta, Barbara non riuscì a rilassarsi. Avrebbe potuto dare un party
nella sua suite, ma era troppo occupata con gli incontri con gli editori per
promuovere il romanzo della Newton-Brown. Tra un incontro e l'altro ten-
tò di passeggiare. Cori invisibili cantavano Sch nberg in Bryant Park, le
pietre nelle vetrine dei gioiellieri sulla Quarantaquattresima est sfolgora-
vano come se stessero ancora cristallizzandosi, i riflessi dei grattacieli si
incontravano e si fondevano sulla gigantesca superficie curva del Monsan-
to Building. Non poteva allontanarsi troppo dall'albergo, poteva sempre
chiamare Ted.
Ma, anche se ora si sentiva stanca e nervosa, la sua agitazione aveva da-
to buoni frutti. L'interesse per il libro della Newton-Brown era forte, e po-
teva condurre l'asta da Londra. Doveva solo incontrare una redattrice sua
amica per discutere del romanzo di Ted e poi poteva confermare la preno-
tazione sul primo volo disponibile per Londra.
Stava per darsi una rinfrescata quando suonò il telefono. Era Cathy Da-
nieli, la redattrice che stava guardando il romanzo di Ted. « Sali pure », le
disse Barbara. Era arrivata in anticipo perché era ansiosa di comprare il
romanzo? Barbara ci aveva dato un'occhiata in aereo, ma era troppo preoc-
cupata per poterlo giudicare serenamente; aveva continuato a chiedersi
come avrebbe reagito Angela se telefonando a casa sua avesse sentito una
voce di uomo. E se avesse pensato che la setta aveva intercettato la sua
chiamata? Barbara sperava soltanto che Ted riuscisse a convincerla del
contrario.
Cathy arrivò poco dopo, con un abito lungo e ampio e una coda di caval-
lo. Si salutarono con un bacio, poi Barbara si affrettò verso il bagno.
Stava finendo di lavarsi, gli occhi le bruciavano per il sapone, quando il
telefono suonò di nuovo. « Rispondo io », gridò Cathy. .
Barbara si sciacquò in fretta il viso e chiuse il rubinetto in tempo per
sentire Cathy che diceva: « Mi dispiace, la comunicazione è molto distur-
bata. Vuole ripetere il suo nome, per favore? »
Improvvisamente Barbara si sentì in apprensione. Si precipitò dal bagno,
strofinandosi il viso con l'asciugamano. Prima di raggiungere il telefono
sentì Cathy che diceva: « Ecco, adesso la sento. Vuole attendere un attimo,
per favore? »
Si volse a occhi spalancati a Barbara, coprendo con una mano il micro-
fono. « È Laurence Dean », disse. « Vuole parlarti. »
Barbara ovviamente sapeva benissimo chi fosse — aveva prodotto di-
versi film di eccezionale successo — ma avvertì una sorta di fastidio: ave-
va quasi finito il suo lavoro a New York, voleva tornare a casa. « Che cosa
desidera esattamente? Tu forse lo sai? »
« Sarà meglio che glielo chieda tu stessa. È uno che ci tiene a fare le co-
se come si deve. »
La morbida voce dall'accento californiano suonò molto compita, ma
molto fioca; Barbara dovette tendere l'orecchio. « Conto di essere a New
York all'inizio della settimana prossima, Mrs. Waugh », disse, « e ritengo
che lei sia ancora lì. Mi chiedevo se sarà libera di vedermi. »
« Be', veramente avevo una mezza intenzione di tornare a Londra doma-
ni. » Cathy la fissava a bocca aperta, suggerendole a gesti di cambiare ap-
proccio. « Voleva discutere di qualcosa in particolare? Mi scusi, rimanga
un momento in linea », disse, visto che Cathy continuava a sbracciarsi.
« Guarda che si impegnerà solo in un incontro diretto », le sussurrò
Cathy. « Se cerchi di forzarlo perderà l'interesse. Ma credimi, non chiama
mai un agente se non è seriamente interessato a uno dei suoi libri. Devi in-
contrarlo, Barbara. Ne verrà fuori qualcosa di grosso. »
« Benissimo; Cathy. Mi scusi, continui, prego », aggiunse al telefono.
« Stavo leggendo alcuni libri che credo tratti lei », spiegò pazientemente
la voce lontana. « Pensavo che un incontro potrebbe essere utile per tutti e
due. »
« A quali libri si riferisce? »
Cathy si batté avvilita la fronte con la mano e chiuse gli occhi. « Mi
sembra che lei abbia un cliente che si chiama Paul Gregory. »
« Sì, esatto. » Si sentiva impotente, incastrata dal suo interesse. Quando
lui suggerì di vedersi il martedì lei accettò, poi riaprì la bocca per rifiutare,
ma lui aveva già riattaccato. La sua perplessità doveva essere evidente,
poiché Cathy chiese: « Si è ritirato? Oh, Barbara, te l'avevo detto ».
