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Sinestesie: parametri musicali nelle poetiche delle

avanguardie
Ben prima che con la rinuncia alla figurazione comune ai vari astrattismi dei primi anni del
Novecento si stabilisse una profonda empatia tra musica e pittura, il concetto di sinestesia
– vale a dire la capacità da parte di uno dei sensi di evocare impressioni pertinenti alla
sfera di un altro – venne fatto proprio dalla poesia simbolista francese. Campione di
questa tendenza (e precursore in un certo senso di tutto ciò che venne in seguito) fu
Charles Baudelaire con i suoi Fleurs du mal, pubblicati a Parigi nel 1856. Nel celebre
sonetto Correspondances - vero e proprio manifesto programmatico del movimento - le
sensazioni perdono la loro univocità e di conseguenza la percezione olfattiva può trovare
un corrispettivo tattile, visivo o acustico: così les parfums, les couleurs et les sons se
répondent “comme de longs échos”, mentre vi sono fragranze “doux comme les hautbois”
e altre più esotiche e carnali (l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens),“qui chantent les
transports de l’esprit et des sens”. E’ l’inizio di quel cammino che di lì a poco sarà
continuato da Rimbaud (“J’inventai la couleur des voyelles! A noir, E blanc, I rouge, O
bleu, U vert. Je réglai la forme et le mouvement de chaque consonne, et, avec des
rhythmes instinctfs, je me flattai d’inventer un verbe poétique accessible, un jour ou l’autre,
à tous les sens”…”Je dis qu’il faut être voyant, se faire voyant…Trouver une langue…qui
sera de l’âme pour l’âme, résumant tout, parfums, sons, couleurs..”). Da qui il primato
attribuito all’analogia, alle associazioni icastiche, a un linguaggio fatto di misteriose
connivenze in cui la parola perde il suo valore semantico per affermarne un altro
eminentemente evocativo.
La teoria delle corrispondenze incontrò grande seguito anche nella critica d’arte inglese
del periodo vittoriano, dove gli effetti della linea e del colore in pittura venivano comparati
al ritmo e all’armonia in musica, considerata la più squisitamente formale tra tutte le arti.
Le analogie stabilite tra le due discipline dagli antichi e dai teorici del rinascimento
avevano trovato una nuova enfasi nella Critica del Giudizio di Kant (1790), in cui musica e
arti decorative, accomunate dal fatto di non possedere un significato specifico, si
rivelavano le più idonee al conseguimento della pura esperienza estetica. Mezzo secolo
più tardi, nel suo saggio De la couleur (1846), Baudelaire aveva postulato l’esistenza di
corrispondenze sensoriali tra le arti, individuando legami profondi tra musica, colori, suoni
e profumi. In Inghilterra tali idee vengono già esplorate dai Pre-Raffaelliti nella fase più
tarda, ad esempio in alcuni dipinti di Dante Gabriel Rossetti, Edward Burne-Jones o
Frederic Leighton, nel momento in cui tali artisti, una volta superata la necessità di
attingere al racconto storico, alla tradizione letteraria e religiosa o al soggetto naturalistico,
si volgono a indagare le possibilità puramente estetiche della pittura e in particolare i
parallelismi tra quest’ultima e la musica. Sarà poi Walter Pater a dare il tocco finale a
questa tendenza con la celebre affermazione che “ogni forma d’arte aspira alla condizione
della musica”, considerata “l’arte idealmente perfetta, l’oggetto del grande Anders-streben
di tutte le arti, di tutto ciò che è artistico o partecipa di qualità artistiche”. Amante di
Goethe, Aristotele e Platone (nei cui dialoghi vede tracciato per la prima volta il concetto
dell’esistenza autonoma del Bello), Pater prova fin dalla prima giovinezza una sorta di
stupefatta venerazione per la perfezione classica del mondo greco e per la bellezza ideale
in ogni sua manifestazione sensibile. Affascinato dalla dottrina dell’ “art pour l’art”
importata, all’inizio degli anni sessanta, dalla Francia di Gautier e Baudelaire, dal giovane
“maledetto” Swinburne (i cui Poems and Ballads, usciti nel 1866, scandalizzano l’intera
Inghilterra) e dal pittore americano Whistler, tutti accomunati da un amorale culto per la
bellezza, Pater costituisce l’anello di congiunzione tra il classicismo vittoriano e il neonato
Aesthetic Movement di cui Albert Moore è forse il massimo esponente.
Anche il contributo di Oscar Wilde si rivela imprescindibile per penetrare a fondo il
concetto di “Art for Art’s Sake” fatto proprio dall’Aesthetic Movement. Critico attento e
consapevole, egli riflette nei suoi scritti una piena conoscenza dei fenomeni artistici e
sociali del suo tempo, unita a una libera e acutissima capacità di giudizio. Scegliendo tra le
molteplici sollecitazioni culturali che il mondo di allora gli offriva, Wilde decide, con una
dedizione totale, di diventare l’immagine vivente di un nuovo modo di intendere la vita e
l’arte. Il suo “estetismo” (termine peraltro controverso) nasce come energica affermazione
del valore della bellezza, del ruolo che essa può avere nella società, del potere che ha di
migliorare lo spirito dell’uomo. La novità della “moderna scuola romantica” consiste nel
sostituire la forma al contenuto e nel rifiutare ogni idealismo e ogni moralismo in arte. In
poesia come in pittura, non esiste altro fine che soddisfare il senso estetico attraverso il
perfetto compimento formale, senza doverne cercare una giustificazione storica o
metafisica. “Un quadro – scrive Wilde – in fondo, “non è che una superficie
meravigliosamente colorata”, che ci tocca “non per il fascino rubato alla filosofia, né per il
sentimento sottratto alla letteratura, né per l’emozione carpita alla poesia” ma […] “per la
qualità della fattura, l’arabesco del disegno, lo splendore del colore, perché queste cose
sono sufficienti a muovere i più divini e remoti accordi che creano musica nella nostra
anima, essendo il colore in sé una presenza mistica sulle cose”. Il piacere che se ne trae è
dunque di natura squisitamente sensuale, non derivando da concetti astratti ma da
elementi fisici più intuiti che comunicati. Allontanandosi dagli insegnamenti di Ruskin,
Wilde vede realizzate le aspirazioni della nuova arte non nelle “visioni spirituali” dei
preraffaelliti, ma nella ineffabile pittura di Whistler e di Moore, “i quali hanno innalzato
disegno e colore al livello ideale della poesia e della musica”. «La musica è l’arte […] che
per noi realizza più completamente l’ideale artistico, e la cui condizione è quella cui tutte le
arti devono aspirare». E quasi dieci anni dopo scriverà, con una coerenza che dimostra la
sincerità delle sue affermazioni, che «la bellezza delle arti visibili è, come la bellezza della
musica, un fatto soprattutto di impressione, che può essere guastata, e spesso realmente
lo è, da qualunque eccesso di intenzioni intellettuali da parte dell’artista […] L’arte […] si
indirizza non alla facoltà del riconoscimento né alla facoltà della ragione, ma al solo senso
estetico, il quale […] li subordina entrambi a una pura impressione sintetica dell’opera
d’arte come un tutto». Il riconoscimento dell’identità di musica e arti visive fondamentale
nella poetica dell’Aesthetic Movement si fonda da un lato sulle più recenti teorie
scientifiche riguardanti l’ottica e l’acustica, dall’altro sulla rilettura dei testi e dei manufatti
dell’antichità classica, alla ricerca delle leggi matematiche sulle quali poggia l’ideale di
bellezza tanto in natura quanto nell’arte. Ammirato ai suoi tempi come una sorta di
moderno Pitagora, lo scozzese David Ramsay Hay (1798-1866), teorico tra i più prolifici e
influenti, pubblicò una serie di trattati in cui ipotizzava relazioni numeriche tra musica,
colore e linea. Paragonando le vibrazioni del nervo ottico a quelle di una corda, egli
sviluppò una teoria che lo indusse ad accostare l’armonia dei colori ai rapporti relativi ai
vari gradi della scala diatonica e la bellezza della linea a quelli che stanno alla base della
formazione degli accordi. Dipinti come Symphony in White n.3 di Whistler o The Quartet di
Moore si presentano come altrettante partiture musicali: tendenzialmente monocroma la
prima, dominata dai bianchi e dagli ocra, arricchita da grigi intensi, dai vari toni del
marrone e da qualche tocco di azzurro la seconda.

