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Se un candidato unitario non lo si trova, ha detto ieri De Luca, «primarie senza angosce, e parola al

popolo». E però il Pd dall’angoscia si sente già quasi afferrato. Anche solo per la ragione illustrata ieri dal
governatore. Il voto di Napoli è infatti il voto «più carico di valore politico-simbolico in Italia». Si può
discutere se sia davvero così, in generale, ma certo questa volta un eventuale bis di De Magistris, o
addirittura una vittoria grillina nella prima città del Mezzogiorno, la terza città italiana, sarebbe un vero
terremoto. Meglio dunque che centrodestra e centrosinistra si attrezzino. E meglio che il Pd lo faccia senza
angosce, certo. Ha la guida della Regione, ha una responsabilità di sistema, di fatto sostiene in questo
momento, a livello centrale e locale, l’asse principale della vita politica e istituzionale del Paese e prova a
legittimarsi anzitutto come argine ai populismi di destra e di sinistra: ha dunque il dovere di presentare una
proposta politica credibile, autorevole, chiara.

Dov’è, allora, questa proposta? Per De Luca, una proposta del genere ha da essere quella di un candidato
unitario, in grado di unire anche una coalizione più larga intorno al suo nome, in grado pure di parlare alla
città; in grado, infine, di governare. Fin qui, tutto ok. Ma se tutte queste condizioni non saranno soddisfatte,
ha aggiunto, si andrà allora alle primarie – le famose primarie «senza angosce» –, e lui allora userà, ha
promesso, parole di verità «dure» e «ineludibili». Ora, se questo non è un altolà quasi minaccioso a
Bassolino non si capisce cos’altro sia. E però è difficile che non sia contemporaneamente anche l’inizio di un
cammino parecchio angoscioso, e di un nuovo faticosissimo calvario per i democratici campani. Che
sperimenteranno un’altra volta la contraddizione capitale, quella che li costringe ogni volta a attorcigliarsi
fino all’autolesionismo intorno alla competizione elettorale. Più che una contraddizione, una vera e propria
maledizione: l’uomo che raccoglie più consensi, il candidato più popolare, è anche quello guardato con i
maggiori sospetti, da parte almeno di un pezzo del Pd che ne vorrebbe impedire, o frenare, il cammino. È
stato così nelle primarie regionali di quest’anno, quando è toccato proprio a De Luca, dato per favorito,
urtarsi contro chi gli voleva impedire la corsa, per via delle vicende giudiziarie che lo riguardavano. E poco è
mancato che lo sgambetto non riuscisse. Ma in fondo fu così anche nelle comunali del 2011, quando il
favorito era Cozzolino, che vinse le primarie salvo poi vedersele annullate per brogli. Com’è finita lo si sa.
Quanto invece alle prossime comunali, con Bassolino ai nastri di partenza da una parte e le parole «dure e
ineludibili» di De Luca dall’altra, il rischio che il Pd si infili in qualcosa di più di una cavalleresca
competizione elettorale c’è tutto. E per una ragione molto semplice: perché i duellanti sono di gran lunga
più forti del partito che dovrebbe organizzare il duello, allestire l’arena e preparare la competizione. È così
da un numero ormai imprecisato di anni: da quando Bassolino faceva il sindaco a Napoli e De Luca a
Salerno: una vicenda che dura da qualche lustro. Ma adesso accade di nuovo: quanto più si approssima il
momento della scelta, quanto più si serrano i ranghi e si avvicina la conta, tanto più il partito democratico si
assottiglia, si fa quasi da parte, rimpicciolisce fin quasi a scomparire. Si parla male dei contenitori, cioè dei
partiti politici, perché si vogliono i contenuti, o almeno così si dice. Poi però si vede che quando i contenitori
non ci sono, oppure non ce la fanno a contenere alcunché, i cozzi e gli urti che si producono fra le
personalità più ingombranti – che siano leader o cacicchi, capobastone o capi carismatici – mettono a
repentaglio tutto il resto. Le primarie, quando non siano meramente confermative, favoriscono questo
processo: dove esiste un partito strutturato, esiste anche la possibilità di riassorbire le tensioni del voto. Le
primarie diventano cioè un fattore di mobilitazione e, potenzialmente almeno, un valore aggiunto per il
vincitore chiamato poi alla sfida elettorale. Dove tutto questo fatica ad esistere, il rischio della guerra per
bande, di pura interdizione dell’una parte contro l’altra, cresce a dismisura.

Così il Pd ha dinanzi una doppia, anzi tripla sfida. L’ultima e la più lontana è quella delle elezioni municipali,
in primavera; penultima quella delle primarie, quando saranno; ma la prima, e la più vicina in ordine di
tempo è quella cominciata già in queste settimane, e in cui i democratici devono riuscire a non oltrepassare
il punto, superato il quale la contesa interna finisce col lasciare solo macerie sul terreno, e rovinare
irrimediabilmente le partite successive. È già successo, può succedere ancora.

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