Barbara le raccontò quello che le aveva detto mentre scendevano di sot-
to. « Barbara, è magnifico. Sono sicura che è la prima volta in vita sua che
si impegna fino a questo punto. Ha l'aria di un affare grossissimo. »
Barbara si sforzò di mostrarsi contenta, ma fu grata alla penombra della
hall. Nel banco dei giornali un titolo in piccolo diceva: SEGUACI DI
UNA SETTA CALIFORNIANA INCRIMINATI; c'era sempre qualcosa
che le riportava lì la memoria, a quanto pareva. « Andiamo fuori a bere
qualcosa », propose Cathy in tono fermo. « È un bel po' che te ne stai chiu-
sa qui dentro. »
Il bar era piccolo e semibuio. Alcuni uomini erano seduti a bere accanto
al lucido bancone e guardavano un televisore su cui le facce avevano il co-
lore della carne cruda. Le due donne sedettero a un tavolino e ordinarono
due Black Russian. Dopo un paio di sorsi Cathy chiese: « Posso fare qual-
cosa per te? »
« Credo di no, Cathy, ti ringrazio. È una faccenda personale, niente a che
vedere con il lavoro. »
« E allora parliamo di lavoro. Il romanzo di Ted Crichton mi è piaciuto
molto. C'è bisogno di lavorarci, ma sarò felice di farti un'offerta. »
Un presidente degli Stati Uniti di un rosa sfocato apparve all'improvviso
sullo schermo televisivo. La voce forte dell'annunciatore continuava a in-
trecciarsi con quella di Cathy. « Questa è una buona notizia », commentò
Barbara, cercando di concentrarsi sul lavoro. « Ci sono dei punti particola-
ri su cui secondo te c'è da lavorare? »
« Dovrebbe rimaneggiare i primi capitoli. Sono le scene più avanti che
mi hanno convinta definitivamente sul libro — sai, da quando l'investiga-
trice scopre che il suo amico è in combutta con l'organizzazione. Ma così
com'è messa la cosa è un po' troppo improvvisa. Dovrebbe inserire un po'
di indizi in anticipo. In questo modo dà l'idea di una soluzione affrettata. »
« Glielo dirò. » Diverse persone tutte rosa televisivo venivano condotte
in un tribunale, nascondendo le facce davanti alla telecamera. « Oppure
potresti scrivergli tu facendo il mio nome. Ufficialmente non è un mio
cliente. »
« Ma ora gli farai tu da agente, no? »
« Ho sempre pensato che è meglio evitarlo, con gli amici. Complica i
rapporti in tutti i sensi. » Stava tentando di sentire quello che diceva l'an-
nunciatore. Quando Cathy riprese a parlare, Barbara le fece cenno di star
zitta e rimase male lei stessa per la violenza del gesto. L'aula di tribunale e
le figure seminascoste erano scomparse, il lettore stava parlando di inqui-
namento. « Che stava dicendo del fatto che non trovano il nome di qualcu-
no? » chiese Barbara.
« Non saprei, non stavo ascoltando. »
« Qualcosa su certa gente portata davanti a un tribunale che ha dovuto
incriminarla senza conoscerne i nomi. »
« Ah, dovrebbero essere quegli sballati in California. Non ne hai sentito
parlare? Evidentemente eri troppo presa dalla tua vendita. Be', la polizia
non è stata in grado di rintracciare quasi nessuno dei loro nomi e così han-
no dovuto dargli degli pseudonimi perché la corte potesse incriminarli. »
Le braccia di Barbara cominciarono a irrigidirsi dalla tensione; mise giù
il bicchiere. « Che altro sai di loro, Cathy? Puoi dirmi tutto quello che ri-
cordi? »
« Non l'ho seguita molto, questa storia. E uno strano posto, la California.
Ma questi erano una specie di colonia di freak, mi pare, che facevano delle
cose molto brutte, magia nera e tortura, quel genere di roba. Arrivavano
voci su di loro in continuazione, ma nessuno era riuscito a rintracciarli fino
a questo momento. Questa è l'unica cosa che ricordo. Secondo la polizia
alcuni di loro hanno fatto in modo che fossero scoperti, perché erano terro-
rizzati dalle situazioni in cui si stavano cacciando di loro propria volontà. »
Barbara si accorse di tremare, anche prima che Cathy continuasse: « La
faccenda che mi ha più sconvolta è il fatto che alcuni di loro avevano dei
bambini. Voglio dire, riesci a immaginare in che modo crescono quei ra-
gazzi? »
Barbara cercò di alzare il bicchiere, ma dovette lasciarlo per non rove-
sciarne tutto il contenuto. « Chi potrebbe dirmi qualcosa di più? » riuscì a
domandare.
Cathy la fissò. « È importante, per te, vero? Va bene, aspettami qui men-
tre faccio una telefonata. Ho qualche amicizia utile. »
Barbara fu grata a Cathy perché non aveva cercato di chiederle altro. Le
teste degli avventori si sollevavano quando la loro mano destra alzava il
bicchiere; il resto del corpo poteva essere anche paralizzato. In onda, due
lottatori erano aggrappati l'uno all'altro e lei non riusciva a capire se quel
colore di carne cruda era finto o era sangue. Finalmente Cathy le fece cen-
no di accostarsi alla cabina telefonica dall'altra parte del locale. « Quanto
ci tieni a sapere? »
« Moltissimo. » Barbara dovette appoggiarsi al bancone; le unghie le
scivolarono sul legno lucidato. « Ti prego, fammici parlare », disse con an-
sia.
« Questa non è la persona di cui hai bisogno. » Rivolta al telefono, ag-
giunse: « Sta bene, dille di chiamare Barbara Waugh all'Algonquin Hotel
». Riappese e sorrise, come se Barbara dovesse essere contenta. « Ti chia-
merà tra un paio d'ore. »
Pareva un'eternità. « Non posso chiamarla io adesso? »
« Be', non credo. È una conoscenza della mia conoscenza. Voglio dire,
in California è più presto di tre ore. Molto probabilmente ora sta andando
al lavoro. » Strinse il braccio di Barbara come se così potesse farla smette-
re di tremare. « Cerca di rilassarti. Parlamene, se pensi che possa servirti. »
« No, non posso. » Poteva solo immaginare il peggio se ne avesse parla-
to adesso. « Non posso », ripeté stancamente.
« Non importa. Vieni, finiamo il nostro drink. » Ma, se qualcuno doveva
chiamarla all'albergo, Barbara doveva tornarci immediatamente. Visto che
non riusciva a portarla verso il loro tavolo, Cathy la seguì in strada. « Ti
accompagno fino all'Algonquin. Possiamo parlare della faccenda di Cri-
chton la settimana prossima, se preferisci, quando avrai sistemato quest'al-
tra cosa. Non farti sommergere, d'accordo? Mia madre diceva una cosa che
ho sempre trovato molto utile — niente è brutto come lo si immagina. »
Capitolo 31
Quando Barbara, affannata, entrò nell'Algonquin, subito l'avvolse la pe-
nombra. La hall era affollata; i pallidi palloncini delle facce avanzavano
ballonzolando da un'oscurità che sembrava resa più fitta dal loro mormora-
re confuso. Sfiorò con una mano la foglia fredda e untuosa di una pianta in
vaso; con l'altra toccò una faccia all'altezza della sua coscia, una faccia che
pareva di pasta di pane. Doveva essere un bambino.