Passando alle avanguardie storiche, il numero sembra ancora esercitare una suggestione
profonda nelle nature morte con strumenti musicali di Picasso, Braque e Gris. Il tema è
stato messo in rapporto con la ripresa del genere secentesco della vanitas, nell’ambito di
un recupero del “classico” che investe anche gli altri aspetti del cubismo analitico. Nel
contesto della sperimentazione cubista, tuttavia, gli strumenti musicali non rivestono più
l’originario significato, legato al memento mori: la loro presenza è collegabile all’idea di
“quarta dimensione” e all’analisi del rapporto spazio-tempo, centrale nella poetica del
movimento. I dipinti dei primi Anni Dieci, caratterizzati da una forte unità bidimensionale di
superficie, presentano un grado estremo di frammentazione, con i piani piatti e
ombreggiati e una totale assenza di profondità spaziale. Grazie all’impiego di una gamma
cromatica limitata, in cui prevalgono i toni grigi e marroni, Braque e Picasso possono
concentrarsi su una nuova concezione dello spazio e sulla scomposizione della realtà in
piani sfaccettati, che si intersecano e si sovrappongono mostrando un’innegabile analogia
con la struttura musicale del contrappunto. Lo spettatore viene così sollecitato ad un
intervento diretto: muto ed inerte, lo strumento può produrre vibrazioni nel momento in cui
entra in gioco un processo mentale che consenta di cogliere i rapporti numerici e armonici
interni al quadro.

Negli anni seguenti la rarefazione del materiale figurativo procede sempre più rapidamente
e tra musica e pittura si stabilisce una profonda empatia all’insegna del comune
antisostanzialismo. Le avanguardie storiche del Novecento cercano di rappresentare la
musica in quanto tale, evitando la figuratività dei sentimenti ma privilegiando aspetti come
ad esempio il colore o il ritmo; non meno affascinante è l’aspetto che riguarda l’arte dei
suoni come effetto strutturale di dinamismo e movimento. Nel 1913 Vassilij Kandinskij
realizza una serie di xilografie accompagnate da poesie e le raccoglie in un volume
intitolato Klänge (Suoni). L’anno precedente, nel Prometeo o Poema del fuoco, Aleksandr
Skrijabin per primo aveva proposto un’associazione spazio-temporale fra luce-colore e
suono, segnando in partitura precisi effetti di illuminazione colorata che avrebbero dovuto
invadere la sala da concerto in corrispondenza con determinati passaggi armonico-timbrici
dell’orchestra. Così scriveva Leonidas Sebaneev all’indomani dell’evento:

In un crepuscolo azzurro-lilla risuona la mistica armonia e durante il suo aleggiare si


ode il tema principale, esposto dai corni da caccia. Da queste note nasce la
grandiosa idea del caos originario, nel quale per la prima volta ha preso suono la
volontà dello Spirito creatore […] tutta la sala si riempie di una luce abbagliante,
tutte le forze dell’orchestra e del coro vengono mobilitate, il tema principale, sullo
sfondo della piena orchestra e delle armonie dell’organo, è eseguito dalle trombe.
Dopo lo slancio supremo tutto si fa improvvisamente silenzioso, la luce si spegne:
nel crepuscolo lilla si odono le note di una danza estatica, inebriante; si producono
effetti di luce, un gioco magico degli elementi sonori, zampillanti e luminosi
passaggi del pianoforte sullo sfondo stridulo dei piatti. Ancora uno slancio e
l’orchestra è ripresa da un mare di sonorità che si fondono nell’accordo finale.

Per realizzare una tale sinergia il musicista aveva ideato e fatto costruire un clavecin à
lumière fornito di dodici registri i cui tasti corrispondevano a gruppi di lampadine collocate
in diversi punti della sala: alle note do, re, mi, fa, sol, la, si abbinavano rispettivamente i
colori rosso, giallo, azzurro pallido, rosso scuro, rosa-arancione, verde e bianco lunare; al
fa diesis l’azzurro intenso, al re bemolle il violetto, al mi e al si bemolli il grigio acciaio, al la
bemolle il porpora. Lo strumento, costruito da Alexander Wallace Rimington nel 1895,
trova un precedente nel clavecin oculaire inventato dal matematico Louis-Bertrand Castel
nel 1735 allo scopo di mettere in pratica le teorie di Newton sulla corrispondenza tra suono
e colore. I colori scelti da Castel (blu, rosso e giallo) si limitavano a simboleggiare la triade
DO-MI-SOL, mentre altri colori intermedi completavano la scala di do maggiore; i tasti
erano collegati ad ampolle piene di sostanze colorate e una volta percossi producevano
determinate tonalità. Gli esperimenti di Castel furono seguiti da altre invenzioni analoghe,
come il clavilux di Thomas Wilfred (che può essere considerato l’antenato diretto del
clavecin à lumière skrjabiniano), il color-organ di Mary Hallock Greenwalt (New York,
1921), il cromofono di Guido Carlo Visconti di Modrone (che mediante proiezioni elettriche
irradiava diversi colori attraverso dischi con intensità di tono regolabile) e il musichrome di
George L. Hall (Boston, 1930). Non andrà infine dimenticato l’optofono o pianoforte
optofonico di Vladimir Baranov-Rossiné, la cui opera si configura come un’incessante
investigazione sul colore, le sue associazioni sinestetiche, gli effetti stroboscopici della
luce e i giochi cromatici in movimento. Paragonabile ad altri strumenti consimili inventati
da Alexander László e da Ludwig Hirschfeld-Macke, il dispositivo, che proiettava dischi
traslucidi colorati con forme astratte creando composizioni mobili capaci di tradurre
visivamente brani musicali di Beethoven, Grieg e altri autori, venne presentato per la prima
volta a Mosca presso il Teatro Meyerhold nel 1923.
Prototipo di tutte le esperienze sinestetiche, il Prometeo sembra ignorare il richiamo
all’ordine che Goethe aveva perseguito nella Farbenlehre (1810), sostenendo che suono e
colore sono come due torrenti che scaturiscono da una sorgente comune ma si dirigono in
direzioni diverse scendendo lungo i versanti opposti di una stessa montagna e pertanto
non possono essere comparati tra loro in alcun modo. Quanto a Arnold Schönberg, che
nel 1912 aveva collaborato con un articolo alla celebre raccolta di saggi sulla pittura, la
musica, il teatro e la letteratura uscita sotto l’insegna Der blaue Reiter e firmata da Marc,
Kandinskij, Macke e numerosi altri, nella partitura della Glückliche Hand (1913) annota
precisi rapporti fra effetti di luce sulla scena ed effetti sonori dell’orchestra.