Si fece strada fino al banco dei giornali, ma non riuscì a trovare il titolo
che aveva visto prima. Forse era in una pagina interna che era stata esposta
per sbaglio. Comprò una copia di tutti i quotidiani e si avviò verso le scale,
che spesso erano più rapide dell'ascensore. Gli occhi si stavano adeguando
alla scarsa luce, ma si sentiva ancora minacciata dalla folla, che poteva ve-
derla senza che lei riuscisse a distinguerla.
Aveva quasi superato il banco della portineria quando l'impiegato la vi-
de. « Mrs. Waugh, c'è stata una telefonata per lei. »
Cathy si era sbagliata: il suo contatto l'aveva chiamata mentre lei non era
ancora all'albergo. Adesso certamente sarebbe uscita per qualche servizio e
Barbara non sarebbe neppure riuscita a sapere chi era: Cathy non sarebbe
stata a casa prima di qualche ora. Ma l'impiegato consultò un appunto e
continuò: « Ha telefonato il signor Crichton da Londra una mezz'ora fa ».
Perché non le aveva lasciato un messaggio? Barbara fece di corsa il cor-
ridoio verso il suo appartamento, rasentando porte di un colore nero luci-
do, negative giganti sulle pareti bianche. Su ciascuna di esse pareva ci fos-
se la sua immagine non completamente sviluppata, un'ombra in corsa con
macchie più chiare al posto della faccia e delle braccia. In una delle stanze
la suoneria soffocata di un telefono stava squillando. Quando riuscì a gira-
re la chiave nella sua porta e ad aprire, il telefono stava ancora squillando,
ma non era il suo.
Gettò i giornali sul pavimento del soggiorno, e cominciò subito a forma-
re il numero. A metà si bloccò, gemendo come in un incubo, perché aveva
dimenticato il suo numero di casa. Sei tre otto, mormorò, sei tre otto, e sta-
va cominciando a chiedersi come si faceva a chiamare le informazioni per
un numero in Inghilterra quando il numero le tornò in mente. Lo compose
e rimase in ascolto. Nessuno rispose.
Ricordò senza difficoltà il numero di Ted, ma fu inutile. A migliaia di
miglia di distanza, ma vicino al suo orecchio, il telefono continuò a squil-
lare all'infinito. Il suo orologio segnava quasi l'una, per cui a Londra dove-
vano essere quasi le sei. Allora aveva composto veloce e sicura, il numero
della Melwood-Nuttall, e il telefono dell'ufficio aveva suonato a lungo
prima che le venisse in mente che era sabato: non poteva esserci nessuno.
Rimise giù con cautela il microfono, per evitare di perdere il controllo,
poi lo fissò come fosse una bomba. Le rimandò un bagliore, un nero gru-
mo di silenzio. Ormai in California dovevano essere le dieci e forse la
giornalista aveva ricevuto il messaggio che diceva di chiamarla. Che cosa
voleva dirle Ted?
Cominciò a cercare nei giornali, per impedirsi di pensare. Ben presto il
pavimento attorno a lei fu coperto di sparatorie, bombardamenti, rapimen-
ti. Finalmente trovò il titolo su una pagina in fondo, ma l'articolo diceva
della setta molto meno che del suo capo, un uomo il cui nome era ora noto
come Jasper Gance.
O forse Kaspar Ganz. Questo era il nome con il quale si era spacciato
per psichiatra per poter visitare il braccio della morte con il pretesto di fare
delle ricerche. Più atroce era il crimine, più ansioso era di intervistare il
criminale. Dopo essere stato scoperto era stato interrogato da un vero psi-
chiatra, che aveva diagnosticato un interesse morboso per il sadismo e le
mutilazioni. Ganz, o Gance, era stato imprigionato poco prima della se-
conda guerra mondiale, ma dopo l'attacco a Pearl Harbor era stato richia-
mato. Da allora non se n'era più sentito parlare, fino a ora.
Il giornale riportava una versione del rapporto dello psichiatra più com-
pleta di quella pubblicata a suo tempo, e a Barbara pareva pazzesco che
Ganz potesse essere stato rilasciato. Lui riteneva che i peggiori omicidi e-
rano inesplicabili in termini di psicologia criminale. Uno dei criminali in-
tervistati aveva descritto la sensazione di essere vicino a qualcosa, o parte
di qualcosa, che l'atto del torturare non gli aveva mai lasciato vedere chia-
ramente: la sensazione di star tentando di placare una fame più grande di
lui. Ganz aveva sostenuto che lui e gli altri — Gilles de Rais, Jack lo
Squartatore, Peter Kürten — erano stati spinti a sperimentare i peggiori
crimini per conto di qualcosa al di fuori di loro. Forse i criminali formava-
no un disegno nel corso dei secoli, o forse erano fasi di una ricerca dell'a-
trocità suprema. Lo psichiatra ipotizzava che tutto ciò facesse parte di una
elaborazione fantastica di Ganz per giustificare il suo interesse irrealizzabi-
le. Ma ora, continuava l'articolo, era chiaro che Ganz era riuscito a convin-
cere altri delle sue idee.
Certamente questo non poteva aver niente a che fare con Angela, certo
lei non poteva essere coinvolta in una cosa del genere, eppure Barbara co-
minciava a desiderare disperatamente di sentire ancora la sua voce, che la
rassicurasse. Il giornale non parlava di bambini, ma accennava al fatto che
Ganz probabilmente aveva mandato in giro dei discepoli per diffondere la
sua parola e le sue pratiche, per impedire che se ne arrestasse la diffusione.
Che cosa era così ansioso di dirle Ted? Perché non telefonava?
La televisione! Il notiziario doveva essere più aggiornato dei giornali —
avrebbe dovuto accenderla immediatamente. Vi si precipitò, calpestando e
strappando i giornali, e cominciò a passare da un canale all'altro. Qui c'e-
rano le vittime di un quiz, una coppia di mezza età che si agitava nervosa e
perdeva colore. Qui Godzilla, che incombeva su una fabbrica, qui una
pubblicità in spagnolo, ma lei già stava correndo di nuovo al telefono tra
uno svolazzare di fogli di giornali, perché le era venuto in mente da dove,
forse stava chiamando Ted.
La sua ispirazione scemò di colpo: dovette sforzarsi per finire di com-
porre il numero. Ted poteva anche essere lì, ma ora le pareva del tutto im-
probabile. Lei gli aveva dato anche la chiave del suo ufficio. Poteva aver
trovato Angela e aver deciso che quello era il luogo più sicuro dove na-
sconderla durante il weekend.
Quando il telefono lontano cominciò a suonare, ora sfocandosi ora tor-
nando chiaro, lei lo immaginò mentre squillava nel suo ufficio deserto, ma
invece il ricevitore venne alzato immediatamente. « Ehm, agenzia di Mrs.
Waugh », disse una voce fioca.
Era una voce di donna, una voce giovane, una voce di ragazza. Barbara
si sporse in avanti, chiudendo gli occhi come se questo potesse proiettare i
suoi desideri più lontano. « Chi è al telefono? » chiese, più forte che poté.
La risposta arrivò debolissima. Improvvisamente ci fu una scarica elet-
trica e Barbara credette quasi di aver sentito dire « Angela ». Era sull'orlo
della sedia, l'orecchio le faceva male per la pressione del ricevitore. « An-
gela » gridò « sei tu? »
Ma la ragazza non rispondeva più. Da qualche parte, in lontananza, al di
là delle scariche, delle voci parevano litigare, o chiacchierare. Barbara si
mise la mano libera sull'orecchio sinistro e sentì qualcosa come il rapido
pulsare di una macchina dentro la testa. Una voce confusa arrivò al di so-
pra dei disturbi, senza preavviso. « Chi parla, prego? »
« Sono Barbara Waugh e lei è nel mio ufficio. » Per lo meno fu in grado
di tradurre il tremito in una fredda rabbia. « Farà bene a dirmi immediata-
mente chi è lei. »
« Scusami, Barbara, sono Louise. Dovevo sbrigare un po' di corrispon-
denza. Hannah non è stata bene la settimana scorsa. »
La sua voce si fece per un momento riconoscibile. Chiaramente la voce
infantile aveva detto Hannah, non Angela. Evidentemente Louise era rima-
sta indietro con il lavoro in assenza di Barbara, ma ora non aveva impor-
tanza. Barbara cercò una domanda da farle. « Abbiamo avuto notizie di
Ted Crichton, recentemente? »
« Sì, ha chiamato ieri. Voleva sapere se saresti tornata prima del previ-
sto. Probabilmente aspetta notizie sul suo libro. »
Ed evidentemente era per questo che aveva chiamato all'Algonquin. Sa-
lutò Louise e rimase seduta chiedendosi cosa fare. Le ombre si arrampica-
vano sugli edifici di fronte alla finestra, la faccia del giornalista portorica-
no di un'emittente in lingua spagnola comparve sullo schermo, i giornali
frusciavano ogni volta che Barbara si muoveva. Forse poteva telefonare a
uno dei giornali, forse lì sapevano dirle qualcosa di più sulla setta. Poteva
avvisare il centralino dell'albergo di interromperla, se arrivava una chiama-
ta. Allungò stancamente la mano verso l'apparecchio.
Ma ecco i membri della setta sullo schermo, ancora nell'aula del tribuna-
le, che si nascondevano la faccia. Anche se il giornalista aveva notizie più
recenti, per lei era mutile, dato che non capiva una sola parola di spagnolo.
Fissò lo schermo nella speranza di cogliere un'immagine delle facce dei
seguaci e si trovò di fronte Kaspar Ganz che la fissava.
Fu solo un attimo, poi il cameramen cambiò inquadratura. Sulla lunga
faccia aguzza, secca e dura come quella di un insetto, quegli occhi sem-
bravano uscirgli dalle orbite. Barbara poté solo pregare che quegli occhi
non avessero mai visto Angela.
Cominciò a cambiare canali, per non darsi il tempo di immaginare cosa
stesse dicendo il giornalista portoricano. Un pubblico acclamava, i concor-
renti facevano smorfie disperate, mostri rassicuranti zampettavano per la
piccola gabbia dello schermo, il telefono suonava.
Rimase impigliata con i piedi nei giornali. Tutta la stanza sembrava fru-
sciare. Si liberò dei fogli scalciando e afferrò il ricevitore. « Accetta una
chiamata a suo carico da parte di Janet Lieberman, da San Francisco? »
chiese il centralinista.
« Sì, certo. » La sua voce era ferma, anche se le gambe le tremavano.
Janet Lieberman era molto sbrigativa, quasi scortese. « Mrs. Waugh, ho
saputo che vuole delle notizie su Kaspar Ganz. Perché? »
« Perché... » Certo non importava se rivelava il segreto, così lontano da
casa. « Perché ho paura che mia figlia possa essere rimasta coinvolta con
quella gente, in Gran Bretagna. »
« Spero che lei abbia torto. » Improvvisamente assunse un tono com-
prensivo. « Cosa vuole sapere? »
« Tutto. Tutto quello che è in grado di dirmi. »
« Allora magari potrei scriverglielo. »
« No, per favore, devo saperlo adesso. Ho letto di Kaspar Ganz. Voglio
sapere che cosa faceva fare alla gente che apparteneva alla sua setta. »
« Be', gli faceva mandar giù la sua teoria — sa, la storia che i crimini
apparentemente immotivati vengono commessi per conto di qualcos'altro.
Lo scopo degli omicidi sarà chiaro solo quando il disegno sarà completo.
In un certo senso la teoria è impeccabile, dato che liquida tutte le obiezioni
prima ancora che vengano sollevate, e immagino che i seguaci la trovasse-
ro rassicurante. C'è chi ha bisogno di quel genere di rassicurazioni. »
Barbara la sentì riluttante a continuare. « Mi sta dicendo quello in cui
credevano », si costrinse a dire. « Ma che cosa facevano? »
« Immagino che avrà sentito che hanno abbandonato il proprio nome.