L’individuazione della Klangfarbmelodie, la “melodia timbrica” dove il timbro non è
“atmosfera” come per gli impressionisti, né evocazione naturalistica, ma “emanazione”
sonora dell’interiorità psichica, presenta evidenti analogie con le idee sul colore espresse
da Kandinskij nel celebre saggio Űber das Geistige in der Kunst (1912). Innestandosi nel
solco di una tradizione teorica che, partendo da Goethe, giunge attraverso Turner e
Delacroix fino a Seurat e Signac e poi a Delaunay e Macke, lo scritto è concepito come un
tentativo di definire il senso, o meglio il suono interiore dei segni e dei colori. Sull’esempio
dell’Harmonielehre schönberghiana, il pittore intende infatti costruire una grammatica che
individui i possibili rapporti tra colore e colore, tra colore e forma e i loro effetti (si tratta in
nuce dell’avvio di quella ricerca linguistica che si svilupperà più tardi nel Bauhaus). Il
colore come personificazione di un sentimento, come rivelazione del significato recondito
nascosto dietro alle apparenze della realtà fenomenica: il linguaggio di Kandinskij affranca
le frequenze luminose dai limiti della fisica per restituire loro un’aura di mistero. Così il
giallo acceso, che può raggiungere “un’intensità insopportabile per lo sguardo e per
l’anima”, è come il suono acuto di una tromba o quello assordante di una fanfara; l’azzurro
assomiglia a un flauto e il blu scuro al timbro del contrabbasso o a quello dell’organo; il
verde ricorda “i toni calmi, ampi, semigravi del violino”, il rosso, colore “dilagante e
tipicamente caldo, che agisce sulla psiche in modo vitale, irradiando un’energia immensa”,
se chiaro richiama alla mente “il suono delle fanfare con la tuba: forte, ostinato,
assordante”, se cinabro “un forte rullo di tamburo”, se freddo scuro “i toni appassionati,
medi e gravi del violoncello”, se freddo chiaro “i toni più chiari, alti e cantabili del violino”,
mentre il suono dell’arancione “sembra quello di una campana che invita all’Angelus, o di
un robusto contralto, o di una viola che esegue un largo” e quello del viola (un rosso
“fisicamente e psichicamente più freddo che reca in sé qualcosa di malato”) “assomiglia al
suono del corno inglese, delle zampogne, e quando è profondo, al registro grave dei legni,
per esempio del fagotto”. Il marrone è “un colore ottuso, duro, poco dinamico dal quale
nasce però una bellezza interiore indescrivibile: la sorvegliatezza”.
Siamo di fronte a una vera e propria metafisica dei colori. “Il bianco – scrive ancora
Kandinskij - ci colpisce come un grande silenzio ricco di potenzialità”; esso è “la
giovinezza del nulla, o meglio un nulla prima dell’origine, prima della nascita”.
Interiormente lo avvertiamo “come un non-suono, molto simile alle pause musicali che
interrompono brevemente lo sviluppo di una frase o di un tema, senza concluderlo
definitivamente”. Viceversa, il nero risuona dentro di noi “come un nulla senza possibilità,
come la morte del nulla dopo che il sole si è spento, come un eterno silenzio senza futuro
e senza speranza […] Esteriormente è il colore con minor suono: su uno sfondo nero
qualsiasi colore, anche se ha un suono flebile, sembra forte e preciso. Sul bianco, invece,
quasi tutti i colori affievoliscono di suono, e a volte si dissolvono, lasciando solo una
debole eco”. L’equilibrio di questi due colori forma il grigio, silenzioso e immobile: la sua è
un’immobilità “senza speranza” e produce un senso di desolazione e di soffocamento. In
realtà Kandinskij è consapevole del fatto che queste osservazioni risultano abbastanza
riduttive: le tonalità cromatiche, così come quelle musicali con i loro accostamenti
consonanti o dissonanti, producono emozioni più sfumate, inesprimibili a parole, legate
all’individualità psichica del fruitore. Le opere realizzate durante la collaborazione con il
Bauhaus di Dessau denotano una nuova attenzione nei confronti della forma e delle
relazioni tra il punto, la linea e il piano (risale al 1926 la pubblicazione di Punkt und Linie
zu Fleche). Già nel saggio sullo spirituale nell’arte, Kandinskij osservava che certi colori
sono potenziati da determinate forme e indeboliti da altre: cionondimeno, se una forma si
rivela inadatta a un determinato colore, non per questo ci troviamo di fronte a una
“disarmonia”, ma soltanto a una nuova possibilità, a una “ nuova armonia”. In ogni caso, i
colori squillanti si intensificano se sono posti entro forme acute (ad es. il giallo in un
triangolo), mentre i colori che amano la profondità sono rafforzati da forme tonde (ad es.
l’azzurro da un cerchio); al contrario, le stesse forme tonde sembrano smorzare i colori
accesi. La tendenza alla “musicalizzazione” del materiale figurativo, già presente nelle
opere giovanili, è testimoniata dalla ripresa di concetti quali “ripetizione”, “rivolto”,
“variazione”, “crescendo dinamico” e “smorzando”; titoli come Improvisation, Fuge, Gegen
Klänge o Komposition fanno esplicito riferimento al dominio della musica.

Nello stesso anno in cui Kandinskij dà alle stampe il suo primo saggio, Robert Delaunay,
fondatore insieme con la moglie Sonia della corrente definita Orfismo da Guillaume
Apollinaire, intraprende la serie Fenêtres. E’ il cubismo analitico a ispirargli la
frammentazione delle forme e lo spazio organizzato come una rete di supporto ai piani che
si intersecano; tuttavia, a differenza dei piani cubisti, densi e monocromatici, quelli di
Delaunay prescindono dalla linea, affidandosi unicamente al colore: “La linea è limitazione.
E’ il colore che dà la profondità, non una profondità prospettica, né sequenziale, ma
simultanea, insieme alla forma e al movimento”. Nella serie Formes circulaires spicchi di
colore si dispongono in cerchi concentrici, ruotando in vortici luminosi. L’ideale di una
pittura “pura”, scevra da qualsiasi riferimento figurativo e incentrata sul ritmo generato
dalla gamma cromatica e sull’effetto dinamico delle forme, viene sussunto da Franz Marc
nei suoi primi dipinti astratti e da August Macke nei suoi dischi colorati (1913-14). Si
interessa alle teorie sul colore anche il boemo Frantisek Kupka, che a partire dal 1911
sceglie spesso per i suoi quadri titoli allusivi al mondo della musica e compete con
Delaunay nella ricerca di una “visione pura” e nel ricorso alle forme circolari (i suoi studi
per i dischi di Newton datano dei primi anni Dieci). Il dinamismo di forme colorate che si
inseguono turbinando attorno a un punto trova il suo corrispettivo in musica nella polifonia
e soprattutto nel modello della fuga, che si presta a essere ordinata in un diagramma
circolare, come attestano i vari studi preparatori per Amorpha, fuga in due colori. A
differenza di quanto accade per Delaunay, il riferimento musicale è assolutamente
inseparabile dalla sua pittura: “Procedo ancora a tentoni nell’oscurità, ma credo di poter
trovare qualcosa di intermedio tra lo sguardo e l’udito e di riuscire a realizzare una fuga di
colori, come Bach ha fatto in musica”. In concomitanza con le ricerche sul movimento,
Kupka coltiva lo studio di strutture statiche, generate da una disposizione regolare ed
equilibrata di piani verticali. Questo raggelamento bidimensionale del linguaggio pittorico
(già presente in opere come Notturno, 1911) troverà la sua espressione più compiuta nella
serie Ordonnances sur verticales, dove il ritmo ascensionale appare interamente risolto
all’interno dell’immagine.

Analoghe ricerche sul colore e la simultaneità vengono effettuate dai Sincromisti americani
Morgan Russell e Stanton McDonald Wright, che debuttano a Monaco nel 1913 e nello
stesso anno espongono a Parigi presso la galleria Bernheim-Jeune. Parente stretto
dell’orfismo delauniano nella concezione prismatica di uno spazio governato dal colore e
dalla scomposizione della luce, il sincromismo si basa sul presupposto che colore e suono
siano fenomeni simili e che il colore possa essere orchestrato sulla tela o sulla carta nello
stesso modo in cui un compositore armonizza frequenze, timbri e modulazioni in una
partitura. Nel manifesto programmatico incluso nel catalogo di presentazione della mostra
si legge:
Finora l’umanità ha cercato di soddisfare il suo bisogno di spiritualità attraverso la
musica. Solo i suoni erano capaci di catturarci e trasportarci nelle più alte sfere.
Chiunque provasse desiderio di un’ebbrezza celestiale, si dedicava alla musica.
Adesso il colore è divenuto in grado procurarci le stesse estasi e i piaceri più
elevati. Essendoci ormai liberati da certi condizionamenti e proiettati nell’ignoto,
abbiamo strappato alla natura i segreti necessari per condurre la pittura al più alto
grado di intensità. Ancora, la pittura possiede rispetto alla musica il vantaggio di
essere più vicina alla realtà; il senso della vista ci lega alla natura molto più di quello
dell’udito.

Nonostante l’affinità con il pensiero di Delaunay, Russel e McDonald Wright ribadiscono la


loro totale estraneità nei confronti dell’Orfismo: dichiarazione non facile da sostenere, dal
momento che il saggio Sur la Lumière era stato pubblicato in Germania sei mesi prima del
loro debutto monacense. In una serie di appunti datati presumibilmente dell’autunno 1912
Morgan Russell scrive che la pittura dovrebbe essere in grado di suscitare emozioni
paragonabili a quelle indotte dalla musica: a tale scopo egli suggerisce di sacrificare del
tutto l’oggetto e di focalizzare l’attenzione unicamente sui piani, sulle linee, sui colori, sui
ritmi, ecc. E’ lui a inventare il termine “sincromia” come etichetta con la quale identificare
la sua più recente maniera di dipingere: inizialmente egli aveva pensato al termine
“sinfonia”, che tuttavia si prestava di meno ad essere applicato al campo semantico della
luce. Osservatore attento della scena parigina di quegli anni, Russell era informato del
fatto che Sérusier aveva già utilizzato il termine “synchromie” come titolo di un dipinto
esposto al Salon des Indépendents nel 1910 e nel 1911. Per far comprendere appieno il
suo messaggio pittorico, l’artista ritiene importante indicare i fondamenti musicali su cui
sono costruiti i suoi quadri. Ciò emerge da un memorandum inviato alla sua mecenate
Gertrude Vanderbild Whitney riguardo al dipinto Synchromy in Deep Blue-Violet, esposto a
Parigi nell’autunno 1913: una cospicua parte del pamphlet, intitolata “Harmonic Analysis of
the Big Synchromie en Bleu-Violacé” (in francese nel testo), consiste infatti nell’elenco
delle componenti strutturali del dipinto, che vengono indicate come “primo tema”, “secondo
tema”, e così via. Egli ne descrive inoltre la tavolozza in termini musicali, chiamando i
colori principali (blue, violet) “tonica” e quelli secondari (arancio-rosso) “sottodominante”,
concludendo che la tonalità centrale del dipinto deriva dall’opposizione di blu-viola e giallo,
essendo quest’ultimo la “dominante” della tonalità indicata come blu-viola. Può sembrarci
ostica l’idea che un dipinto possa essere concepito in una determinata tonalità
enfatizzando alcuni colori piuttosto che altri; sappiamo tuttavia che tali idee circolavano nei
manuali dell’epoca: così Russell potrebbe avere desunto le sue argomentazioni dagli
insegnamenti del pittore canadese Ernest Percyval Tudor-Hart, le cui lezioni frequentò
insieme con McDonald Wright presso lo studio parigino sito al n. 68 di rue d’Assas. Tudor-
Hart era convinto che suoni e colori si assomiglino sia per quanto riguarda gli effetti
psicologici sia per il modo in cui vengono percepiti; egli credeva inoltre nella possibilità di
dimostrare esatte corrispondenze fisiche e matematiche tra i due fenomeni, visivo e
acustico. Se in un disco cromatico tradizionale – come ad esempio quelli proposti nel XIX
secolo da Goethe o da Charles Blanc - i colori dello spettro sono distribuiti uniformemente
intorno alla circonferenza, nello schema individuato da Tudor-Hart i tre colori primari –
rosso, giallo e blu – risultano equidistanti, così come i tre secondari – aranci, grigio e
violetto o porpora. Inserendo altri sei colori intermediari o terziari – rosso-arancione, giallo-
arancione, giallo—verde, blu-verde, blu-viola e rosso-viola o porpora – negli spazi tra i
primari e i secondari, si ottiene un circolo cromatico consistente in 12 colori. Facendo
corrispondere ogni settore di questo cerchio a un semitono in musica, si potrebbero
costruire in teoria scale maggiori e minori di frequenze luminose scegliendo di volta in
volta un colore diverso come “tonica”. Il metodo sopra descritto è in sostanza quello che
McDonald Wright proporrà più tardi nel suo Treatise on Color, una guida pratica e
teoretica pubblicata a proprie spese a beneficio degli allievi dell’Art Students’ League di
Los Angeles.