Questo dovrebbe dimostrare che erano solo strumenti di quello che stavano
facendo. » Non poteva più scantonare. « Quello che facevano: be', rapiva-
no la gente e la torturavano a morte. Credevano nella reincarnazione, per
cui potevano dirsi che le sofferenze delle loro vittime erano insignificanti,
perché nessuno, sostenevano, può ricordare quello che ha sofferto nelle al-
tre vite. Be', questa è la California, questo genere di spazzatura, e Ganz fa-
ceva drogare i suoi seguaci insieme con lui, cosa che deve aver irretito an-
cora di più le loro menti. Questo non vuol dire che i suoi seguaci in Gran
Bretagna li abbiano seguiti in tutto e per tutto. »
Barbara desiderò di potersi sentire rassicurata, ma c'era una domanda
che doveva fare. « Non capisco come mai c'è voluto tanto tempo per pren-
derli. »
« Be', i rapimenti non erano tanti. Le loro vittime se le facevano durare a
lungo. » Chiaramente si pentì di averlo detto, poiché si affrettò ad aggiun-
gere: « A quanto pare qualcuno di loro si è denunciato spontaneamente
perché ormai erano abbastanza vicini al loro obiettivo da cominciare a far-
sene un'idea. Comunque gli arresti sembrano non aver preoccupato per
niente Ganz. Da quello che ho sentito, infatti, i suoi qui vorrebbero far ar-
restare gli altri, solo che sono letteralmente incapaci di dare la minima in-
formazione su di loro ». Dopo una pausa domandò: « Era questo che vole-
va sapere? »
« No, non completamente. » Barbara lo avrebbe tanto voluto. « Ho senti-
to dire che alcuni avevano dei figli. Fino a che punto erano coinvolti? »
Ci fu un silenzio più lungo. « Quanti anni ha sua figlia? » chiese poi Ja-
net Lieberman.
« É solo una bambina. L'hanno rapita. »
« Pensavo che fosse più grande. » Forse Janet Lieberman esitava per po-
terle dare la notizia più gentilmente, o forse sperava che questo desse a
Barbara un po' di speranza. « I bambini vengono iniziati a tredici anni »,
disse.
La stanza dell'albergo si fece piatta come lo schermo del televisore. I co-
lori tremolarono, parvero sul punto di uscire dai contorni. Il pavimento pa-
reva fremere come una scarica continua di elettricità. « Vuol sapere altro?
» chiese Janet Lieberman.
« No. » Più che una risposta era una preghiera. « Grazie di aver chiama-
to », concluse Barbara meccanicamente e rimise giù il ricevitore, ma non
riuscì a staccare la mano, mentre tentava di riflettere su quello che poteva
fare.
Non avrebbe mai dovuto lasciare l'Inghilterra. Ora tutto quadrava, ma lei
lo sapeva già da prima, Angela sarebbe stata iniziata, solo che non se n'era
resa conto. Lo aveva quasi capito quella sera dai Gregory, quando Sybil
aveva accennato alla figlia che doveva affrontare la cerimonia per diventa-
re guida scout. Angela doveva aver cominciato a chiamare perché aveva
paura dell'iniziazione e ora, se chiamava a casa della madre quando c'era
Ted, avrebbe sentito la voce di un uomo, di un estraneo. Forse questo l'a-
vrebbe spaventata e allontanata definitivamente.
Barbara stringeva ancora il microfono quando il telefono suonò. La sen-
sazione fu di aver ricevuto una scossa elettrica, ma riuscì ad alzare il rice-
vitore e a impedire al telefono di cadere dal tavolo. « Mr. Ted Crichton da
Londra », disse il centralinista.
Non poteva aspettare per avere notizie del romanzo? « Che cosa vuoi? »
chiese, non appena ebbe la comunicazione. « Che cosa c'è? Perché conti-
nui a chiamarmi? »
« Perché so dove è Angela », rispose lui.
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Gli aerei si levavano silenziosi con il loro corpo massiccio. Si facevano
più piccoli per poi fondersi con le nuvole. Giù nella sala dell'aeroporto, i
viaggiatori si affannavano avanti e indietro in cerca di amici o di informa-
zioni, ma finalmente Barbara poteva rimanere seduta immobile. La coca-
cola aveva placato la sua sete, il rum aveva attutito la caotica realtà dell'ae-
roporto abbastanza da poterle far credere che il suo sogno si era realizzato.
Sulle prime pensò che si trattasse di un trucco. Questa giovane donna
così sicura di sé, con i capelli come un cespo di paglia, non poteva essere
Angela, non poteva essere la bambina che aveva avuto tanto bisogno della
sua mamma. Ma il viso somigliava a quello di Barbara, era troppo simile
allo schizzo che aveva potuto vedere per un attimo dopo la morte di Mar-
gery. La giovane si era alzata dalla panchina di plastica, con quegli occhi
blu profondo che fissavano Barbara, e Barbara aveva visto la voglia viola-
cea sulla spalla destra nuda. Si era alzata a sua volta e aveva stretto a sé
Angela, piangendo.
Ora Angela le sorrideva pacatamente dall'altra parte del tavolino al bar
dell'aeroporto, rassicurandola che la sua agitazione era naturale, che con il
tempo sarebbe andato tutto bene. Non c'era da stupirsi che Barbara si sen-
tisse a disagio: aveva perso una bambina di quattro anni e ritrovava un'ado-
lescente che dimostrava più della sua età. Probabilmente durante la ricerca
non aveva mai creduto fino in fondo che si sarebbero riviste. Per quanto
inquietante fosse l'aspetto maturo di Angela, esso era anche rassicurante,
poiché significava che era sopravvissuta agli ultimi nove anni.
Improvvisamente sorrise ad Angela. Certo, ora si mostrava sicura perché
era insieme con sua madre. Certo, non aveva un tono così sicuro quando
era nelle mani della setta, quando non aveva idea di cosa poteva capitarle.
Ma questo ricordava a Barbara le domande che voleva farle, per quanto
ansiosa fosse di non turbare la ragazza.
Le prese la mano per ancorarla a sé nel presente. « Come hai fatto a
scappare? Quando sono andata all'indirizzo che mi ha dato Ted » (comin-
ciava a rendersi conto di quante erano le cose a cui non avrebbe dovuto al-
ludere, almeno per molto tempo ancora) « la casa era deserta. »
« Quando ho saputo che avevano deciso di trasferirsi ancora gli ho tele-
fonato. Non ho fatto altro che uscire appena l'ho visto. Poi siamo venuti
qui e ti abbiamo aspettato. »
Le indagini della polizia dovevano aver reso i suoi rapitori meno accorti.
Se è così, pensò Barbara, avrei dovuto avvertire la polizia mesi fa. La fine
della sua ricerca si dimostrava quasi banale: Angela pareva non rendersi
conto del pericolo che aveva corso, del terrore che la madre aveva provato
per lei. Tanto meglio così, ma il pensiero della setta metteva Barbara in a-
gitazione. « Non sai dove sono andati? »
Angela si strinse nelle spalle. « Ormai saranno molto lontani. »
Come faceva a saperlo? Improvvisamente Barbara si sentì nervosa più di
quanto fosse mai stata. Erano circondati da estranei, ognuno di loro poteva
essere lì a spiarle. Se erano in attesa dell'occasione buona per riprendersi
Angela probabilmente la ragazza li avrebbe riconosciuti; ma se non li no-
tava in tempo? Quelle donne sedute al tavolo vicino all'uscita, non erano
vestite in maniera troppo dimessa per viaggiare in aereo? Quell'uomo gros-
so di fronte a Barbara stava guardando Angela di sottecchi solo perché so-
spettava che non avesse l'età per entrare nel bar? « È meglio che ci muo-
viamo », disse Barbara d'un tratto. « Adesso mi sento bene. »
Ed effettivamente si sentì bene, quando Ted si alzò in piedi. Lui sarebbe
stato in grado di affrontare chiunque tentasse di portargli via Angela. An-
gela era al sicuro tra lui e la madre. Quando la folla ai piedi della scala
mobile si fu chiusa attorno a loro, Barbara si mise all'erta, ma non aveva
paura.
Ted fece strada fino alla macchina, che era parcheggiata vicino all'edifi-
cio. « Ti dispiace guidare tu fino a Londra? » disse Barbara. « Non credo
di sentirmela in questo momento. »
« Non mi dispiace affatto. » La guardò senza espressione. « Anzi, ci ten-
go. »
Passarono per Glasgow a ritirare il bagaglio, poi Ted insisté perché
mangiassero qualcosa prima di iniziare il lungo viaggio verso casa. Trova-
rono un posto che vendeva hamburger di fronte alla stazione ferroviaria e a
Barbara tornò in mente la sera in cui avevano inseguito la donna dal viso
storto. La setta era proprio a Glasgow, nonostante quello che le aveva detto
Ted, ma ora non aveva più importanza. Si sentì al sicuro dentro il ristoran-
te, dove non c'erano finestre che dessero sulla strada. Doris Day e Marilyn
Monroe, giovanissime, risplendevano sulla parete. Angela prese il suo
hamburger con le due mani e Barbara provò un impeto di amore alla vista
della sua bambina.
Quando raggiunsero l'autostrada a Carlisle erano quasi le quattro. Final-
mente Barbara fu in grado di accorgersi che l'autunno era cominciato; il
sole era una macchia di luce sopra gli alberi color ruggine, le foglie fru-
sciavano sotto le ruote della macchina. Lei sedeva dietro insieme con An-
gela, mentre Ted guidava e manovrava la radio dell'auto. Avvertiva il con-
tinuo desiderio di attirare Angela a sé, di stringerla, ma sentiva che la ra-
gazza non era ancora pronta a concedersi. Era normale che fossero come
estranee dopo nove anni, e inoltre adesso Angela si trovava improvvisa-
mente in un mondo diverso. Dopo nove anni di segregazione, forse trovava
la libertà perfino inquietante.
Per un po' Barbara si limitò a rimanere seduta in silenzio accanto a lei.
Era come un assaggio della tranquillità che avrebbero condiviso. File ordi-
nate di pini si avvicendavano all'orizzonte, qualche macchina filava lungo
l'autostrada. Ted aveva trovato una stazione locale che mandava in onda
canzoni americane. Poi fu trasmesso il notiziario: i treni da Londra risenti-
vano delle conseguenze di uno sciopero, c'erano banchi di nebbia sulla M6
tra Penrith e Kendal, un tratto dell'Inner Ring Road era temporaneamente
interrotto, una casa era stata distrutta da un'esplosione e la polizia riteneva
che la causa fosse stata una fuga di gas. « Dio mio, sono stata io », escla-
mò lei. « È quella casa. »
Quando Angela fece un fugace sorriso Barbara si pentì di averlo detto.
Anche se la casa e il suo influsso erano stati distrutti, e anche se questo
l'aiutava a dimenticare, non era un buon motivo per ricordare ad Angela la
vita che vi aveva condotto. Certamente Angela aveva altre memorie.
« Ti ricordi la nostra casa di Otford? C'era un ruscello che ti piaceva tan-
to, oltre il prato dell'Archbishop's Palace. E le ochette nello stagno ti face-
vano sempre ridere. » Le stava parlando come a una bambina, ma non sa-
peva come altro parlare: doveva ancora abituarsi al fatto che la figlia non
aveva più quattro anni.
Ma Angela le stava rispondendo. « Qualcosa me la ricordo. Zia Jan abi-
tava alla porta a fianco. Tu mi lasciavi con lei. » Per un attimo Barbara
pensò che stesse per parlare del rapimento, forse per accusarla, ma Angela
continuò: « E mi ascoltavi dall'intercom quando io ero in camera mia ».
« È vero. » Improvvisamente ricordò quello che le sentiva dire. « Ti ri-
cordi di tuo padre? » mormorò.
« E come faccio? » Aveva un tono aspro. « Lui se n'era andato. »
Era un modo infantile di dire che era morto prima che lei nascesse, o in-
tendeva qualcos'altro? Barbara non volle chiederlo. « Sembra tanto tempo
fa, Otford. Quasi un'altra vita », disse, sforzandosi di rivolgersi a lei come
a una sua pari. « Ho fatto strada, da allora. Mi sta andando piuttosto bene.