Benchè apparso soltanto nel 1924, il saggio contiene idee vecchie di almeno un decennio,
scaturite dalle conversazioni intercorse con Russell durante il soggiorno a Parigi. Le
descrizioni a volte ingenue delle qualità dei singoli colori proposte da McDonald Wright
ricordano da vicino quelle esposte da Kandinskij nello Spirituale nell’arte, ad esempio
quando paragona il verde – colore che egli definisce “debole, apatico, prossimo a
spegnersi” – con il blu, il colore “del mondo etereo, dell’immateriale, il più altamente
spirituale”. Egli definisce inoltre l’arancio “marziale, assordante, soddisfatto di se stesso e
ruvido”, aggiungendo: “La sua qualità ricorda quella del trombone, mentre il rosso è più
simile alla tuba”. Mc Donald Wright sostiene che i principi dell’armonia musicale possono
essere applicati alla pittura e a tale scopo chiede al lettore di visualizzare i dodici colori
lungo una tastiera in modo che ogni colore primario, secondario o terziario corrisponda a
una determinata nota della scala cromatica. Pur estremamente preciso, il metodo non è
tuttavia esente da difficoltà e incongruenze. Senza addentrarci in una spiegazione che
potrebbe risultare noiosa, ci limiteremo a rilevare che l’autore discute nel dettaglio su
come creare tonalità di colore, accordi e scale, fornendo inoltre esempi del modo in cui
inversioni di accordi e trasposizioni o modulazioni da una tonalità all’altra possono essere
ottenute. L’insistenza su determinati raggruppamenti di colori, corrispondenti a triadi
maggiori o minori e ai loro rivolti e sul fatto che essi non possono essere impiegati nello
stesso dipinto, la dice lunga sul fatto che McDonald Wright intendeva il concetto di color
harmony in senso assolutamente letterale. In ogni caso il suo metodo, influenzato dal
trattato Modern Chromatics pubblicato nel 1879 da Ogden Rood, non è esente da
contraddizioni. Tornando a Russell, un altro dipinto appare cruciale per la sua poetica:
Synchromy in Orange: to Form, esposto al Salon des Indépendants nel 1914.In un
taccuino utilizzato nel febbraio e nel marzo di quell’anno, l’artista scrive a riguardo che la
composizione di accordi e tonalità deve essere subordinata alla forma. Risulta evidente
anche a un occhio profano che l’opera è basata su accurate giustapposizioni di due, tre e
anche quattro colori contenuti per lo più in forme trapezoidali o a ventaglio. In linea con il
titolo, gli accordi di arancio appaiono dominanti nel dipinto; ricorrenti sono anche le
combinazioni rosso-arancio, e giallo-blu-verde, quasi a suggerire un accordo di settima di
dominante. In realtà Russell sembra cercare piuttosto relazioni tra differenti centri tonali,
impiegando nello stesso tempo termini quali lontano e vicino, spazio e distanza. Egli
enfatizza il modo in cui il colore suggerisce proiezione o recessione, volume e spazi, in
altre parole le componenti puramente astratte della composizione pittorica. Tracce di
figurazione possono essere rinvenute in questo così come in un altro celebre dipinto di
Russell, Cosmic Synchromy, dipinto nello stesso 1914. Sebbene l’opera consista
apparentemente nella semplice giustapposizione di colori puri dello spettro, calcolati allo
scopo di creare scale, melodie e armonie di colore, una struttura sottesa a spirale rimanda
agli esempi della scultura rinascimentale e in particolare a Michelangelo, che i due pittori
studiarono al Louvre. Altri teorici americani tra cui Henry Fitch Taylor e Hardesty G.
Maratta proposero un’esatta corrispondenza tra i colori e i dodici semitoni della scala
cromatica. Nel 1914 Maratta brevettò il suo diagramma definito “A Chart for finding triads
and chords in sounds and colours”, che influenzò pittori come Robert Henri, John Sloan e
George Bellows.

Indagini sul ritmo, il colore e il movimento vengono condotte in quegli stessi anni dagli
italiani Russolo, Balla, Boccioni, Severini e Depero, dai Cubofuturisti russi, da Francis
Picabia e da Fernand Léger. Le influenze esercitate sulla pittura da argomenti di
derivazione scientifica, parascientifica o addirittura esoterica si evidenziano nel tema della
luce che smaterializza oggetti e persone, motivo che ritorna più volte negli scritti dei
futuristi italiani. Nel manifesto redatto nel 1913 da Enrico Prampolini e intitolato
Cromofonia. I colori del suono, si fa riferimento al principio newtoniano secondo il quale la
luce, manifestazione visibile di un fenomeno molto più ampio comprendente le radiazioni
infrarosse e quelle ultraviolette insieme con i raggi X da poco scoperti, è una sostanza
materiale in moto costante: “Sappiamo che l’atmosfera è composta di sette colori primari,
e che la vibrazione ne costituisce la disintegrazione […]. Osservate l’atmosfera e saturate i
vostri occhi di Natura, di inconcepibile. Lanciate il concreto nell’astratto, in modo che dalle
reciproche ripercussioni apparirà una violenta irradiazione di vibrazioni in continuo
movimento”. Gli effetti dell’irradiazione luminosa avevano interessato anche i Divisionisti;
nel 1906 Gaetano Previati scriveva che “comune a ogni grado di luminosità, perché
distinzione tipica dell’energia raggiante, è il senso di vibrazione, per il quale i corpi che
sono tocchi dalla luce, sembrano animarsi quasi fosse in loro stessi, la forza che desta la
visione, forza della quale sono pure partecipi le sostanze coloranti, finchè sono illuminate
nelle condizioni comuni degli altri oggetti del vero […]”. Analogamente Gino Severini nel
trattato Du Cubisme au Classicisme (1921) mette in relazione la vibrazione luminosa con i
colori dello spettro, riesumando l’autorità di Newton accanto a quelle dei più moderni
Chevreul, Helmholtz, Maxwell e Brucke. La sua posizione rispetto alle teorie cubiste
appare oscillante e contraddittoria: se da un lato, infatti, egli sembra essere attratto dal
rigore intellettuale e dall’atteggiamento speculativo dell’avanguardia, che aveva dissolto gli
ultimi residui di figurazione per affrontare il problema della non-sostanzialità dell’opera
d’arte, dall’altro egli non può accettare la limitatezza della gamma cromatica, la rinuncia al
ruolo della luce e l’assoluta bidimensionalità che caratterizzano i quadri di Braque e
Picasso al principio degli anni Dieci.
Quando Severini, nell’autunno del 1906, si trasferisce a Montmartre, il proliferare delle
sale da ballo e delle boîtes de nuit è ancora in piena espansione, benchè il processo sia
ormai in atto da una ventina d’anni. Si tratta di un fenomeno tale da condizionare
profondamente la vita del celebre quartiere bohémien: un universo composito di
intellettuali, letterati, artisti e musicisti affolla ogni sera le decine di ritrovi dai nomi
pittoreschi che, a distanza di un secolo e più, sono rimasti nell’immaginario collettivo come
sinonimo di trasgressione (Le Chat Noir, Alcazar, L’Horloge, Eden, fino ai mitici Moulin
Rouge, Pigalle, Folies-Bergère e Bal Tabarin). Il mondo del music-hall e del café-chantant
si radica ben presto nell’immaginario di Severini fino a costituirsi come l’espressione più
compiuta ed efficace di quell’idea di dinamismo e di simultaneità che sta alla base della
poetica futurista: quasi cento fra schizzi, disegni, quadri ad olio eseguiti nell’arco di circa
un decennio testimoniano della ricerca condotta dall’artista sul tema del movimento ritmico
di un corpo in uno spazio misurabile.