Solo che finora non avevo nessuno con cui dividere il mio successo. »
Angela rispose alla stretta della sua mano, ma Barbara si sentiva imba-
razzata: con Ted presente le pareva di dire delle banalità, e forse quelle ba-
nalità finivano anche per tradire il vago sogno segreto di dividere con lui la
sua vita — sì, forse aveva sognato anche quello. Ma lui pareva così assorto
nella guida da non sentire neppure.
Alle quattro e mezzo sulle creste rocciose del Lakeland scese la nebbia.
Ted aveva spento la radio; l'unico suono che si sentiva era il ronzio del
motore. Quando il soffice grigiore si strinse alla macchina, Barbara risentì
le pareti gonfie della casa che la attorniavano. Aveva bisogno di dormire,
ecco tutto. Ora che aveva Angela poteva addormentarsi, tanto c'era Ted a
tenerla d'occhio.
Quando raggiunsero lo svincolo di Kendal, la nebbia si diradò. Ted ac-
celerò superando alcuni autostoppisti che inalberavano dei cartelli con su
scritto Glasgow.
In gran parte erano adolescenti — Barbara si chiese angosciata se la set-
ta avesse mai rapito degli autostoppisti — ma uno degli uomini era note-
volmente più anziano. Per un momento la sfiorò l'idea che fosse Arthur,
finché vide la sua faccia.
Dopo Kendal il paesaggio si fece più piatto. La strada sempre uguale pa-
reva il disegno di un videogame ed era altrettanto irreale. La sensazione di
aver visto Arthur la fece sentire improvvisamente spossata, ma cercò di
rimanere sveglia. « Senti », propose ad Angela, « ti piacerebbe fare una
vacanza? Avevo intenzione di andare in Italia, quest'anno, e credo che lo
farò, per festeggiare. Devo vendere un libro per uno dei miei autori, ma
appena fatto possiamo andare. »
Le venne in mente Ted. « Oh, Ted, non ti ho detto la bella notizia! Ho
trovato un acquirente per il tuo romanzo. Lo capisci perché ho dimenticato
di dirtelo, no? Cathy Danieli ti scriverà. »
« Bene. » Pareva avesse a stento registrato la notizia. Davvero, doveva
proprio cercare di dormire, le pareva di stare in macchina con una coppia
di estranei. Certo, Angela sarebbe stata un'estranea ancora per un po', ed
evidentemente Ted si stava adeguando alla situazione. Eppure quella sen-
sazione la metteva a disagio, e la cosa migliore che potesse fare era dormi-
re.
La svegliò il rombo del camion. Era circondata da camion e cemento. Il
frastuono la avviluppava, le soffocava la mente. La casa era andata distrut-
ta, ma il suo potere no. Li aveva riportati lì, dentro la gabbia di cemento.
Poi vide che non era affatto l'Inner Ring Road. Era l'autostrada all'altez-
za di Birmingham, nel mezzo di un groviglio di strade. Si rilassò, anche se
sentiva il cuore batterle all'impazzata, poi si rese conto che Ted aveva pre-
so la corsia sbagliata. Li stava portando a Birmingham.
Quando lo avvertì dell'errore lui lanciò un'occhiata feroce attraverso lo
specchietto. Doveva essere indirizzata al traffico dietro di loro, non a lei.
Chiaramente, stava guidando da quattro ore senza un'interruzione, e chi sa
da quanto tempo era sveglio, se aveva raggiunto anche la casa di Glasgow
prima di andare a prendere lei all'aeroporto. Avrebbe voluto offrirgli il
cambio alla guida, ma si sentiva ancora molto assonnata.
Quando si avvicinarono al grill dell'autostrada a Corley lei insistette per-
ché si fermassero. Il lungo locale era pieno di famiglie, con i bambini che
giocherellavano con il cibo e piagnucolavano. Il sonno non le aveva fatto
bene: tutti quelli che entravano la rendevano nervosa, anche quando i nuo-
vi arrivati erano dei gruppi familiari: dopo tutto anche quelli della setta a-
vevano figli.
Non avrebbe dovuto sentirsi tranquilla ora che era con Angela? Ma dopo
nove anni di prigionia non c'era da stupirsi che la ragazza non irraggiasse
più pace. Forse aveva ancora i suoi poteri, forse sarebbero riapparsi con il
tempo. Pazienza, non faceva sentire in pace sua madre. Ma Barbara dove-
va stare molto attenta, perché ora aveva delle allucinazioni. Sulla soglia del
locale era apparso Arthur, e le faceva segno con urgenza di avvicinarsi, ma
ovviamente quando guardò meglio non era Arthur.
Quando lasciarono l'autogrill si stava facendo buio. Ted le era parso ri-
luttante a proseguire. Quando gli chiese se ce la faceva a guidare ancora lui
scattò: « Sì, certamente ». Si chiese se la sua irritazione potesse dipendere
in parte dal fatto che si sentiva escluso dal ricongiungimento.
Negli ultimi centocinquanta chilometri fino a Londra il paesaggio si fece
più morbido, confuso e grigio. I campi si trasformavano in rapidi schizzi
fatti di nebbia, i cespugli ai margini dell'autostrada erano cumuli informi
che fremevano nel vento, l'orizzonte incombeva. Le lame gemelle dei fari
sciabolavano senza posa. Una roulotte con le luci spente oscillò accanto al-
la macchina e Barbara credette di vedere una faccia schiacciata contro il
finestrino posteriore. Le facce, in ogni macchina che li sorpassava, pareva-
no fissarla. Doveva avere le allucinazioni, le pareva di vedere, dietro i ce-
spugli al lato della strada, una figura magra che saltellava alla stessa velo-
cità della macchina, spuntando a scatti con la testa grigia dal fogliame.
Raggiunsero Hendon verso le dieci. Ted pareva avere difficoltà a trovare
la strada per Londra; a un certo punto si rimise sull'autostrada, finché vide
che le due donne lo guardavano fisso. Barbara insisté perché rimanesse
con loro per la notte e lui parve incapace di opporsi. Voleva che lui fosse lì
nell'eventualità che la setta tentasse qualche colpo. All'indomani ci avrebbe
pensato il giorno dopo.