Nel 1911 Severini, che fino a poco prima aveva militato nel Divisionismo italiano, ritrova
negli ultimi quadri dipinti da Seurat la sua passione per la “ville qui bouge”, la metropoli
tentacolare in continua evoluzione, insieme con l’attrazione per i generi più popolari di
divertimento. I locali notturni sono ambienti saturi di sollecitazioni (luci elettriche, specchi,
grandi lampadari a gocce, suoni, voci, colori, odori) che producono nel frequentatore una
sorta di ebbrezza sinestetica. Da questo amalgama sensoriale e psichico scaturisce il
dipinto Danseuse bleue, di matrice ancora palesemente cubista, dove la dominante blu
rimanda alle teorie esposte da Severini nella prima versione del manifesto Le analogie
plastiche del dinamismo (inviato a Marinetti nel gennaio del 1914 ma rimasto inedito fino al
1958), che stabiliva una dettagliata classificazione di corrispondenze tra sensazioni, colori
e forme: forme-rumori, forme-suono, colori-velocità, colori-suoni, colori-odori. In questa
così come in altre opere dipinte verso la fine del 1912 si avverte la suggestione esercitata
dalle sinestesie proposte in ambito letterario dal Traité du Verbe di René Ghil (1886), una
complessa impalcatura teorica che muovendo dal noto sonetto di Baudelaire
Correspondances, proiettava la parola al di fuori del suo significato semantico
frantumandola in gruppi di sillabe legati ai colori e alle emozioni. I due dipinti paralleli
Danseuses parmi les tables e Formes d’une danseuse dans la lumière, da riferirsi al
momento di intenso fervore creativo che precedette la personale londinese del 1913, sono
concepiti in una diversa scala cromatica e con un diverso andamento lineare al fine di
individuare forme-colore capaci di tradurre suoni musicali e ritmi differenti: così, se il suono
del valzer è “blu chiaro, violetto chiaro, verde smeraldo”, la maxixe (una danza di origine
brasiliana assai in voga a Parigi in quel tempo) è invece “gialla, arancione, violetta”.
Le esplorazioni sul tema della luce e della sensazione luminosa associata al movimento
procedono in parallelo e talvolta in combinazione con le ricerche sulla forma, dando luogo
a significative coincidenze: “La sensazione prodotta in noi da una realtà di cui conosciamo
la forma quadrata e il colore bleu può essere espressa plasticamente con i suoi
complementari di forme e colori, e cioè con forme rotonde e colori gialli”. Il concetto
basilare dell’estetica di Severini è dunque l’analogia: “per mezzo delle analogie dei colori
si ottiene il massimo d’intensità luminosa, calore, musicalità, dinamismo costruttivo e
ottico”. Il celebre olio Mer=Danseuse (1914) della Collezione Guggenheim di Venezia
evoca un paesaggio intorno alla figura danzante, sintetizzando l’analogia in un’equazione
matematica; vera e propria metafora visiva, esso si impone per il senso di prorompente
energia sprigionato delle forme cilindriche e coniche di colore metallico generate dalla
rotazione intorno a un asse centrale. Nella serie di dipinti dedicata all’espansione sferica
della luce, il mélange optique di matrice divisionista scompone e ricompone forme
continuamente mutevoli: geometrie astratte si compenetrano con ritmi veloci, in un turbinìo
di prismi scintillanti. Nel primo caso (Espansione sferica della luce centripeta) possiamo
osservare un addensarsi progressivo della massa cromatica che suggerisce un
movimento implosivo verso l’interno; i colori sono disposti conseguentemente, con
prevalenza di toni caldi sulla fascia esterna e uno slittamento dei toni freddi verso il centro.
Nel secondo caso (Espansione sferica della luce centrifuga) il moto browniano degli atomi
luminosi sembra propagarsi al contrario, dal nucleo centrale dominato dai colori caldi fino
alle aree più esterne dove si affacciano i toni freddi dei blu, dei verdi e dei neri.
Strettamente legata alle due opere precedenti è la genesi delle varie Danseuses dans la
lumière, dove il riferimento al soggetto si affievolisce fino a scomparire lasciando il posto a
una sensazione cinetica allo stato puro svincolata dalla realtà contingente, mentre la
tecnica neoimpressionista si dimostra perfettamente funzionale al tentativo di esaltare la
percezione luminosa associata al colore e al movimento. Allo stesso anno, ma non alla
stessa temperie estetica, va ricondotto Rhytme d’une danseuse en bleu. L’opera risale al
periodo immediatamente precedente la stesura del già citato manifesto Le analogie
plastiche del dinamismo Lo stesso dicasi per la versione del Museum of Modern Art di
New York: anche in questo caso la schematizzazione della figura e l’assenza di
connotazioni spaziali tendono a serrare l’immagine in una volumetria piuttosto piatta,
sottolineata ulteriormente dalla scelta di campiture quasi omogenee e da una pennellata
continua.
Il celebre olio Mer=Danseuse della Collezione Guggenheim di Venezia è il prototipo di una
serie di grande rilievo nata seguendo il procedimento teorizzato nel manifesto Le analogie
plastiche del dinamismo, con cui Severini abbandona l’idea futurista di spazio-ambiente in
favore di un mondo di forme astratte legato alla realtà naturale solo per via analogica: ne
deriva una forte inclinazione a saturare il campo visivo eliminando ogni differenza tra
spazio “contenitore” e soggetto “contenuto”. Seguendo tale metodo, il pittore evoca
immagini di natura intorno alla danzatrice, fondendo i termini disparati in un’equazione
matematica capace di dar vita a una metafora visiva. Allo stesso modo il corpo danzante
pare riprendere materia, ma una materia angolosa e dura, lucida e metallica, fatta di forme
geometriche rotanti, dove il busto e gli arti vengono tradotti in triangoli e cerchi, coni e
cilindri e il volto quasi scompare. “Il mare” si legge nel testo, “con la sua danza sul posto,
movimenti di zig-zag e contrasti scintillanti di argento e smeraldo evoca nella mia
sensibilità plastica la visione lontanissima di una danzatrice coperta di paillettes
smaglianti, nel suo ambiente di luce, rumori e suoni. Perciò mare=danzatrice”. Un simile
orientamento teorico si ritrova in quanto già sostenuto da Marinetti nel Manifesto tecnico
della letteratura futurista (1912): “L’analogia non è altro che l’amore profondo che collega
le cose distanti, apparentemente diverse e ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime
uno stile orchestrale, a un tempo policromo, polifonico e polimorfo, può abbracciare la vita
della materia”. L’opera si impone per l’elevata qualità pittorica, per il senso di prorompente
energia sprigionato dalle forme tondeggianti e dai colori metallici, per la forza plastica dei
volumi generati dalla rotazione intorno a un asse centrale. La dipendenza dalla tecnica
letteraria di Marinetti è evidente nell’uso di simboli algebrici utilizzati in questo come in altri
titoli. In Danse de l’ours=Barques à voile+Vase de fleurs (1914) c’è forse il ricordo di uno
spettacolo di fuochi d’artificio sul mare: parrebbe infatti di vedere un’esplosione dal basso
di cunei luminosi che si aprono in alto al centro in una girandola per poi ricadere in curve
più ampie e lente. Scrive Severini: “Nel mio quadro […] io raggruppo da un lato tutti i colori
e le forme del calore, della danza, della gioia, e dall’altro tutti i colori e le forme della
freschezza, della trasparenza, del rumore e dei suoni; mentre in mezzo compongo un
fascio di forme-colore in contrasto con le forme-colore dei lati; e questo fascio di forme
dinamiche riunisce gli elementi di destra e sinistra e corrisponde a sensazioni di cielo, di
atmosfera, di luce elettrica, di carni, di stoffa ecc.”. La particolarità dell’opera si evidenzia
nella costruzione della forma, che trae origine dalla sovrapposizione di elementi curvilinei
e rettilinei capaci di generare un doppio movimento ascensionale e rotatorio.