Prima di raggiungere St. John's Wood dovettero fermarsi spesso ai se-
mafori. Barbara continuava a controllare che le portiere dell'auto fossero
chiuse per bene. Se qualcuno le avesse spalancate e avesse afferrato Ange-
la mentre erano fermi a un semaforo! Su Euston Road alcuni pedoni attra-
versarono davanti alla macchina, facendola irrigidire ancora di più. Anche
quell'uomo dalla faccia triste che assomigliava ad Arthur la spaventò. Sa-
rebbe stato così il resto della sua vita con Angela?
Neppure il Barbican sembrava sicuro. Il garage sotterraneo pareva molto
buio, gli angoli oscuri e intasati. Erano solo i tubi al neon tremolanti che
facevano apparire inquieto il buio degli angoli. Però il soffitto pareva più
basso che mai. Barbara si trovò circondata da automobili e furgoni, ognu-
no dei quali poteva nascondere un'imboscata.
Ted stava tirando fuori le sue valigie. Barbara disse ad Angela di rima-
nere con lui mentre lei andava avanti ad aprire la porta di casa. Questo le
permise di passare in fretta tra le file di veicoli parcheggiati e di accertarsi
che non c'era nessuno a spiare. Salì gli scalini fino alla galleria e si accorse
che era ancora agitata. Lunghe dita nere spuntavano dal salice verso la
chiesa, il vento mormorava sotto i tozzi pilastri di cemento. La sua ombra
la seguiva dal parcheggio e pareva immergersi in tutte le zone più buie.
Certo era solo la sua ombra.
Non ho motivo di essere nervosa ora, si disse. Angela era al sicuro con
Ted e non c'era ragione per cui la setta potesse volere Barbara. Eppure, so-
lo quando arrivò all'appartamento si sentì sollevata. La chiave era già nella
sua mano. Aprì in fretta la porta e accese la luce.
Ecco finalmente qualcosa di familiare — il tappeto verde scuro, la tap-
pezzeria discreta, la litografia di Escher che ribaltava la prospettiva rove-
sciandola dall'esterno all'interno, perfino l'odore del suo profumo, anche se
non si era mai resa conto che potesse essere così persistente — ma la pri-
ma cosa che notò fu la lettera sulla soglia. Richiuse la porta e si incammi-
nò per il corridoio con la lettera in mano.
Proveniva da Hemel Hempstead. L'intestazione della Kodak era sbarrata
sulla busta. Tra un minuto avrebbe visto che notizie avevano per lei i geni-
tori di Iris, ma prima voleva uscire dal corridoio, che le pareva più stretto
del solito. Doveva essere l'effetto dell'esperienza che aveva vissuto a Gla-
sgow. Sperò che svanisse appena avesse acceso tutte le luci.
Accese il lampadario centrale del soggiorno e si fece avanti, infilando
un'unghia sotto il lembo incollato della busta. Ted doveva aver rovesciato
una bottiglia di profumo nella fretta di prenderle il bagaglio per New York,
perché l'odore era soffocante. Fece alcuni passi prima di alzare lo sguardo
per vedere cos'altro ci fosse che non andava.
La lettera le cadde immediatamente di mano, ma ebbe la sensazione che
impiegasse qualche secondo prima di toccare terra. Era come se il suo choc
l'avesse rallentata, congelandola in volo come aveva congelato i suoi pen-
sieri. Libri e dischi erano tutti sparsi per il pavimento. Tutti i mobili erano
stati spostati e sembravano pesantemente insozzati. L'album delle fotogra-
fie era sul tappeto davanti a lei. Quasi tutte le foto erano state strappate via.
Stava raggiungendo disperatamente l'interruttore della luce quando due
bambini, un maschio e una femmina sugli otto anni, vennero fuori da die-
tro le librerie. Rimasero a guardarla con gli occhi che brillavano, mentre il
braccio di un uomo le stringeva con forza la gola.
Quando la vista cominciò ad annebbiarsi, sentì che la presa allentava.
Evidentemente la volevano viva. Ora li vedeva tutti, una ventina e più, che
uscivano dalle altre stanze. Quando vide la donna dal viso storto cominciò
a divincolarsi selvaggiamente, ma inutilmente. E così avevano trovato un
altro nascondiglio. Si chiese sfinita se i loro poteri gli permettessero anche
di aprire le porte senza chiave.
Si sforzò di mostrarsi rilassata, per quanto possibile, così che la lascias-
sero respirare. Anche se l'appartamento era impregnato del suo profumo,
riuscì ugualmente a sentire l'odore dell'uomo che la teneva, un odore di su-
dore stantio e di hascisc. Probabilmente sapeva che l'appartamento era iso-
lato acusticamente, perché la presa si era allentata tanto da lasciarla libera
di gridare se voleva. Questa era la sua occasione. Non appena la porta si
fosse aperta si sarebbe messa a gridare a Ted e ad Angela di fuggire. Non
doveva pensare a quello che la setta poteva farle, purché Angela si salvas-
se.
Quando sentirono la chiave nella serratura, uno degli uomini si spostò
mettendosi dietro la porta. La chiave esitò un momento, poi la porta si
mosse. Il braccio le strinse immediatamente la gola e non le fu possibile
emettere neppure un suono.
Ma l'uomo che la teneva aveva calcolato male. Se ne rese conto anche se
la vista le si stava oscurando. La teneva in modo fosse visibile anche in
fondo al corridoio. Ted l'avrebbe vista subito. Forse sarebbe riuscita a dir-
gli con gli occhi di mettere Angela in salvo, di non far correre rischi ad
Angela per salvare lei.
Quando la porta si aprì, Angela era sulla soglia. Ted appariva dietro di
lei, il viso inespressivo. Tutti e due entrarono in fretta. Quando Ted chiuse
sbattendo la porta, Angela vide la madre e gli altri. Gli occhi le si allarga-
rono e il loro potere fu improvvisamente così intenso da far star male. Sor-
rise trionfante, vincitrice di una lunga gara. « Meglio imbavagliarla prima
di portarla giù », disse.
Capitolo 36
Capitolo 37
FINE