Fuori d’Italia e precisamente in Russia Michail Matyushin, pittore, filosofo e musicista
influenzato dagli scritti del matematico e teosofo Uspenski, realizza nel 1918 una serie di
dipinti di particolare suggestione intitolata Costruzioni pittorico-musicali, rispondenti a
un’istanza sinestetica che egli chiama “visione amplificata” e accostabili per certi versi alla
produzione “luministica” di Severini. Si tratta di composizioni totalmente astratte in cui si
rappresenta con pennellate di ascendenza divisionista una dinamica di espansione di luce
e correnti cromatiche: quella sensazione di profondità organica di cui l’autore parla nella
sua teoria dello spazio e del colore.

Nella raccolta di saggi pubblicata nel 1989 sotto il titolo The Fertile Land, Pierre Boulez
sottolinea come il principio della modulazione stia alla base della maggior parte dei dipinti
di Paul Klee. La scansione “stereografica” delle opere realizzate dopo il viaggio in Tunisia
(palesemente ispirate alle Fenêtres di Delaunay) trasforma la superficie del quadro in una
scacchiera e costituisce lo schema più idoneo per visualizzare una pulsazione ritmica retta
dalle corrispondenze e dalle transizioni tra i campi di colore. I vari tasselli cromatici
agiscono come analogon visivo dei parametri qualitativi e quantitativi del suono: sul
supporto modulare vengono distribuiti poli di attrazione di differente intensità, accenti forti
e deboli, arsi e tesi. Definita dall’intersezione delle ortogonali, la struttura reticolare si
presenta come un’alternativa agli schemi radiali utilizzati in quegli stessi anni dai pittori
“orfici” per delimitare le campiture di colore. Forse stimolata dall’esempio di Klee, Sophie
Taeuber opta per la seconda possibilità, preludendo alle di poco più tarde orditure di colori
primari proposte dal gruppo De Stijl e in particolare da Mondrian, van Doesburg e
Vantongerloo.
Lo studio delle strutture formali e della sintassi armonica e contrappuntistica delle voci nel
discorso musicale costituisce la base del linguaggio pittorico di Klee, la cui opera figurativa
appare ai critici come uno straordinario e forse irripetibile esempio di compenetrazione
intima delle due arti. Nelle sottilissime analisi effettuate durante le lezioni tenute al
Bauhaus e raccolte postume nello scritto Das bildenerische Denken. Schriften zur Form-
und Gestaltungslehre (1953), ricorrono continuamente termini e immagini presi dalla
musica: ad esempio la linea è una “melodia” e l’affiancarsi ad essa di un’altra linea “il suo
accompagnamento”, cosicchè si può parlare “di una condotta a due voci”. La polifonia lo
stimola ad analoghi procedimenti pittorici: nascono così le rappresentazioni grafiche di un
“accordo di colori a tre voci”, il “canone della totalità”, in cui “ogni colore comincia dal suo
nulla, vale a dire dal culmine del colore vicino, dapprima piano piano e poi sempre più
crescendo fino a toccare il proprio culmine; prende quindi a diminuire lentamente, verso il
suo nulla, cioè verso il culmine dell’altro colore adiacente […] Questa rappresentazione è
atta a farci vedere il movimento a tre voci e a seguirne il processo. A mo’ di canone le voci
[i colori] attaccano l’una dietro l’altra; in ciascuno dei tre punti principali culmina una voce,
un’altra voce comincia piano a suonare e un’altra ancora si perde”. Oltre alle
esemplificazioni teoriche, ci restano i numerosi quadri basati sulla polifonia e sulle
tecniche imitative e quelli che realizzano un vero e proprio tessuto contrappuntistico, linea
contro linea, soggetto contro controsoggetto, melodia portante contro parti
d’accompagnamento o di ripieno. Anche tutta la parte dedicata alle differenti scansioni dei
segni grafici in battute semplici o complesse, come pure quella che tratta dei principi che
regolano la loro alternanza, uniformità, moltiplicazione e spostamento nello spazio iconico
potrebbero benissimo essere applicate alla composizione musicale; inoltre molti tra gli
schemi esemplificatori approntati per gli studenti sono traduzioni in termini figurativi di
strutture musicali monodiche o polifoniche, omoritmiche o poliritmiche.
Se Doppelzelt (1920) e Scheidung Abends (1922) si configurano come semplici studi sulle
gradazioni di un colore, Fuge im Rot (1921) è uno dei quadri più emblematici di Klee dal
punto di vista del rapporto musica-pittura, dove l’articolazione ritmica si connette a un
movimento chiaroscurale nell’ambito della tavolozza cromatica. Scrive lo stesso autore in
proposito: “Il momento della ripetizione, caratteristico delle strutture, è qui rappresentato
dall’aumento o dalla diminuzione che si ripete ad ogni gradino. Se l’ordine naturale del
movimento, percepito con l’orecchio invece che con gli occhi, è paragonabile a movimenti
naturali delle note, l’ordine artificiale del movimento ricorda l’articolata divisione delle note
propria delle scale musicali”. Opere eccezionali per austerità e monumentalità, per la
controllata organizzazione matematica e la scura tavolozza di tonalità rosse e nere, In der
Strömung sechs Schwellen (1929) e Individualisierte Höhenmessung der Lagen (1930)
appartengono alla serie di dipinti realizzati nell’inverno 1928-29, in cui il gioco polifonico
appare evidente. Le fasce orizzontali sono tagliate da altre verticali e divise in metà, quarti,
ottavi e poi sedicesimi nel procedere da destra verso sinistra, ricordando la struttura di un
canone mensurale. Costruito su un canovaccio di dodici quadrati per lato accostati in file
orizzontali e verticali, Alte Ton, abstrakt über Schwarz (1925) richiama alla mente il
sistema armonico di Schönberg, elaborato negli stessi anni: anche nel caso di Klee si può
parlare in un certo senso di una serie fondamentale da cui l’opera deriva. Allo stesso
gruppo di composizioni con “quadrati magici” appartiene Neue Harmonie (1936), dove i
colori, saldamente ancorati in una griglia, vengono distribuiti secondo il principio della
simmetria bilaterale invertita. Il pensiero corre immediatamente alla tecnica dell’inversione
canonica già utilizzata dai fiamminghi e ripresa tanto da Bach quanto da Schönberg in
ambito seriale. La tripartizione cromatica trasforma Dreiacte im Geviert (1930) in evento
sonoro, producendo un continuum spazio-temporale capace di suggerire un raffronto con
la musica polifonica. L’opera presenta un carattere incontestabile di fuga, anche se può
sembrare eccessivo, come qualcuno ha fatto, voler ravvisare nelle diverse forme
geometriche i vari momenti della struttura (soggetto, risposta, controsoggetto) e nei
trapassi di colore il mutare delle tonalità. In Rythmisches strenger und freier (1930), dello
stesso anno, cambia la tavolozza cromatica, ma il concetto resta analogo. Sconfessando
l’obsoleta distinzione tra il carattere spaziale della pittura e quello temporale della musica,
Klee sosteneva che anche la pittura è un’arte del tempo: “Il movimento è alla base del
divenire […] Se un punto diviene movimento e linea, ciò richiede del tempo: lo stesso per
una linea che determina un piano, lo stesso per il movimento di piani che determinano
spazi.
E’ giunto il momento di lasciare il mondo dell’avanguardia storica per accostarci a quella
che viene comunemente definita la seconda avanguardia, dove la sperimentazione ha
ormai esaurito la sua carica provocatoria e dove, in concomitanza con lo sviluppo dell’arte
musicale, si è affermata una nuova concezione della temporalità basata sul silenzio e sulla
sospensione. Nel contempo l’approccio scientifico al colore viene abbandonato in favore di
un atteggiamento che incerti casi potremmo definire mistico o emozionale. Mi riferisco in
particolare all’avanguardia americana formatasi in epoca postbellica, nota come “New
York School” o più genericamente Espressionismo Astratto Americano, che lungi dal
configurarsi come un movimento compatto e unitario con un programma ben definito, si
presenta come un gruppo lasso, all’interno del quale si evidenziano due principali posizioni
artistiche: la prima, denominata Action Painting (rappresentata da artisti come Jackson
Pollock, Willem de Kooning e Franz Kline) fondata sull’importanza del dialogo con il
medium pittorico e sulla centralità del processo di produzione rispetto all’oggetto finito; la
seconda, nota come Color Field Painting (i cui esponenti principali sono Mark Rothko,
Bartett Newman, Kenneth Noland e Clifford Still), caratterizzata dalla predilezione per
grandi campiture cromatiche che prescindono da qualunque considerazione per la forma.
Va comunque detto che entrambe le tendenze furono influenzate dall’arte europea e in
particolare dal Surrealismo e dall’Espressionismo, e anche da artisti come Max Ernst,
André Masson, Yves Tanguy e Marc Chagall, emigrati negli Stat Uniti durante il nazismo.
Un’altra fonte di ispirazione era rappresentata dai dipinti del Museum of Modern Art di New
York, in particolare le opere tarde di Claude Monet, alcune creazioni di Matisse e
Kandinskij e i murales dei messicani Rivera, Orozco e Siqueiros.
Gli esiti spirituali della produzione di Mark Rothko (born Marcus Rothkowitz, 1903-1970),
vanno ricercati nelle sue radici ebraiche e russe, che lo conducono intorno agli Anni
Quaranta a una nuova interpretazione dello spazio, della luce e del colore, ora steso in
meditate fasce orizzontali tracciate a pennello leggero, quasi entità gassose all’interno del
rettangolo costituito dalla tela che resta visibile lungo i bordi a formare una sorta di
cornice. Intellettuale, pensatore, amante della musica e della letteratura (si interessava di
filosofia, in particolare delle opere di Nietzsche), per conferire alla pittura la stessa
emotività della musica, egli prosegue nella dissoluzione della realtà verso la pura
astrazione, approdando a una pittura dominata dall’esuberanza, dalla luminosità e dallo
splendore del colore. La scelta del formato grande risponde alla necessità di far sì che
l’osservatore venga per così dire “inglobato” nel quadro, in modo da percepirne le
dinamiche interne. La composizione di base quasi simmetrica che Rothko utilizza nei
propri dipinti classici offre la possibilità di molteplici varianti cromatiche e al tempo stesso
conferisce intensità all’espressione pittorica, esattamente come la forma della sonata in
musica: il conflitto si realizza attraverso contrasti cromatici di grande tensione e nella
dialettica continua tra libertà e costrizione. Anche nella pittura di Kenneth Noland il fattore
chiave è sempre stato il cromatismo: colore puro, steso in campiture uniformi e piatte,
esaltato da tonalità brillanti e forme geometriche. Anelli, cerchi concentrici, punte, zig-zag,
righe: un caleidoscopio che cattura lo sguardo e lo porta sull’orlo dell’ipnosi, tra vibrazioni
ottiche e giochi di percezione visiva. Come Rothko e Morris Louis, Noland studia e
sviluppa la sua tecnica attraverso diverse serie (in ordine temporale, "Target", "Stripes",
"Shaped Canvas" e "Plaid"). Negli anni '50 realizza la serie "Target" o "Circles", debitrice
in qualche modo nei confronti di Delaunay e dedicata allo studio sulle forme concentriche
che, attraverso l'apporto dei giusti colori, riescono a ricreare l'idea del movimento. Quanto
a Morris Louis, nei suoi processi creativi la musica agisce sempre come riferimento
subliminale, nonostante l’assenza di rapporti documentati con l’avanguardia musicale.
Proveniente da una famiglia della media borghesia ebraica emigrata dalla Russia negli
Stati Uniti (il suo cognome era Bernstein), si affermò sulla scena artistica dopo il 1954,
insegnando a Baltimora e a Washington e concentrandosi sulla sperimentazione (in
particolare sul break-trough e sulla tecnica dello staining, secondo la quale la pittura diluita
viene lasciata colare sulla tela al fine di ottenere effetti velati e traslucidi). Suggestionato
tanto dal “misticismo cromatico” di Rothko e di Noland quanto dall'irruenza gestuale ed
emotiva di Helen Frankenthaler, esponente tardiva dell’action painting, egli cercò di
realizzare uno spazio pittorico definito unicamente dal colore, privo di qualunque contorno
lineare descrittivo, dove però le colature di pigmento prevedono una pratica decisamente
più costruita rispetto all’assunto originario, aprendo la strada alla successiva evoluzione
della pittura astratta in direzione del minimalismo.
Il primo aspetto che caratterizza in senso musicale lo stile di Morris Louis è la serialità,
comune a molti artisti del Novecento, tra cui gli stessi Rotkho e Noland. Le differenti serie
in cui si articola la sua produzione (Para, Florals, Veils, Unfurled, Strips, ecc.) si
presentano come altrettanti esempi di “Tema e Variazioni”, dove la variazione è soprattutto
cromatica, anche se talora si estende più o meno sensibilmente alla forma. Su un piano
più propriamente storico appaiono poi evidenti i legami con certe tendenze
dell’avanguardia novecentesca europea e americana e in particolare con le sinergie
suono-colore individuate nel secondo decennio del Novecento da Robert e Sonia
Delaunay, dai futuristi italiani, dal boemo František Kupka e dai sincromisti Morgan Russel
e Stanton McDonald Wright. Ma vi è un terzo aspetto “musicale” nell’opera di Morris Louis
legato più specificamente alla sua matrice giudaica. Che la sua sia una reinterpretazione
in chiave spiritualistico-esoterica del movimento espressionista, lo confermano i titoli di
alcune opere: dopo le combinazioni delle lettere “sacre” dell’alfabeto ebraico utilizzate per
la serie Veils del 1958-59 (Beth-Guimel, Beth-Peh, Saf-Guimel, Dalet-Nun, ecc.), nel 1960
viene la serie centrale degli Aleph, la lettera silenziosa evitata fino a quel momento perche
contiene in realtà tutte le potenzialità del suono, che si estrinsecheranno nuovamente a
partire dal 1961 nel gruppo di dipinti ispirato alle lettere dell’alfabeto greco (Beta-Epsilon,
Gamma-Iota, Alpha-Lambda, ecc.). La serie degli Aleph è l’unica in cui la forma-suono-
colore si dispiega con forza dirompente da un nucleo centrale di materia densa: senza
voler scomodare le più recenti teorie su ipotetiche componenti foniche del big-bang, è
come se il pittore avesse scelto di ricreare lo spazio vocale attraverso un movimento
pendolare di implosione/esplosione. Aleph non è soltanto la prima lettera dell’alfabeto
ebraico: è la lettera prima della lettera, la lettera che precede la creazione. Se la Torah
inizia con un Beth (la seconda lettera dell’alfabeto), è precisamente per lasciare vuoto
quello spazio, che potrà essere colmato solo dopo un lungo percorso di allontanamento e
successivo riavvicinamento.

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